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Duchamp. Fontane e altro

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Cosa non ha scatenato Fontana di Duchamp da cent’anni a questa parte neanche Saâdane Afif ce lo saprà mai dire in maniera esauriente. Questo artista, Afif, ha vinto nel 2009 il Premio Duchamp del Centre Pompidou con un progetto intitolato The Fountain Archive, che a gennaio il prestigioso museo parigino ha esposto nel suo stato attuale. Si tratta per l’appunto del più completo archivio sul readymade di Duchamp mai messo insieme, ovvero di come compare riprodotto nelle pubblicazioni che Afif ha rintracciato a livello internazionale

 

 

Del resto i siti su di esso si moltiplicano tuttora, e le immagini che vi si rifanno, anche fuori dal mondo dell’arte, ragazze e ragazzi con scritto R. Mutt sul braccio o non so dove, vestiti a forma di Orinatoio… insomma è diventato uno scandalo di successo planetario – anche in Cina: si ricorderà il famoso quadro di Shi Xinning con un attonito Mao Zedong che lo scruta.

 


Molti gli artisti che vi si sono rifatti, degli italiani ne abbiamo interpellati almeno tre storici, che ci hanno dato tre versioni così diverse, e direi complementari, necessarie in realtà secondo noi a dare almeno un assaggio delle sfaccettature dell’opera in questione, nonché della personalità del suo autore e della sua influenza. Si sarà notato come Baruchello miri all’intelligenza complessiva, Patella alla forma per così dire psico-linguistica, mentre Gioli rende esplicito il rimando corporeo-sessuale, nonché alchemico. Duchamp è stato tutto questo, e anche il readymade, non lo si può ridurre al suo aspetto di provocazione o a quello formale. Si ricorderà che Duchamp, in difesa e a spiegazione del gesto di Mutt, nel testo pubblicato sul numero speciale della rivista The Blind Man dedicato al “Caso Richard Mutt” non lo difendeva esteticamente ma piuttosto eticamente da un lato (se lo statuto dell’esposizione diceva che qualsiasi opera presentata andava accettata senza discriminazione né giudizio, cioè ogni opera era “d’arte”), dall’altro lo legava piuttosto a quella che dichiarava essere niente meno che l’invenzione più rappresentativa degli Stati Uniti d’America, ovvero l’“idraulica”! Metafora interessante, no?, specie oggi che si parla da ogni parte di “società liquida”.

 

Carla Subrizi ha aggiunto altre rielaborazioni dirette di Fontana e molte altre se ne possono evocare. A me viene in mente in modo particolare, per ricordo personale, una lettera aperta di Mattia Moreni per una fanzine che fabbricavo con Marco Cingolani alla fine degli anni ottanta e che si chiamava Ipso Facto. Moreni parlava in modo particolare di Duchamp, a sua volta con una metafora alquanto insolita, un po’ macabra, direi, ma curiosa: “Ho conosciuto Duchamp prima della morte: aveva gli occhi fosforescenti di quelli che stanno per morire fosforescenti”. Voleva dire di una luce – mi pare che rimandasse a una citazione da Goethe – che si stava esaurendo, spegnendo? Comunque, poi prendeva di mira proprio Fontana esplicitando un pensiero che molti devono aver avuto: e se l’Orinatoio tornasse alla sua funzione? Se ci pisciassimo dentro? Magari dentro il museo stesso: “Pisciare, oggi, nel pisciatoio di Duchamp al museo di Filadelfia, sarebbe un avvenimento performato illibato, oltretutto intenso – dove l’operazione coincide con il sublime – quanto quello di esporlo, chiamandolo Fontana”. A parte il rovesciamento del readymade, la sua restituzione alla realtà, verrebbe rovesciato anche lo scandalo con uno scandalo opposto, ma sublime.

 


Non molti ricorderanno che già il trio Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati aveva “raddrizzato” l’Orinatoio– e restituito anche al luogo di origine, non al museo ma alla toilette pubblica – nel loro Vivre et laisser mourir ou La fin tragique de Marcel Duchamp nel 1965, dove l’orinatoio figura appeso su un fondo di piastrelle. L’opera a sei mani, accompagnata anche da un testo narrativo in stile thriller di “messa a morte” dell’artista, fece grande scalpore e non poche furono anche le proteste nei confronti dell’accanimento su un artista comunque così importante trattato in modo impietoso, ma diventò anche un manifesto della riscossa di chi difendeva le ragioni della pittura, non riducibile alla “retinicità” come Duchamp aveva preteso.

