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Le parole dell'Eliseo

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Questa è una breve analisi metaforico-concettuale di alcuni discorsi elettorali di quattro candidati alle elezioni presidenziali della Repubblica Francese, che si terranno il 23 aprile (primo turno) e il 7 maggio (secondo turno): il Discorso di Emmanuel Macron (En Marche!) a Bobigny del 16 novembre 2016; il Discorso di François Fillon (Les Républicains) a Parigi del 18 novembre 2016; il Discorso di Marine Le Pen (Front National) a Lione del 5 febbraio 2017; il Discorso di Jean-Luc Mélénchon (Parti de Gauche) a Parigi del 18 marzo 2017.

 

Emmanuel Macron e la marcia della giovinezza verso il mondo nuovo

 

Il movimento/partito di Emmanuel Macron si chiama En Marche (acronimo EM, come le iniziali del suo leader) e tutto l'impianto metaforico-immaginario del discorso (qui la trascrizione in francese) ripropone continuamente la medesima idea di marcia, cammino, movimento. La metaforica dominante è dunque quella della mobilità, del cammino, della marcia in avanti, dell'avanzata verso un mondo nuovo. Seguono, in ordine di frequenza, immagini convenzionali della politica come lotta, conflitto e combattimento contro l'avversario; convenzionali e trite sono anche le immagini tratte dal mondo dell'edilizia e riguardanti soprattutto l'edificazione (del progetto politico) e la costruzione di un nuova prosperità. Se logora è anche l'immagine della Francia personificata (stanca e impaurita, ma che grazie al nuovo progetto potrà rialzare la testa e andare in giro libera, fiera e speranzosa), più originale è il ricorso all'immagine della giovinezza. Macron dimostra così di allinearsi su posizioni di esaltazione della giovinezza per la giovinezza (sull'onda dell'analisi di Robert Pogue Harrison, L'era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo, Roma, Donzelli, 2016, pp. XII-212), in quanto ricca di immaginazione e capace di scatenare nuove energie, forme, prodotti, colori e sensazioni.

 

 È contro la destra e contro la sinistra e contro le vecchie ricette del secolo scorso che Macron costruisce invece il suo (modesto) impianto concettuale che riflette la precisa volontà espressa dal candidato di non presentare un programma politico (sic), forse per non dover subire critiche. Un'invocazione al progresso economico e sociale (rafforzato dalla metaforica della marcia e associato al concetto di realtà) si associa all'esaltazione di talento e sforzo (l'equazione della meritocrazia, non però enunciata come tale); del lavoro e, ancora una volta, della mobilità e della giovinezza, nonché all'idea del rilancio dell'Europa, del rifiuto del sistema politico esistente e della riconciliazione tra libertà e progresso. Nonostante una citazione gramsciana (non citata come tale) quando si riferisce all'“ottimismo della volontà”, Macron non intende raccogliere il popolo di sinistra e nemmeno quello di destra bensì – ammiccando al populismo senza mai usare il termine “popolo” – i Francesi tutti intorno alla sua persona carismatica.

 

 

François Fillon, la grandeur e l'integrità dei politici

 

Il discorso di François Fillon è dei quattro qui analizzati il più accurato e articolato sia in immagini sia in contenuti concettuali. L'impianto metaforico è ricco ma si rifà anch'esso a immagini abbastanza convenzionali: avanzata, cammino, progresso da una parte; lotta, combattimento, attacco condotto con la forza dall'altra, sono i due campi metaforici dominanti. Accanto ad essi, alcuni riferimenti a fenomeni naturali (onde e venti, ombre, luci e fiamme) e persino al mondo del lavoro agricolo con doppio senso patriottico, se si pensa a un passo della Marsigliese: Fillon traccerà infatti un solco (mon sillon) col proprio progetto. È presente inoltre qualche riferimento alla metafora medica soprattutto in relazione a ciò che “manda in cancrena” la società, come l'Islam radicale con le sue “metastasi”, ma complessivamente è la marcia vittoriosa (ovvero l'unificazione dei due campi di cammino e lotta), ad essere prevalente in Fillon e a servire da contenitore per alcuni concetti e idee relativi soprattutto alla sovranità nazionale e alla grandezza e alla potenza francese (“amici degli USA, non loro vassalli”), nonché al recupero e all'esaltazione di prestigio, dignità e integrità morale, che vengono dichiarati apertamente come prerogative di centro-destra.

 

Una lunga parte viene dedicata alla libertà in termini di valore della destra per eccellenza (secondo Fillon); una libertà moderata però dall'autorità affinché non si trasformi in anarchia. Libertà (che si avvicina alla privatizzazione) per il sistema sanitario e scolastico. Altri concetti forti sono per Fillon la sicurezza, la giustizia (nel senso di sistema giudiziario che ha da essere rapido e fermo); la centralità della famiglia; l'integrazione e assimilazione (sic) degli emigrati e infine, e qui forse il nostro non è stato abbastanza attento a coniugare sullo stesso piano parole e fatti, l'integrità irreprensibile ed esemplare (sic) del Presidente e dei suoi ministri...

 

Marine Le Pen e le tre rivoluzioni

 

Sobrio di immagini (ma non di espedienti retorici, spesso alquanto raffinati) è il discorso di Marine Le Pen, che si richiama (partiamo questa volta dall'analisi concettuale), senza citarlo, a uno studio sulla modernità dell'economista venezuelano Moisés Naím che definisce la nostra l'epoca delle tre rivoluzioni. La triade di Naím è composta dalla «rivoluzione del più», dalla «rivoluzione della mentalità» e dalla «rivoluzione della mobilità» (Moisés Naím, The End of Power, 2013, guardacaso il primo dei libri consigliati in lettura al popolo di Facebook per il 2015 da Mark Zuckerberg...). Marine Le Pen propone invece una nuova triade con la «rivoluzione del patriottismo», «della prossimità» e «della libertà». 

Nel primo caso (la rivoluzione del patriottismo) dominano i legami, l'amor di patria, la solidarietà tra Francesi e la priorità nazionale (“prima noi”), nonché la presenza esclusiva in Francia di leggi francesi e valori francesi, che verranno trasmessi nei programmi scolastici dove domineranno (nelle scuole primarie) i saperi essenziali della storia di Francia e delle matematiche.

Nel secondo («la rivoluzione della prossimità») si riprende il principio evangelico di amare «il prossimo» e grazie a particolari forme di protezionismo e di controllo popolare lo si estende alla politica e all'economia.

 

Nel caso della terza rivoluzione, quella «della libertà», si proclama che la prima libertà è la sicurezza (pur affermando in seguito, e in maniera lievemente contraddittoria, che non si vuole sacrificare la libertà, soprattutto di internet, alla sicurezza); si esaltano i ruoli dello stato protezionista, della sovranità popolare e dell'ordine. Non più destra e sinistra (come per Macron), soltanto la Francia e i Francesi; in ogni caso un “Front National” ripulito dai rigurgiti dell' estrema destra e reso più presentabile, anzi talvolta addirittura ammiccante a tesi e motivi della sinistra tradizionale.

E le metafore? Innanzitutto Le Pen fa un uso moderato di immagini linguistiche; il suo è un linguaggio pragmatico, un po´ nello stile di Donald Trump, anche se non mancano espressioni che si rifanno al solito campo metaforico di lotta dei combattimento, qui il più usato, espresso in toni militari (riarmo morale, ritirata, riconquista). Qualche immagine dal campo medico (difese immunitarie della nazione, ormoni della crescita ideologica), dall'edilizia, dalla strada. Forte è invece l'uso di immagini vere e proprie, con valore simbolico, legate al mare e giocate sul senso del nome, “Marine” e “marine”, dal colore “bleu marine” all' immagine di lei al timone della nave Francia o infine quando guarda il mare avvolta in un mantello a mo' di Napoleone.

 

Jean-Luc Mélénchon e la società dolce e benevola

 

La prima caratteristica che salta decisamente all'occhio dal discorso di Jean-Luc Mélénchon, l'unico candidato dei quattro che si dichiari di sinistra, è quello che chiamerei il caos retorico. Di fronte alla disposizione chiara e distinta degli argomenti da parte di Le Pen, il discorso di Mélénchon appare sì appassionato, ma anche disordinato e caratterizzato da una serie di passaggi continui e improvvisi dall'uno all'altro argomento. Partiamo qui nuovamente dall'apparato metaforico, decisamente variato: alcune immagini linguistiche di lotta e guerra nonché di avanzata e cammino, ma in quantità decisamente minore che negli altri oratori. Immagini della natura (vento, onde, pioggia, luce e fuoco); di edilizia e costruzione (nel caso della pace); del libro e del mondo animale e in particolare delle sanguisughe e dei parassiti cui è paragonato il mondo finanziario. Qualche simbolo – anche Fillon ne fa uso – come la Marianna col suo copricapo da liberto o schiavo affrancato.

Immagini che servono a Mélénchon per veicolare, in maniera un po' casuale, alcuni concetti importanti quali il ritorno al popolo, tramite consultazione popolare referendaria, dopo che esso è stato tradito dai suoi governanti. Quindi anche la stesura di una nuova costituzione, di ordine sociale e soprattutto la proposta di una società benevola e dolce (parole nuove), democratica e pacifica, in cui predominino i valori di laicità che permettono la libertà di aborto, il suicidio assistito, la proprietà comune dei beni comuni inalienabili, la costruzione della pace. Originale e unica è l'idea di un' assemblea di membri scelti o per elezione o per sorteggio (una tematica che vede oggi alcuni convinti fautori).

 

E per conclusione...

 

Una considerazione generale a mo' di conclusione: si rilevano nei quattro discorsi parti che si sovrappongono, come negli insiemi matematici. La tematica della consultazione popolare referendaria e dell'intervento diretto del popolo in Le Pen e Mélénchon; il tema dall'avanzare, marciare, accelerare il passo in Macron e Fillon; la negazione dell'esistenza e del significato di destra e sinistra in nome della raccolta intorno a loro dei Francesi tutti in Macron e Le Pen; la grandezza e la potenza della Francia e l'educazione alla storia francese nonché l'esaltazione della libertà in Le Pen e Fillon. In tutti l'uso continuo comunque del “capro espiatorio”: un colpevole esterno sul quale scaricare colpe e responsabilità.

L'apparato metaforico dei quattro discorsi è in gran parte convenzionale e legato a luoghi comuni del linguaggio politico e non rivela grandi sforzi retorici di tipo creativo.

 

Intervento tenuto in occasione di "Paroles 2017. Strategie comunicative e corsa all'Eliseo", serata-dibattito organizzata dai praticanti "Accademia 2.0" (B. Camplani, P. Dedini, D. Medolago, G. Merlo, A. Pedrazzini e A. Wyttenbach) della RSI- Radiotelevisione della Svizzera italiana, Comano, lunedì 3 aprile 2017.

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La lettera scarlatta

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Storia di una donna, di un simbolo, e di un patto con il diavolo, La lettera scarlatta inizia descrivendo la porta di una prigione, rugginosa e segnata dalle intemperie, accanto alla quale cresce però un rosaio selvatico. E se la prigione è “il nero fiore della civiltà” (così dice l’autore), le gemme, che offrono la loro fragranza in quel mese di giugno in cui inizia questa storia, sono l’indizio di quanto possa essere benevolo “il cuore profondo della natura”.

La porta si apre; siamo nella città di Boston, la vicenda si svolge nel New England alla fine del Seicento. Il prato antistante è occupato da una folla; tutti gli occhi sono rivolti verso una giovane donna che esce dal carcere, tenendo in braccio una bimba nata da poco: ciò che più colpisce è però un simbolo, cucito sul suo abito all’altezza del petto, una lettera, una A. Eseguita in modo fantasioso, esuberante, sembra risplendere di un misterioso fulgore. Benché il suo significato sia chiaro, e univocamente determinato – è l’iniziale della parola adulterio (adultery) –, la lettera scarlatta sprigiona un’energia enigmatica, i cui effetti non sono prevedibili.

 

Che ne sarà di questa donna, Hester Prynne, condannata per una colpa di cui non si conosce il complice, in quanto lei si rifiuta di rivelarlo? È destinata a rimanere il simbolo vivente di un peccato che oggi non consideriamo più tale, ma che in quell’epoca “trascinava l’individuo fuori dai normali rapporti con l’umanità, relegandolo in una sfera tutta sua”? Perché, sin dalle prime pagine, questa storia mi emoziona tanto, pur appartenendo a un mondo governato da un’etica così diversa e così lontana da quella attuale? Non so se riuscirò a rispondere a questa domanda. Intanto la storia si complica: quando viene condotta sul palco della gogna, dove resterà per una giornata intera, Hester vede tra la folla un individuo che ricambia il suo sguardo, e che le chiede con un semplice gesto il silenzio. Veniamo a sapere poco dopo che si tratta di suo marito, rimasto per un certo tempo in Europa, e poi creduto morto: un medico valente, che ha accresciuto le sue cognizioni nel periodo in cui è rimasto prigioniero degli indiani. Roger Chillingworth vuole sapere: vuole ampliare la sua conoscenza penetrando non solo nella natura, ma nel cuore di almeno un uomo, colui che è stato in grado di suscitare il desiderio di Hester. Un privilegio a cui Chillingworth – che porta il gelo (chill) nel suo stesso nome – era sempre rimasto estraneo.

Naturalmente Hester non è disposta a confessare alcunché, ma deve fare una concessione al marito che le chiede di non rivelare la sua identità e di non gettare su di lui il disonore: segreto per segreto, dunque. Il patto viene stabilito. Subito dopo, però, Hester teme di essersi impegnata con una promessa incauta. “Perché sorridete così nel guardarmi?” chiese Hester, preoccupata dall’espressione dei suoi occhi. Siete come l’Uomo nero che infesta la foresta circostante? Mi avete indotto a un patto che si rivelerà la rovina della mia anima?” – “Non della vostra anima”, egli rispose, sorridendo ancora. “No, non della vostra”.

 

È uno dei punti in cui sono stato indotto a fare una sosta, e a meditare. Iniziavo a capire l’attualità di questa storia, che non è affatto imperniata su un comportamento che l’etica puritana considerava ignominioso. La lettera scarlatta non racconta una vicenda datata, questo è solo il pretesto ricorrente. Il vero oggetto della narrazione non è l’infrazione ai costumi sessuali puritani; se Hester è colpevole, lo è soltanto a partire da questo momento, e da ciò che riconosciamo come un patto col diavolo. Ma il diavolo non è l’entità superstiziosa, di cui vanno in cerca alcuni personaggi minori del romanzo (come madama Hibbins), bensì la malvagità, l’impulso irresistibile a distruggere un altro.
Strano patto, stipulato incautamente da Hester, con una motivazione plausibile (permettere a Chillingworth di restare a Boston non come un marito tradito, ma sotto un altro nome, come un medico apprezzato). La stranezza sta anche nel fatto che il patto non riguarda solo i due contraenti (come nel caso di Faust e Mefistofele), ma è funzionale ai danni di un terzo: purtroppo Hester impiegherà del tempo, forse troppo tempo, per accorgersene.
L’identità fittizia dietro cui si nasconde consentirà a Chillingworth di condurre la sua indagine. È un uomo intelligente e spietato. Troverà la sua vittima? Quasi certamente. Ma il modo in cui ciò accade rende manifesto un altro aspetto dell’eterna condizione umana, cioè la sconfortante propensione alla bêtise. È la società stessa che ha condannato Hester, sono gli amici della vittima che la consegnano a Chillingworth. La comunità di Boston riconosce come guida spirituale un giovane pastore, Arthur Dimmesdale, ammirato per la sapienza teologica e il fervore ascetico. Questo giovane sacerdote, in cui intuiamo l’amante di Hester, vede incrinarsi la propria salute (evidentemente per i tormenti causati dal senso di colpa). Il continuo peggioramento delle sue condizione fa sì che venga accettato il suggerimento del medico che si sta prendendo cura di lui: “gli amici di Mr Dimmesdale si adoperarono perché i due andassero a vivere nella stessa dimora, cosicché l’andirivieni della vita del reverendo potesse passare, come la marea, sotto gli occhi ansiosi e incollati su di lui del medico. Vi fu grande gioia in città quando questo obiettivo desiderato fu infine raggiunto”. La cecità del bene – ma è davvero il bene? – raggiunge il suo apice. Adesso la tigre deve soltanto allungare i suoi artigli. Lo farà solo dopo aver rovistato a lungo, spinto da una terribile bramosia, nella psiche del pastore. Dimmesdale intuisce che qualcosa di malefico si è insinuato in lui, ma non riesce a riconoscerne la fonte. Giunge il momento di una prima rivelazione: Chillingworth entra nello studio dove il sacerdote è stato vinto dal sonno, mentre è seduto in una poltrona con un libro davanti a sé; si dirige verso di lui, gli posa una mano sul petto, e sposta le vesti che fino ad allora avevano celato al suo occhio professionale una zona del corpo. Se ne ritrae, con sinistra esultanza.


Torniamo a Hester, e alle forme visibili della lettera scarlatta. Perché il plurale? Ebbene, perché la lettera non è soltanto un simbolo, un emblema o un marchio (symbol, mark, brand, token, e anche type e stigma: così viene designata alternativamente nel romanzo), ma acquista una realtà, incarnandosi in un essere vivente. Pearl, la figlia di Hester, somiglia alla lettera anzitutto perché il suo abbigliamento, forgiato dalla madre, riproduce nei colori e nella fantasia arabescata le caratteristiche del simbolo; ma, in maniera più profonda, la bambina “era la lettera scarlatta in altra forma, la lettera scarlatta che prendeva vita!”. In che senso intendere questa somiglianza? Dobbiamo ricordarci che la lettera, cucita sul seno di Hester, emanava la forza di un incantesimo; nelle bellissime pagine in cui viene descritta, Pearl appare come energia, come mutevolezza: “quest’unica bimba era in sé una pluralità di bambine”; ribelle, intransigente, volubile, essa ha ereditato un misterioso dinamismo tanto dalla lettera quanto dalla madre. 

 

Non esiste storia senza dimensione agonistica. Hester lotta contro una comunità che vorrebbe ridurla a un semplice emblema della colpa, lotta per la propria singolarità. Così la sua intelligenza si abitua a oltrepassare le frontiere della sua epoca, a entrare in sfere più ampie e dinamiche: “la legge del mondo non si applicava alla sua mente”. Quando si rende conto delle torture che Chillingworth sta infliggendo a Dimmesdale – la persona amata gli appare sull’orlo della pazzia –, decide di rivelare al sacerdote l’identità del suo persecutore. Tenta di rialzare un uomo prostrato, e lo incoraggia ad abbandonare quel mondo chiuso e a fuggire con lei in Europa.
   Ciò non avverrà. La storia precipita dapprima nella confusione mentale di Dimmesdale, al quale, una volta uscito dalla foresta in cui ha incontrato Hester, sembra di aver stretto un patto con l’Uomo Nero, e poi nella decisione di accusarsi di fronte a tutta la comunità. Ma come interpretare la lettera che brucia sul petto del pastore, e che egli mostra alla folla? Un marchio volontariamente impresso, l’effetto di una magia operata dal negromante Chillingworth, l’effetto soprannaturale del rimorso? La lettera scarlatta non è un simbolo univoco; l’interpretazione dipende dal suo “portatore”, essa condanna o libera.

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Velature

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Una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha posto per l’ennesima volta il velo islamico al centro della ribalta mediatica. L’istituzione con sede a Lussemburgo si è infatti da poco pronunciata a favore del divieto di indossare l’hijab sul luogo di lavoro: le imprese che ne vietino l’uso, recita la sentenza, non sono in linea di principio tacciabili di discriminazione, in quanto perseguono la legittima finalità di garantire un ambiente lavorativo “neutrale” incompatibile con qualunque “segno visibile di appartenenza politica, filosofica e religiosa”.

 

Hijab, ciò che “rende invisibile, cela allo sguardo, nasconde, copre”, e più in generale “qualsiasi barriera di separazione posta davanti a un essere umano, o a un oggetto, per sottrarlo alla vista o isolarlo”: lungi dal limitarsi a svolgere una funzione di isolamento e separazione, il velo rappresenta la propria stessa azione di nascondere. La sua funzione di proteggere non dagli agenti ostili ma dagli sguardi estranei obbliga a portare l’attenzione su un genere di legalità che non riguarda direttamente i corpi in qualità di forze agenti ma in quanto rappresentazione, spettacolo di sé forzatamente offerto allo sguardo e al giudizio dell’altro. Giurisprudenza islamica e regolamento aziendale collocano entrambe la propria azione disciplinante sul terreno dell’“immagine legittima” di soggetto descritta dalla pelle, naturale o artificiale, che a un tempo lo protegge e ne traccia la figura. L’atto di negazione esibito dal velo non solo assume, a più livelli, valore affermativo – osservanza di un divieto e esercizio di un diritto, elemento di stile e marca identitaria – ma è rappresentazione talmente efficace da divenire icona, segno visibile dell’essere dell’individuo e ciò che ne fa le veci sul piano dell’apparire.

 

 

Specularmente, la normativa aziendale impone di espellere dall’orizzonte del visibile qualunque elemento di differenziazione che convochi, con la sua sola presenza, i poli di una conflittualità che l’ambiente lavorativo ambisce a sospendere e mettere a tacere. Eliminazione dei segni visibili che è essa stessa, a sua volta, affermazione positiva di forza, capacità di intervenire sull’immagine pubblica del dipendente e ricondurla a una filosofia aziendale che per quanto improntata alla neutralità è essa stessa a tutti gli effetti ideologia affermata e perseguita.

Barriera visiva che sottrae una porzione del corpo allo sguardo altrui e marca identitaria esibita, il velo oggetto di disputa dischiude un’impasse etica e culturale che impone al teorico della cultura di soffermarsi, letteralmente, sulle apparenze, sul valore di scena dello spazio sociale, di spettacolo di cui siamo sempre al contempo artefici e spettatori, attori e osservatori. A latere e a monte di conflitti culturali e giuridico-politici che meriterebbero ben altro spazio, l’elezione del velo a oggetto di normativa mette a nudo la dimensione positiva ed efficace del visibile, mostrando un rapporto di stretta co-definizione fra il potere giuridico di stabilire l’immagine giusta e il potere dell’immagine di produrre effetti di soggetto a valore giuridico, suscettibili di essere sanzionati e giudicati.

 

Lontano dalla giurisprudenza e in campo apparentemente alieno all’efficacia diretta della legge e all’esercizio esplicito del potere, l’ultimo libro di Lucia Corrain (Il velo dell’arte. Rete di immagini fra passato e contemporaneità, La casa Usher) avvicina il medesimo duplice statuto della “superficie delle cose” – barriera e schermo, occultamento e esibizione – sul terreno delle arti. Il velo al centro della ricerca di Corrain è la griglia teorizzata da Leon Battista Alberti quale strumento di conversione del percetto in prospetto, del visibile in immagine. Come l’hijab mostra, nel cuore del vissuto, che nascondersi è sempre anche rappresentare e rappresentarsi, la griglia albertiana esplicita e formalizza come la rappresentazione si fondi sul celamento e la dissimulazione: del supporto materico supposto sparire a favore della celebre finestra sul mondo, e del soggetto, ridotto a punto di vista sinottico e centrato rispetto al quale si dispone la “scena”. Condizione di possibilità del mondo allestito dal quadro e del soggetto a cui questo si offre, il velo designa a un tempo il dispositivo discorsivo che regola dall’interno il senso dell’immagine e il modello teorico, elaborato in seno alla pittura stessa, attraverso cui la rappresentazione pensa e si pensa.

 

Il volume interroga il rapporto fra trasparenza e opacità che attraversa la storia delle immagini attraverso sei saggi imperniati ognuno sul raffronto fra opere del passato, attinte in particolare dall’arte rinascimentale e barocca, e oggetti estetici contemporanei che spaziano dalle arti visive al cinema e all’istallazione multimediale. La prima parte del volume, dedicata allo spazio nell’arte, si incentra sulla raffigurazione di luoghi e ambienti che dissimulano e sovra-determinano il piano che li presenta; la seconda, imperniata sullo spazio dell’arte, avvicina viceversa il luogo atto a mostrarla, ciò che istituisce una porzione del visibile in oggetto di contemplazione. 

Composti sul modello del Bilderatlasmnenosyne ideato da Aby Warburg, i sei capitoli si incentrano su alcuni motivi e figure (il velo, la ferita, il fuoco, il dolore, la contemplazione) in cui la tensione dialettica fra immagini eterogenee per epoca, genere, medium e funzione è funzionale a mostrare lo spessore estetico e teoretico delle arti della rappresentazione, la loro capacità di interrogare il proprio statuto di verità. L’attenzione congiunta alla valenza diagrammatica dello spazio nell’arte, e ai meccanismi di enunciazione che lo spazio dell’arte esplicita e formalizza, individua il principale spazio di contributo semiotico a una ricerca interdisciplinare che chiama gli studi classici e contemporanei sul visivo a farsi strumento d’analisi e diagnosi di ciò che secondo Hubert Damisch «pertiene alla storia ma che la storia da sola non può spiegare». Attraverso e per mezzo dello stesso esercizio analitico, il volume profila un metodo d’accesso all’archivio iconografico della cultura cosciente della “non innocenza” del senso del visibile. 

 

La scelta di procedere a una “storia geografica” dell’arte della rappresentazione risponde infatti, più in generale, a una strategia interpretativa che ricerca nella costellazione la condizione di de-automatizzazione di una percezione irriflessa delle opere e della storia, e la conquista di uno sguardo comparativo in grado di avvicinare i temi centrali della riflessione storico-estetologica e antropologica sulle arti a partire dai rapporti immanenti e “sincroni” fra le figure racchiuse dal campo sinottico della “tavola”. Posto esplicitamente sotto l’egida di due riferimenti centrali della riflessione estetica novecentesca, Walter Benjamin e lo stesso Warburg, il volume adotta il montaggio come modello conoscitivo, procedendo allo “smembramento” delle continuità tematiche e storiografiche che ripartiscono l’orizzonte delle immagini e a una loro “ricomposizione” secondo accostamenti in grado di sollecitarne gli strati archeologici e mostrare, e dimostrare, un funzionamento significante e una logica delle forze che rimane “invisibile” a una concezione meramente temporale o peggio evoluzionista del divenire delle formazioni culturali. 

Laddove «ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità» (Walter Benjamin), Il velo dell’arte interroga il passato a partire dalle pertinenze e le valorizzazioni che il presente vi dischiude, e che il “filtro temporale” sotteso alle periodizzazioni stilistico-formali, filologiche e iconologiche impedisce di cogliere e rischia di velare. 

