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La casa di Levi

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Sottotitolo: 
René Burri

Quando nel 1985 il fotografo svizzero René Burri va a trovare Primo Levi per ritrarlo, è membro della agenzia Magnum da venticinque anni. Ha fotografato Che Guevara, Alberto Giacometti, Le Corbusier e altri personaggi della cultura e della politica internazionale. Sceglie di coglierlo in casa sua, nel suo ambiente domestico. Quello stesso anno, in febbraio, è uscita un’opera dello scrittore torinese, L’altrui mestiere. Burri possiede uno sguardo empatico con i soggetti che ritrae, perlopiù persone. Probabilmente non ha letto quel volume. L’altrui mestiere si apre con un testo dedicato all’abitazione dello scrittore: La mia casa. Vi dichiara la sua appartenenza a uno spazio preciso: “Abito da sempre (con involontarie interruzioni) nella casa in cui sono nato”. Si paragona a certi molluschi, le patelle, che dopo un breve stadio larvale, in cui si muovono liberamente, finiscono per fissarsi a uno scoglio, secernono il proprio guscio e non si muovono da lì per tutto il corso della loro vita. Un autoritratto inconsueto, che include anche la descrizione della casa, sia all’esterno che all’interno. Alcuni spazi dell’appartamento gli sollecitano ricordi famigliari: la porta d’ingesso, un angolo fra il muro e il guardaroba, il corridoio. In particolare c’è una stanza che nel corso degli anni ha avuto destinazioni diverse: da salotto buono a ufficio del padre, da dormitorio per i parenti che hanno perso la casa durante la Seconda guerra mondiale a “laboratorio multiplo”.

 

Burri è entrato in quella casa, descritta solo in parte da Levi, e ne ha tratto diverse immagini. Le case degli autori sono sempre state oggetto d’interesse e, quando è possibile, di visita. Suscitano una particolare curiosità, quella che collega la vita all’opera, come se tra le due vi sia un nesso afferrabile. Spesso è così. La casa è il luogo dove l’autore è vissuto e ha scritto. Ecco l’immagine scattata da Burri della stanza dove Levi lavora ai suoi libri. La fotografia abbraccia un ampio spazio, partendo dallo scrittore, seduto dinanzi al suo computer. Davanti a lui c’è il tavolo, su cui sta maneggiando il mouse. Sulla sua sinistra un apparecchio per la climatizzazione, dietro si scorge la libreria; sul fondo un altro tavolo ricoperto da un panno verde e sedie attorno. Due finestre luminose; attraverso la prima s’intravede un edificio di fronte con la sua ampia vetrata. In primo piano, c’è una lampada e sul tavolo la macchina per scrivere ricoperta da un telo di plastica. Siamo in un mese primaverile, o almeno temperato. Lo scrittore indossa una camicia con le maniche corte e un gilet scuro. Tiene lo sguardo fisso allo schermo del suo elaboratore, un Mac. Burri ha voluto ritrarlo mentre scrive.

 

La fotografia fornisce un’immagine di tranquillità, niente che possa collegare questa camera all’autore di Se questo è un uomo, al testimone di Auschwitz. Non so se questa sia l’idea che il fotografo svizzero aveva in testa entrando nell’abitazione di Primo Levi. Nell’articolo lo scrittore spiega che il suo alloggio ha conservato negli anni un aspetto anonimo e impersonale. Lui ha chiesto alla sua dimora solo il soddisfacimento dei bisogni primari: spazio, calore, comodità, silenzio, privatezza. Il rapporto che ha con la sua casa, scrive, è di natura gattesca; non ha mai pensato di abbellirla o arricchirla, precisa. Inoltre, non crede che il suo modo di scrivere risenta dell’ambiente in cui è vissuto, né che questo ambiente traspaia dalle cose che scrive. L’ultima frase del testo aggiunge un dettaglio importante: “Abito la mia casa come abito l’interno della mia pelle”. Ecco cosa ha fotografato quel giorno René Burri: la pelle di Primo Levi. Lui scrive che non la cambierebbe con nessun’altra pelle. Questa è la vera abitazione di questo scrittore, la superficie su cui è inciso un numero: 174517.

 

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Ritratto di Levi 6
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