 

 

Quanto a Marco Cingolani, da parte sua ha cavalcato la metafora liquida di Fontana rivoltandola contro Duchamp e realizzato alla fine degli anni ottanta le serie – sia in pittura-collage, sia in miniscultura, come nella duchampiana Scatola-in-valigia, dove, si ricorderà, c’è una versione in miniatura di Fontana– intitolata significativamente Liquidare Duchamp, cioè appunto farla finita con tutta la storia a cui aveva dato adito, quel modo di considerare l’arte e il fare artistico.

 

 

In tempo non più di scandali un’altra restituzione è la ripresa di Fontana probabilmente più recente, esplicitamente intitolata America, di Maurizio Cattelan, del 2016. Si tratta, com’è noto, di un wc d’oro 16 carati installato in una toilette del Guggenheim Museum di New York. (In realtà il riferimento più diretto è naturalmente a Piero Manzoni e alla sua Merda d’artista, e alla famosa fotografia in cui si fece ritrarre con una scatoletta in mano sulla porta del gabinetto, ma non molti americani li conoscono e rimandano direttamente a Duchamp: vedi Calvin Tomkins). Pare che ci sia costantemente la fila fuori dalla porta: tutti ci vogliono pisciare dentro! Vendetta o godimento (da parte dello spettatore)? Fallimento o rivincita (da parte dell’artista)? Né l’una né l’altra, se capiamo bene Cattelan, cioè appunto l’aldilà dello scandalo, la sua spettacolarizzazione che vanifica le opposizioni, cent’anni dopo.

 

 

E non si dimentichi di pulirsi eventualmente con qualche pagina di Toilet Paper (come già intitolava la rivista di sua invenzione)!

Quest’ultimo è peraltro il titolo anche della serie, iniziata nello stesso 1965, di Vivre et laisser mourir, di Gerhard Richter, con il rotolo della carta igienica dipinto in sfocato, uno dei primi secondo questa modalità che lo renderà famoso.

 

 

Insomma tutta una storia si disegna a partire da Fontana, la quale, ricordiamolo ancora una volta, in realtà non fu mai esposta e venne smarrita subito dopo la famosa unica fotografia scattata per essere pubblicata nel dossier di The Blind Man. Sicuramente anche di questo ci vuole parlare Saâdane Afif: in fondo Fontana non esiste, potrebbe anche non essere mai esistita realmente, ovvero è di fatto, esiste nella forma delle riproduzioni e dei discorsi che si sono fatti e si fanno su di essa, di queste immagini fantasma e parole intorno, a cui abbiamo voluto aggiungere anche quelle del nostro piccolo omaggio.

Adieu.

 

Paolo Gioli

      

Ho sempre pensato alla Fontana di Duchamp come a un calco in negativo del bacino di un uomo. Svuotato di viscere e di testicoli ma comunque gran emanatore di sperma, dà vita a Marcel.

 

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Elio Grazioli | Paolo Gioli

Reputazione. Non resta che esibirci

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L’ultima cosa che impariamo nella vita, ha scritto una volta George Eliot, è l’effetto che facciamo agli altri. Eppure nell’età dei social network questo è diventato una delle cose più importanti. Come ci ricorda la filosofa Gloria Origgi in La reputazione (Università Bocconi Editore, pp. 209, € 18), possediamo due Io, che ci condizionano, sia per quello che siamo sia per come agiamo.

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Il risveglio della Romania

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Nonostante i riflettori della stampa internazionale si siano spostati altrove, il risveglio collettivo della coscienza civile in Romania avvenuto nei mesi passati continua a mietere i suoi frutti. Anche in questi giorni continuano le partecipatissime manifestazioni politiche contro la corruzione, completamente auto-organizzate ed autogestite dai cittadini rumeni che hanno dato prova di grande coesione, solidarietà e soprattutto efficacia nell'ideare una protesta omogenea e trasversale alle varie aree politiche e alle molteplici realtà sociali presenti nel loro paese.