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L'ideologia della richiesta neutralità

Hawthorne e Poe: all’origine dei media

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Lo scrittore americano Nathaniel Hawthorne ha descritto nel racconto Wakefield l’originale comportamento di un uomo londinese che ha improvvisamente deciso di abbandonare la sua abitazione e la moglie, ma di rimanere comunque a vivere per vent’anni, seppure in incognito, nelle immediate vicinanze. Ha voluto cioè lasciare il suo ambiente quotidiano per vivere nello spazio urbano e per confondersi con la folla che lo abita. Come ha scritto però Alberto Abruzzese «La folla londinese accoglie in sé Wakefield, lo ospita, lo divide e insieme preserva, lo danna e insieme salva». Si può dire dunque che la massa opera in qualche misura come i media. In essa ci si perde, ma ci si può anche ritrovare. A patto naturalmente di accettare senza remore quello che essa propone: entrare totalmente in un’altra dimensione. Cioè evadere da quel territorio fisico che appartiene alla realtà quotidiana per passare nel regno della fantasia e del fantastico. Non a caso Wakefield, come ha scritto Hawthorne alla fine del racconto, può essere considerato il «Reietto dell’Universo» e lo è perché è entrato in un altro mondo, ha deciso di annullare la sua identità e uscire temporaneamente dalla sua dimensione quotidiana per entrare in una zona indefinita e sospesa, così come fanno abitualmente gli spettatori dei media.

 


E, come questi, Wakefield è diventato un fantasma e guarda dall’esterno, senza essere visto, la sua abitazione e quello che vi accade all’interno. Cerca in tal modo di soddisfare i suoi impulsi voyeuristici e, come ha affermato lo scrittore Gianni Celati, la sua «Dunque non é una semplice fuga dalla vita domestica; c’è di mezzo la strana voglia di scoprire come appare il luogo familiare senza di noi. Il che porta a riflettere su come si diventa estranei a ciò che sembrava assolutamente nostro e scontato».

Wakefield però, come ha sostenuto Abruzzese, sembra essere anche consapevole del suo comportamento, sembra cioè aver deliberatamente deciso di uscire dalla realtà della sua vita quotidiana. O perlomeno questo è quello che esprime con chiarezza attraverso quel sorriso “furbesco” che gli compare fugacemente sulle labbra al momento della sparizione da casa e che egli mostra nuovamente molti anni dopo, quando si ripresenta alla moglie.

 

Lo scrittore Edgar Allan Poe ha scritto all’inizio degli anni Quaranta dell’Ottocento alcuni articoli che si presentavano come fortemente elogiativi nei confronti del lavoro di Hawthorne e del suo racconto Wakefield. Più tardi, in un articolo uscito nel 1847, ha espresso anche delle critiche verso le qualità letterarie di Hawthorne, ma era comunque profondamente affascinato da questo scrittore quando ha pubblicato il suo racconto L’uomo della folla e cioè nel 1840. In uno dei suoi primi articoli, ad esempio, Poe ha scritto che «Il tratto peculiare di Mr. Hawthorne è l’inventiva, la creazione, l’immaginazione, l’originalità – un tratto che, nella letteratura romanzesca, vale sicuramente per tutto il resto. Ma la natura dell’originalità, per quel che riguarda il suo manifestarsi nelle lettere, non viene compresa se non in maniera imperfetta. La mente inventiva, oppure originale, solitamente si manifesta sia nella novità di tono sia nella novità di argomento. Mr. Hawthorne è originale in ogni aspetto». 

 

Non è un caso pertanto che il racconto Wakefield abbia ispirato Edgar Allan Poe per il suo L’uomo della folla. Il protagonista di questo secondo racconto decide infatti di seguire una persona sconosciuta nei suoi inspiegabili itinerari urbani per capire dove vuole andare e arriva alla conclusione che essa ha come unico obiettivo di non stare da sola. Vuole cioè rimanere sempre in mezzo alla folla. Poe, insomma, ha cercato di mettere a fuoco quello che muove i comportamenti di Wakefield, il suo tentativo di perdersi all’interno dell’esperienza metropolitana. Vale a dire che «Il racconto di Hawthorne era mirato alla rappresentazione verosimile; l’onniscienza e l’onnipotenza del narratore si fermavano solo di fronte all’astuto sorriso di Wakefield e al suo inabissarsi nella folla. Il racconto di Poe, invece, è mirato alla rappresentazione fantastica ed è scritto in prima persona, è narrato dal testimone. Siamo invitati a credere nello sguardo dell’autore-personaggio; siamo coinvolti nel lungo piano-sequenza con cui questi insegue l’“uomo della folla”». Poe dunque mette se stesso direttamente in scena, ma è come se fosse Hawthorne che osserva il personaggio Wakefield e i suoi strani comportamenti.

 

E, per capire sino in fondo il mistero della sua follia, non esita a gettarsi in mezzo alla massa sempre in movimento all’interno dei flussi della metropoli. Quei flussi che, come ha sostenuto in seguito Walter Benjamin, sono caratteristici della cultura moderna, la quale è condannata a un incessante fluire, a un “passaggio” reiterato e continuo.

Anche Poe, come Hawthorne, ha messo in scena nel racconto L’uomo della folla una situazione che rappresenta una metafora del rapporto degli individui con i media. Ha scritto, infatti, di aver osservato le persone e le situazioni che si sviluppano nella metropoli attraverso la vetrata di un caffè e questa si configura dunque come una sorta di grande schermo. In quanto tale, opera come una vera e propria soglia tra l’interno e l’esterno, tra il presente in cui lo spettatore è collocato e un immaginario altrove. 

Ma, come ha scritto Abruzzese, «È lecito supporre, leggendo il testo, che il vetro rifletta anche il volto stesso di Poe spettatore: stando ad un tema assai caro a Poe e connaturato al mito della rappresentazione e della comunicazione, l’immagine aliena traspare quindi dallo schermo della vetrata quasi come uno sdoppiamento del volto dello spettatore». D’altronde, come ha osservato Marshall McLuhan lo schermo dei media si presenta allo stesso tempo come uno specchio sul quale gli individui vedono riflessa la loro immagine e come un canale per il passaggio verso qualcosa.

 

Dunque, lo spettatore è come Narciso, che si concentra sulla sua immagine riflessa dall’acqua, ma percepisce nel contempo la presenza di una soglia. E perciò «Alla fine deve passare, come Alice, attraverso il punto di fuga, per vedere entrambi i lati dello specchio». Deve cioè andare al di là dello schermo per immergersi totalmente dentro lo spettacolo. 

Va considerato del resto che il racconto L’uomo della follaè il risultato anche della consapevolezza da parte del suo autore che la comparsa nell’Ottocento dei primi media aveva determinato una crisi nelle tradizionali figure del letterato e dell’artista. I quali hanno sentito per la prima volta in quell’epoca di non riuscire più a comunicare nella società come accadeva in precedenza. E hanno reagito, come ha fatto lo stesso Poe: cercando di concepire un messaggio altrettanto forte di quelli dei media. Un messaggio cioè traumatico, trasgressivo e che prometteva al lettore di poter evadere dalla realtà per entrare in un’altra dimensione. Persino di poter passare nel fantastico, nel soprannaturale o nel mostruoso. Il letterato e l’artista hanno così tentato di produrre artigianalmente quello a cui la società dava vita attraverso i nuovi e potenti strumenti tecnologici di comunicazione. Ma hanno anche cercato di avvicinarsi alla condizione di vita del loro lettore. 

 

Estratto dalla postfazione di Vanni Codeluppi al volume L’origine dei media: Hawthorne e Poe, FrancoAngeli. Il volume contiene testi dello studioso dei media Alberto Abruzzese e degli scrittori Nathaniel Hawthorne e Edgar Allan Poe.

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La folla

77. Conversazione con Bifo

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Luca Chiurchiù:

«A/traverso»: una rivista che ha fatto scuola a tutte le testate indiane del ‘77, ma anche a quelle odierne, soprattutto per le sue tecniche grafiche e il suo linguaggio innovativo. A quarant’anni da allora, qual è secondo te il primo aspetto per cui «A/traverso» dovrebbe essere studiato e riletto?

 

Bifo:

Prima di tutto non credo che ci sia qualcuno così pazzo da leggere«A/traverso», né qualcuno che ci riesca. Io stesso non l’ho mai letto veramente. È difficile leggere le sue pagine, si fa fatica e ci si perde: le colonne sono sbagliate, gli articoli non si sa dove vanno a finire… Credo che sia la dimensione grafica ad acquistare un’importanza decisiva, così come nel Punk, perché il messaggio ha caratteristiche simili all’effetto di una droga, di una dimensione alterata della coscienza. La grafica non spiega qualcosa attraverso i passaggi logici, ma presenta il messaggio brutalmente, in maniera sinestetica e immediata. 

Direi che «A/traverso» rappresenta un segno del mutamento dello spirito del tempo. In questo senso è piuttosto filosofia che letteratura, ma poi questa distinzione non significa quasi niente: ce lo hanno insegnato le avanguardie, Deleuze e Guattari quando riprendevano Artaud…

Se oggi ci si riavvicina a quella rivista l’effetto che si ha non è quello di leggere una poesia ma di entrare all’interno di un ambiente nel quale, come in Godard, tutti gli errori, le cancellazioni e le tracce “sporche” del lavoro artistico sono stati messi in risalto. In questo senso, «A/traverso» è principalmente un oggetto grafico.

 

Come si poneva la rivista nel panorama della stampa periodica alternativa di allora? 

 

La stampa extraparlamentare dell’epoca e quella della sinistra in generale avevano funzioni perlopiù di tipo agitatorio, educativo e controinformativo. 

L’idea che ci fosse un’informazione giusta e una sbagliata a noi invece non interessava per niente: era troppo poco “guattariana”. Secondo noi non esisteva un’informazione vera o una falsa, ma solo un proliferare continuo di processi informativi. 

«A/traverso» si riproponeva piuttosto di collegarsi, connettersi con le pulsioni e con i desideri irrazionali che appartengono all’inconscio collettivo – come il rifiuto del lavoro, l’esperienza della droga, la sessualità liberata –, dando loro uno spazio di espressione. Se abbiamo avuto una funzione è stata proprio questa: rendere esplicito, dichiarato, evidente, politico e strategico, qualcosa che già apparteneva al comportamento diffuso del movimento. 

 

Non è detto che abbia funzionato nella maniera giusta: qualcuno potrebbe dire che Berlusconi nasce proprio di lì. Far esplodere la macchina politica razionale apre la strada all’esercizio puro dell’irrazionalità politica. Ciò non vuol dire che è stata colpa nostra, ma che abbiamo anticipato in qualche modo un mutamento che si stava verificando. In questo senso «A/traverso» è molto più un tentativo artistico e psicanalitico, di espressione del profondo dell’inconscio, più che un giornale di informazione o di linea teorica. 

 

Che effetto ti fa vedere che l’esperienza della rivista e più in generale di tutto il movimento di liberazione viene oggi studiata in ambiti storiografici? Soprattutto quando alcuni del vostro collettivo hanno scritto in Fatti nostri: “Non esisterà uno storico, non tollereremo che esista uno storico, che assolvendo una funzione maggiore del linguaggio, offrendo i suoi servizi alla lingua del potere, ricostruisca i fatti, innestandosi sul nostro silenzio, silenzio ininterrotto, interminabile, rabbiosamente estraneo”.

 

Fatti nostri è stato scritto da Piersanti, Palandri, Torrealta e altri. È una frase molto bella questa: la condivido integralmente. 

Come ha detto il collettivo Wu Ming ne L’armata dei sonnambuli, romanzo sulla Rivoluzione Francese, la storia non la si può capire unitariamente, ma al massimo raccontarla attraverso i singoli punti di vista particolari. Ognuno ha la sua rivoluzione francese, ognuno ha la sua storia. Il processo storico è la coscienza (o l’incoscienza) che ne hanno i centomila attori che partecipano a tale processo. Questo non esclude che lo storico possa raccontare una vicenda unitaria capace di esprimere le pulsioni più vere di un’epoca, ma la prospettiva di «A/traverso» è tutta legata alla microstoria, nel senso di Ginzburg, di Foucault… Il significato della frase è proprio questo: non volevamo che qualcuno raccontasse posteriormente la nostra vicenda. C’è sempre un’irriducibilità del vissuto alla storia. 

 

 

Si è appena parlato del silenzio. Il titolo di un articolo della rivista era proprio “Silenzio, de/lirio, estraneità”. Mi può spiegare questi tre termini? 

 

“Silenzio” ha anche un significato politico. In quegli anni la democrazia borghese invitava le masse a parlare, a partecipare, ma non venivano mai messe in questione le faccende essenziali, cioè quelle del lavoro, dello sfruttamento, dell’estrazione di plusvalore e così via, spacciate come “naturali” e non discutibili. Silenzio allora voleva dire: non partecipiamo alle assemblee, ai consigli di classe, alle trattative. Voleva dire: non rendiamoci trasparenti nei confronti del potere (Baudrillard puro).

La parola “delirio” deriva da Guattari e significa leggere fuori dal testo; significa leggere in quest’ultimo qualcosa che non c’è. L’elemento importante del testo diventava ciò che la società borghese tiene fuori e che il discorso politico nasconde e rimuove (la sessualità, il corpo, l’inconscio, ecc.). Il compito che ci proponevamo come attivisti e intellettuali […] era proprio quello di rendere esplicito il rimosso, di esprimere ciò che non è permesso esprimere. In questo riprendevamo e capovolgevamo anche le accuse rivolteci dalla stampa ufficiale comunista, che definiva il movimento autonomo come “delirante”.

Šklovskij parla di “estraneità” per definire il modo di operare della poesia nei confronti delle parole. Per restituire loro la linfa persa a causa dell’uso comune che se ne fa, il procedimento poetico deve mettere in atto un’estraneazione, deve ricollocare il segno in un territorio semantico che non è quello abituale. Con questo termine, noi invece ci riferivamo anche a un nuovo modo di concepire il concetto di alienazione.

Negli anni Sessanta l’alienazione coincideva con la perdita dell’anima e dell’umanità a causa del lavoro e del processo produttivo. Il comunismo, in questo senso, era visto come la possibilità della restaurazione della pienezza dell’essenza umana. Nel caso del proletariato giovanile del ‘77, invece, non si voleva più riconquistare l’essenzialità umana, ma uscire volontariamente dal processo produttivo. Non c’era niente da restaurare. Non si voleva più rivendicare l’integrità contro l’alienazione, ma uscirne con un atto di rifiuto attivo. 

L’estraneità è non prendere sul serio il lavoro e non prendere sul serio la storia. Non c’è nessuna storia con la “S” maiuscola, perché non c’è integrità: ci sono tante storie quante sono le singolarità che, come afferma Guattari, rifiutano di piegarsi a qualsiasi universalità, della storia come del lavoro. 

 

La vicinanza tra «A/traverso» e l’esperienza delle avanguardie. Nelle pagine della rivista dicevate che erano il vostro punto di partenza ma che bisognava superarle. In un certo senso quindi rifiutavate di essere classificati come avanguardia. Non pensi però che il vostro linguaggio e il vostro lessico fossero appannaggio solo di militanti con un bagaglio culturale notevole? Non pensi cioè che la rete che avevate creato fosse comunque limitata a chi possedeva gli strumenti per farne parte? 

 

L’esperienza elitaria e sperimentale delle avanguardie negli anni Settanta si era allargata ad una dimensione di massa grazie alla tecnica e ai media. Questo lo avevano spiegato bene Maurizio Calvesi e Umberto Eco fin da subito. 

Non si poneva la questione se il nostro lessico fosse di avanguardia, perché le esperienze di correnti artistiche come il dadaismo e il surrealismo (il nonsense, il linguaggio dell’assurdo e del paradosso) stavano diventando patrimonio di tutti.

La follia si stava impadronendo della società. L’antico dominio della ragione stava perdendo la sua vigenza. Oggi questo fatto mi sembra evidente e bisognerebbe vedere i motivi che lo hanno causato. 

Se dovessi trovare un punto d’inizio e una spiegazione, per quanto parziale e imprecisa, li ricercherei nella decisione di Nixon del ‘71 di sganciare il valore del dollaro dal regime degli scambi fissi, emancipando la moneta dal suo rapporto col mondo. Se il denaro è un linguaggio, ciò significa che per la prima volta i segni non denotavano più nulla, se non una volontà senza misura e senza rapporti col reale. 

Oggi ne vediamo gli effetti: ora l’economia finanziaria vale ottanta volte di più del prodotto globale dell’economia reale. Oggi viviamo in una realtà in cui il linguaggio ha perduto ogni verifica, ogni capacità di denotazione, di rispecchiamento, ogni verità (per così dire…). 

Questo impazzimento, questa autonomia del linguaggio dal mondo era diventata dominante negli anni Settanta. Secondo me è questa uscita dall’orbita del razionale che noi, in modo impressionistico, interpretavamo.

 

«Fare poesia e non straordinario». Le vostre pagine sono costellate di versi. Come nascevano le vostre poesie, come le consideravate? Secondo te erano quelli i testi trasversali?

 

In quel gruppo la maggior parte era più giovane di me di cinque anni e aveva studiato al DAMS con Celati ed Eco. Io mi ero laureato prima con Anceschi: la mia formazione quindi è più classica, per quanto Anceschi sia stato comunque un personaggi ai limiti.

Non mi pare ci sia stata un’intenzione di affermare una poetica precisa. In un qualche modo è stato l’ambiente bolognese che ci ha portato naturalmente verso una “tendenza”, ma non so neanche bene come chiamarla. Non c’era un’aura da restaurare, ma forse solo il fascino per l’irregolarità. Non c’era un discorso sulla poesia, ma una pratica collettiva che derivava direttamente dalla lettura e dallo studio delle avanguardie storiche. 

«A/traverso» è tutto un testo trasversale. Al suo interno c’erano delle poesie che la gente ci mandava e che noi inserivamo senza alcuna censura, senza nemmeno ricopiarle in un altro foglio. Una ce la inviò addirittura Freccero. Non era operata una scelta: la poesia era il numero, il giornale stesso con tutti i suoi errori.

 

Ne La traversata del deserto, articolo che apre l’ultimo numero, si legge: «Il tempo del dopo è cominciato». Il tempo del dopo è questo, è il post-politico e l’annullamento del corpo, la messa al margine di tutto ciò che è concreto. Pensi che l’esperienza di «A/traverso» abbia rappresentato la prima presa di coscienza della “mutazione” (in senso pasoliniano), oppure una fase stessa che ha portato al compimento di tale trasformazione? 

 

 

Generalmente si pensa ad «A/traverso» in relazione agli anni Settanta. È legittimo, ma per me non è così: «A/traverso» non è una rivista degli anni Settanta, ma una rivista che si piazza nel punto di passaggio tra la storia del Novecento e la storia dell’epoca post-umana in cui viviamo attualmente. Se non si tiene conto di questo elemento, «A/traverso» diventa solamente una delle tante fanzine di quegli anni, un epigono del dadaismo o del futurismo. Del futurismo recuperavamo l’euforia, unita questa volta alla disperazione del rendersi conto di essere entrati in una specie di abisso. Questa è la cosa che, a mio parere, resta interessante. Negli ultimi numeri c’è la consapevolezza che la sconfitta dei movimenti segna l’inizio di quel deserto dell’umano di cui non si vede la fine nemmeno ora.

 

Il concreto è residuale: ciò significa che sta avanzando sempre più il deserto dell’astrazione, dove astratto vuol dire la legge del valore dell’economia, la perdita del rapporto con la concretezza dell’agire, la creazione del sistema virtuale, la comunicazione che prende il posto del rapporto fisico… Tutti elementi che oggi conosciamo benissimo ma che allora si presentavano solo come la percezione di una transizione. 

Per quanto riguarda il termine “mutazione”, di cui mi sono servito spesso, deriva direttamente da Burroughs e non da Pasolini, che consideravamo ormai vecchio. Non lo amavamo molto; il rapporto con Pasolini era complicato, ma oggi mi rendo conto che, anche se in maniera diversa, parlavamo delle stesse cose e dovevamo capirlo meglio. Mutazione è un modo per dire che non si tratta più di una transizione politica, ma di un cambiamento del tessuto stesso, della pelle degli uomini. Una mutazione antropologica, appunto, come diceva Pasolini. In Burroughs però c’erano comunque più stimoli: la dipendenza dall’eroina, il rapporto con la tecnica…

Per quanto riguarda la domanda se si sia trattato di una fase del passaggio o una presa di coscienza di uno stato di fatto, ti risponderei che siamo ancora a quel punto lì. L’articolo La traversata del deserto potrei scriverlo anche oggi. Quarant’anni dopo siamo ancora in quel deserto…

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«A/traverso» e lo spirito del tempo

Artisti realisti. Alto là! Grigorij Šegal'. Il nuovo byt.

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Sottotitolo: 

Questa volta è una coppia di manifesti a essere protagonista. Entrambi dedicati alla condizione femminile in URSS e impostati sul didascalico accostamento di due realtà opposte, il bene da un lato e il male dall’altro, dunque esaminabili in parallelo. Il primo, realizzato nel 1929 dall’associazione degli artisti realisti, pone in primissimo piano una donna sovietica vista di spalle, sobriamente vestita come si comandava a una bolscevica responsabile ed esemplare.

 

 

Fazzoletto rosso rigorosamente annodato dietro la nuca per prendere le distanze dall’arcaico modello femminile contadino che lo legava sotto al mento, calze scure e pesanti, tacchi bassi, abito severo e braccio sinistro levato a indicare il monito che pare uscire dalla mano stessa della donna: Alto là! L’esortazione è rivolta all’universo negativo, ai residui della nuova politica economica e al mondo del capitalismo in generale, che nei primi anni del primo piano quinquennale staliniano ancora si facevano sentire e minacciavano l’edificazione del socialismo. Sul “marciapiede notturno”, così titolano i versi del poeta Dem’jan Bednyj che chiosano lo spazio scenico in basso a sinistra, sfilano i cattivi e i peccati. A troneggiare, in violenta opposizione con la figura femminile politicamente corretta, un’affascinante quanto volgare donna perduta: snella, elegante, truccata, con piuma sul cappello e sigaretta tra le labbra. Ai suoi piedi, ubriachi barcollanti, provocanti prostitute, laidi borghesi azzimati mentre le simboliche luci della città notturna illuminano la depravazione.

 

Una sola, ma significativa, strofa dalla poesiola dottrinale scelta per commentare e glossare le immagini:

 

Bisogna finirla con questa sozzura purulenta,

Bisogna risanare le città

Con la tempra proletaria

Del lavoro e della risolutezza femminile.

 

Di ben altro tenore poetico era stata due anni prima una composizione di Majakovskij dedicata a una fanciulla che si era avvelenata perché non possedeva scarpe di vernice come la sua amica Tanja, Marusja otravilas’ (Marusja si è avvelenata), e che per questa ragione era stata abbandonata dal fidanzato. Il titolo rimanda a una romanza appartenente al genere del cosiddetto folclore metropolitano, molto popolare prima della rivoluzione, tornata in auge con la NEP e invisa al potere sovietico, in cui si cantava il tragico destino di una fanciulla suicida per amore. La versione di Majakovskij si dichiarava ispirata da un fatto di cronaca e aveva offerto l’occasione per un violento attacco poetico alle tentazioni che il beau monde pseudo-capitalistico esercitava ancora pericolosamente soprattutto sui giovani proletari.

 

[…]

Canzonette così

Si insinuano

Nel cuore

Senza bisogno di scale.

Dove sta la patria

Di queste romanze dozzinali?

Là,

Dove i bianchi

Abbaiano come botoli?

No!

Questa canzone

È nata dalla nostra

Massa del Komsomol.

[…]

 

Il manifesto riprende questi accenti e questa problematica in chiave più divulgativa e invita la gioventù bolscevica a non lasciare spazio a rigurgiti di passato obsoleto e triviale, a rinnegare il culto del possesso, i sentimenti morbosi e decadenti, le mode basso-borghesi.

 

Il secondo manifesto, opera di Grigorij Šegal’ del 1931, riporta a sua volta una situazione di dualità comportamentale. In questo caso l’opposizione binaria è tra il vecchio e il nuovo all’interno della cultura russa.

 

 

Lo spazio scenico è diviso a metà diagonalmente. Sul confine tra i due mondi si erge la donna bolscevica che già abbiamo imparato a conoscere. Tutta in rosso con un abito in cui persino le pieghe rimandano al costruttivismo e con le stesse caratteristiche che contraddistinguevano la sua omologa nel manifesto precedente. A sinistra il vecchio byt, la quotidianità, la mentalità, il comportamento arretrato e reazionario che vedeva la figura femminile relegata in cucina a occuparsi di bucato fatto a mano, panni da stendere, piatti sporchi da lavare a fianco del famigerato primus, il fornello a benzina o kerosene che imperversava nelle residenze più povere e luride. Attraverso la porta che la rivoluzionaria spalanca, come per invitare la sua vessata compagna a compiere il salto che le cambierà la vita, si delinea il nuovo byt. Quello a cui inneggia la scritta multicolore: Abbasso la schiavitù delle cucine! Evviva il nuovo byt.

 

Questa fu una delle campagne più importanti e sentite dell’epopea bolscevica: combattere il filisteismo, i pregiudizi, le tradizioni superstiziose dure a morire, la volgarità compiaciuta, l’arretratezza. Il successo non sarebbe arrivato mai. Secoli di oscurantismo, tentazioni troppo invitanti per essere rifiutate, addirittura l’atteggiamento estetico-socio-politico dello stalinismo avrebbero contribuito a compromettere la bella utopia e la battaglia condotta fin dai primi anni Venti. In questo 1931 però ancora si combatteva e il manifesto illustra il futuro radioso che si schiudeva a portata di mano grazie agli investimenti del socialismo. Circolo operaio, nido d’infanzia, mensa collettiva, soleggiati impianti sportivi, parchi e la realtà che, più di ogni altra, avrebbe dovuto seppellire la schiavitù domestica: la fabbrica-cucina.