 

Ma come si organizza un'azione di piazza efficace nel 2017? Quali sono i retroscena di una protesta pacifica che ha impedito che la corruzione fosse resa legale dalle istituzioni stesse?

Come è nato e come si è espresso il malcontento verso la palese corruzione dello stato rumeno? Quali sono i mezzi, i luoghi e le entità coinvolte? Lo abbiamo domandato ad Alexandra Irimia, dottoranda e assistente di ricerca presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Bucarest e attivista coinvolta fin dall'inizio nell'organizzazione delle proteste.

 

“Il malessere che anima le proteste è partito molto lontano”, dice Alexandra.“All'indomani della caduta del comunismo il potere è stato rilevato dalla ex-nomenklatura sovietica del regime di Ceausescu che lo ha mantenuto per i successivi 27 anni, fondando l'antenato del PSD di oggi, il partito socialdemocratico, ad oggi ancora il partito più forte nel paese. Le loro politiche, basate su un sistema di corruzione endemico, hanno contribuito a fare della Romania un paese sottosviluppato dal punto di vista dell'istruzione, della sanità pubblica e delle infrastrutture. Date le condizioni di prostrazione generale nessuno protestava, sia a causa dell'apatia e della sfiducia nella politica, e sia per le misure populiste che premiavano il silenzio con benefici piùo meno grandi in cambio. Le cose sono cambiate nel 2014 con le proteste violente per l'affaire Rosia Montana, quando il governo voleva concedere a una compagnia fantasma canadese i permessi per estrarre oro dalle montagne di questa pittoresca regione dei Carpazi usando il Cianuro, e nel 2015, quando è scoppiato un incendio in un locale undergorund dal nome Colectiv, in cui sono morti 64 giovani a causa della condizione di illegalità in cui doveva agire illocale per sopravvivere. In queste due occasioni, i semi del coinvolgimento civile hanno cominciato a crescere e germogliare e a tutti è diventato manifesto che ‘la corruzione uccide’, slogan delle prime rivolte e di quelle recenti. Nel 2016 ci furono le elezioni ma nulla cambiò. Solo due settimane dopo la sua presa in carico, ignorando le proteste e i ripetuti avvertimenti da parte delle istituzioni nazionali e internazionali, il ministro della giustizia, Florin Iorda che, preparò due decreti di emergenza volti a de-criminalizzare la corruzione che furono approvati dal governo all'una di notte del 31 gennaio scorso, aspettandosi che data l'ora la notizia sarebbe passata in sordina. Si sbagliavano.”

 

Quella stessa notte circa in quindicimila sono scesi in strada e si sono riuniti di fronte al palazzo del governo, chiedendo l'abolizione del decreto di emergenza e le dimissioni di un governo che usa metodi ignobili per proteggere i suoi leader. Da allora in tutta la Romania sono scoppiate le proteste, con dimostrazioni di piazza dai numeri impressionanti, arrivando a coinvolgere anche 500.000 persone . Dopo sei giorni il decreto è stato ritirato e il ministro della Giustizia si è dimesso sotto la pressione della piazza.

 

La geografia dei luoghi non è secondaria. “Ci siamo mobilitati da subito radunandoci a Piazza Victoreie, davanti al governo, al grido di Rezist! , la parola d'ordine della rivolta anticorruzione”, dice Alexandra, “persone da tutte le città della Romania sono venute a Bucarest per prendere parte alle proteste, ma anche i molti rumeni che abitano all'estero si sono spontaneamente mobilitati e sono scesi in piazza nelle città di tutto il mondo. Chi ha dei negozi o dei locali in centro ha portato tè e pasti caldi ai manifestanti che chiedevano le dimissioni del governo sotto la pioggia o la neve. Persone comuni hanno offerto ospitalità a chi veniva da fuori, i genitori hanno portato ai cortei i loro bambini per insegnare loro le regole base della democrazia (sono state organizzate addirittura delle proteste di soli bambini) e molti hanno installato sedie e scrivanie per andare a lavorare lì di giorno con i loro computer e mantenere la presenza in piazza invece di andare in ufficio. Insomma, si è creata una solidarietà collettiva, capacità di autogestirsi e ricca di spirito d'iniziativa, a tal punto che ha cominciato a girare una battuta che dice che il governo stesso è il più grande organizzatore di eventi della Romania, quando agisce contro i suoi stessi cittadini”.

 

 

Ovviamente, come in ogni mobilitazione di massa dei nostri giorni, il ruolo giocato da internet e dai social network è stato fondamentale. Le proteste sono organizzate attraverso gruppi pubblici virtuali, nati spontaneamente, “senza leader o partiti che li rappresentano o liguidano” ci tiene a precisare Alexandra. “Non appena le persone hanno cominciato ad incontrarsi per strada e a scambiarsi idee, sono nate numerosissime iniziative su internet, creando, ad esempio, una piattaforma che permette di tenere monitorate le spese, il budget e le decisioni del governo, o anche la diffusione dell'uso di nuove applicazioni come Slack, che aiuta la gestione di gruppi online, o le applicazioni che permettono di mandare messaggi anche senza la connessione dati, che viene meno quando molte persone si concentrano tutte in un punto, come accade puntualmente durante le affollatissime manifestazioni”. Esistono gruppi Facebook di confronto di ogni tipo: Timişoara Civica, da cui si convocano le assemblee e si arriva ad accordi comuni , Geeks for democracy, Coruptia ucide, Lawyers for democracy, #Rezistența, 600 000 for democracy e così via, ognuno con il suo specifico ambito di discussione e d'azione.

 

È interessante notare come la presenza della violenza sia stata minima in tutte le proteste con un'unica incursione avvenuta da parte degli hooligans e sfociata in scontri di piazza, che si sospetta sia stato un patetico tentativo del PSD stesso per screditare il movimento. La folla espelle dai cortei chi è lì per cercare lo scontro e la polizia ha sempre funzionato da servizio d'ordine, semplicemente allontanandoli. “Nessuno vuole che si ripeta quello che è successo durante la Rivoluzione del 1989 quando la rabbia popolare travolse il regime del dittatore filosovietico. Tutti i rumeni hanno ancora vivo il ricordo di quelle mille persone innocenti che sono morte e per cui nessuno è mai stato indagato o tanto meno processato”, continua Alexandra. “A chi avanza dei dubbi sulla possibile presenza di elementi nazionalisti o conservatori in questa protesta vorrei dire: c'è ben poco spazio per le dispute ideologiche quando la classe politica non si comporta in maniera trasparente, mente quotidianamente ai suoi elettori e cerca di decriminalizzare chi ruba il denaro pubblico. È vero che chi protesta viene da realtà diverse, benestanti come appartenenti alla classe media o poveri, di destra e disinistra, giovani, anziani e di mezz'età, ma è stata proprio questa la nostra forza e a renderci per la prima volta tutti uniti contro l'ingiustizia che ci opprime da sempre. Abbiamo fatto tutto questo senza che un leader o un partito si appropriasse del movimento e riponendo tutta la nostra speranza nella reazione della comunità internazionale: quale tipo di nazionalismo farebbe mai questo?”

 

In ultimo ci facciamo raccontare cosa è cambiato nel rapporto tra cittadini e Stato dall'inizio delle proteste. “Adesso sappiamo chi siamo, abbiamo preso coscienza della nostra forza come società civile e tutte le iniziative sono volte a tenere le azioni della classe dirigente strettamente sorvegliate dai cittadini. In questo momento, e per la prima volta nella storia,tutti i rumeni tengono monitorate da vicino le decisioni dei tre poteri, sia legislativo che esecutivo che giudiziario, e si cerca di mantenere alto il livello di attenzione di tutta l'opinione pubblica che reclama giustizia e trasparenza dal proprio stato. Le domande iniziali che hannofatto scoppiare le proteste sono ampliate e intensificate. Si continua ad agire attraverso petizioni, informazione, sit-in e manifestazioni più contenute ma mirate, e l' implemento dell'uso delle piattaforme on-line dove vengono registrate tutte le azioni e le spese delgoverno. Il 22 marzo si è tenuto un dibattito al Parlamento Europeo in cui si sono confrontati delegati inviati sia dal governo che dai manifestanti e l'Unione Europa ha ringraziato chi ha preso parte alle proteste per aver lottato in nome della democrazia e per aver riposto fiducia nei valori europei.