 

In queste strutture industriali, personale regolarmente stipendiato avrebbe prodotto migliaia di porzioni di cibo che sarebbero poi state distribuite nei posti di lavoro e nelle mense collettive che, nell’utopia architettonica del costruttivismo, si sarebbero dovute sostituire alle cucine individuali. Tutto in stile rigorosamente costruttivista e, nell’immagine che ci riguarda, seducentemente avveniristico. Basta con i tuguri. Basta con la sporcizia. Basta con la donna serva delle figure maschili. Basta con mogli schiave. Basta con le cucine simbolo di discriminazione. La storia testimonia che, purtroppo, questa ideale sperimentazione non sarebbe durata a lungo. I progetti architettonici che la dovevano sostenere sarebbero rimasti in grande maggioranza sulla carta. La coabitazione coatta avrebbe preso il posto dell’ideale di casa-comune in stile falansterio. Già a metà degli anni Trenta, Stalin avrebbe ribaltato la situazione ideologica e la guerra agli atteggiamenti borghesi e il conseguente auspicato nuovo byt sarebbero stati messi da parte in nome di nuovi principi.

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Pericolo, crimine e diritti

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Questa conversazione - tradotta da Giovanni Vezzani - è un estratto dal nuovo numero della rivista aut aut, di cui riportiamo la prefazione scritta da Mario Colucci e Pier Aldo Rovatti.

 

Questo fascicolo prosegue l’indagine sulla pericolosità avviata nel n. 370, mantenendone il titolo e ampliando i diversi percorsi collegati o collegabili a una questione che riteniamo attuale e decisiva. Il passaggio dall’individuo pericoloso alla società a rischio viene inizialmente sviluppato attraverso alcuni materiali: un’inedita conversazione che Michel Foucault tenne negli Stati Uniti nel 1983, la ricostruzione di Bernard Harcourt di come si è imposto il concetto di analisi attuariale e due interventi della scuola belga di criminologia a firma di Fabienne Brion e Christophe Adam. Ma il fascicolo apre anche una serie di altri fronti che vanno dal terreno giuridico e dal problema del carcere all’emergenza sociale e politica del “pericolo” immigrati, oggi molto dibattuto in Italia e in Europa, a quella della violenza sulle donne, indagata dalla prospettiva della psicoanalisi. Siamo una rivista che cerca di mettere alla prova ogni volta il pensiero critico: l’allargamento della questione a partire dal nodo storico e teorico della pratica psichiatrica si accompagna di conseguenza a un tentativo di approfondire ulteriormente il tema della pericolosità. La questione della pericolosità non va sfumando in quella del calcolo del rischio, all’opposto sembra intensificarsi come domanda teorica, certo non semplice, che dobbiamo continuare a rivolgere a noi stessi, dovunque operiamo: tale domanda dovrebbe mettere in gioco radicalmente le nozioni di normalità e anormalità, la loro tenuta e i loro confini, dato che non possiamo pensare di disfarci davvero delle categorie di pericolo e di pericolosità senza indagare gli effetti che esse hanno sulla nostra stessa idea di soggetto, cioè i pregiudizi e le relative forme di violenza che impugniamo quotidianamente contro le persone deboli e che tali pregiudizi continuano a innervare. Tutti quanti noi operiamo all’interno di una cultura asfittica nella quale dobbiamo immettere ossigeno critico, cioè, in breve, interrogarla. Questo fascicolo vorrebbe allora suggerire che il tema del pericolo, individuale e sociale, ha necessariamente un rimbalzo su quell’idea di “soggetto normale” che molto spesso consideriamo un’acquisizione comune e tranquillizzante.

 

Michel Foucault - Penso che vi siano due concetti principali in questa nozione di pericolo. Una – che può essere definita la concezione antica di pericolosità – credo sia radicata nel problema che chiamano monomania, monomania omicida.

 

Jonathan Simon - Un tipo di crimine mostruoso.

 

M.F. Ci sono mostri che hanno ucciso persone e sono incapaci di spiegare perché lo hanno fatto. Ed è molto interessante vederlo in Germania, in Inghilterra e in Francia e forse anche negli Stati Uniti, anche se non ne sono certo, poiché non conosco abbastanza questo genere di cose. In questi tre paesi, negli anni venti dell’Ottocento, si registrano casi di persone che hanno ucciso un bambino o i genitori o qualcun altro, per la strada, in casa, e sono incapaci di spiegare perché, di fornire ragioni. E così innanzitutto era un grattacapo per i giudici, e anche per i medici e gli psichiatri, poiché quando qualcuno ha un motivo per uccidere – interessi, gelosia, una lite sull’eredità ecc., questo genere di problemi familiari – allora si può dare un giudizio sull’azione commessa, capire l’operato e il motivo. Erano ragioni fondate o infondate, è stato per via dei suoi interessi… Farò un esempio ben preciso. Si tratta del caso di una donna che ha ucciso il suo bambino e lo ha cucinato.

 

J.S. Ah sì, è riportato qui. [Si tratta del caso Selestat, discusso da Foucault in vari articoli e seminari]

 

M.F. E la discussione era questa: se la donna fosse stata ridotta alla fame, allora avrebbe commesso il fatto per nutrirsi. E in tal caso sarebbe stata colpevole, poiché effettivamente lo aveva commesso. Ma se fosse stata ricca, allora non avrebbe avuto motivo di farlo, quindi si sarebbe potuto considerarla folle, una malata di mente. Poiché era assolutamente indigente, c’era il sospetto che l’azione fosse stata compiuta per “interesse” e fu considerata colpevole. Perciò gran parte di questo tipo di problema ruota intorno alla domanda se ci sia un motivo per cui uno ha agito così, e solo quando non si trova un motivo si dice che si tratta di un atto irragionevole. In questo genere di casi si è di fronte a un individuo che è pericoloso a sé e agli altri, non a causa delle circostanze o del contesto, ma perché costituisce un potenziale pericolo per la società senza alcuna ragione, e per il fatto stesso che egli non ha motivo di fare ciò che fa.

 

J.S. Allora persino in questa prima fase il problema principale non era la responsabilità?

 

M.F. Sì, era un problema. Ma poiché nel codice francese, nel codice napoleonico, si dice che uno è responsabile per ciò che ha fatto se era consapevole di ciò che stava facendo e se non era stato costretto a farlo, il dilemma sorgeva quando non era possibile addurre spiegazioni: non è questo il segno che non si era del tutto consapevoli di ciò che si stava facendo? Oppure non era il segno di una qualche compulsione o corruzione che spinge a fare ciò che si fa? Ritengo che qui si abbia l’esempio di un individuo che è pericoloso di per sé per una qualche misteriosa ragione psicologica.

E dall’altra parte penso che dietro la nozione di pericolosità si celi qualcosa di completamente diverso, che è la scoperta del fatto che nella nostra società vi sono irregolarità statistiche per quanto riguarda l’esecuzione dei delitti. Quindi proprio come in una città c’è un certo tasso di vittime di incidenti stradali, allo stesso modo c’è un tasso costante, permanente di crimini. Perciò il crimine diventa un pericolo perenne nella società: può accadere precisamente come uno scontro fatale, come un incidente. E credo che l’intreccio di questa idea di pericolo psicologico, scoperto tramite quei casi patologici, e la scoperta di dati statistici, irregolarità statistiche, all’incrocio di queste nozioni si ritrovi l’idea di pericolo con le sue ambiguità.

 

 

J.S. E in epoca moderna non deve trattarsi necessariamente di un crimine mostruoso?

 

M.F. No, assolutamente no. Ma naturalmente questa nozione psichiatrica di pericolosità – attraverso il problema dell’irregolarità statistica del crimine –, questa nozione di dangerosité psicologica, psichiatrica è divenuta sempre più familiare, mentre essa è sempre meno correlata a un qualche tipo di mostruosità. E questo pétit délit, questo reato minore, o infrazione, è stato l’esemplificazione; è stato a quel livello che si poteva trovare l’articolazione tra la dangerosité psicologica e la nozione di pericolo sociale, o dangerosité statistica, perché è piuttosto evidente che quei grandi mostri non emergono molto spesso. Ma lo sappiamo per certo attraverso le statistiche, giacché attraverso lo studio statistico del crimine e della delinquenza che iniziò in Francia nel 1826 (e penso in altri paesi nella stessa epoca) si sapeva molto bene che i ladruncoli o le aggressioni sessuali e altre cose del genere erano [incomprensibile]. E, per ragioni del tutto evidenti, anche nei casi di piccola criminalità la récidive, la recidiva, era molto frequente, anzitutto per via del fatto che per quei reati minori le persone andavano in prigione uno o due anni e poi venivano rilasciate e ricominciavano, mentre ovviamente non c’era recidiva per i grandi crimini perché si veniva giustiziati.

 

J.S.È molto interessante.

 

M.F. Per cui quelle persone… almeno in Europa, in Francia, il problema della recidiva iniziò a essere molto acuto negli anni cinquanta e sessanta dell’Ottocento. Per esempio si scoprì che per le aggressioni sessuali questo tipo di crimine era reiterato. Sono sempre le stesse persone a fare le stesse cose nelle stesse circostanze.

 

J.S. Ma ciò aveva anche un fondamento politico o di classe, nel senso che si concentrava sulle azioni illegali di…?

 

M.F. Di certo era correlato alla coscienza di classe, e l’idea che ci fossero alcune classi che erano pericolose e così via, sì, è sicuramente importante. Ma c’è un elemento che credo potrebbe essere indagato un po’ più a fondo. Si tratta del problema della delinquenza nelle classi più elevate. Le ho accennato alla questione della ferrovia, c’era anche il problema dei grandi negozi, i magasins, all’epoca non ancora supermercati. Lei sa che in Europa è stato intorno agli anni sessanta dell’Ottocento che si sono diffusi questi enormi negozi come Macy’s, e in Francia abbiamo La Belle Jardinière e Le Bon Marché e così via. Zola ha scritto un libro su di essi, qualcosa di abbastanza innovativo per l’epoca. Au bonheur des damesè un romanzo scritto da Zola su questi grandi magazzini che sono una vera novità sociale. Quindi in quei grandi negozi, in quei grandi magazzini, le donne borghesi iniziarono a praticare il taccheggio. Ci furono molti casi, e per la prima volta si scoprì che rubare era un comportamento rintracciabile tanto nella borghesia quanto nelle classi più umili. E ciò vale anche per il problema dei crimini sessuali. Perciò il problema della dangerosité non è così lampante come uno potrebbe pensare, non riguarda il fatto che le persone delle classi meno abbienti sono di per sé pericolose; certamente c’è questa idea ma c’è anche il problema posto dalla delinquenza borghese.

 

J.S. Ma, almeno nella mia esperienza di come oggi viene trattato in America quello che chiamiamo un criminale col colletto bianco (cioè un borghese, specialmente con riferimento al crimine in ambito economico e aziendale), non viene trattato dai tribunali come una persona pericolosa, anche se provoca una violenza, nel senso di lesioni a un lavoratore o a un consumatore che acquista un prodotto che è stato intenzionalmente immesso sul mercato nonostante fosse pericoloso. Come persone, i criminali col colletto bianco non sono pericolosi. Ed è anche il caso, per esempio, delle persone malate di mente, che in questo paese – e forse in Europa in generale – sono state trattate come assai più pericolose di quanto studi successivi non abbiano dimostrato. Un ambito in cui ciò emerge, in questo paese, è che se le persone vengono dichiarate non colpevoli per infermità mentale, o se sono sottoposte a ricovero coatto, non possono uscire fintantoché non dimostrano di non essere pericolose. Si sono fatti numerosi studi in base a cui, per esempio, la Corte suprema ha deciso di ordinare il rilascio di migliaia di persone malate di mente che erano detenute in manicomi criminali. Si è detto: dovete sottoporle a ricovero coatto o lasciarle andare. Queste persone, poi, sono state seguite da studiosi di scienze sociali e hanno mostrato tassi molto bassi di criminalità, molto inferiori alle previsioni. Quindi non sono più pericolose, eppure si è continuato a presumere che lo fossero.

 

M.F. Certo. Questa è una delle cose che reputo più interessanti in questa storia, cioè che in effetti i folli sono meno pericolosi rispetto alle altre persone perché…

 

J.S. Perché hanno difficoltà a muoversi liberamente.

 

M.F. Perché il loro è un problema psicologico. La ragione per cui hanno altro da fare che commettere crimini. In ogni modo, vorrei tornare sulla questione della delinquenza e della criminalità dei colletti bianchi. Quando negli anni sessanta dell’Ottocento i giudici scoprirono la frequenza con cui avvenivano i taccheggi, furono naturalmente molto imbarazzati, per lo stesso motivo che le ho citato a proposito del caso della donna che aveva mangiato suo figlio: il problema era perché mai una persona ricca, a cui non manca nulla, che può pagare e così via, nonostante tutto ruba? Perciò i giudici furono costretti a costruire una categoria psichiatrica che aveva un duplice vantaggio: per fornire una spiegazione o una categorizzazione di questo fatto inventarono il concetto di “cleptomania”, proprio come in precedenza si era fatto ricorso alla monomania omicida per le persone che uccidevano senza un movente. E tramite questa categoria poterono tenere fuori dai tribunali quelle donne, perché erano affette da una sindrome psichiatrica che era la cleptomania.

 

J.S. Ma se in Europa a quell’epoca si veniva riconosciuti come non responsabili perché affetti, per esempio, da cleptomania, ciò comportava che si veniva posti sotto il controllo dello Stato in un manicomio, oppure si veniva rispediti a casa per essere accuditi?

 

M.F. In Francia, nei codici napoleonici, in Europa, abbiamo quello che chiamiamo l’articolo 64, che afferma che non c’è nessun reato se l’atto è stato compiuto da qualcuno che non aveva il controllo di sé, o perché in stato di demenza o perché costretto a compierlo.

 

J.S. Noi diciamo la stessa cosa, ma poi li rinchiudiamo.

 

M.F. Sì, ma prima penso che cerchiate di ricostruire le circostanze del reato, no?

 

J.S. Sì.

 

M.F. Il reato è stato compiuto, ma l’uomo non ne è responsabile. Ciò che è più interessante in tribunale da noi è che il reato non esiste

 

J.S. Una volta che si è accertata l’infermità mentale non si continua?

 

M.F. Se durante l’instruction, l’indagine preliminare, una perizia psichiatrica dimostra che durante l’atto il criminale era in un état de démence, in uno stato di follia, allora tutto si ferma. Con un provvedimento di carattere amministrativo, si decide che il paziente (perché ora è divenuto un paziente) venga rinchiuso in un ospedale psichiatrico e i medici, i dottori, decidono quanto tempo deve rimanere e così via. Ma la giustizia non ha più nulla a che fare con lui. È finita: il reato non è esistito. È estremamente interessante, come può notare, perché dal punto di vista teorico ciò implica che il reato non costituisce di per sé un atto: il reato costituisce una certa relazione tra un atto e un’intenzione.

 

J.S. Noi ci siamo allontanati da questa visione, penso alla fine del XIX secolo.

M.F. Non avete mai avuto questa nozione di inesistenza del reato?

J.S. No, non quella nozione. ...

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Conversazione con Jonathan Simon

Mario Giacomelli: verrà la morte e avrà i tuoi occhi

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Nel bianco del letto d’ospizio, una donna anziana dorme profondamente. Sogna, forse, con un fazzoletto sulla testa, il paradiso o la prossima vita. Le si vede un occhio solo, il naso degli ultimi respiri, e il labbro di una bocca senza più denti. Dorme tra le pieghe di un’altra dimensione. Il suo sudario è reale e metafisico al contempo. L’immagine è insieme drammatica, densa di tenerezza e magnetica: “Sai perché per me è bella? Tu vedi la vecchia, l'ospizio.

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1966 - 1968, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Ma se tu la guardi ancora meglio, non c'è più né vecchia né ospizio, è come un mare bianco, come una barca su un'onda. Ma questo è venuto dopo che ho pianto dentro di me una quantità di volte, di fronte ad altre immagini. Non so se questa è più importante, per me sono tutti attimi, come il respiro, quella prima non è più importante di quella dopo, ce ne sono tanti, finché tutto si blocca e tutto finisce. Quante volte abbiamo respirato questa sera? Nessun respiro era più bello dell'altro e tutti insieme sono la vita” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1955 - 1957, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Tra il 1955 e il 1957 Mario Giacomelli realizza una serie di scatti intitolata Vita d’ospizio, prima parte di un ciclo ritenuto da lui stesso il lavoro più importante, su cui tornerà più volte nel corso della sua vita (1966-1968 e 1981-1983), quando l’artista fotografa gli anziani ricoverati nella casa di riposo di Senigallia, avendo in testa ossessivamente la celebre poesia Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Cesare Pavese.

Da malinconico creativo, in modo monomaniacale, si sofferma continuamente sul pensiero della morte che verrà, sulle sofferenze nell’attesa, sull’inarrestabile scorrere del tempo, in un corpo a corpo esistenziale messo in atto con i piedi per terra: “Quello che mi importa è l'età, il tempo. Tra me e il tempo c'è una discussione sempre aperta, una lotta continua. L'ospizio me ne dà una dimensione più esatta. […] Non ho niente contro i vecchi o contro l'ospizio. Solo contro il tempo, questo presente che non esiste mai; già il momento in cui parliamo è fatto un po’ di prima, un po’ di dopo, di passato e di futuro. Là dentro lo senti ancora di più, come un coltello puntato contro il tuo cuore, ogni cosa ti concerne e ti ferisce. A volte hai il coraggio di fotografare e a volte no” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).

 

I ritratti delle donne anziane incarnano per Giacomelli la sua paura di invecchiare, sono la proiezione immaginativa di un limbo angosciante. L’ospizio è uno spettro che rilascia un odore terribile, quello misto tra urina, feci, sudore, urla di dolore, una puzza di solitudine estrema, di Alzheimer, di piaghe da decubito, che la fotografia non può rendere e trasmettere: “[…] chi guarda quelle immagini non vede niente di quello che ho provato quando ero lì a fotografare. Non c’è il puzzo della morte che senti lì dentro. C’è proprio il sapore della morte, quando entri lì. Quando guardi la fotografia non senti che quel posto è come una sala d’attesa” (Mario Giacomelli. La mia vita intera, a cura di Simona Guerra, Milano 2008, p. 115).

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1981 - 1983, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Nelle fotografie mancano le sensazioni provate da chi ha realizzato lo scatto, manca l’atmosfera che ha respirato, i rumori dei lamenti, e Giacomelli se ne rammarica, perché le immagini rendono solo una piccola parte di quello che il fotografo ha percepito nell’ambiente: “[…] è un corridoio lungo, i lamenti di dolore escono da ogni porta, tu li senti quando cammini lungo i corridoi, senti gridare come fosse un mattatoio, anche se nessuno naturalmente gli fa del male.

 

Mario Giacomelli, La zia di Franco, Ospizio, 1981 - 1983.


Ma loro sono così, non si accorgono di quel che fanno. Quella luce tenue che c’è nei corridoi, non forte, fioca, quei lamenti che senti mentre fotografi, quella puzza che entra dal naso, quella luce strana che entra dagli occhi e il rumore che entra nelle orecchie ti fanno sentire ferito… distrutto dall’idea che questo dovrà accadere anche a te, distrutto da questa paura. Nelle foto, tutte queste cose il fotografo non riesce a darle. […] Senti dentro di te qualche cosa che non vorresti mai sentire eppure provi il desiderio di ritornarci, perché? Perché vuoi capire anche questo, capire queste cose che tu non conosci” (op. cit., 2008, pp. 116 e 119).

 

Mario Giacomelli, E io ti vidi fanciulla, Ospizio, 1981 - 1983.


E una parte del mistero della morte sta proprio in questa sala d’attesa. La grande signora ossuta si aggira nei gerontocomi, si nutre di tutti gli odori emanati dai corpi scheletrici dei ricoverati, delle loro smorfie e dei contorcimenti, osserva la loro decadenza e si annota i pensieri della paura di morire o del desiderio di porre fine all’agonia e all’impotenza. Giacomelli si reca in questi corridoi pervasi dalla penombra, e osserva le persone che si approssimano agli inferi della morte per cercare di capire ciò che non si conosce. 

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1966 - 1968, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Fotografa gli anziani con luci brucianti, isola le vite ripiegate su loro stesse come in un vuoto che annulla, fulmina la loro estraneità alla vita mostrando l’ultimo barlume di bellezza dei loro corpi e dei loro volti, delle loro rughe profonde, della pelle flaccida. Con rabbia e dolce attenzione, con un sentimento di profonda tenerezza nei loro confronti, Giacomelli coglie il momento di passaggio da una vita a un’altra, affidandosi a una luminosità estrema, alla forza del bianco che evoca una rinascita. Utilizza un lampo intenso, un flash potente, per farsi strada nell’ombra e per accecare la morte. Cerca di aggiungere qualcosa di più immenso, un contrasto luminoso in grado di modificare il reale, penetrando in quella verità terribile che l’artista vorrebbe cambiare attraverso la sua azione.

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1955 - 1957, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Si muove dentro le leggi della fatalità, cercando di testimoniare ancora, forse per l’ultima volta, attraverso le inquadrature e i primi piani ossessivi, l’identità di ogni singola persona, la sua quintessenza. Si affida a una entità irradiante, alla mobilità vitalistica, come se ogni scatto avesse la forza di muovere un’azione magica, in grado di trasformare veramente la realtà, se non quella esteriore almeno quella interiore.

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1955 - 1957, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


In questo modo l’artista cerca di rendere visibile ciò che gli si muove dentro: “Più che quello che avevo davanti agli occhi volevo rendere quello che avevo dentro di me, quello che nasceva dentro man mano che mi ambientavo dentro queste cose, questa paura di invecchiare, non di morire, per esempio, ma anche questo disgusto per il prezzo con cui viene pagata una vita” (cit. in: Arturo Carlo Quintavalle, Mario Giacomelli, Feltrinelli, Milano 1980, p. 85).

 

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1981 - 1983, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


In alcuni scatti vi sono irruzioni della vita, aperture alle pulsioni, all’amore, alla dolcezza, al contatto empatico col mondo animale. Un gattino chiaro gioca sulla coperta scura del letto, accanto a un libro, mentre l’anziana signora si guarda nel piccolo specchio; un gatto bianco salta sul pavimento dell’ospizio, quasi nel buio, accanto a una ricoverata vestita in nero, e con gli occhiali da sole; un anziano bacia la sua amata, tenendo in mano sia il suo bastone sia quello di lei:

“Come anche in questa dove si baciano, due amanti, lui le prende le mani, le fa una carezza. Nessun amore può avere più dolcezza che questo vecchio con questa vecchia.

 

Mario Giacomelli, Non fatemi domande, 1955, courtesy archivio Mario Giacomelli, Senigallia.


Io faccio queste immagini perché vorrei che gli altri, dal momento in cui le vedono, vivessero diversamente. Che la carezza che questi ancora cercano da vecchi, da giovani l'avessero saputa fare. Quanta gente vive e non sa carezzare? Quante donne muoiono senza aver mai provato l'orgasmo? Quando io mostro questi vecchi, mostro me stesso, le cose che non ho capito, che avrei voluto fare in un'altra maniera, che vorrei ricominciare. Ma l'immagine è solo una minima parte di quello che sento, ed è per questo che se ne fanno tante” (cit. in: Frank Horvat, Entre Vues, Paris 1990).

 

La mostra Mario Giacomelli. Terre scritteinaugura venerdì 21 aprile, alle ore 18,30. Complesso Monumentale di Astino, Bergamo, dal 21 aprile al 31 luglio 2017 (a cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi, catalogo Silvana Editoriale). Le immagini sono gentilmente concesse dagli Archivi Mario Giacomelli di Senigallia e di Sassoferrato, grazie a Simone Giacomelli, Rita Giacomelli e Katiuscia Biondi Giacomelli.

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Domani ad Astino inaugura la mostra a lui dedicata

Edipo nella società senza padri

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“Because family is at the heart of sings, i guess…”, poiché la famiglia è al cuore di tutte le cose, io credo, diceva il drammaturgo Martin Crimp in Attentati alla vita di lei. E in effetti, da Eschilo a Lagarce, da Shakespeare a Ravenhill, da Molière a Pirandello e a Lucia Calamaro, sembra alle volte che il teatro non abbia raccontato e messo in scena altro – altro che famiglie, immancabilmente infelici, e sordidi delitti di famiglia destinati a diventare modelli di intere fondazioni sociali. Ma che ne è della famiglia, delle sue inibizioni e dei suoi tabù, nel mondo in cui il padre reale non veste più i panni di quello simbolico e non sbarra più il passo al desiderio, ma ne è a sua volta contagiato? È quel che si chiede Oscar de Summa nel suo La cerimonia presentato sul palcoscenico del Fabbrichino di Prato nelle dimesse spoglie di un dramma di tutti e di nessuno: un tavolo e quattro personaggi in contro-luce seduti attorno a esso che del vecchio universo tragico si portano appresso dei nomi tronchi, secondo l’uso di quel pigro gergo adolescenziale che imperversa un po’ ovunque (con amo e amo’ al posto di amore), mentre, quanto a loro, sono figure perfettamente contemporanee, ombre sedate da quell’immobilità psicologica in cui la vita sentimentale della tarda modernità sembra incantata. 

 

Foto di Duccio Burberi.


Laio, il padre desiderante e inesistente, Giò (per Giocasta) la madre normativa e frustrata, che il corpo smentisce, Edi (per Edipo), la figlia adolescente in cui afasia e rivolta coincidono, e persino Tire (per Tiresia), lo zio libertario e clownesco interpretato dallo stesso De Summa sono persone senza storia, formano il tipico ritratto di famiglia in un interno a cui basterebbe la scintilla di un’assonanza per esplodere in un inferno di devastanti contraddizioni. Se solo il tempo non tornasse continuamente su sé stesso, nel circolo vizioso di un orologio dove la lancetta dei comportamenti ha ormai definitivamente rimpiazzato quella delle azioni. E sta qui la prima qualità del testo di De Summa, nel non mettere una prevedibile pistola nelle mani dell’adolescente per accelerare il suo “non-odio” verso una strage salutare e un’inesistente ora tragica – come forse farebbe e anzi ha già fatto certa drammaturgia britannica – ma nell’ambientare la sua pièce alla vigilia di una delle tante apocalissi dimenticate che hanno scandito l’ingresso nell’era della globalizzazione: il cosiddetto millennium bug della fine degli anni novanta, da cui il padre indebitato si aspetterebbe una messianica remissione dei peccati sotto forma (per altro attualissima) di implosione finanziaria.

 

La seconda qualità sta nell’avvicinare due registri inconciliabili, due scritture che si danno acrobaticamente il cambio nelle performance degli interpreti, sdoppiando il dialogo, o bombardandolo con la tempesta magnetica dei frequenti a parte: un registro colloquiale, basso, sfrontatamente attraversato dai luoghi comuni dell’immaginario che qua e là non si risparmia nemmeno un’istrionica inclinazione alla battuta ma che per questo diviene lo specchio fedele di una perversione linguistica condivisa, di tutti e di nessuno, per l’appunto; a cui d’altra parte risponde, con un’eco difforme, una poesia pericolante che sfaccettata in pietre grezze e taglienti vorrebbe forse starsene, o tornare, nella “dura luce sofoclea”, mentre rotola in un precipizio di metafore (in essa, nel suo vento straniante sempre ripreso, l’ironico De Summa nasconde e custodisce i suoi tagli letterari, la sua impossibile nostalgia del tragico, l’intonazione più lontana del suo teatro). 