 

Un bilancio di come sia cambiata la percezione collettiva di tutti questi valori si può riassumere nella frase che uno dei bambini portati in Piazza Victoreie ha scritto per terra con il gesso: “Mia madre mi ha insegnato che non si mente e non si ruba. Che cosa vi ha insegnato la vostra?” conclude Alexandra.

La ricaduta del movimento rumeno nell'area balcanica è presto passata dall'encomio dei paesi vicini per il coraggio della popolazione rumena al chiedersi se non potesse essere d'ispirazione anche per i propri problemi nazionali. Tentativi di proteste contro la corruzione nei propri paesi e molte manifestazioni di solidarietà sono state organizzate nei mesi di febbraio e marzo anche in Albania, Bulgaria, Bosnia, Serbia e Montenegro, ed è di questi giorni la notizia delle proteste a Belgrado contro il governo di Vucic, accusato di aver vinto le elezioni grazie a brogli e di cui nelle strade si chiedono le dimissioni al grido di “lopov!”(ladro!).

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Intervista a Alexandra Irimia

Santiago Sierra. Il denaro e la colpa

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In quest’epoca di crisi, di conflitti e di ascesa di nazionalismi, gli artisti o scelgono di disinteressarsi ai fatti del mondo ripiegandosi su loro stessi – e quindi, nei casi più felici, grandi narrazioni sull’io, sull’esistenza, sulla psicoanalisi – oppure, al contrario, operano una critica delle condizioni sociopolitiche del nostro tempo. Spesso il rischio è quello di scadere in una retorica buonista, quando non superficiale, oppure di produrre mostre densissime, complesse, cerebrali, forse più simili ad una tesi di laurea in Scienze Politiche. Pochi sono in grado di mettere a nudo i meccanismi del sistema dall’interno come Santiago Sierra (Madrid, 1966), con durezza e rigore, ma anche in maniera lineare.

 

Santiago Sierra, Black flag.


L’artista infatti individua un problema, una falla nel tessuto sociale, e lo mostra per quello che è. Spesso realizza performance controverse in cui sfrutta direttamente con quelle fasce di popolazione in cui si individua una criticità (come disoccupati, immigrati, prostitute) per dare loro voce. Offre loro un salario minimo per svolgere azioni spesso inutili quando non dolorose, come farsi tatuare una linea sulla schiena, come in “Riga di 250 cm tatuata su 6 persone retribuite”, realizzata nel 1999 a L’Avana. Di questi meccanismi di sfruttamento e di queste differenze sociali siamo tutti colpevoli. Ecco quindi due parole chiave della sua pratica artistica: il denaro e la colpa. 

 

Santiago Sierra, Burned word.


Ne ho discusso con Santiago Sierra, che ho incontrato al PAC in occasione di “Mea Culpa”, la sua prima mostra antologica in Italia. Restio a parlare, non è uno di quegli artisti che di norma rilascia interviste. Riusciamo a scambiare qualche parola dopo la conferenza stampa. Per prima cosa dice di essere felice della mostra perché ha potuto agire in totale libertà. Di norma è un lungo processo di negoziazione, di addomesticamento, mentre in questo caso ho fatto quello che volevo nonostante siano opere dense e problematiche. Questa non è una cosa normale e perciò è preziosa. Un pregio della mostra è quello di essere prevalentemente costituita dalla documentazione, a parte alcune opere sculturee, l’installazione al primo piano “21 moduli antropometrici di materia fecale umana realizzati dai membri di Sulabh International” e le due performance realizzate in occasione dell’opening (una con alcuni senzatetto di Milano su compenso pari a 10 euro, l’altra invece con un veterano di guerra pagato per stare in piedi rivolto contro a un muro).

 

Santiago Sierra, Cube of carrion, 2015.


In questo modo non viene snaturata la sua pratica artistica, cosa che sarebbe facilmente accaduta integrando nell’allestimento alcuni oggetti usati nelle sue azioni, unicamente come feticcio/reliquia. Chiedo a Santiago in che modo realizza le sue performance e con quale criterio sceglie le persone che vi partecipano: Le persone in realtà si scelgono da sole. Si rendono disponibili volontariamente e ciò che ne risulta è una sorta di tracciato della nazione. Il salario minimo mette a nudo una verità: chi è disposto a fare qualcosa per pochi soldi è perché sta male ed ha fame. Per “Forma di 600x57x52cm” sono stato anche tacciato di nazismo per questo, perché si erano rese disponibili solo persone di colore.

 

Egli stesso definisce la sua pratica “antitesi della partecipazione”, in quanto chi partecipa alle sue performance si limita a fare ciò per cui è pagato. Negli anni ’70 la partecipazione aveva un altro senso, significava partecipare all’evento culturale. Vi era un forte senso di partecipazione alla società. Oggi partecipazione significa vendere il proprio tempo a terzi. 

A questo proposito, nel suo saggio del 2004 “Antagonism and Relational Aesthetics”, Claire Bishop, dopo aver messo in luce la matrice marxista del lavoro di Santiago Sierra, afferma che la sua pratica è relazionale (in riferimento a Bourriaud) nel senso che problematizza la natura delle interazioni tra individui, che sono sempre spaccate in due e determinate da rapporti di potere. Non riconcilia nessuno, anzi amplifica la tensione: il conflitto resta irrisolto. Sfruttatore e sfruttato, vittima e carnefice sono entrambi parte del sistema, e perciò ciascuno è colpevole.

 

Santiago Sierra, Veteran ukraine.


La mostra inizia già dal titolo, che è stato scelto dai curatori Diego Sileo e Lutz Henke e permette una chiave interpretativa del mio lavoro. È una provocazione. La colpa in realtà non esiste. È una parola chiave che spiega il sistema: serve infatti al sistema per creare un colpevole. Probabilmente se avessi dovuto dare io il titolo alla mostra, avrei scelto qualcosa nelle mie corde di molto descrittivo come “Santiago Sierra: 50 lavori” oppure “Santiago Sierra: 50 opere”. Normalmente scelgo titoli descrittivi che riportano numeri, cifre. Sono titoli che non nascondono nulla, anzi rivelano, mentre “Mea culpa” invece interpella il visitatore. Non dà risposte, ma al contrario invita ad interrogarsi sulla struttura del sistema in cui viviamo. Ben consapevole del reale impatto della sua pratica artistica nel mondo reale, afferma: Io faccio l’artista perché non posso fare altro. Questo è un mondo dominato dal mercato e dalle guerre. Verrà poco influenzato da quello che faccio io.

 

Santiago Sierra. Mea Culpa, a cura di a cura di Diego Sileo e Lutz Henke, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea (29 Marzo 2017 - 04 Giugno 2017).

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PAC (29 Marzo 2017 - 04 Giugno 2017)

Ancora e sempre Il partigiano Johnny

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Quando nel discorso del 26 luglio 1943, quasi atto fondativo della Resistenza, Duccio Galimberti definiva “pena atroce” il conflitto che si sarebbe scatenato, i giovani volontari e i soldati sbandati avranno subito pensato al duro combattimento contro i nazifascisti, fatto di raid. Ovvero di rapide azioni, di danneggiamento o di sottrazione, da parte di pochi uomini che agiscono in netta inferiorità di forze nel campo nemico e che configurano un’andata e un ritorno, aggiungendo che esse sono una figura tipica della guerriglia di resistenza. Nel più importante romanzo resistenziale, oggi ancor più completo e splendido nella versione critica offerta da Gabriele Pedullà con il titolo Il libro di Johnny, la parola ricorre due volte come del resto il fatto; ben più frequente un'altra forma che probabilmente chi ascoltava le parole di Duccio non si sarebbe aspettata, quella dell'Anabasi. L'opera, scritta dall'ateniese Senofonte, racconta nel primo capitolo dei diecimila mercenari, provenienti da varie parti della Grecia, messisi al servizio di Ciro il Giovane che andava preparando una coperta guerra per scalzare dal trono il fratello Artaserse II. Alla morte di Ciro nella battaglia di Cunassa del 401, l'armata, sempre combattendo attraverso il territorio nemico, procede nella faticosa marcia di ritorno (capitoli II-IV) verso la patria, le ancora infide colonie lungo il Mar Nero (V-VII). Il cuore dell'opera, fatta dai capitoli centrali, è stata punto di raffronto per altre vicende storiche consimili (Garibaldi in fuga dopo la caduta della Repubblica Romana, Emanuele Filiberto e i suoi che ripiegano dopo Caporetto, la ritirata di Russia), nonché un modello per fortunate narrazioni romanzesche e filmiche.