 

Foto di Duccio Burberi.


È proprio la compresenza di questi due registri che riesce a creare un luogo teatrale, uno spazio di sospensione del realismo che accogliendo elementi disparati – la musica, sempre indispensabile all’autore-attore della Trilogia della provincia, la commedia cinica, la deriva melodrammatica – non viene fagocitato da nessuno di essi. La trama de La cerimonia è credibile quanto può esserlo un qualunque intreccio tragico, cioè per nulla eccezion fatta per i sentimenti, per il loro continuo riaffiorare, come un impenetrabile geroglifico, dal burning out di una comunicazione snervata tra personaggi che tutto sanno e a tutto sono pronti, fuorché a cadere in un’azione o, per dirla con Arthur Miller, a possedere un destino. È il bad dell’esperienza, il lato cattivo delle cose – e insomma il negativo – a cui lo zio fool cerca di iniziare l’amletica nipote a costituire il principale snodo poetico di una vicenda dove non è tanto la trasparenza delle relazioni a mancare, quanto l’ostacolo che le renderebbe feconde, poiché non si possono “uccidere padri” che, come il Laio interpretato da Marco Manfredi, si presentano già morti all’appuntamento con la maturità dei figli, e tanto meno vendicare o riscattare madri che, come la Giò di Vanessa Korn, oscillano nevroticamente tra la devozione della Vergine Maria e la tentazione “ellenica” di Medea. Così, in mancanza di un vero conflitto a cui appoggiarsi, la capziosa Edi, abdicando alla propria indifferenza, si inventa una sua “cerimonia” in cui intrappolare la (cattiva) coscienza dei familiari. 

 

L’unica certezza è che il crollo della civiltà patriarcale – la “scomparsa del padre” che generazioni di scrittori (due per tutti: Pasolini e Barthes) hanno lungamente evocato nelle loro opere – lascia veramente un gran caos nel simbolico. L’altra è che senza il gioco degli attori guidati da De Summa (che torna a farsi capocomico come ai tempi di Amleto a pranzo e a cena) senza la loro vitale capacità di nascondere la causa nell’effetto, dando fiato ai soliti genitori che urlano come se urlare fosse la loro lingua madre, o colorando con magistrali tocchi di sprezzo, come fa Marina Occhionero, la solita adolescente sfuggente e intrattabile davanti alla quale si ha in effetti soltanto voglia di urlare – niente di questo disordine fluirebbe sulla scena, a cominciare dalla sua triste euforia, continuamente scandita dagli interventi musicali (Skunk Anansie, Moby, Radiohead, Green Day, Massive Attack, Manu Chao, Portishead, Tori Amos). 

 

Foto di Duccio Burberi.


La cerimonia assomiglia al fantastico pranzo di famiglia ordito da Edi perché ognuno dal suo menù sontuoso – e squisitamente linguistico, non una sola portata appare in scena – può prendere quel che preferisce, anche la delusione, che non è il meno raffinato dei suoi sapori: commedia nera, agghiacciato squarcio sociologico sulle famiglie in era consumistica, satira irridente, la sua fuga dal tragico – la sua letterale degradazione – non potendo essere definita, non avendo fine (come l’elusiva apocalisse del millenium bug) si presta a molte possibili definizioni. Ma se c’è un luogo in cui prendere le misure dell’invincibile amarezza che anima la lucidità morale di De Summa, forse è più facile trovarlo tra le pagine di Michel Houellebecq che in altre drammaturgie contemporanee. 

L’interpretazione di Marina Occhionero nella parte di Edi spicca non solo per la straordinaria, sintomatica adesione all’adolescenza di cui questa giovanissima attrice dà prova, ma anche perché nel suo ritratto si rivela l’essenza di un’opera che cerca di ritrarre l’adolescenza del mondo, il farsi adolescente di una società di desideranti. “We are the children, we are the world”. Con tutto quel che ne consegue sul piano di quella che un filosofo oggi scomparso definiva con un certo sarcasmo “velocità di liberazione.”

 

La Cerimonia, testo e regia di Oscar De Summa, con Vanessa Korn, Marco Manfredi, Marina Occhionero, Oscar De Summa, una produzione del Teatro Metastasio di Prato dopo le repliche al Fabbrichino sarà in scena al Festival Primavera dei teatri di Castrovillari.

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La cerimonia di Oscar de Summa

L’ordine della follia

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«Gombrowicz è uno degli alleati più onesti che si possano avere nella vera rivoluzione contro il amore, la arte, gli immortali princìpi e tutte le fregnacce che sai», così scriveva Roberto Bazlen, il 16 dicembre del 1958, all’amico editor dell’Einaudi Luciano Foà, a proposito dell’ipotesi, da lui caldeggiata entusiasticamente, di pubblicare il primo romanzo dello scrittore polacco. La carica eversiva dei suoi straordinari libri, e in particolare di Cosmo, è talmente forte da autorizzarci a pensare che ancora oggi possano fare scandalo e aiutarci, divertendoci, ad aprire gli occhi sui nodi che aggrovigliano la nostra civiltà. 

 

«Le cose sono le cose, e l’uomo non è che l’uomo» diceva Alain Robbe‑Grillet. Così si potrebbe sintetizzare il senso del romanzo filosoficamente più ambizioso di Witold Gombrowicz. Il critico Kot Jeleński, nel 1965, definì Cosmo: «Uno dei libri contemporanei più sensazionali e profondi. […] È la trasposizione artistica del problema del determinismo, delle fluttuazioni di tutta la scienza contemporanea. Ed è anche una delle prime incursioni in un regno trascurato da Freud: l’inconscio fisico. La parte che è legata al funzionamento dell’intero corpo in qualsiasi attività umana…».

Non è facile dire di cosa parli Cosmo. Ma è sempre interessante, anche se può risultare un po’ fuorviante, farsi raccontare da un autore la trama del proprio romanzo: 

Cosmoè la semplice relazione di un semplice studente che racconta le proprie avventure. Lo studente prende alloggio in una pensione dove conosce due donne: la bocca dell’una è deformata da un incidente automobilistico, quella dell’altra è bella, e queste due bocche si associano tra loro fino a diventare un’ossessione. Lo studente ha anche visto un passero impiccato a un fil di ferro e un bastoncino appeso a un filo… e tutto questo, un po’ per noia, un po’ per curiosità, un po’ per amore, un po’ per passione violenta, comincia a trascinarlo verso una certa azione… alla quale, non senza un certo scetticismo, si lascia andare. […] Cosmo ci fa entrare per vie ordinarie in un mondo straordinario, anzi dietro le quinte del mondo.

 

Con ironia e falsa modestia, Gombrowicz, che in genere era sfrontatamente autocelebrativo, sembra qui voler mantenere un basso profilo descrittivo, temendo forse di guastare la lettura e la comprensione di un’opera anche troppo complessa. Egli però ci fornisce una chiave interpretativa della quale sarà bene tenere conto: la noia associata all’erotismo deviato è la molla che fa scattare le nostre azioni, nonché il nostro linguaggio. 

I protagonisti, almeno nella prima parte, sono appunto due: lo studente‑io narrante Witold e il suo amico Fuks (il cui nome è, allo stesso tempo, un’allusione al color fulvo dei suoi capelli e al fatto che fuks si dice in polacco di un novizio, un praticante d’ufficio e di bottega: e lui, infatti, parla ossessivamente di questo suo lavoro, e delle continue vessazioni che crede di subire dal suo superiore Drozdowski). Sono due voyeur e onanisti per solitudine e noia, ma anche per ribellione. Per lo stesso motivo sono maniacali osservatori degli oggetti, dei gesti e dei segni della fibrillante realtà che li circonda. 

 

Cosmoè una sorta di romanzo filosofico‑poliziesco sulla formazione della realtà. Witold e Fuks giocano a fare gli investigatori. Mettono assieme cocciutamente vari indizi (e infatti la prima traduzione tedesca del romanzo si intitolò appunto Indizien). Considerare un oggetto «indizio» è dargli un senso, il che porta a chiedersi perché proprio esso abbia colpito il nostro sguardo. Witold e il suo compare – come il famoso detective creato da Conan Doyle –, per dirla con Carlo Ginzburg, «morelleggiano»: al pari del dottore, e poi storico dell’arte, Giovanni Morelli (1816‑1891) – che, nel campo delle attribuzioni artistiche, si basava su alcuni particolari apparentemente insignificanti che ricorrono in ciascun pittore, e che possono sfuggire all’eventuale falsario (le dita, alcuni elementi del paesaggio ecc.) – essi cercano di mettere assieme le tracce che sono balzate ai loro occhi e che gli altri non vedono. Witold e Fuks si comportano come Sherlok Holmes, scambiandosi a vicenda il ruolo dello scettico Watson. Il procedimento del detective è per Gombrowicz un po’ il simbolo di ciò che ciascun individuo fa continuamente, nell’atto conoscitivo, riguardo alla realtà. I protagonisti del romanzo interpretano la realtà usando gli scarti e i dati marginali, considerati come rivelatori. Gombrowicz aveva scoperto che in Sherlock Holmes c’era qualcosa che andava al di là del semplice lavoro dell’investigatore. Il Witold protagonista di Ferdydurke (Witold è il protagonista‑io narrante di Ferdydurke, Pornografia e Cosmo) aveva avvertito nell’aria «un non so qual sherlockholmismo, un’atmosfera da detective privato aleggiava nelle stanze vuote…».

 

«Che cos’è un romanzo giallo? Un tentativo di organizzare il caos. Per questo il mio Cosmo, che mi piace chiamare un “un romanzo sulla formazione della realtà” sarà una specie di racconto giallo», scriveva Gombrowicz nell’introduzione alla prima edizione italiana (1966), citando un brano del suo Diario (1953‑1969) datato 1962. Ogni detective letterario, sostiene Edoardo Rialti, unisce in sé il guerriero e il filosofo: «Come Achille, spesso deve tuffarsi tra i gorghi della violenza fisica e, al tempo stesso, ogni suo gesto, ogni suo sguardo esprime una determinata visione del mondo, la vera lente d’ingrandimento con cui studia la scena del crimine. Del resto, l’espressione socratica “sediamoci e osserviamo bene” potrebbe essere stata pronunciata in Baker Street o nella serra di Nero Wolfe». Ma in Cosmo non ci sono più né guerrieri né pignoli detective‑filosofi: il nostro mondo non ne produce di credibili, ma dilagano i matti all’apparenza normali che non sono capaci di osservare bene, e la filosofia è ormai una parodia. L’investigazione porta alla pazzia. L’Ordine (il Cosmo) è la follia, e la morte.

Il «poliziesco» di Gombrowicz, prima ancora che nei suoi precedenti romanzi – assai simili nei meccanismi (due giovani che si annoiano in vacanza e si mettono a investigare…) –, Gli indemoniati (1939) e Pornografia (1960), ha il suo prototipo nell’assurdo racconto «Un delitto premeditato» (1933), che fa parte della raccolta di racconti Bacacay (1957), nel quale indizi, particolari infinitesimali, balordaggine e idiozia creano e plasmano un assassino, mostrandoci la concezione che Gombrowicz aveva sin da giovane del rapporto assurdo dei soggetti verso gli oggetti della realtà, ma anche il loro folle ruolo ordinatore.

 

Il tentativo ossessivo di ordinare il caos è ingenerato dalla noia. La scintilla che alimenta l’incendio di questa arzigogolata storia è infatti la noia che fa brillare, da dietro le quinte della nostra esistenza, la Metafisica. Gombrowicz, avendo spesso sofferta la noia sulla propria pelle, era convinto che fosse proprio essa a spingere l’uomo a scrivere e a produrre nel suo cervello «strane» fantasie: «La mattina mi alzo, prendo il caffè, e disperato di noia mi siedo alla scrivania e mi metto a scrivere e continuo, continuo […]. La noia ha poteri ancora più occulti della paura! Quando ti annoi, Dio solo sa che cosa sei capace di immaginare!». 

In Cosmo abbiamo a che fare con la noia tipica dei luoghi di villeggiatura di montagna (Zakopane è una nota località sciistico‑alpinistica polacca sui Monti Tatra), ma anche con uno stato d’animo simile a quello espresso da Rainer Maria Rilke, quando sosteneva l’evidenza mortale che il nostro dominio sul mondo è imperfetto, e che se non è garantito da nessuna eternità, da nessuna stabilità e durata, si traduce in noia universale. Ciò che mette in azione i protagonisti del romanzo è una violenta tensione all’eternità, il desiderio di imporre una forma e un ordine al caos delle cose. Il sesso è l’espressione del loro isolamento, della frustrazione e dell’incapacità di comunicare, ma anche ciò che abbatte le barriere interumane. 

 

Ogni essere umano, dal momento in cui raggiunge una coscienza di sé, cerca di mettere ordine (Cosmos) nel disordine (Caos) che gli sta attorno: cerca di trovare un suo bandolo della matassa aggrovigliata dell’infinità di sensazioni che ogni giorno lo investono. Il passaggio dal Caos al Cosmos, dagli oggetti confusi a un ordine soggettivo, è insito nella nostra stessa natura: «Noi, nati dal caos non possiamo entrarci in contatto, e non facciamo in tempo a vederlo che subito, sotto gli occhi ci spuntano ordine… e forma…» (p. 35). Ogni individuo «crea» la realtà, formandola. E altrettanto fanno lo scrittore, il filosofo o lo scienziato. Il romanzo, ad esempio, è di per sé una realtà: una messa in ordine di tanti elementi selezionati. Ma questo ordine che viene dato alla realtà è qualcosa di molto personale, isolato, privato. L’ordine imposto dall’uomo al mondo è, secondo Gombrowicz, follemente soggettivo. Il simbolo di questo soggettivismo conoscitivo è Don Chisciotte. Infatti il cavaliere della Mancia dimostra che non esiste più (se è mai esistito) il Mondo come pietra di paragone per distinguere realtà e follia, sogno e veglia. I mondi sono ormai infiniti quanti sono i soggetti che li pensano. Don Chisciotte è un esempio di soggettivismo conoscitivo portato alle estreme conseguenze: tutta la realtà si deve piegare al suo ritorno/rifugio nell’epoca degli eroici cavalieri. Don Chisciotte, dice provocatoriamente Gombrowicz, «anticipa Kant: qualcosa deve pur esistere nella realtà, se il suo cervello l’ha prodotta».

 

 

Gombrowicz era convinto che il nostro intelletto crei la realtà come uno specchio: «Sin dall’inizio tutto era stato infatti mio, mentre io, io ero come tutto il resto: tutto il mondo esteriore non è che uno specchio nel quale si riflette il mondo interiore». Proprio quello che aveva sostenuto Francis Bacon, a proposito degli «idoli della tribù» (Novum Organum, 1620): «L’intelletto umano è come uno specchio ineguale rispetto ai raggi delle cose; esso mescola la propria natura con quella delle cose, che deforma e trasfigura. […] Esso è spinto dalla sua stessa struttura a supporre nelle cose un ordine maggiore di quello che effettivamente vi si trova, si finge parallelismi, corrispondenze e relazioni che in realtà non esistono». Questo è proprio ciò che accade in Cosmo.

 

La Forma è opposta al Caos, come la Superiorità è opposta all’Inferiorità. Gombrowicz mostra che lottiamo incessantemente per la Forma e la Superiorità, ma siamo attratti costantemente dal Caos e dall’Inferiorità, perché ci sembra che in essi possiamo essere più liberi. In realtà l’unica possibile, seppur parziale, libertà risiede nella creatività artistica. L’artista, seppur impossibilitato a sfuggire alla Forma o a raggiungere la Forma perfetta, può almeno sentirsi libero di «giocare» con lei. Può rendere «visibili», invece di occultarle, sia la maturità della convenzione artistica sia la propria immaturità e così, stabilendo una salutare distanza da entrambe, liberarsi in una certa misura dalla loro oppressione. L’Arte è, per Gombrowicz, l’unico mezzo che gli uomini hanno nel caos dell’Esistenza per far valere un po’ la propria forma.

 

Al tema della Forma è strettamente legato quello del rapporto soggetto/oggetto. Gombrowicz, come i personaggi delle sue storie, poteva impazzire se i suoi occhi si fissavano su un oggetto, o la sua mente su un pensiero. Questa ossessione la si vede soprattutto in Cosmo, che parla del crearsi della storia, del crearsi stesso della realtà, di come essa nasca, goffamente e maldestramente, dalle nostre associazioni: «Com’è possibile che questo formarsi non produca stonature, resistenze, falsità e che questa costruzione sbilenca non sprofondi continuamente nel caos? Cosmoè un romanzo che si crea da solo, nell’atto stesso di scriversi». Si potrebbe aggiungere: «e mentre il lettore lo legge». Infatti, come in tutti i polizieschi che si rispettino, il lettore viene chiamato, procedendo nella lettura dell’«indagine», a rimettere in ordine le cose fino alla soluzione del caso. A Gombrowicz in effetti il romanzo esplose tra le mani, tanto che alla fine non era in grado di terminarlo: la storia, con l’ingresso preponderante di Leon Wojtys, precipita completamente nell’insensatezza; invece di avviarci verso una soluzione (l’ordine dei fatti che si ricompone razionalmente), la vicenda si ingarbuglia e la follia e il caos dilagano tra le pagine. Per questo Gombrowicz fu costretto a troncare bruscamente la storia con un’annotazione apparentemente banale di carattere culinario: «E oggi a pranzo pollo lesso» (la moglie, Rita Labrousse, raccontò che a Vance, nel 1964, mentre Gombrowicz si tormentava su come chiudere il romanzo, lo «salvò» chiamandolo a pranzo e dicendogli che c’era il pollo in fricassea…).

 

L’altro aspetto, legato all’ossessione per gli oggetti di Gombrowicz, è la carica erotica che in essi è racchiusa. Si tratta di un erotismo visivo e immaginativo, che definisce e determina la realtà. La fissazione per gli oggetti diventa un sostituto del sesso. Le bocche, le dita, i «rumorini» sono tutti elementi ai quali Witold e gli altri personaggi di Cosmo dedicano un’attenzione spasmodica. C’è qualcosa di «perverso» nel loro rapporto con gli oggetti e i particolari anatomici: qualcosa che si ritrova anche nel cinema di Luis Buñuel e in particolare in Tristana (1970), tratto dall’omonimo romanzo di Benito Pérez Galdós (1892), dove i vari personaggi si concentrano sugli oggetti, costruendo un castello di allusioni che non fanno che aumentare la loro eccitazione. Quest’erotismo degli oggetti ha anche un significato «sostitutivo». La fuga nei «piacerini» di Leon è infatti una miniaturizzazione e interiorizzazione della voluttà. L’erotismo dei personaggi di Gombrowicz non è mai diretto, è sempre allusivo, proprio perché è deviato sugli oggetti. Anch’esso è stravolto dalla fantasia, dalla tendenza degli uomini a giocare con la realtà e a essere giocati da essa. L’Eros, per Gombrowicz, ha però un significato molto positivo quando è richiamo alla corporeità, alle ragioni della natura umana in opposizione ai dettami della morale. È questo il perno del particolare «materialismo» di Gombrowicz. Le ragioni del corpo costituiscono la verità contro l’ipocrisia di tutte le forme di pensiero che nascondono la vera natura degli uomini: «Non credo nella filosofia non erotica. Non ho fiducia nel pensiero che si libera dal sesso.

 

È difficile, naturalmente, immaginare che la Logica di Hegel o la Critica della ragion pura fossero concepite senza aver prima abbandonato il corpo. Tuttavia, la coscienza pura, non appena realizzata, deve essere nuovamente immersa nel corpo, nel sesso, nell’Eros, l’artista deve immergere il filosofo nel fascino». Questo aspetto di ossessione erotica investigativa, centrale in Cosmo, è stato esaltato dal regista e scrittore polacco, a lui assai affine, Andrzej Żuławski, nel suo film Cosmos (2015), terminato poco prima di morire: «Questo mio tentativo segue le orme del fitto intrigo sessuale del romanzo di Gombrowicz, il quale si dipana a porte chiuse, perverso e a tratti faceto, acuto e allo stesso tempo brutale, inquietante e potrei anche azzardare hitchcockiano. Il cuore umano è oscuro, anela alla luce; ma riesce a raggiungerla?».

La massima espressione di questo erotismo deviato è nella lingua del romanzo, nell’invenzione di una comunicazione allusiva tramite la sola parola berg, apparentemente senza senso, proferita ossessivamente da Leon Wojtys, «padre di famiglia esemplare, incensurato, una vita passata a sgobbare, a guadagnare, giornuccio dopo giornuccio, domeniche eccettuate, dalla casuzza mia alla bancuzza e dalla bancuzza alla casuzza mia […] che in trentasette anni di vita coniugale la mia metà non l’ho neanche una volta, con nessun’altra… hm, hm… tradita» (p. 159). 

 

Con l’inizio del capitolo ottavo (p. 147), e il venire in primo piano di Leon, il romanzo cambia passo e precipita in una spirale di ancora più delirante follia: il protagonista Witold e l’anziano Leon trovano in quella parola berg, senza significato ma ricca di una miriade di deliranti sensi, la possibilità di una «collaborazione» e comunicazione. Il berg dell’uno è assai diverso dal berg come lo usa e lo intende l’altro. Eppure Witold e Leo sembrano capirsi e trovare un’intesa. 

Che cos’è il berg? Gombrowicz non lo spiega mai. Anche nelle interviste ha sempre evitato di toccare questo argomento. In Cosmo c’è soltanto questa annotazione: 

«Berg!»

«Cosa Berg?»

«Berg!»

«Ah già, aveva accennato a due ebrei… a una barzelletta sugli ebrei.»

«Macché barzelletta sugli ebrei! Bergamento col berg nel berg – capisce? – Bembergamento col bemberg… Tirirì» (pp. 156‑157).

Si allude forse a un fonema yiddish. Ma la spiegazione più probabile dell’origine di questa parola va ricercata negli strani scherzi linguistici, del resto ben rappresentati nel romanzo sull’immaturità, Ferdydurke, che si facevano gli studenti del liceo più esclusivo di Varsavia, il San Stanislao Kostka, del quale Gombrowicz fu infelice studente dal 1916 al 1919, baloccandosi con il nome della via dove si trovava la scuola: Ulica Hr. Berg (oggi Ulica Traugutta). Ma non si deve dimenticare, data l’ambientazione del romanzo, che berg in tedesco significa «montagna».

 

La paroletta berg funziona in Cosmo come un affascinante mezzo di fuga dalla realtà e, allo stesso tempo, un potente strumento di autoaffermazione sessuale. Leon è un farneticante e satanico celebratore dell’onanismo. Si «onanizza mangiando» e più ancora si «onanizza parlando», pronunciando quel suo berg, simile a un rutto o a un grugnito. Il berg allora è, per Leon che lo lancia, l’espressione e la realizzazione sonora del «sestessismo». Quella filosofia della vita basata sul principio così espresso: 

Chi non ha quello che ama

ami pure quel che ha! (pp. 165, 167 e 196).

Leon chiarisce la sua idea della vita in modo semplicemente disarmante: 

Cosa stai a cercare le mani altrui quando ne hai due tutte tue? Lei non ci crederà, ma con un certo allenamento si arriva a far sì, per esempio, che una mano palpi l’altra sotto il tavolo senza che nessuno ti veda, toccarsi non è certo proibito e non solo con le mani, ma anche con le cosce, o con il dito nell’orecchio (p. 165).

 

Cosmo, con la sua ultima parte dove trionfa l’insensato berg ossessivo, rappresenta una personalissima versione argentino‑polacca della «fine del romanzo» e anche lo smascheramento della «fine della morale». Gombrowicz era molto critico verso la moda letteraria del nouveau roman e Alain Robbe‑Grillet, ma indubbiamente fece sue certe tecniche che a parole respingeva. E infatti il romanzo fu assai apprezzato dai critici più all’avanguardia. In Italia si guadagnò entusiastiche recensioni, oltre che da Enrico Filippini ed Edoardo Sanguineti, da Luigi Baldacci, Giuliano Gramigna, Renato Barilli, Alberto Arbasino e la copertina di Cosmo apparve persino tra le mani del compagno di Valentina in un fumetto di Guido Crepax. 

Come tutti i grandi capolavori, il romanzo di Gombrowicz ha moltissime facce e contemporaneamente vari registri. Essendo la sua ultima opera letteraria costituisce senz’altro una sorta di testamento letterario e filosofico. Se infatti lo scrittore polacco avesse potuto vivere più a lungo, e ne avesse avuto le forze, avrebbe messo mano ad un romanzo sul Dolore. Cosmoè l’anticipazione di quello che avrebbe voluto ancora dire e che si stava chiarendo. A Piero Sanavio, pochi mesi prima di morire, confessò: 

Mi pare che questa volta scriverò sul problema del dolore. Mi sembra che tutta la dialettica intellettuale del nostro tempo sia viziata dal fatto che nessuno si rende più conto dell’importanza del dolore. Il dolore come fatto fondamentale, di base […]. Il vero realismo davanti alla vita è sapere che la cosa concreta, la vera realtà, è il dolore. […] Io vedo l’universo come un’entità completamente nera e vuota, dove la sola cosa reale è quella che fa male: appunto il dolore. Il vero diavolo è questo, il resto sono declamazioni.

Forse, al di là degli aspetti divertenti, surreali e polizieschi, e dei riusciti sperimentalismi linguistici, Cosmoè veramente l’inizio di un profondo discorso sul dolore esistenziale.

 

Del resto, proprio Gombrowicz lo aveva detto: «Cosmo per me è nero, sostanzialmente nero: come una buia corrente turbinosa piena di gorghi, arresti, ristagni; un’acqua nera che trasporta migliaia di rifiuti e l’uomo la fissa rapito cercando di decifrare, capire, collegare in un tutto unico… Il nero, la minaccia e la notte. Una notte intessuta di una passione violenta, di un amore contaminato».

 

Nota bibliografica

La lettera di R. Bazlen, «Lettera editoriale: Gombrowicz‑Ferdydurke», si legge Scritti, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, Milano 1984; il testo di K. Jeleński, «Lettera a Gombrowicz» (19 giugno 1965), è in AA. VV., Witold Gombrowicz vingt ans après, Christian Bourgois, Paris 1989; per le opere di W. Gombrowicz citate si veda: Testamento (1969), Feltrinelli, Milano 2004; Ferdydurke (1937), Feltrinelli, Milano 1991; Indizien, a cura di Walter Tiel, è pubblicata da V.G.N., Pfullingen 1966; l’edizione tedesca successiva, a cura di Olaf Kühl, è stata intitolata invece Kosmos (Carl Hanser Verlag, München 1985); «Pagine del mio diario nelle quali si parla di Cosmo», si leggono in, Cosmo, trad. it. di Riccardo Landau, Feltrinelli, Milano 1966, poi in Cosmo, trad. it. di Francesco M. Cataluccio e Donatella Tozzetti, Feltrinelli, Milano 1990, a quest’ultima edizione si rimanda per l’Apparato critico che contiene: il racconto‑reportage «Le disavventure di Zakopane»; «Inizio di un romanzo ancora in lavorazione» e «Pagine del mio diario nelle quali si parla di Cosmo»; Diario, vol. i (1953‑1958); vol. ii (1959‑1969), Feltrinelli, Milano 2004 e 2009; (Z. Niewieski), Gli indemoniati (1939, ma pubblicato in volume soltanto nel 1973), Bompiani, Milano 1991; Pornografia (1960), Feltrinelli, Milano 1994; «Un delitto premeditato» (1933), si legge in Bacacay (1957), Feltrinelli, Milano 2004, la maggior parte di quei racconti erano già stati pubblicati nel 1933, col titolo: «Ricordi del periodo della maturazione»; «Attualità di Don Chisciotte» (1935), a cura di F.M. Cataluccio, in In forma di parole, n. 1, Reggio Emilia 1984; «Cose accadute sul brigantino Banbury» (1933) in Bacacay. Si cita anche da: C. Ginzburg, «Spie. Radici di un paradigma indiziario» (1979), in Id., Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 1986; E. Rialti, «Il detective, guerriero e filosofo che si allena alla morte», in Il Foglio, 11 febbraio 2017. P. Sanavio, Gombrowicz: la forma e il rito, Marsilio, Padova 1974; F. Rella, Il silenzio e le parole, Feltrinelli, Milano 1981; R. Labrousse Gombrowicz, «A Vance», in Witold Gombrowicz, a cura di Francesco M. Cataluccio, “Riga”, Marcos y Marcos, Milano 1994; C. Segre, «Caos e cosmo in Gombrowicz», in Id., I segni e la critica, Einaudi, Torino 1969, p. 249. La citazione riportata nella Nota finale di Cosmoè firmata E.F. (Enrico Filippini), che collaborava con la casa editrice Feltrinelli e visitò Gombrowicz a Vance nella primavera del 1965, assieme a Edoardo Sanguineti; nel 1966 con Giangiacomo Feltrinelli, e poi ancora nel 1967. Cosmos, regia e sceneggiatura di A. Żuławski, Francia‑Portogallo 2015 (dvd: Alfama Films, France 2016). Oltre alle testimonianze di alcuni studenti di allora, si veda: A. Kowalska, Conrad i Gombrowicz w walce o swoją wybitność (Conrad e Gombrowicz in lotta per la propria eccellenza), P.I.W., Warszawa 1986. G. Gasyna, «Rituals at the Limits of Literature: A New Reading of Witold Gombrowicz’s Cosmos», in The Sarmatian Review, September 2007. Per le recensioni italiane: L. Baldacci, «L’uomo di Gombrowicz alla ricerca di una realtà perduta», in Epoca, 25 dicembre 1966; G. Gramigna, «Un dito in bocca all’impiccato», in Fiera letteraria, 3 novembre 1967; R. Barilli, «Un polacco: Gombrowicz», in Corriere della Sera, 15 gennaio 1967; A. Arbasino, «Metamorfosi della pornografia», in Tempo presente, gennaio 1967.

G. Crepax cita Cosmo in «Valentina, la Marianna la va in campagna», compreso in Valentina speciale, Milano Libri, Milano 1969.

 

Questo testo è la Postfazione alla nuova edizione di Witold Gombrowicz, Cosmo, a cura di Francesco M. Cataluccio, trad. it. Vera Verdiani, Il Saggiatore, 2017, p. 240, 24 euro.

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Esce oggi la nuova edizione di Witold Gombrowicz, Cosmo

Plural Biography. Virginia Ryan 2000–2016

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Italian Version

 

If the world was not created to end up in an exhibition, we can turn to an exhibition to understand more about the world: it is not about looking at art, but looking through art.

This was the aim of a curatorial project presented at Palazzo Lucarini, focusing on the works by Virginia Ryan, an artist who spent the years from 2000 to 2015 between Ghana and Ivory Coast. Fifteen years are a considerable amount of time in a person’s life. Virginia Ryan is neither a globetrotting artist focusing on short-lived site-specific projects, nor an artist rooted in one single place. She describes herself as a “reluctant nomad.”

 

An Australian of Irish descent, she spent part of her life in Scotland, got married in Italy and moved with her ambassador husband to Egypt, Yugoslavia and Brazil, and then to Ghana and Ivory Coast. Her life is a never-ending journey, a life spent in travel.

Her singular but not single-faceted existence can be regarded as a cultural biography that symbolically evokes and reflects the diasporic nature of our present lives. It is a plural biography, one and multiple at the same time, intersecting the lives of others.

Her art derives from an existential search, which allows her to escape decorative formalism and conceptual abstraction. It is a way to bring order into her life, to keep it together and move on, with no feeling of longing for the past. Her artistic view of the world enables her to orientate, draw maps, and make sense of reality. Her art can therefore be seen as a visual diary that collects evidence of her passage. It shapes her existence, acting as an anchor to a nomadic life that constantly forces her to move on and start over.

 

Ph: Virginia Ryan, Installation view, Palazzo Lucarini 2017, courtesy of the artist.

 

Her penchant for assemblage and photomontage, for found objects, for perishable and recycled materials, opens up a dialogue with the history of art, but arises from a personal need, from her experiences in Africa. Faced with the wounds and transience of life, with the passing of time that encompasses and erases everything, Virginia Ryan gives life to meticulous assemblages of materials, patchworks where stitch marks are not concealed: an art of memory that alters its object by ripping or erasing it.

This is clearly shown by the titles of her works of art, such as Landing to Accra (2002), Exposures (2001-2005), Castaway (2003-2008), and Topographies of the Dark (2007-2008), all inspired by a sense of uncertainty and displacement that she felt in facing cultural diversity and social inequality, running the risk of losing her own identity while being determined to rediscover herself, to move the line between “familiar” and “alien” a little bit further.

In her bricolage works, she brings together multiple layers of sense, highlighting points of contact and contrast between different forms of life. So it happens that the ocean motif, which appears in most of her works, simultaneously reminds us of the relaxing beach holidays of Westerners and local middle classes, the issues of human trafficking and oil pollution, and the world of the dead evoked by the people from the Gulf of Guinea.

 

Ph: Virginia Ryan, Goldfield, Kumasi 2002, courtesy of the artist.

 

Virginia Ryan’s experience of Africa does not come from the fringes, but from the elitist world of Western expatriates. However, she does not confine herself to it, but presents herself openly, with no disguises, reflecting on her own identity and focusing on the social relations that shape her own perceptions. She tries to free herself from the identities assigned to her, moving from one to another so as to have more room for action. She brings out her Australian origins to escape her role as the Italian ambassador’s wife; goes back to her Irish descent to support colonized peoples; and asserts her feminist identity in a male-dominated world.

 

In this regard, Exposures: A White Woman in West Africa is a very significant work. Photographed by friends, workers, and passers-by, Virginia is portrayed in her everyday activities in Accra. We see her getting her hair done and having a massage, entertaining guests at parties and events, participating in a TV show, shopping at a supermarket, or in hospital with malaria. “Is that everybody’s dream of Africa?” – she writes in the catalogue – but this is actually the life of many Westerners in Africa.

In the pictures, she looks like a royal beauty, always smiling and well dressed: a blond white woman surrounded by black people. In this semi-ethnographic account of “white tribes”, what appears as everyday life is actually presented in a different light, one that highlights colour, producing a disturbing effect on the viewer.

 

Ph: Virginia Ryan, Detail, 'I Will Shield You' series 2016, courtesy of the artist.

 

What is most upsetting in these photographs is the portrayal of the exclusion mechanisms inherent in our ordinary lives, the presence of our colonial heritage in the everyday relationships between white and black people. Virginia’s image becomes a disruptive element because in these pictures white people lose the “privilege of invisibility,” as anthropologist Steven Feld describes it; a privilege that is only granted to those in hegemonic positions, for whom skin colour is not an issue.

Overexposed to the black people’s gaze, Virginia experiences her own vulnerability: “I have been told that the Ghanaian twin word for whites, obroni, actually means not pale-skin, but ‘without skin’ – or at least that this is one of the possible meanings. It shocked me when I heard that. Can that be true? Is that how I look? Like some sort of skinned, peeled, ghost-like apparition, whilst they look so round and succulent?” What emerges here is not so much the representation of racial discrimination as the act of resistance performed by an independent mind.

 

Ph: Virginia Ryan, The Rue Du Commerce, 2013, courtesy of lettera27 art collection.

 


Virginia Ryan’s gaze, like our own, is not free from ethnocentric assumptions, but does not indulges inthe exotic stereotypes she inherited from her culture. In her works, she captures a contemporary, post-nostalgic, urban Africa, where exoticism is only present in the form of irony. The fact that she is a woman also plays a relevant role.It is actually in a Western male imagery that Africa isseen with lustful eyes, as a virgin land to be discovered and conquered.

 

Virginia Ryan is far from this rhetoric of discovery and conquest, as if nobody had never been to Africa before, or Africans had not already produced their forms of knowledge and self-representation. Her creations are a‘re-mediation’ of cultural artefacts through which local reality is experienced: works of art, media, advertising, and mass culture. Her access to reality is filtered by images produced or disseminated locally; her artistic work is embedded in cultural forms created by others. The result is a series of collage works based on old posters from a film theatre in Grand Bassam, Ivory Coast (L’Histoire Sans Fin, 2014); long rolls of cloth with printed portraits taken from Ivorian photo archives due for destruction (….); sculptural paintings created by assembling objects found by the seaside, material remains of past lives (Castaway, 2003-2008); or painted pictures of large advertising billboards populating the streets of Abidjan (Selling Dreams, 2012-2014).

 

Ph: Virginia Ryan, Found photographs from Grand Bassam, installation Spoleto, courtesy of the artist.

 

Her “intermedia” art comes from the objects and images that weave the fabric of reality. Here, the line between reality and imagination, between what is ours and another’s, between individual and collective, becomes blurry but is still visible. While this artistic re-mediation process weakens the relation with the starting context, it does not erase the communicative intention of the original artefact. So it happens that Virginia Ryan’s works make us feel not only observers but also observed, enabling us to look at art but also through art.

 

Translation by Laura Giacalone.

 

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Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi, Italy (March 4 – April 25)

Biografia plurale. Virginia Ryan 2000–2016

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English Version

 

Se il mondo non è stato creato per finire in una mostra, possiamo però tentare di partire da una mostra per capire qualcosa di più del mondo: si tratta non solo di guardare all’arte, ma di guardare attraverso l’arte.

Questa è stata l’ambizione del progetto curatoriale che a Palazzo Lucarini espone l’opera di Virginia Ryan, artista che dal 2000 al 2015 ha vissuto fra Ghana e Costa d’Avorio. Quindici anni sono un periodo considerevole nella vita di una persona; Virginia non è l’artista globetrotter che fa progetti site-specific mordi e fuggi, ma non è neppure un’artista stanziale, che mette radici in un luogo: come lei stessa dice, la sua è la vita di una “nomade riluttante”.

 

Australiana di origine irlandese, Virginia ha vissuto in Scozia, si è sposata in Italia e si è trasferita poi – con il marito ambasciatore – in Egitto, Iugoslavia e Brasile, per arrivare infine in Ghana e Costa d’Avorio: il suo è un viaggio che dura una vita, un soggiornare nel viaggio.

Esistenza singolare, ma non unica, la vita di Virginia può essere vista come una biografia culturale che incrocia e condensa, con la forza simbolica della sua opera, il carattere diasporico dell’esistere contemporaneo. Proprio per questo, la sua è una biografia plurale: una e molteplice, interseca le vite degli altri.

L’arte di Virginia Ryan nasce da un’urgenza esistenziale, che le consente di sfuggire sia al formalismo decorativo che all’astrazione concettuale: è lo strumento con cui cerca di fare ordine nella propria vita, di tenerla insieme per andare avanti, senza nessuna nostalgia delle origini. La sua percezione artistica del mondo le consente di orientarsi, fare senso, mappare la realtà. La sua opera traccia un diario visuale che produce prove del proprio passaggio e ne serba memoria: dà forma alla sua esistenza, offrendo dei punti di ancoraggio a una vita di spostamenti che le impongono di ricominciare sempre da capo.

 

Ph: Virginia Ryan, Installation view, Palazzo Lucarini 2017, courtesy of the artist.

 

La sua predilezione per gli assemblaggi e i fotomontaggi, per gli objet trouvé e i materiali deperibili e riciclati, dialoga con la storia dell’arte, ma muove da un’esigenza interiore e dalle esperienze del suo periodo africano. Davanti alla fragilità della vita, alle lacerazioni che attraversano la realtà, al tempo che tutto inghiotte e cancella, il lavoro di Virginia Ryan prende la forma della raccolta paziente, della ricucitura che non nasconde le cicatrici, di un’arte della memoria che altera, con strappi e cancellature, ciò che vuol salvare.

I titoli di molte sue opere lo enunciano con chiarezza: Landing to Accra (2002), Exposure (2001-2005), Castaway (2003-2008), Topographies of the Dark (2007-2008) muovono dal senso di precarietà e spaesamento di chi deve confrontarsi quotidianamente con la diversità culturale e la disuguaglianza sociale, con il rischio di perdersi e la volontà di ritrovarsi, cercando di spostare sempre un po’ più in là il confine fra il familiare e l’estraneo.

In questo lavoro di bricolage si compongono così ogni volta spazi stratificati di senso, zone di contatto e frizione fra forme di vita diverse. Così accade ad esempio nel frequente richiamo all’oceano che percorre le sue opere, dove si sovrappongono il relax balneare degli occidentali e della borghesia locale, la memoria della tratta, l’inquinamento petrolifero e il mondo dei morti dei popoli del Golfo di Guinea.

 

Ph: Virginia Ryan, Goldfield, Kumasi 2002, courtesy of the artist.

 

Virginia Ryan non muove i suoi passi in Africa dai margini, ma dal mondo elitario degli expat occidentali. Lì però Virginia non si ferma, né si nasconde: si dichiara apertamente e, nell’esporsi senza mascheramenti, lavora riflessivamente su sé stessa, dentro la rete delle relazioni sociali che imbrigliano il suo sguardo. Cerca di smarcarsi dalle identità che le vengono assegnate, muovendosi dall’una all’altra per guadagnare uno spazio di manovra: fa valere la propria origine australiana per sottrarsi all’ufficialità del suo ruolo di moglie dell’ambasciatore italiano, riprende le sue ascendenze irlandesi per porsi dal lato dei popoli colonizzati, negozia, in un mondo molto maschile, la sua identità femminista.

 

Exposure. A white woman in West Africa, è da questo punto di vista un’opera molto significativa. Fotografata da amici, dipendenti e passanti, Virginia appare nelle sue attività quotidiane ad Accra. La vediamo dal parrucchiere e dal massaggiatore, intrattenere gli ospiti a feste e ricevimenti, partecipare a una trasmissione televisiva, fare la spesa al supermarket o in ospedale con la malaria. “Is that everybody’s dream of Africa? … Non sembra un’Africa da sogno?” – scrive nel catalogo – ma è in realtà la vita di molti occidentali in Africa.

Gli scatti la ritraggono regale, curata e sorridente: bionda e bianchissima con tanti neri intorno. Niente di più o di diverso dalla banale quotidianità (un reportage quasi-etnografico sulle “tribù dei bianchi”) ma restituita sotto una luce diversa, quella che illumina il colore, attraverso l’introduzione di uno scarto minimo che mette in tensione chi guarda, generando un effetto perturbante.

 

Ph: Virginia Ryan, Detail, 'I Will Shield You' series 2016, courtesy of the artist.

 

Quel che ci turba nelle fotografie di Virginia Ryan è l’immagine urtante della nostra normalità escludente: l’eredità coloniale che ancora cova nelle pieghe del quotidiano rapporto tra bianchi e neri.

Se la visibilità di Virginia diventa imbarazzante è perché in queste foto i bianchi perdono quel “privilegio dell’invisibilità” – come dice l’antropologo Steven Feld – di cui gode chi occupa una posizione egemonica e non è costantemente rimandato al colore della propria pelle come a un problema.

Sovraesposta sotto lo sguardo dei neri, Virginia fa l’esperienza della propria vulnerabilità: “I have been told that the Ghanian twi word for Whites, Obroni, actually means not pale-skin, but ‘without skin’ – or at least that this is one of the possible meanings. It shocked me when I heard that. Can that be true? Is that how I look? Like some sort of skinned, peeled, ghost-like apparition, whilst they look so round and succulent?”. Quello che qui appare, non è tanto l’altro vittimizzato dalla discriminazione razziale, ma quello che le resiste, che afferma l’autonomia del proprio sguardo.

 

Ph: Virginia Ryan, The Rue Du Commerce, 2013, courtesy of lettera27 art collection.

 

 

Lo sguardo di Virginia Ryan, come quello di tutti noi, non è scevro da presupposti etnocentrici, ma non coltiva gli stereotipi esotizzanti che eredita dalla propria cultura: l’Africa che ritroviamo nelle sue opere è un’Africa post-nostalgica, urbana e contemporanea, in cui le ultime tracce di un esotismo estenuato si consumano nell’ironia. Qui forse conta anche il fatto che Virginia sia una donna: l’Africa oggetto di uno sguardo concupiscente, vergine, terra di scoperta e di conquista, è il prodotto di un immaginario occidentale maschile.

 

Virginia è lontana dalla retorica del viaggio e della scoperta, quella di un’immediata presa di possesso, come se nessuno ci fosse passato prima, come se gli africani non avessero da sempre già prodotto un sapere e delle immagini di se stessi. L’arte di Virginia va piuttosto nella direzione di un lavoro di ri-mediazione degli artefatti culturali che mediano il senso locale della realtà: arte, media, pubblicità, cultura di massa. Il suo accesso alla realtà è filtrato dalle immagini che si producono o circolano localmente, la sua autorialità artistica si innesta sulla creatività culturale degli altri. Quello su cui lavora sono allora i poster consumati dal tempo dei cinematografi di Grand Bassam, che lei assembla e ridipinge (L’Histoire Sans Fin, 2014) o le foto delle persone che trova negli archivi destinati al macero dei fotografi ivoriani, che poi stampa su lunghi rotoli di tessuto; oppure ancora i dipinti scultorei creati assemblando oggetti trovati sulla spiaggia, resti materiali di vite vissute (Castaway 2003-2008) o le fotografie ridipinte dei grandi manifesti pubblicitari che costellano i principali snodi di Abidjan (Selling Dreams 2012-2014).

 

Ph: Virginia Ryan, Found photographs from Grand Bassam, installation Spoleto, courtesy of the artist.

 

L’opera di Virginia assume così il carattere di un lavoro intermediale, fatto attraverso le cose e le immagini che tessono la trama della realtà. Qui i confini fra il reale e l’immaginario, il proprio e l’altrui, l’individuale e il collettivo, tendono a confondersi, ma non a svanire: da un lato questo lavoro di ri-mediazione autoriale indebolisce il nesso con il contesto di partenza, ma dall’altra non arriva mai a cancellare l’intenzione comunicativa che era alla base dell’artefatto originario.È questo il motivo per cui accade che con le opere di Virginia Ryan non solo sentiamo di guardare, ma anche di essere guardati, di poter guardare non solo all’arte ma anche attraverso l’arte.

 

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Palazzo Lucarini Contemporary, Trevi (4 marzo – 25 aprile 2017)

Tra l'invisibile e l'ipervisibile

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La struttura di una qualsiasi Storia si costruisce attraverso la distribuzione evenemenziale degli eventi, tentando di tenere insieme gli elementi di continuità e discontinuità. Anche legando queste due dimensioni, c’è un momento in cui l’evento viene dichiarato chiuso, dove si mette il punto e si va capo. Tuttavia nello scollamento tra il punto e l’a capo si presenta un “resto”, un sentire inquieto che sussiste simultaneamente dentro e fuori l’evento. Questo resto non è un avanzo, come la nostalgia, o, peggio ancora, il rigurgito di una totalità consumata, ma una sostanza feconda che fa resistenza alla dichiarazione e di conseguenza alla propria chiusura insieme a quella dell’evento.

 

Olivier Assayas è senz’altro uno dei più grandi a mettere in forma questo “resto”, a renderlo sempre – per citare il titolo di un suo film di alcuni anni fa – un Boarding Gate da cui aggredire il proprio tempo. Une Adolescence dans l'après-mai, libro-lettera indirizzata ad Alice Becker-Ho, vedova di Guy Debord, e il film Après Mai (in italiano Qualcosa nell'aria) possono sembrare opere nostalgiche di un sessantotto parigino mancato di un soffio, mentre invece è proprio di quel soffio che parlano. La politica di Assayas è quella di prendersi il tempo che non ha per interrogare senza tregua la propria identità, a partire da quel Disordine che, guarda caso, ha dato il titolo al suo primo film.

 

 

Se Assayas deve, come ha dichiarato all’anteprima romana, finire i suoi film in un punto dove comincia qualcos’altro, Clouds of Sils Maria e Personal Shopper sembrano passarsi il testimone: uno scambio perfetto, come nelle migliori staffette. Nel primo film Kristen Stewart interpretava Valentine, l’assistente di Maria, un’attrice affermata (Juliette Binoche) che doveva rimettere in scena la pièce teatrale con la quale aveva iniziato la carriera. Stavolta però, invece di interpretare la giovane che seduce e abbandona, doveva impersonare la donna di una ventina d’anni più vecchia, sedotta e abbandonata. Un film straordinario, Clouds of Sils Maria, in cui la vita e la rappresentazione si impastano tanto da mandare in tilt la bussola identitaria di Maria, diventata sempre più ossessionata dai fantasmi della donna della pièce, che scopre essere i propri. 

 

In Personal Shopper Assayas riprende dunque dai fantasmi… e da Kristen Stewart. Maureen, la Stewart appunto, è una medium che ha perso da poco il fratello gemello, anche lui medium, per una malformazione cardiaca di cui soffre anche lei, e con il quale tenta di mettersi in contatto nella casa dove abitava. Maureen però è anche l’assistente (ancora!) di una modella parigina, Kyra, che, visti i continui spostamenti da una passerella all’altra, ha bisogno di una personal shopper che le compri (col divieto di indossarli) abiti e gioielli ultrafirmati e le faccia altre commissioni quotidiane.  

 

E il resto tra il punto e l’a capo? Il fatto è che i due film non si suturano nella chiusura finale del primo. Personal Shopper comincia “tra” Clouds of Sils Maria, perché il resto non è nel punto né nell’a capo ma proprio nel “tra”. In Clouds of Sils Maria la corsa in macchina di Valentine con la musica a tutto volume, tra le curve delle montagne svizzere, sembra un momento che sta dentro e fuori il film più strutturato e puntuale di Assayas. Un momento in cui il regista isola Kristen Stewart e le cuce addosso una scena solo per lei. Il “resto” da cui nasce Personal Shopperè proprio il corpo della diva statunitense, che permette ad Assayas di mettere in forma il soffio mancato nel film precedente. La ricopre di vestiti invernali per accentuare i suoi movimenti mascolini, le fa indossare abiti d’alta moda per marcarne tutta la femminilità, ma l’irriducibile ambiguità identitaria viene davvero esaltata nelle due scene in cui la vediamo seminuda. Nella visita medica per controllare la malformazione cardiaca, l’inquadratura clinica mostra il busto nudo di Maureen, asessuandole il corpo. Un problema cardiaco rimane tale tanto in un maschio quanto in una femmina e al dottore-spettatore non interessa altro. Quando però si spoglia per infilarsi l’abito di Kyra, anche il più piccolo movimento, come passarsi il pollice sul bordo interno degli slip davanti lo specchio, fa esplodere tutta la sua sessualità. 

 

 

Maureen vive letteralmente nella scissione. Nell’ambiguità della sua immagine tra il maschile e il femminile; nella perdita della sua metà familiare, il fratello gemello con l’identico problema fisico e nel movimento tra l’invisibile (il rapporto col soprannaturale nel ruolo di medium) e l’ipervisibile (il mondo della moda). Nella quotidianità passa tanto tempo a casa sua quanto in quella di Kyra, di cui la stessa Maureen è il fantasma che riempie i suoi spazi durante la sua permanente assenza. Il suo continuo vagare per Parigi riflette la possibilità di percorrere i dintorni di luoghi che non riesce ad abitare. Quando il suo compagno, in una chiamata Skype, le chiede: "What the hell are you doing in Paris?", lei risponde: "I'm waiting". 

 

Tra uno sballottamento e l’altro, Maureen riceve un sms da un Unknown. Da questo momento si attiva una narrazione fantasma rispetto a quella principale, prendendosi il ruolo di supporto di quello che è l’altro grande protagonista del film: il desiderio. Come afferma Lacan, il desiderio pur non essendo individuabile nella domanda, in essa è articolato, e questa domanda è sempre domanda dell’Altro. Il fantasma diventa il supporto del desiderio perché ha almeno un piede nell’aldilà, ovvero nell’Altro. Maureen vive questa conversazione con grande angoscia, ma non smette di interrogare e rispondere alle domande dello sconosciuto: “Don’t you want to know who I am?” “Do you want to be someone else?” “Who do you want to be?”. Non riesce a tenere le redini della conversazione, che non vuole però mollare, e finisce per lasciare che sia l’Unknown a domandarle di fare i conti con i propri desideri. Il genere horror, la ghost story (di cui  detta magistralmente i tempi), il ruolo di medium trovano tutto il loro spessore nel desiderio e la sua incerta e angosciosa interrogazione. Il luogo che Maureen non riesce ad abitare, ma di cui transita continuamente i dintorni è la grande ossessione di Assayas: l’identità. “Is it you? Or is it just me?” 

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“Personal Shopper”, di Olivier Assayas

La morte in piano sequenza

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Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un articolo di Alessia Cervini per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Missive che arrivano da lontano a porci ancora una volta delle domande sulla violenza e sulla sua messa in immagine: è da qui che dobbiamo partire. Sono numerosissimi i video a firma IS che nelle ultime settimane hanno popolato il web. Fra di essi quelli che mostrano le decapitazioni dei giornalisti James Foley, Steven Sotloff e David Haines costituiscono un corpus unitario e compatto.

 

Su questi ultimi nello specifico soffermerò la mia attenzione, cercando anzitutto di considerarli parte di una storia che ha avuto inizio più di dieci anni fa, dopo l’attacco alle Torri Gemelle: la storia di una guerra che è passata anche attraverso raffinatissime strategie di comunicazione, di cui peraltro si ravvisano chiarissimi i segni nel corpus organico di video a cui faccio riferimento. In questo senso, una strada di interrogazione possibile è quella che tende a porre i video delle decapitazioni a opera dei terroristi dell’Isis, di volta in volta, in continuità o discontinuità con la lunga sequenza di video, che hanno puntellato regolarmente lo scorso decennio, in cui atroci violenze venivano perpetrate in diretta o invece semplicemente annunciate.

 

Quale posto occupano allora questi particolari oggetti audiovisivi nella storia del terrorismo mediatico a cui formazioni differenti hanno progressivamente abituato il nemico “occidentale”? Cosa li tiene uniti e cosa invece li distingue da tutti gli altri video dello stesso genere che abbiamo visto nel corso dell’ultimo decennio? A una prima analisi, quelle che emergono soprattutto sono le differenze. È cambiato, infatti, l’emissario del messaggio: non più Al Qaeda, ma il corpo militare dell’Isis. Sono cambiati luogo e location: non più l’Afghanistan, ma la Siria e l’Iraq; non più gli spazi pressoché chiusi nei quali Osama Bin Laden era solito registrare i suoi video, ma quelli senza confini di un non identificato deserto mediorientale.

 

È cambiato forse addirittura il destinatario di quel messaggio, se è vero, come è vero, che nei video circolati in queste ultime settimane, vittime e carnefici parlano la stessa lingua (un inglese che non ha bisogno di essere tradotto per risultare comprensibile in ogni angolo del mondo). E, d’altro canto, gli autori di questi ultimi video intendono chiarire, fuori da ogni possibile ambiguità, i destinatari dei messaggi registrati. “A message to America” è la scritta bianca che campeggia sullo sfondo nero che precede l’inizio vero e proprio del primo video, quello che mostra la decapitazione di James Foley. E poi ancora, nel video successivo: “A second message to America” e infine, nel terzo video: “A message to the allies of America”.

 

Se questi incipit sono esplicativi della strategia comunicativa a cui tutti i video realizzati risponderebbero, allora è chiaro che essi sono concepiti, nella volontà dei loro autori, come prodotti destinati a un pubblico “occidentale” e svincolati, almeno nelle intenzioni dichiarate, da usi propagandistici interni come l’arruolamento di nuove braccia armate, a meno che quelle braccia non vadano cercate in America, in Inghilterra e in generale in tutti quei paesi occidentali in cui sono aumentate, negli ultimi tempi, le adesioni alle formazioni terroristiche islamiche. Come che sia, si tratta con ogni evidenza di messaggi destinati a superare i confini già non definiti, né definibili, dello Stato Islamico, che non coincide territorialmente con nessuno degli Stati mediorientali. D’altro canto, tale scavalcamento di confini è reso possibile, quando non addirittura necessario, dal mezzo di comunicazione scelto per garantire diffusione ai messaggi stessi: non più la televisione (e in particolare l’emittente araba Al-Jazeera, che fungeva da mediatrice fra i paesi islamici e quelli occidentali), bensì la rete e tutte le piattaforme con essa compatibili (You Tube, Facebook e Twitter).

 

Dunque un punto mi pare si possa fissare: quelli che abbiamo di fronte sono prodotti audiovisivi a uso e consumo di spettatori occidentali (assumendo insieme all’aggettivo tutta l’aleatorietà e l’insufficienza del suo significato), senza che ciò ovviamente escluda un uso interno degli stessi prodotti, capaci di rinsaldare le fila dei miliziani islamici. Ci sono altri motivi, forse meno evidenti di quelli già ricordati, che fanno propendere per questa ipotesi; motivi che mettono in gioco il riferimento a un orizzonte iconologico e rappresentativo tutto occidentale, o più precisamente americano, usando il quale gli autori dei video di cui stiamo discutendo possono avere praticamente la certezza di far breccia presso un pubblico “occidentale” (o più precisamente americano).

 

 

Il primo di questi elementi è, con ogni evidenza, la tuta arancione indossata dalle vittime in attesa della loro esecuzione che non può non richiamare alla memoria quelle dei detenuti nei penitenziari americani di Abu Ghraib e Guantanamo. Il preciso riferimento semantico, che stabilisce la sovrapponibilità, anzi l’assoluta uguaglianza, dei capi di vestiario utilizzati nelle due diverse situazioni, consente l’apertura di un orizzonte di simbolicità facilmente decifrabile: coloro che erano aguzzini sono diventati, in un gioco di rimandi e rovesciamenti, le vittime in questa recentissima, nuova pagina di una ormai lunga guerra che vede contrapposti il mondo occidentale e quello islamico. Come in ogni “messa in scena” che si rispetti (rientra ovviamente nel lavoro complesso della messa in scena la costruzione del set, la disposizione delle figure nelle spazio e l’individuazione di un punto di ripresa, cose che tutte insieme costituiscono un’inquadratura), la contrapposizione di cui si parla è resa rappresentativamente mediante l’opposizione di due figure, la cui caratterizzazione più evidente è affidata al costume che indossano: un cappello da boia nero la prima, una tuta arancione la seconda, elementi capaci di ergersi a simbolo di dieci anni di conflitti, solo in virtù del processo di mediatizzazione che ne ha permesso l’elaborazione in termini spesso spettacolari.

 

Già a questo livello, i video di cui parliamo dimostrano dunque di volersi porre in dialogo diretto con una storia che, da politica e militare, si è tinta dei colori una guerra di immagini, perpetrata con le armi di un racconto che gli americani (da quei grandi narratori che sono sempre stati) hanno strutturato, per esempio, nelle forme cinematografiche più classiche e in quelle più recenti e innovative della serialità televisiva (sull'argomento si rimanda ai contributi di W. J. T. Mitchell, Cloning Terror. The war of images. 9/11 to the present, Christian Uva, Il terrore corre sul video. Estetica della violenza dalle BR a Al Qaeda e Pierandrea Amato,In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo.   e alla voce di Pietro Montani).

 

Basterà far riferimento a una serie di grande successo come Homeland per rendersi conto, fra l’altro, di quanto profetico sia stato quel racconto, dal momento che esso ha saputo per certi versi addirittura anticipare scenari divenuti negli ultimi tempi di estrema attualità: nello specifico i casi numerosi di cittadini occidentali che decidono di abbracciare la causa islamica e di arruolarsi fra le fila di formazioni armate come quella dell’Isis. In linea con tutte quelle posizioni teoriche che, negli ultimi decenni, hanno parlato di progressiva sparizione o virtualizzazione del mondo, in favore di una realtà sempre meno tangibile e afferrabile (come intangibile e inafferrabile è lo spazio del web), l’esempio qui riportato (solo uno fra tutti i possibili) non fa altro che confermare almeno una certa predominanza del racconto che ha lavorato, in molti casi, come mezzo di vero e proprio occultamento di una violenza “reale”, quella che gli Stati Uniti hanno combattuto lontano dai propri confini.

 

Della potenza di quel racconto gli autori dei video in esame sembrano essere assolutamente consapevoli, tanto da arrivare a costruire la sequenza dei tre documenti secondo lo schema riconoscibile di una narrazione seriale, in cui la fine della prima micro-narrazione funge da anticipazione a quella che segue, mostrando agli spettatori il volto della seconda (poi della terza) vittima designata. Ma se tutto questo è vero, e i video di cui parliamo avanzano con ogni evidenza la pretesa di inserirsi all’interno del sistema comunicativo e mediatico occidentale, di cui dimostrano di conoscere regole e funzionamento (in questo senso non è indifferente che le vittime dell’azione terroristica messa in atto siano giornalisti), è allo stesso modo vero che il meccanismo stesso di quel sistema è invertito di segno, per il tramite della riattivazione di un commercio fra immagini e realtà, che sembra essere – al di là di ogni altra possibile considerazione – il tratto distintivo e connotante di questi video.

 

Così, fuoriuscendo dal regime di messa in scena su cui pure si reggono, i video in questione tornano a far riferimento, in maniera indiscutibile, a un piano di realtà pressoché incontrovertibile. La tuta arancione della vittima sacrificale, dopo essere diventata quintessenza di quel circolo mediatico che ne ha consentito la simbolizzazione, torna a essere semplicemente segno delle atrocità commesse dai militari americani nei penitenziari di Abu Ghraib e Guantanamo, e la violenza mostrata, lungi dal poter essere considerata semplicemente come “rappresentazione della violenza”, ricomincia a essere violenza “reale”.

 

Ancora assolutamente padroni del mezzo che utilizzano, gli autori di questi video sanno che c’è un solo modo per rendere incrollabile, e dunque indubitabile, il rapporto fra un’immagine audiovisiva e lo spicchio di mondo a cui essa si riferisce, quando ha l’ambizione di elevarsi a “immagine fatto” (l’espressione è di André Bazin , così come baziniano è il problema in discussione): non interrompere con tagli di montaggio quel rapporto e fare in modo che la porzione di “realtà” da restituire dimori tutta in una stessa inquadratura. Perché non si dubiti che quelle teste siano cadute davvero vittima e carnefice devono essere mostrati uno accanto all’altro: uno con la tuta arancione, l’altro con il cappuccio nero; uno con il volto terrorizzato, l’altro con il coltello in mano. È per questo che ciò che ricorderemo di questi video non saranno le parole pronunciate dai due, ma le loro sagome riprese in figura intera, una accanto all’altra, sullo sfondo in un paesaggio senza nome. Quelle sagome sono lo scampolo di realtà che è ancora capace di resistere a ogni possibile tentativo di messa in scena.

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Un nuovo ruolo per gli Stati?

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Sabino Cassese è un poliedrico scrittore di scienza politica al di là della sua passione che è la scienza dell'amministrazione. Scrivere di lui è molto complicato per almeno quattro ragioni. La prima è banale: produce in poco tempo molti libri, spesso con il carattere di interventi su punti specifici, che per forza si rimandano uno all'altro. C'è tuttavia, nella sue pubblicazioni più recenti, una spina dorsale, il volume Governare gli italiani. Storia dello Stato (Il Mulino, 2014). La seconda difficoltà è che le sue analisi sono lucide e in genere condivisibili ma – ed è la terza difficoltà – le cause dei fatti che identifica lo sono certamente meno e così – ed è il quarto problema – le soluzioni che suggerisce, sia pur indirettamente, sembrano difficili da realizzare se non si esce da una storia tutta istituzionale e se non ci si avventura in una storia sociale e antropologica dei comportamenti dei cittadini.

 

I suoi lavori recenti sono costruiti su quattro elementi: la necessità di tener ben distinte politica e amministrazione, la costruzione delle leggi e la loro applicazione concreta col rinvio continuo al modello della modernità nord europea: Francia, Inghilterra e Germania.

La seconda considerazione è la crisi del ruolo degli stati nazione per il sopravvenire della globalizzazione che moltiplica il peso sempre crescente delle decisioni che sfuggono agli Stati che perdono progressivamente sovranità, esautorati in settori sempre più rilevanti.

La terza è il suo ottimismo, nel pieno del disastro che stiamo vivendo: gli pare che tutto vada verso il meglio, grazie anche al ruolo salutare e stimolante delle crisi. Nelle sue parole: “espongo quasi sempre opinioni ottimistiche” (La democrazia e i suoi limiti, Mondadori, 2017, p. 75).

Infine l'attenzione esclusiva sui governi e sulle istituzioni e sull'idea implicita che la maggioranza del paese è stata estranea allo Stato e che i cittadini non contino, salvo nei momenti elettorali, unico e debole possibilità di controllo sui decisori con il rischio di dare un giudizio positivo sugli aspetti autoritari dei poteri politici. 

 

E questo è forse l'aspetto meno convincente delle sue tesi: perché non basta il voto per garantire la democrazia se pensiamo alle forme autoritarie consolidate col voto: Erdogan o Putin non fanno che confermarcelo. Ma non solo loro: i parlamenti perdono progressivamente il loro potere che è monopolizzato dagli esecutivi. E governare non è democratico se l'opinione pubblica non è sempre in condizione di controllare, approvare o rigettare le decisioni. In realtà viviamo in questi anni un processo di dissoluzione dei momenti di controllo delle decisioni, una dissoluzione svolta coscientemente dal potere contro il ruolo politico dei cittadini e delle forme organizzative dell'opinione pubblica, che sarebbe invece compito di un governo democratico rafforzare, ascoltare e ampliare. Il deficit di democrazia dei paesi europei è inoltre purtroppo confermata a livello sovranazionale, nell'Unione Europea, in cui, anche secondo Cassese, “manca una catena di trasmissione tra domanda popolare e politiche europee... Il rapporto che si stabilisce tra il Parlamento europeo e l'esecutivo è ... meno immediato di quello sperimentato in sede nazionale a causa della duplicità dei governi europei (Commissione e Consiglio) e del gran numero di materie da cui la Commissione è esclusa” ( La democrazia, p. 92). 

 

Ma torniamo alle vicende italiane nella lettura di Cassese. La storia dello Stato italiano è “dominata da permanenze, punteggiata da cesure che non riescono ad andare in profondità tanto da costituire svolte, cambiamenti radicali”, “dalla scarsa preparazione delle classi dirigenti” e da “un tiepido senso dello Stato nei cittadini” (Governare, cit. pp. 327-328). L'Italia ha avuto due costituzioni, quella piemontese del 1848 estesa a tutto il paese dopo l'unificazione, senza dunque essere approvata da un'assemblea costituente eletta dal popolo. “Non prevedeva procedure per modificarla e dunque era modificabile con leggi normali e questa era la sua intrinseca debolezza, accanto al fatto che non indicava l'organo titolare dell'indirizzo politico e non disciplinava i rapporti fra potere legislativo e potere esecutivo, lasciando al re una grande influenza” (p. 331). La Costituzione repubblicana del 1948, nella seconda parte relativa all'ordinamento dei poteri pubblici, “da un lato non ha assicurato sufficiente stabilità al governo. Dall'altra ha concentrato in modo eccessivo il potere nel continuum maggioranza popolare-maggioranza parlamentare-governo-Presidente del Consiglio dei ministri... È insufficiente il sistema dei checks and balances:esso si riduce all'indipendenza del potere giudiziario, al potere di controllo delle leggi affidato alla Corte costituzionale e alla configurazione del ruolo del Presidente della Repubblica come organo neutrale” (p. 332) e inoltre è stata per molti aspetti applicata lentamente e, per altri aspetti rilevanti, del tutto inattuata.

 

 

“La Costituzione italiana nacque ambivalente... Dominò l'idea che il potere diventi meno arbitrario se tenuto a freno... Ne uscì una democrazia kelseniana, retta dalla condivisione piuttosto che dalla competizione...Il sistema elettorale più democratico – dice Cassese interpretando criticamente Kelsen – è quello che elimina o almeno riduce al minimo la lotta competitiva per il voto del popolo, il sistema della rappresentanza proporzionale... perché la democrazia parlamentare tende a venire a un compromesso, a creare un medio termine fra gli interessi opposti” e questo secondo Cassese spiega il bicameralismo e la sconfitta dei sostenitori della creazione di sistemi atti a garantire la stabilizzazione dei governi (La democrazia, cit., pp. 68-69).   

Il secondo tratto costante per Cassese è il distacco tra società e Stato, cittadini e autorità, paese reale e paese legale, per una sfiducia dei cittadini e per una lunga esclusione dal corpo politico-amministrativo di una parte rilevante dei cittadini dettata dallo Stato stesso. Il divario fra nord e sud, i sistemi clientelari, la corruzione,, le organizzazioni illegali sono effetto della mancanza di fiducia e sicurezza, che le strutture giudiziarie e amministrative deboli non sono in grado di creare e dunque di costruire una tradizione civica efficace (p. 335).

 

La sovrabbondanza di leggi, spesso derogatorie, frutto di una continua negoziazione fra centro e periferia, mostra l'incapacità dello stato di costruire una normativa legislativa uniforme e definita che separi con nettezza le norme ordinarie dalle norme straordinarie: “questo stato di alegalità legale, nel quale la molteplicità delle norme applicabili a uno stesso caso rende possibile ogni tipo di negoziazione produce discrezionalità del potere pubblico, una forte conflittualità e sovraccarica la magistratura. L'instabilità dei governi, causata dalla pluralità dei partiti e dal localismo e dall'assenza di meccanismi elettorali e costituzionali che rafforzino l'esecutivo, ha reso incerti e discontinui gli indirizzi politici e ha indebolito il centro politico dello Stato. Si è così consolidata una forma statale poco autonoma, fortemente condizionata da clientele e fazioni, da interessi economici e politici, incapace di tutelare gli interessi collettivi e pubblici e i beni comuni (p. 345).

La politica ha mantenuto un controllo sugli apparati pubblici che ha impedito la formazione di una burocrazia e un corpo professionale di funzionari scelti secondo il merito e sottoposti solo alla legge: l'assenza di un ceto di amministratori, autonomi dalle contingenze economiche mediate dalla politica, ha prodotto un sistema indifferente al merito e che coniuga la nomina in base alla preferenza politica con la progressione di carriera secondo l'anzianità e con anche la proliferazione di personale precario in molti settori dell'impiego pubblico.

 

Dunque secondo Cassese il centralismo (uniformità e autoritarismo) che l'autore vede con favore, è un “mito polemico” perché lo Stato italiano ha svolto un centralismo debole, lasciando deleghe ai poteri locali senza tuttavia lasciar loro autonomia fiscale e di gestione ; ha fatto ricorso a organismi esterni per attività che potevano essere svolte dall'amministrazione centrale; ha delegato a organismi sussidiari privati molti dei servizi che avrebbero dovuto essere svolti dalla amministrazione pubblica. Il permanere delle preesistenze ha di fatto “impedito il formarsi di un disegno unitario: si sono accumulati strati diversi, disomogeneità, contraddizioni” (pp. 351-52)

 

L'interpretazione di Cassese è tutta istituzionale. Costituzioni, organi di governo, amministrazione, contropoteri giudiziario e amministrativo, potere centrale e poteri locali. Ma i cittadini non appaiono nelle sue pagine e si ha l'impressione che non dovrebbero apparire nella realtà se non quando votano. Così le istituzioni vengono modificate per decisione e volontà dei politici, nel quadro di una continuità sostanziale. E la sua ricerca sulla democrazia e sui suoi limiti sottolinea appunto che non esiste una reale partecipazione popolare alle scelte politiche se non nel voto e bisognerebbe aggiungere nel non voto quando i cittadini perdono fiducia nella politica. Sicché alla fine si ha l'impressione che i periodi che paiono migliori della storia d'Italia secondo l'autore siano i periodi degli innesti dei tecnici nella politica, in cui le decisioni si liberano delle scelte politiche, in cui i tecnici sostituiscono i politici e governi o funzionari non scelti dal popolo agiscono perché resi indispensabili dalla necessità di riconquistare la fiducia degli altri paesi e dei mercati: Orlando, Giolitti, Nitti, De Stefani, Beneduce, Rocco, Badoglio, Menichella, Einaudi, Ciampi, Amato, Monti (Governare, pp. 31-33). È con loro che passano le norme che danno una maggior coerenza al sistema istituzionale e favoriscono un avvicinamento ai modelli delle democrazie europee più moderne. Insomma istituzioni e governo forte, non democrazia e controllo dei cittadini sulle scelte politiche.

 

E tuttavia una storia dell'Italia dovrebbe mettere al suo centro la relazione fra i cittadini e le istituzioni. Proprio in relazione a questo tema Cassese dedica un intero capitolo di Governare gli italiani ai rapporti fra Stato e Chiesa (pp. 313-326) che a me pare un problema molto importante per capire perché gli italiani considerano le istituzioni necessarie ma nemiche. Anche qui non si può però ridurre il problema a un rapporto fra istituzioni dello Stato e della Chiesa, “la mancanza di solidità e compattezza delle istituzioni” da cui deriva la “difficoltà di governare gli italiani” (p. 11), che è l'oggetto generale del libro. Credo che qui si debba dare ai cittadini il ruolo esplicativo che meritano, anche per mostrare che le relazioni fra istituzioni non bastano a spiegare le cose.

Parto dunque da molto lontano e anche da una domanda: perché tutti i paesi cattolici, in Europa come in America latina, hanno avuto un periodo importante di dittatura nel XX secolo? Naturalmente anche paesi non cattolici hanno conosciuto dittature, ma quello che impressiona è che nei paesi cattolici questo sia stato un fenomeno così generale. Naturalmente è necessario precisare che non possiamo considerare la Francia un paese cattolico, per quanto pieno di cattolici e che anche nei paesi propriamente cattolici c'è almeno un'eccezione: il Belgio. Ma tutti gli altri, in Europa e America latina, hanno conosciuto forme diverse di dittatura. 

 

Con la Riforma protestante il mondo cristiano europeo, già diviso fra Chiesa di oriente e Chiesa di occidente, ha conosciuto non solo un conflitto religioso ma anche una separazione estrema sul modo di immaginare lo Stato e le istituzioni politiche, un tema appunto squisitamente politico: chi crea il potere? Per tutti si trattava di interpretare la Lettera ai Romani di san Paolo: “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'é autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna”. Il problema era la relazione fra potere civile e potere spirituale: per i cattolici, la superiorità papale sull'autorità civile e, per i protestanti, la negazione di questa autorità. Il conflitto, che era stato più o meno latente e irrisolto nei secoli precedenti, è da subito esplicito.

Per Lutero i credenti, una minoranza, non hanno bisogno della spada perché si lasciano governare dalla parola di Dio, ma la maggioranza, i non credenti, i malvagi hanno bisogno della spada e della legge e per questo Cristo ha creato l'autorità secolare per punire i malvagi, per proteggere coloro che si comportano bene e per porre un freno al male. Ma questo è solo un ordinamento umano benché istituito da Dio e non ha alcun potere in ambito spirituale. Tuttavia è Dio che ha dato l'autorità al principe e solo Dio può togliergliela. E se non gliela toglie anche se fosse empio, è anche per punire i peccati del popolo, la cui unica arma è la preghiera.

Il mondo cattolico costruisce una teoria completamente differente, per confermare l'unico potere realmente creato da Dio, quello della Chiesa e basandosi essenzialmente su quanto aveva sostenuto la Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino: le istituzioni temporali, che gli uomini hanno il dovere di costruirsi e che debbono delegare a qualche forma di governo, “relinquuntur humano arbitrio”. Le istituzioni politiche sono così chiuse fra due poteri creati da Dio: il popolo, per legge di natura, le cui istituzioni originarie vanno in qualche modo rispettate anche dopo la designazione di una autorità che impedisca i conflitti e garantisca il bene comune; e la Chiesa, per legge divina, che deve controllarle per favorire la via della salvezza.

 

È evidente dunque che nei paesi di tradizione protestante si è stabilita l'idea che le istituzioni hanno qualche cosa di sacrale, mentre nei paesi cattolici il potere è schiacciato fra due poteri più rilevanti: il popolo (che però ha delegato il suo potere) e la Chiesa. Le sue istituzioni sono dunque deboli, perché prodotte da peccatori il cui potere non è sacro in nessun senso. La Chiesa conserva il monopolio del sacro, come ha ancora ribadito papa Ratzinger in numerose occasioni.

Per molti secoli queste idee, che hanno dimenticato la loro origine teologica, hanno creato due differenti antropologie politiche. Nei paesi cattolici il potere politico è svalutato, necessario ma nemico, le istituzioni sono deboli e i cittadini difficili da governare. Si moltiplicano dunque le leggi, si cercano vie autoritarie per rafforzare le istituzioni pensando ad esempio che la governabilità sia più importante della rappresentanza o che ci vuole un controllo politico sulla magistratura, e se tutto questo non è sufficiente si ricorre infine alla dittatura.

Mi pare insomma che si debba trovare in questa opinione, ribadita per molti secoli, una delle cause, che restano nascoste se ci si limita a una storia istituzionale: un carattere antropologico profondo – che non può essere ridotto al familismo amorale (p. 338), che è conseguenza e non causa della diffidenza verso le istituzioni politiche.

 

Credo anzi che il rapporto tra istituzioni e cittadini sia fondamentale per capire perché oggi, che la democrazia dei partiti è sostituita dalla personalizzazione della leadership, oggi che la cooptazione del personale politico occupa le istituzioni con molta indifferenza alla voce dei cittadini, vediamo confrontarsi una impermeabilità della politica alla partecipazione attiva dei cittadini con un diffuso malessere verso le istituzioni. Cinque secoli di un modello negativo sullo Stato hanno finito per consolidare un solco profondo fra istituzioni e cittadini che, salvo momenti eccezionali e tentativi di correzione, ha segnato la storia del nostro paese.

 

Due momenti possono illustrare come l'Italia ha rinunciato a creare un diverso rapporto fra cittadini e istituzioni: il primo, sostenuto da Cassese, è l'unità d'Italia come conquista regia e piemontese con “il punto di vista ottimistico secondo il quale istituzioni liberali avrebbero prodotte da sole il progresso civile ed economico” (Governare, p. 43), mentre “la costruzione di un nuovo Stato avrebbe richiesto interventi sulla sua costituzione, sull'amministrazione, sull'apparato giudiziario, sui rapporti tra poteri pubblici e cittadini. Invece al centro dell'attenzione legislativa vi fu l'economia, per la necessità di creare un mercato ampio, protetto verso l'esterno da efficaci barriere doganali, ma senza barriere interne” (p. 57). 

Il secondo momento è quello più vicino a noi – ma di questo Cassese non parla: negli ultimi 30 anni, dopo la crisi del sistema bipolare, sono entrate in crisi anche le socialdemocrazie europee e le forme di stato sociale faticosamente nate anche nell'Italia democristiana. Lo stato sociale che è stato lo strumento fondamentale delle posizioni democratiche per contrastare l'alternativa comunista fino alla fine del sistema bipolare, è stato difeso sempre meno e abbandonato all'attacco delle destre, man mano che le istituzioni politiche si erano fatte più autoritarie e la voce dei cittadini più debole e disorganizzata. È questa una delle ragioni che hanno aperto un solco sempre maggiore fra istituzioni e cittadini, spingendoli nell'indifferenza o in sterili e pericolose posizioni protestatarie, e anche la dimostrazione che non basta modificare le istituzioni per creare una società democratica, perché lo strumento fondamentale è dare ai cittadini il potere di controllare il potere innanzitutto restaurando la prevalenza della rappresentatività sacrificata al mito pericoloso della governabilità.

 

Ma alla fine le posizioni di Cassese sono ottimistiche: c'è un fattore esterno che modifica il ruolo degli Stati e gli pare che questo deus ex machina potrà superare i difetti cronici della politica dei governi italiani e dell'atteggiamento dei cittadini. La globalizzazione, la moltiplicazione di istituzioni sovranazionali che limitano il potere degli stati-nazione che vanno perdendo i vecchi ruoli e significati, che hanno rinunciato a una parte della sovranità perdendo i vecchi ruoli per acquistarne di nuovi in sistemi sovranazionali sempre più pervasivi. A questo dedica il suo libro del 2016 Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati? (Il Mulino, 2016). Le crisi, come modo per gli Stati di tenere sotto controllo lo sviluppo dell'Unione indirizzandone il percorso e stabilendo i tempi per procedere, solo in alcuni casi ha riguardato le finalità stesse dell'Unione. “Gli Stati europei svolgono una funzione redistributiva per cui non sono solo giganti regolatori ma sono anche giganti finanziari. L'Unione Europea è invece un gigante regolatore mentre è un nano finanziario” (p. 115). Ma a me pare che stia proprio qui il nodo della questione e insieme il deficit democratico che il Parlamento europeo non ha affatto modificato. E mi pare che sia difficile, proprio in questa fase, condividere l'ottimismo di Cassese, sottovalutare la crisi profonda dell'Unione Europea e la sua debolezza. E certamente la mancanza di una forte rinascita democratica effettiva del nostro paese e della stessa Unione Europea, porterà a peggiorare anziché a migliorare la sfiducia nelle istituzioni e nella politica in cui ci trasciniamo. 

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A proposito di tre libri recenti di Sabino Cassese

Critica della ragione giovanilista

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Sembra che la società, almeno nel mondo cosiddetto occidentale, stia ringiovanendo. O, per essere più precisi, sembra che i suoi tratti giovanili stiano andando ben oltre i consueti limiti di età, che questi tratti vengano conservati più a lungo nei suoi componenti adulti – neotenia, in termini biologici ed evoluzionistici – nonostante aumenti di pari passo la vecchiaia della sua cultura. La scienza recente, infatti, che pure con il suo genio irrequieto mantiene in noi le spinte propulsive della giovinezza, ha enormemente accresciuto l’età del pianeta e della specie umana. Oltre a indagare il fenomeno, Robert Pogue Harrison, nel saggio Juvenescence. A Cultural History of Our Age (2014) tradotto di recente in italiano per Donzelli con il titolo L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2016), si interroga sulle condizioni e sulla validità di tale imprevisto ringiovanimento. Sebbene il critico si astenga dall’esprimere giudizi precisi al riguardo, la stessa ampia operazione condotta nel libro del tracciare una teoria della neotenia culturale – e non propriamente una sua storia, come l’autore ci tiene a precisare – sembra muoversi contro l’idea di una giovinezza che si sente tale soltanto nel rifiuto e nell’interruzione di ogni rapporto con il proprio passato.

 

Nelle ultime due decadi almeno, gli studi sulla memoria culturale sono diventati una pratica accademica così consolidata e diffusa da far pensare a una sintomatica reazione, a una sorta di percepita perdita di continuità con la tradizione che affliggerebbe la nostra società. Tali studi non si interrogano tanto sul passato come serie di eventi – questa è competenza della storia – bensì sulle modalità di trasmissione e sopravvivenza del passato nel presente ed eventualmente, attraverso il problematico ponte costituito da quest’ultimo, nel futuro. Per Jan Assmann, in Das kulturelle Gedächtnis (1992; trad. it. La memoria culturale, 1997), si tratta infatti di indagare le “strutture connettive” grazie a cui una certa cultura si mantiene nel tempo, individualmente e collettivamente, creando uno spazio condiviso di esperienze, ricordi e speranze attraverso particolari pratiche istituzionalizzate di “ripetizione”.

 

Ph Bae Bien-U.


In uno splendido saggio del 2003, The Dominion of the Dead (pubblicato in italiano da Fazi nel 2004 con il titolo Il dominio dei morti), Harrison affrontava la questione nei termini del rapporto che lega, o dovrebbe legare, i vivi ai morti. Nel nuovo lavoro invece, attraverso una impressionante varietà di fonti e riferimenti, indaga una dinamica affine e ugualmente complessa nei termini di una doppia dialettica tra giovinezza e vecchiaia e tra genio e saggezza, senza che la seconda coppia di termini in contrapposizione sia facilmente sovrapponibile alla prima. Il genio ha certamente a che fare con le energie propulsive e la curiosità insite nella giovinezza, dopotutto esso “trae origine da una riluttanza a crescere” (p. 25); tuttavia, si sa, si può benissimo essere anagraficamente vecchi senza per questo essere minimamente saggi. La saggezza, allora, è piuttosto la consapevolezza di una vecchiaia culturale. 

 

Quello tra gioventù e vecchiaia è chiaramente uno spazio contestato e di contestazione, come lo è quello tra i vivi e i morti. Se il genio della giovinezza propende e, nelle circostanze migliori, addirittura lotta per produrre il nuovo, compito della saggezza è invece difendere un contatto con la tradizione operando una sintesi, mantenere attivo il passato nel presente se si vuole, cioè collocare le intemperanze creative del genio in una prospettiva temporale di più lunga durata. La sola conservazione della saggezza condurrebbe ben presto la società a una stasi di puro mantenimento, una stagnazione che alla lunga potrebbe diventare mortale; la sola frattura proposta del genio porterebbe a una serie di attività irrelate e quindi, a un certo punto, a una mancanza di contatto con il mondo, con lo spazio che una cultura dovrebbe saper abitare. Un mondo, infatti, è “un contesto di permanenza storicamente fondato in cui si svolgono le nostre vite transitorie e mortali” (p. 118). La cultura umana, per l’umanista vichiano Harrison, incontra le sue epoche di fioritura quando “questi due elementi operano congiuntamente” (p. 25). 

 

Per arrivare al punto di farsi, ormai quasi alla fine del suo lungo viaggio, come “un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Paradiso XXXIII, vv. 107-8) perché incapace di dire a parole la novità e l’eccezionalità dell’esperienza del divino a cui è esposto, il pellegrino Dante deve non soltanto essersi purificato spiritualmente, deve anche aver attraversato quei tre regni dell’oltretomba che costituiscono una straordinaria summa della sua storia culturale. Così per Enea non può darsi la fondazione di un nuovo popolo senza portare con sé il padre Anchise e il figlio Ascanio. Enea è l’immagine tradizionale della forza della generazione presente che deve essere ugualmente legata a quel che è stato e tesa verso quel che non è ancora per aprirsi uno spazio effettivo di possibilità. È in questa direzione, spiega Harrison, che l’affermazione di Wordsworth “il bambino è padre dell’uomo” (in Ho un sussulto al cuore, 1802, v. 7), apparentemente paradossale in termini temporali, acquisisce un senso: “la maturità umana ha la sua fonte nella giovinezza che porta a compimento. Più profonda è la fonte, più eccezionale è la crescita, il che è un altro modo per dire che la giovinezza umana, nel suo ritardo neotenico, rende possibile una maturazione spirituale che non ha equivalenti nel regno animale, in quanto apre agli individui umani l’accesso a un’ampia gamma di modi di essere psichici, e non solo organici” (p. 43).

 

Nell’avventura filosofica platonica, così come nell’opera di affermazione del cristianesimo, nella rivoluzionaria impresa illuminista e nel processo di fondazione della Repubblica americana, Harrison indaga l’importanza strutturale del “portare una caratteristica culturale giovane a un livello di maturità più elevato” o del “conferire a un retaggio senile una forma nuova o più giovane” (p. 76). Tutte queste “rivoluzioni neoteniche”, infatti, aderiscono al “principio della continuità nella rottura, o del sovvertimento mediante l’appropriazione” (p. 94). La rivitalizzazione del passato ereditato è fondamentale affinché il nuovo possa (legittimamente) proiettarsi nel futuro. Ma che tipo di giovinezza è quella che caratterizza la società contemporanea? Siamo di fronte a una “rivoluzione neotenica” di straordinarie proporzioni oppure si tratta soltanto di una “giovanilizzazione” appiattita su un presente reso orfano della storia? Nella nostra strenua ricerca del nuovo e del cambiamento, abbiamo perduto quell’amor che dovrebbe tenerci uniti e tener unito il nostro mundus?

 

Naturalmente è troppo presto per emettere un giudizio storico preciso sulla contemporaneità. Tuttavia i segni di una mutazione sono evidenti e la perdita del “senso di appartenenza al mondo” soggettivamente percepita è indistinguibile dalla perdita oggettiva (p. 128). La potenzialità del nuovo, quel che Hannah Arendt chiama “natalità”, dipende dai giovani. È perciò importante aver cura della loro educazione se questi giovani sono chiamati non soltanto a rivitalizzare il mondo, ma anche a prendersene cura nella prospettiva del futuro. È qui che il discorso di Harrison si sposta sul sistema di trasmissione che dovrebbe offrire ai nuovi arrivati quella profondità temporale in cui si colloca il mondo dove sono venuti alla luce e si trovano a vivere in un dato momento. Harrison parla dell’istruzione scolastica nelle forme di una katàbasis, quel fondamentale viaggio tra le ombre più o meno remote della storia che necessita di qualcuno che indichi la strada e dia così avvio al percorso attraverso cui il giovane dovrà singolarmente giungere alla fonte che racchiude in sé anche la possibilità di un futuro. 

 

Per affrontare tale processo di scoperta il giovane ha bisogno di concentrazione solitaria in cui imparare, interrogarsi e riflettere, immaginare e osservare, avviando un dialogo con se stesso e con chi lo ha preceduto. Le tecnologie informatiche, con quella sorta di ipnosi indotta dagli schermi, rischiano di “inibire il processo di maturazione che avviene nel continente profondo” e che fa del giovane un adulto “non solo psicologicamente ma anche a livello culturale e storico” (pp. 135-6). Il nostro mondo rischia di disperdere le energie dell’essere umano non ancora maturo, perché lo espone a un caotico eccesso di stimoli così insistenti da impedire il raccoglimento nel pensiero necessario per il nascere dell’amor mundi. Nei versi di Dopo lungo silenzio di Yeats, Harrison rintraccia un insegnamento fondamentale: se abbiamo acquisito in gioventù le “modalità dell’apprendere”, saremo capaci di affrontare la vecchiaia con saggezza e di mantenere attiva in noi la disponibilità a imparare. Di qui l’importanza che Harrison riconosce alla formazione permanente, anche come possibile “campo di affermazione dell’educazione umanistica”, che richiede già una certa maturità e, nel differimento della maturità a cui assistiamo oggi, è quindi più consona a una fase più avanzata della vita (p. 143). Per diventare giovani davvero, in senso culturale, bisogna imparare a conoscere e riconoscere la propria vecchiaia. 

 

A cosa porterà questa nostra “età della giovinezza” che Harrison collega, nell’epilogo, a una certa “americanizzazione”? Ci evolveremo in una “nuova forma di vita”? La storia culturale precedente – quindi la dinamica di trasmissione culturale teorizzata con chiarezza nel libro – non sembra aiutarci a offrire delle ipotesi precise. Di fronte a questo fenomeno nuovo, anzi immersi in esso, è impossibile formulare profezie. Quel che possiamo sapere, ci dice Harrison, è che in questa nostra età, così profondamente eterocronica, siamo al contempo giovanissimi e vecchissimi, come non lo eravamo mai stati prima. E siamo esposti al rischio concreto di perdere la profondità temporale in cui il genio possa ricomporsi con la saggezza per fornire continuità culturale alle trasformazioni che insegue, per dare sostegno alle innovazioni che avanza. 

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Questa nostra età della giovinezza

Totò, Leo e il Nuovo Teatro

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«Fisicofollia… Caricatura, abissi di ridicolo, cascate d’ilarità irrefrenabili… Analogie fra l’umanità, il mondo animale, il mondo vegetale, il mondo meccanico... Scorci di cinismo rivelatore, intrecci di bisticci, di motti spiritosi, con tutta la gamma dell’imbecillità, della balordaggine, della stupidità e dell’assurdità, che spingono insensibilmente l’intelligenza fin sull’orlo della pazzia…» (Filippo Tommaso Marinetti, Il Teatro di Varietà, 1913).

 

Sembra che Totò abbia lavorato per dare corpo e voce al Manifesto di Marinetti, modulato a sua volta su quel varietà nel quale il comico napoletano, marionetta snodabile, eccentrico per eccellenza, nacque e si formò, attraversando poi tutte le forme di teatro popolare del primo Novecento: la farsa, l’avanspettacolo, la rivista, la commedia e la commedia musicale, portando sempre con sé lo spirito anarchico delle origini. Il cinema lo rapì tardi, alla fine anni '30, ma soprattutto negli ultimi due decenni di vita. E nei film mantenne spesso l’istinto del palcoscenico, quell’improvvisazione che non voleva dire inventare sul momento ma mutare ogni volta la prospettiva, fare le cose diversamente, sorprendendo e sorprendendosi, mettendo in scena il desiderio di ricreare la vita sempre di nuovo, il graffio più fruttuoso del teatro, il disgusto per la ripetizione come materia inerte, assodata, il rifiuto della piatta riproducibilità.

 

Totò in Bada che ti mangio!, 1949.

 

Questo aspetto dell’arte Totò colpì le neoavanguardie teatrali, quelle che negli anni ‘60 cercavano strade di eversione del teatro degli stabili, in cui gli attori erano ridotti al ruolo di funzionari, dei giri commerciali o delle compagnie di prosa impiegatizie. Entusiasmarono gli innovatori la sua fisicofollia e i suoi deragliamenti linguistici, ereditati, ancora, del varietà e alla lontana della commedia dell’arte, quel legame con una tradizione insieme popolare e di avanguardia, vale a dire una delle poche lingue vive che la scena italiana aveva prodotto nel novecento, dialettale, umorale, di classe e transclassista, erede delle maschere, della fame, della critica all’autorità, plebea ma anche intellettuale, capace di parlare a ricchi gagà, borghesi e affamati sottoproletari. Quel teatro che aveva abbandonato la psicologia e puntato sulla velocità, sulla precisione della gag, sulla deformazione, su quella cosa complicata da definirsi che è la realtà, continuamente da montare e smontare, da rivelare. Al teatro dei telefoni bianchi, alle commedie ungheresi, ai testi castrati da un’occhiuta censura si erano contrapposte varie forme di teatro popolare e autori che da quello partivano, incrociandosi poi con il realismo, con il futurismo, con il pirandellismo (per esempio Viviani, Petrolini o Totò, appunto), senza perdere le radici di una narrazione  che andava alle cose, in forme diverse, con la tragedia, con lo sghignazzo, con il sorriso amaro disincantato dal tarlo del pensiero.

 

Negli anni ’60 del Novecento qualcuno voleva dare nuovamente la scalata al cielo misterioso di un teatro necessario, che fosse intinto nelle cose, che parlasse, in modo non semplicemente fotografico, la lingua delle cose, la necessità di smontare convenzioni e meccanismi ingabbianti, di rovesciare, deridere, denudare, urlare. Chi legga la pubblicistica di quegli anni trova varie polemiche sulla mancanza di una lingua teatrale, la distanza delle scene dalla società, e la richiesta di creare rapporti. Ne parlava per esempio Flaiano, nel luglio del 1965, in un articolo sull’inchiesta della rivista Sipario che chiedeva agli scrittori italiani perché non si dedicassero al teatro (ora in Lo spettatore addormentato, Adelphi, 2010). Rapporti che erano più facili con il tramite dell’unica tradizione scenica di lunga durata, localizzata in ambiti concreti, quella del teatro dialettale e popolare. E le nuove avanguardie quel rapporto cercarono di crearlo per traumi: rifiutando le sale delle poltrone rosse, le grandi produzioni, ritirandosi in cantine, ibridandosi col cinema, con la letteratura, con altre arti, andando a trovarsi maestri, padri, compagni di strada eretici, eterodossi, lontani dal sistema dominante.

 

Carmelo Bene in Pinocchio, 1999.

 

Carmelo Bene riscoprì Marinetti, e Majakovskij, la provocazione del varietà, la “crudeltà” di Artaud, l’Amleto deragliato, lunare, simbolista di Laforgue. E il burattino snodato Pinocchio, che emergeva dal buio con la sua corte di cialtroni, con il suo dire spezzato, i suoi modi cubisti e tutte le implicazioni sessuali insite nel naso e nel rapporto con la fatina (varie versioni dedicò al più popolare romanzo italiano: nel 1966, nel 1981, nel 1988 e nel 1999, per la televisione). E Carmelo doveva essere il burattino in un film di Nelo Risi che non si fece, in cui Totò doveva interpretare Geppetto e Brigitte Bardot la Fata Turchina, come ci ricorda l’ultimo libro di Alberto Anile, Totalmente Totò, pubblicato dalla Cineteca di Bologna in occasione del cinquantenario della morte: un viaggio nella carriera del comico che rivisita anche tutta la prima parte della vita, con la sua lunga militanza teatrale.

 

La parlata a scatti di Bene, lo smontaggio della lingua per svellere i modi abitudinari di percezione, richiamano moltissimo il lavoro sulla parola in palcoscenico del principe de Curtis, così come certi film dell’attore salentino sembrano una raffinatissima versione di parodie del comico. Vedi per esempio la Salomè stravolta del 1972 e la Salomè di Totò, nella rivista di Galdieri Con un palmo di naso (1944), con una folle incursione di Pinocchio, quello che piace alla bambina dai capelli turchini per il naso, perché «lei si fa il conto: se tanto mi dà tanto…» (dal quadro Il paese dei balocchi della rivista Volumineide di Galdieri, 1942: battuta cancellata dalla censura, in uno spettacolo che dipingeva l’Italia mussoliniana come un guazzabuglio di profittatori, burocrati, borsaneristi, con Pantalone che paga sempre).

 

E se le influenze su Bene sono evidenti ma non esplicitate dall’artista, Totò diventa invece maschera, voce, pose ricorrenti, bandiera, in un altro dei protagonisti dell’avanguardia dell’ultima parte del novecento: Leo de Berardinis, che gli dedica perfino uno spettacolo dal titolo significativo, Totò, principe di Danimarca (1993, rintracciabile integralmente su Youtube in una versione di qualche anno dopo, diviso fra prima e seconda parte). Con la storia di un affamato Totò che prende il posto di un attore drammatico per portare un suo sgarrupato Amleto a un festival shakespeariano inglese dove pagano bene, Leo compie quel cortocircuito tra “alto” e “basso” che altre volte lo aveva portato a mescolare Schönberg o Charlie Parker e la sceneggiata napoletana, per esempio in King lacreme Lear napulitane, realizzato ai tempi del Teatro dell’ignoranza a Marigliano, ancora un lavacro in un teatro fuori dai canoni borghesi, un teatro della necessità, di presenza, di improvvisazione, di performance, dove arte e vita, desiderio di arte nuova e disprezzo della compassata, inessenziale vita borghese si fondono. (Si legga, a proposito di de Berardinis, il bellissimo libro di Gianni Manzella, La bellezza amara, La casa Usher, 2011).

 

Leo de Berardinis in Totò, principe di Danimarca, 1993.

 

Totò rimane attaccato alla figura e alle inflessioni di Leo, col cappellino e con la zimarra, già in lavori precedenti, e soprattutto in La tempesta (1986); poi in un paio di scene di quel capolavoro che è Novecento e Mille (1988 e 1989), il secolo breve dalle ombre della caverna di Platone alle Ceneri di Gramsci pasoliniane, dal Lenin di Majakovskij a Pirandello, Eliot, Charlot, Artaud, Beckett, Eduardo, passando per E levate ‘a cammesella e la gag dello scrivano in Miseria e nobiltà, con un fulminante «Vieni avanti cretino!» (questi sono i De Rege, ma è lo stesso), cui risponde un attore truccato da Einstein con la battuta: «E uguale emmeci al quadrato. Eh?». Contaminazione? Disgusto? Ricostruzione? Il Totò del varietà immaginato attraverso quello che ha seminato nei suoi film.

 

Gli spettacoli di Leo risalgono agli anni in cui era già stato riscoperto il teatro di Totò. Il merito va a Goffredo Fofi, che poco dopo la morte del comico ne interpretava la figura recuperandone la complessità. E pubblicava Quisquiglie e pinzillacchere. Il teatro di Totò. 1931-1946 (Savelli, 1976), riportando alla luce copioni, spesso massacrati dalla censura, che davano solo il disegno dello spartito, non della partitura con voci, colori, timbri, improvvisazioni, ma pure permettevano di farsi un’idea di un’arte composita, tra maschere antiche e moderne, osservazione della realtà e esplosione del varietà. Seguiva nel 1977 per Feltrinelli Totò: l’uomo e la maschera, scritto da Fofi con Franca Faldini, un viaggio più complesso nell’artista, che pure riportava una parte del suo teatro.

 

Sarà merito di uno studioso, che lungamente ha fiancheggiato il Nuovo Teatro e Leo de Berardinis in particolare, Claudio Meldolesi, fine interprete della cultura dell’attore e della prima regia italiana, scrivere di Totò come “occasione sprecata” del teatro italiano (siamo nel libro Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate dal teatro italiano, edito da Bulzoni nel 1987, poco prima di Totò principe di Danimarca di Leo). Il teatro della normalizzazione sprecò l’autonomia linguistica, l’indipendenza dell’attore di Totò, il suo “teatro delle invenzioni”, non separato, però dai dibattiti culturali «sulla lingua, sulla cultura popolare, sull’ideologia; come lo fu invece il sistema teatrale». Come altri nomi trattati nel volume – Eduardo, lo storico Mario Apollonio, il giovane Strehler, Pirandello, Gadda – Totò è la diversità dell’invenzione dalla normalità teatrale; Totò, come Gadda, era «artista del pasticcio: anche lui contaminava, mettendo insieme la frase fatta e il “lembo” di vita, la battuta diretta e la posa dialettale». Totò era, «per dirla con Fofi, l’attore della diversità sociale», irriverente, sarcastico, lunare, come è stato variamente definito; «era un fatto astratto, irripetibile» (Zavattini), era burattinesco, imprevedibile, cubista, sintetico…

 

Antonio Rezza in Fratto_X, 2012.


«Totò sembrava un concentrato di tutto ciò che il teatro di allora non capiva o non tollerava. Era indifferente allo stile e indisciplinato al testo, la sua comicità mescolava effetti di ogni provenienza: naturalistica, mimica, musicale e rumorale, tragico-sociale. Recitando bassamente, dava prova di una scienza altissima. La sua maschera era poeticamente popolare e brutalmente borghese; e si era precisata anch’essa per contaminazioni: del caffè concerto con il varietà, del varietà con il teatro farsesco, e della farsa con l’avanspettacolo e la rivista. Dunque, per i critici custodi delle separatezze, Totò era una mina vagante. D’altro canto, il teatro italiano non si sarebbe potuto limitare ad accoglierlo: avrebbe dovuto considerarlo un monstrum rivelatore, rispetto a cui ridiscutere la propria identità. Ad esempio un regista non avrebbe potuto comandarlo, come allora si usava, bensì avrebbe dovuto organizzare drammaturgicamente ciò che lui andava facendo: l’arte di Totò era inconiugabile con la regia dall’alto, tipica degli anni ’40-’50. Il ritmo dell’attore, indispensabile alla sua creatività, era alternativo all’orchestrazione su cui si basava allora il lavoro registico: la regia italiana avrebbe dovuto diversificarsi, rinunciare al monolitismo» (Fra Totò e Gadda, pp.48-49).

 

Non è un caso, allora, che Totò sia diventato la bandiera di molti irregolari di genio della scena italiana più recente, o che sia stato accostato a nomi impensabili. Totò e Artaud, inalberava come vessilli di un teatro vivo, dionisiaco, il Teatro delle Albe di Marco Martinelli. E un ultimo erede dell’attore snodabile, anarchico, urticante, popolare e intellettuale sembra Antonio Rezza nei suoi spettacoli con Flavia Mastrella, con una faccia segnata come quella del principe-guitto da un naso parlante, con una scardinante energia fisica e una devastante follia vocale che sbriciola convenzioni e sicurezze della vecchia scena.

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L'eredità di Totò tra avanspettacolo e ricerca

Prima di essere io. Cosa ci rende propriamente umani?

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Che non siamo padroni in casa nostra e che l’effetto della nostra volontà, delle decisioni, della nostra agency sulle direzioni che la vita prende è qualcosa di parziale, tutto ciò è forse una delle più importanti lezioni che la psicoanalisi ha dato alla cultura moderna. Celebre quel passo in cui Freud dice che la psicoanalisi è il terzo grande colpo che il genere umano subisce al cuore del proprio narcisismo e sistema di credenze, dopo la rivoluzione copernicana e l’evoluzionismo di Darwin. È chiaro, tuttavia, che il sapere psicoanalitico sull’inconscio non potrà mai diventare un’acquisizione della cultura, pena l’inceppamento della macchina, del lavoro della civiltà. La civiltà si fonda sul discorso del Padrone, un tipo di logica che ha un solo e unico interesse, secondo Lacan: “che la cosa funzioni”; la psicoanalisi ha invece la sua causa in ciò che non funziona.

 

Formazioni e istituzioni umane sono dunque dell’ordine del necessario. Far parte del consorzio umano significa rappresentarsi nella e alla civiltà in forma riconoscibile, dirsi, vedersi, percepirsi secondo i canoni e i significanti dell’Altro. In psicoanalisi questa ‘forma riconoscibile’ prende il nome di io. L’io è un costrutto immaginario e simbolico, si costituisce cioè nel dominio dell’immagine (l’immagine del corpo proprio e dell’altro) e del significante (il nome proprio, in primis). Dire “io sono, io faccio, io dico, io penso…” significa rappresentare quella cosa che si è, che si fa, che si dice, che si pensa; se la dico, non la sono, creo una distanza dall’evento che accade, dalla cosa. 

 

L’io è quella funzione di sintesi che ci rende propriamente umani, dove con “umani” qui intendiamo esseri viventi assoggettati a un Altro, a un discorso, con cui entriamo in un rapporto di desiderio (io desidero l’Altro e il suo discorso, l’Altro e il suo discorso desiderano me). Io sono questo, e non tutto il resto, amo questa cosa, questa persona, questo stile e non quegli altri; questo sì, quello no. Nel mondo e nel flusso dell’esperienza, l’operazione dell’io consiste nel ritagliare pezzi di esperienza, che diventa esperienza per me, a me rivolta, soggettivata. Ma prima che si dia questa formazione, prima cioè che l’essere vivente passi attraverso la strettoia del riconoscimento, acconsentendo alla propria rappresentazione simbolica e immaginaria, prima insomma di essere un io, che cos’è il vivente?

Si apre con una tale domanda questo splendido saggio di Franco Lolli, Prima di essere io. Il vivente, il linguaggio, la soggettivazione (Orthothes, Napoli 2017).

 

Louise Bourgeois, Maman

 

“Da dove vengono i bambini?” è la domanda del bambino-filosofo, dice Lolli. Indagine psicoanalitica sulle origini dell’umano, animale affetto dal linguaggio, il testo di Lolli si costituisce come una minuziosa analisi di un incontro, l’incontro tra quello che Jacques Lacan ha definito “il vivente”, cioè una vita incontaminata, non umanizzata, e il linguaggio, la logica della presenza-assenza che il significante introduce col suo avvento. 

Il vivente, dal canto suo, è già da sempre gettato nel linguaggio e nel discorso dell’Altro, già da sempre circondato e parlato da esseri umani suoi prossimi che costituiscono il suo Altro sociale, familiare, culturale; è già da sempre in relazione. Ed è proprio a quello che Freud, nel suo Progetto di una psicologia, definiva “complesso del prossimo (Nebenmensch)” che Lolli dedica principalmente le sue attenzioni. Cosa avviene nello spazio e nel tempo dell’incontro tra il neonato e il suo prossimo (generalmente la madre) e che ne è del prima di questo incontro, prima cioè della produzione di un soggetto e di un oggetto e della loro relazione? Che ne è della baraonda di immagini, di suoni, del flusso indifferenziato che circonda il vivente prima del suo riconoscimento, prima dell’individuazione di unità discrete, differenti in sé dal resto del mondo, che potranno perciò essere riconosciute, valorizzate, accettate?

 

Come avviene che a partire da quello che Jacques-Alain Miller definisce “l’oggetto chiacchiera del desiderio” – il discorso dell’Altro in cui è preso l’infans– possa sorgere una “risposta dal reale”? Di che natura è, quali forme, quali possibilità ha l’incontro tra un organismo vivente che sembra predisposto a “risuonare”, a sintonizzarsi al suono dell’Altro, e questo stesso Altro, che al principio si presenta come esperienza di soddisfazione, piacere, calore, suono, ritmo? Come si passa, insomma, dalla preistoria alla storia del soggetto?

 

Oggetto di indagine di questo coraggioso studio sono dunque le origini; origini della vita, dell’uomo, della coscienza, dell’alienazione. Perché definire “coraggioso” il lavoro di Lolli? La questione delle origini, come sappiamo, è cardine dei due discorsi che fanno parte della preistoria della psicoanalisi e con i quali l’invenzione freudiana da sempre si confronta: scienza e filosofia. In un suo scritto del 1955, Lacan parla di “una questione pipistrello: da esaminare alla luce del giorno”. In quegli anni, alle tecniche e ai saperi “psi” veniva chiesto di palesare il proprio statuto scientifico e dimostrare la propria efficacia ai fini del riconoscimento da parte del sistema sanitario. Rispetto a tale domanda, la psicoanalisi ha sempre invocato uno “statuto speciale”, una “extraterritorialità” rispetto al rigore scientifico, rifuggendo qualunque presa di posizione davanti alla domanda di riconoscimento. Non filosofica perché ancorata a una clinica del godimento implicato nel sintomo, non scientifica perché ogni caso clinico porta in sé una reinvenzione parziale della pratica, secondo Jacques Lacan la psicoanalisi rispondeva alle richieste che venivano dal mondo accademico come il pipistrello protagonista della favola di Esopo, che si camuffa da uccello per non essere ammazzato da una donnola che odia i topi, dopodiché si camuffa da topo per non essere ammazzato da una seconda donnola, che odia invece gli uccelli.

 

È in questo senso allora che vorrei definire coraggioso il lavoro di Franco Lolli, che nella sua difficile indagine – tutta psicoanalitica perché clinica – sulle origini dell’incontro tra significante e vivente, non perde mai di vista, come suoi interlocutori, da una parte il problema neuroscientifico della scrittura delle tracce di esperienza nell’apparato neuronico, dall’altra la speculazione filosofica sul concetto di “vita”. La questione forse più insistente dell’intero libro, ripetuta più e più volte soprattutto nella prima parte, domanda proprio che tipo di vita sia una vita al di qua della sua cattura, della sua alienazione al mondo umano, al mondo dei significanti e delle rappresentazioni. Si può dire umana una vita gravemente disabile? Che statuto hanno un corpo e una vita senza soggetto, senza conducente, senza io? Che cos’è, di chi è quella carne prima del gioco di rifrazioni attraverso cui il corpo, propriamente detto, si costituisce in un’immagine unificante e compatta, identificazione immaginaria primordiale, base più o meno sicura di un io e del suo rapporto con altri? 

 

È nel campo aperto da tali questioni che si presenta il personaggio di Liliana, “essere umano speciale”. Liliana è una donna di poco più di cinquant’anni affetta da una grave forma di disabilità intellettiva di origine organica; “così simile e, al contempo, diversa, familiare ed estranea, tanto intima quanto distante. L’incontro con lei è stato, ed è, un incontro perturbante, spaesante, impossibile da ricondurre agli abituali schemi relazionali, indicativo di possibilità esistenziali che si fatica a pensare umane” (p. 23). Liliana è un essere ibrido: alla vista appare simile all’essere umano, ma a quell’altra vista che è il riconoscimento appare invece simile all’animale. Un grande interrogativo rimosso s’impone epistemologicamente: se Liliana è così irriconoscibile all’occhio umano vuol forse dire che appartiene al campo dell’animale, che non se ne è mai emancipata? Dovremmo dunque pensare, secondo una cattiva logica evolutiva, che Liliana non merita l’attributo di “umano” dal momento che non ne esercita tutta la tecnica, la competenza, l’abilità e il lavoro? Trovarsi totalmente fuori dal discorso, dal legame sociale, dallo scambio, dal riconoscimento, fa di Liliana qualcosa di impossibile?

 

Emozionanti le pagine in cui Lolli si confronta con coraggio con questi spinosi e pericolosissimi interrogativi, attraverso i quali aleggia lo spettro dell’eugenia: “una considerazione di ordine etico mi convince, allora, a superare l’indugio che il rigore epistemologico comporta: supporre un umano dietro il vivente gravemente lesionato è una scommessa che intende volutamente ignorare il difetto logico dal quale prende le mosse il ragionamento, una sfida necessaria a scongiurare la segregazione del minorato in una riserva subumana”. Non c’è bisogno, d’altronde, di appellarsi a chissà quali ideali umanistici per progettare una tale supposizione; “del resto, una supposizione altrettanto ingiustificata è all’origine dell’azione interpretativa della madre, la quale, come noto, in una sorta di delirio da accudimento, attribuisce ad ogni gesto insignificante del proprio cucciolo un valore simbolico-comunicativo che strapperà quel gesto dall’insensatezza primordiale” (p. 44).

 

Tutto il lavoro di Lolli punterà dunque a dimostrare come non soltanto qualunque essere umano, ma persino qualunque animale domestico – cioè entrato in contatto col significante – non possa, a rigore, essere pensato come “fuori”. La condizione di Liliana non è che una delle possibili risultanti di un incontro e di un meccanismo che avviene sempre e comunque. Qualunque vita, anche quella vegetale, risponde e si muove secondo ritmi e alternanze – in primis piacere-dispiacere. L’omeostasi è un continuo negoziamento e movimento tra un + e un –, che come spiega bene Lacan nel seminario II, costituisce “la cellula elementare del simbolico”. Seguendo Lacan fin nel suo ultimo insegnamento, la radice del registro simbolico, a lungo supposto essere prerogativa dell’umano, viene rintracciata da Lolli in un reale primordiale. Ciò che intendiamo per riconoscimento, discorso, cultura non sono che “elucubrazioni di sapere” che muovono da un fondo comune (un comune non ontologizzabile, direbbe Jorge Aléman) che Jacques Lacan, con uno dei suoi più bei neologismi, ha chiamato moterialité, la materialità delle parole (mot). L’umano inteso come ordine discorsivo e riconoscimento delle forme, inteso come vita riconosciuta e riconoscente, origina da un fondo disumano, impasto informe tra reale e simbolico, ciò che sempre Lacan chiamava lalangue.

 

Liliana ci appare allora in tutta la sua ricchezza – che altro non è che il rovescio della sua povertà, come nota bene Federico Leoni nella sua bella prefazione. E con un movimento al contempo delirante, politico ed estremamente creativo, facciamo nostra la ricchezza di Liliana, assegnandole un posto, il posto del non-realizzato, dell’informe, del non previsto. Ritrovare così in Liliana “una fotografia della fenomenologia originaria del vivente” e costruire, grazie a lei, uno studio di tale portata, credo possa essere inteso e appreso come un altro colpo al narcisismo umano.

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Un altro colpo al narcisismo umano

Le storie ci aiutano a vivere

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Nella storia letteraria italiana ha avuto in passato largo corso il termine religioso «conversione», usato spesso e volentieri in senso metaforico. Da qualche decennio in qua la storia della cultura registra una diffusione straordinaria del traslato di origine automobilistica turn, «svolta». Non sarebbe male, una volta, interrogarsi sulle implicazioni, volontarie e non, di un immaginario che visualizza lo sviluppo delle ricerche in un percorso bensì tendenzialmente progressivo, ma contrassegnato da sterzate più o meno brusche, ovvero incline a una sorta di sinuosa, espansiva ramificazione (per questo aspetto, probabilmente, le scienze obbediscono alle medesime norme di altre forme della comunicazione sociale). Fatto si è che a metà del Novecento gli studi psicologici hanno registrato una svolta cognitiva (cognitive turn) che ha avuto importanti ripercussioni in altri settori del sapere, in particolare nella teoria letteraria, tanto che i rapporti con il cognitivismo hanno rappresentato il tratto distintivo della narratologia che si usa chiamare post-classica. Nel frattempo una svolta narrativa (narrative turn) aveva investito gran parte del mondo della ricerca, e poco dopo si è avuta l’esplosione degli studi sull’evoluzione (evolutionary turn), che si sono imposti come orizzonte all’interno del quale le scienze della vita e della cultura possono convergere. Anche all’interno degli studi letterari ha preso forma un filone, minoritario ma dinamico, ispirato direttamente al pensiero di Darwin e seguaci. Tra i non molti che in Italia ne hanno seguito gli sviluppi, un posto di assoluto rilievo spetta al comparatista siciliano Michele Cometa, che nel volume Perché le storie ci aiutano a vivere. La letteratura necessaria (Cortina, pp. 428, € 35) offre ora una sintesi di alcuni decenni di ricerche.

 

Per rimanere sul tema delle metafore viarie, Cometa si colloca all’incrocio dei Darwin literary studies con il cognitivismo di seconda generazione (e la narratologia cognitivista con esso imparentata): ossia quello che, prese le distanze dai modelli computazionali dai quali era partito, si mostra sempre più sensibile alla concretezza dell’esperienza (in primis corporea, ma in molti casi anche sociale). Un sintomo rilevante è la fortuna dell’aggettivo embodied, reso di solito in italiano con «incarnato»; e en passant si noterà la non spendibilità nella fattispecie della parola più vicina a body, «corpo» appunto, già ipotecata da altri dominî semantici. Cognizione incarnata, simulazione incarnata, memoria incarnata: quello di embodimentè un concetto-chiave delle ricerche attuali nelle scienze cognitive, dalla psicologia alla linguistica, dall’estetica alla filosofia della mente, e quindi anche alla narratologia. E infatti c’è chi parla di embodied turn: così come, a contrassegnare la recente attenzione al nesso tra mente (o mente-cervello) ed emozioni, cioè tra le facoltà cognitive e gli ambiti non razionali del sentire, è stata coniata l’espressione affective turn.

 

L’assunto generale del discorso di Cometa è ben sintetizzato dal titolo: il fenomeno (universale tra gli umani) del narrare si spiega solo sulla base di una utilità filogenetica. Raccontare e ascoltare storie ha offerto vantaggi, al singolo e alla specie: per questo l’autore non esita a servirsi del neologismo «biopoetica», messo in circolazione dai literary darwinists. Sui quali (o su alcuni dei quali) egli pure solleva non poche riserve: altro è infatti accogliere il principio generale della coevoluzione natura/cultura e ragionare in termini evolutivi, altro è accogliere tutte le proposte applicative che vengono avanzate (quasi proverbiale, per la sua bislacca improbabilità, il titolo Le ovaie di Madame Bovary). Non a caso, nel primo capitolo (Elementi di Biopoetica) Cometa allinea una serie di caveat: occorre guardarsi dagli usi disinvolti della categoria di adattamento; bisogna diffidare della metafisica delle origini; non ha senso applicare le leggi dell’evoluzione all’interpretazione di singole opere letterarie, e così via. Ciò premesso, egli tuttavia rivendica la necessità (l’urgenza, anzi) di connettere teoria letteraria, evoluzione e scienze cognitive. In questa chiave propone un percorso in tre tappe. Dapprima affronta la questione della narrazione con gli strumenti dell’archeologia cognitiva, dedita allo studio dei primi utensili come «incarnazioni del pensiero» e del Sé come una «costruzione estesa», che abbraccia cultura materiale, mente, ambiente; in secondo luogo si sofferma sulle abilità cognitive proprie della mente umana «che si incarnano nella produzione narrativa sia sul piano della produzione che su quello della ricezione»; infine analizza il rapporto fra letteratura e ansia, coniugando teoria evolutiva, neuroscienze e antropologia filosofica classica.

 

 

Diciamo subito che nel panorama della cultura italiana questo volume è un contributo quanto mai utile, anche per la corposa bibliografia, che ammonta a oltre sessanta pagine. Non di meno, un minimo di incertezza si può avvertire nella definizione del suo «lettore ideale». In genere, il libro non si presenta come un testo introduttivo, rivolto ai numerosi cultori di letteratura digiuni dei recenti sviluppi di narratologia, evoluzionismo e neuroscienze; tuttavia si trova (forse inevitabilmente) a dedicare lunghi tratti all’esposizione di opere altrui, salvo poi intraprendere sporadiche discussioni – ad esempio su un articolo di Marco Caracciolo uscito l’anno scorso su «New Literary History» – inclini a uno specialismo piuttosto accentuato. Non facile, del resto, era (è) individuare l’angolatura e la distanza più efficaci per render conto di un campo pluridisciplinare di studi molto vasto, soprattutto quando ci si ponga come obiettivo di valorizzarne zone di intersezione e punti di convergenza.

 

Nei vari ambiti che attraversa, Cometa insiste comunque su quelle che egli giudica essere (spesso con piena ragione) le pietre miliari dei percorsi di ricerca; per darne un’idea citerò– alla rinfusa, e senza pretese di esaustività – i nomi di Michael Austin, Joseph Carroll, Daniel Dennett, Ellen Dissenayake, Paul Eakin, David Herman, Odo Marquard, Winfried Menninghaus, Steven Mithen, Francesco Remotti, Oliver Sacks, Mark Turner, E. O. Wilson, Lisa Zunshine. D’altro canto – e a dispetto della frequenza dell’aggettivo «seminale» – Cometa sottolinea il ruolo di studiosi di generazioni passate, i quali, all’interno di quadri concettuali diversi, hanno saputo fornire lucide messe a fuoco di categorie poi largamente utilizzate nei meandri dei vari turns sull’uno o sull’altro spiovente del valico fra i due secoli: figure come il filosofo Arnold Gehlen (il concetto di «esonero», Entlastung), l’etnografo e antropologo André Leroi-Gourhan (la chaîne opératoire), lo stesso Sigmund Freud (specialmente per l’idea di «disagio della civiltà»).

 

Il secondo capitolo (Archeologia del Sé) è quello in cui si parla maggiormente di embodiment. Lo sfondo dell’argomentazione è il superamento del dualismo cartesiano corpo/mente, e dell’idea che possa esistere una intenzionalità astratta e autonoma, che precede l’agire informandolo. In realtà una stretta correlazione unisce cervello, corpo e cose: come scrive Lambros Malafouris, è la mano che scheggia la selce a informare la mente, non viceversa. In questa luce, l’emergenza della narrazione è radicata nelle «pratiche narrative prelinguistiche», fra le quali appunto la produzione di utensili, e inquadrata all’interno dello sviluppo delle pratiche decorative e delle arti materiali. Segue la trattazione dei modi in cui si costruisce narrativamente l’identità, non senza un indugio sul dibattito innescato dal saggio di Galen Strawson Against narrativity (2004). Uno degli aspetti a cui Cometa presta maggior attenzione è la possibilità di collegare l’elaborazione teorica all’esercizio dell’interpretazione, fino al close reading: un esempio interessante in questa direzione è lo studio di Dan MacAdams sulle «storie di redenzione» come schema narrativo privilegiato nella cultura nordamericana. Ma la sintesi più efficace della funzione della narrazione mi pare sia fornita da Daniel Hutto, che associandola alla psicologia del senso comune (folk psychology) la definisce come nesso tra la qualità informativa e la funzione regolatrice, fonte di exempla per le pratiche sociali («Ci sono tutti i motivi per supporre che le narrazioni siano caratteristiche distintive delle nicchie culturali umane, così come le dighe lo sono per i castori»).

 

Molto denso è il terzo capitolo (Poetiche della mente), che analizza tre questioni fondamentali dibattute dal cognitivismo letterario: 1) il blending, cioè la capacità di fondere concetti appartenenti a ambiti logici e semantici diversi (e quindi di connettere diverse aree neurali); 2) la «teoria della mente» e il mind reading, ossia la capacità di interpretare le intenzioni e i pensieri degli altri, sulla base dell’attribuzione agli altri di una mente simile alla propria; 3) l’empatia, questione molto dibattuta, che ha tratto alimento da un lato dalla scoperta dei neuroni specchio, dall’altra dagli studi sui primati (Frans De Waal). Oltre il mind reading, l’empatia mobilita componenti emozionali e affettive, declinandosi in una serie di gradazioni per la quale esistono varie proposte tassonomiche. Particolarmente interessanti qui le pagine dedicate al tema della «punizione altruistica», legata al problema cruciale dei fondamenti evolutivi dell’altruismo (qui gli autori di riferimento sono William Flesch e Suzanne Keen); la narrativa rappresenta un esercizio di monitoraggio in vitro dei comportamenti altrui.

 

Nell’insieme il capitolo più affascinante mi è parso tuttavia il quarto e ultimo, intitolato Antropologia dell’ansia. Il punto di partenza è la «teoria della compensazione», elaborata dalla filosofia tedesca (ricordo che a Cometa si deve fra l’altro la traduzione del libro di Hans Blumenberg La realtà in cui viviamo, Feltrinelli 1987). L’uomo è un essere «manchevole»; l’elaborazione di utensili, materiali e virtuali, serve a colmare i deficit ontologici di cui soffre. Anche le arti assolvono a questa funzione: ciò che esse sono chiamate a compensare è il senso di incertezza prodotto dall’incremento di complessità della vita mentale, frutto a sua volta della flessibilità con cui la nostra specie ha fatto fronte ai problemi di adattamento. Lungi dall’offrire soltanto vantaggi, la «crescita esponenziale della coscienza» genera un senso di vuoto, di esilio, di perdita di controllo sul reale, per non soccombere al quale sono state escogitate strategie di esonero. È su tale orizzonte che si spiegano le varie forme di distanziamento e di sospensione dalla realtà presenti nella produzione culturale, dal pretend play alla fiction, dal rito alla religione. E, naturalmente, alla letteratura, che viene così a collocarsi all’interno di una sorta di fenomenologia dell’ansia, come forma singolarmente duttile di compensazione.

 

Grande rilievo assume in questa parte finale il lavoro di Vittorio Gallese (del quale Raffaello Cortina ha pubblicato nel 2015 Lo schermo empatico. Cinema e neuroscienze, scritto insieme a Michele Guerra). Gallese propone una visione dell’attività artistica come «simulazione incarnata liberata», connessa al carattere «neotenico» della specie umana. Eloquente è il titolo del saggio pubblicato da Gallese nel 2011 insieme a Hannah C. Wojciehowoski, How Stories Make Us Feel: Toward an Embodied Narratology. La riconduzione di questa teoria alla categoria di esonero di Gehlen è, mi pare, uno dei contributi più originali di Cometa, all’interno di un libro che per molte ragioni converrà tenere a portata di mano.

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È la mano che scheggia la selce a informare la mente

Non c’è italiano che non sia un provinciale

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La maggioranza degli Italiani, anzi, a essere precisi, la totalità degli Italiani è fatta di minoranze. Proprio l’essere fatto di minoranze caratterizza l’intero che ne risulta e che qui sarà detto Italia: l’Italia (Italiani inclusi) come l’hanno fatta geografia e storia, con un lavorio appunto millenario. Si tratta di una compagine che va oltre la mera contingenza politica di quello stato unitario che, da meno di due secoli, prese la forma prima di un regno poi di una repubblica. Il valore più ampio ingloba naturalmente il meno ampio e non ne viene contraddetto. Ebbene, con tale valore, l’Italia è un intero interamente fatto di minoranze.

 

L’italiana non è del resto una nazione, come altre europee, ma un’ultra‑nazione. Il tratto è di lunga durata e fa ancora dell’Italia un’eccezione. Già a Dante la circostanza apparve chiara, come gli fu chiaro che la lingua del sì fosse la sua evidenza più lampante. Nelle sue forme che egli riconobbe come diverse e tutte particolari e in quella che, pur messa in uso, come egli appunto provò a fare, fu e resta sempre da costruire. D’altra parte, in modi mutevoli, la variazione è l’essenza degli Italiani, in quanto sì‑dicenti.

 

Durante il secolo scorso, si istituì uno standard linguistico italiano. Fu l’esito di secolari processi di amalgama e di un’accelerazione verso la semplificazione correlata con l’avvento della società di massa. Inaugurata nelle trincee della Grande guerra, la semplificazione fu in séguito spinta avanti da una scolarizzazione sempre più ampia, dai movimenti della popolazione e dalla fruizione di radio e televisione.

 

 

D’altra parte, uno o più standard (li si chiama così per brevità, con termine moderno) avevano già agito nell’area linguistica italiana. Lo avevano fatto a livelli diversi di ampiezza espressiva e di utilità comunicativa: dal commercio di beni a quello delle pratiche artigianali e artistiche e delle idee correlate. Erano ovviamente diversi dal più recente. Molto diversi peraltro erano i rapporti sociali, economici e culturali che cementavano. Ciò ne ha nascosto forse l’esistenza, certo il pregio agli intellettuali o, meglio, ai chierici italiani, d’elezione sensibili (perlomeno quando predicano) ai soli commerci spirituali.

 

Anche nella sua forma più ampia e recente, lo standard linguistico italiano non è però fatto di norme e non richiede identificazioni. Esso è fatto di approssimazioni e richiede avvicinamenti. In Italia, le norme continuano ad avere qualità e destino delle gride sulle quali ironizzò Alessandro Manzoni: così anche la norma linguistica. Si noti di passaggio una circostanza bizzarra, in proposito. Il grande romanziere fu capace di una fine analisi antropologica del fenomeno della norma. Lo fu meno l’aspirante legista della lingua. Se non pratico propugnatore, quando il problema di una lingua nazionale si pose, Manzoni si fece infatti consapevole pretesto di un progetto di politica linguistica che, pur didatticamente atteggiato, aveva il profilo di una grida. Nella circostanza, dell’ironia si dovette così incaricare la storia.

 

Lo standard italiano è allora effetto variabile e contingente di una contrattazione espressivo‑comunicativa. Nei commerci tra sì‑dicenti, tutto accade automaticamente, in tempi rapidissimi. La contrattazione non snatura i contraenti del patto. Li identifica per contrasto. Un bolognese, poniamo, non depone, esprimendosi, l’essere bolognese né lo fa un napoletano, nel reciproco scambio. Si badi bene, nessuno chiede all’altro la rinuncia alla propria identità espressiva, perché è d’altra parte geloso della propria, come è soddisfatto del proprio stato di particolarità.

La circostanza non vale solo in funzione dello standard nazionale. Se presi come istituti linguistici, anche quelli regionali sono mere astrazioni. La loro realtà infatti è, ancora una volta, un’approssimazione. Disperdere un catanese o un livornese, per esempio, in una generica identità regionale non sarebbe corretto.

 

Del resto, le regioni sono state una trovata con cui la classe politica italiana della seconda metà del Novecento, con il pretesto di rimediare al centralismo dello stato nazionale, ne disseminò il carattere e ne moltiplicò le sedi, creando altri centralismi burocratici con le connesse astrattezze.

Sarebbe d’altra parte errato chiamare dialetti (o anche lingue regionali) le numerose identità espressive italiane. Qui non si sta parlando né di dialetti né di lingue regionali. Si sta invece parlando della varietà dei modi di essere sì‑dicenti e di esprimersi come tali. Per comodità e per pertinenza, Dante ne individuò quattordici, in funzione del suo argomento, ma non è questione di numero.

Dal punto di vista storico e geografico, la diversità di tali modi è forse riconducibile all’articolazione delle diocesi, come istituto dell’organizzazione socio‑politica della nazione, quando essa venne fuori dal mondo antico, nei lunghi secoli del Medioevo. Dimezzandone il numero, le quasi cento province dell’Italia politicamente unitaria furono le più prossime a cogliere tale assetto. Del resto, non c’è italiano che, in essenza, non sia un provinciale e non lo sia positivamente. Nello spirito italiano, anche il cosmopolitismo prende un accento provinciale. 

 

Insomma, per convenzione nazionale, italiani si è sempre per difetto.

Si badi bene, però: ciò non è un difetto della nazione o, come si diceva, dell’ultra‑nazione; ne è semplicemente un carattere. Del resto, non c’è nessun italiano per difetto che tenga tale carattere come un suo difetto. Anzi, l’essere italiano per difetto è, per ciascun sì‑dicente, una qualità irrinunciabile. E anche non si trattasse di una qualità ma di un difetto, altro modo d’essere italiani non c’è e saggezza suggerisce quindi che, almeno come italiani, non lo si deplori. 

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