 

Le due forme di andata e di ritorno in mezzo al campo nemico preponderante – raid e anabasi – sono tuttavia da porre in dialettica strutturale: la prima va da A (il proprio campo) a B (l'obiettivo) con breve vettore biunivoco e atteggiamento offensivo; la seconda parte da A, sotto attacco, e forse vi ritorna dopo un tempo variabile, secondo un percorso imprevedibile ma non certo lineare. Accantonata la sorpresa che le anabasi nel Libro di Johnny sono ben più frequenti del raid, forma caratterizzante l'immaginario partigiano, dovremo allora considerarne le varie sfumature lungo un climax che segue lo sviluppo stesso del romanzo di Fenoglio. Si comincia dal ripiegamento, o il ricongiungimento con il grosso delle proprie forze, che è lo schema di anabasi più prossimo a quello del raid, perché compiuto spesso da pochi uomini senza perdite, e soprattutto rapido verso un porto abbastanza sicuro. Johnny, casualmente entrato in una banda comunista, lo prova quasi subito evacuando il paese occupato.

 

Ciò avviene in modo ordinato e sotto la guida strategica di un capo riconosciuto, lasciando infine un senso di incolume soddisfazione. Segue la ritirata umiliante. Rispetto alla perfetta teoria del raider più volte enunciata – “I fascisti superstiti debbono aver l'impressione che i loro morti sono stati provocati da un albero, da una frana, da... un'influenza nell'aria, debbono impazzire e suicidarsi per non vederci mai” –, gli ufficiali badogliani invece, provenendo dall'esercito, e costretti a continuare nella poco congeniale forma di guerriglia la guerra contro i Tedeschi, anche per riscattare l'onore perduto l'8 settembre si comportano quasi inconsciamente, per inerzia di formazione, in modo esattamente contrario. La polemica di Johnny su questo punto è costante per tutto il romanzo: rinunciare al raid significa per oggettiva situazione delle forze in campo consegnarsi all'anabasi. Infatti, una volta deciso di occupare Alba nell'ottobre del '44, non è più possibile ripiegare leggeri di collina in collina, tutto sommato in surplace non potendo per parte loro i fascisti occupare i rilievi, ma consegnarsi a una ritirata grossa, netta e scorante, capace di operare “lo sconvolgimento tellurico di tutto il sistema partigiano” per l'intero inverno.

 

 

Ecco allora la terza anabasi: la fuga dal rastrellamento. Sulle ali dell'entusiasmo per la riconquista di Alba e forse per accettare la sfida dei grossi lanci diurni da parte inglese comincia la grande controffensiva nazifascista, “la lezione di rastrellamento” che i partigiani avrebbero “portato nella tomba, e questa era la vera grandezza della lezione”. Il modello dell'anabasi prende corpo: il tempo della ritirata va dilatandosi come lo spazio, sempre più assediato e malsicuro, espropriato dal “lascivo dispotismo” del nemico e dunque slabbrato, inabitabile: “Ma allora avevano tutte le colline per rifugiarsi, ma ora perdendo le colline, quale sarebbe stata la loro fine?”. I comandi, che non avevano fatto tesoro della lezione, continuando a riproporre la “strategia dei presidi”, sono costretti ad abbandonarli uno per uno; dall'anabasi tradizionale si risale di una nota nel dramma rispetto all'abbandono di Alba, scompaginando i collegamenti fino ad un impronunciabile paragone con l'8 settembre per la mancanza di chiare direttive (“fu un fatto di telefoni, di silenziosi o troppo loquaci telefoni”). Per Johnny e i suoi, lasciato Castagnole, compare la Cascina della Langa, luogo chiave dell'ultima parte del romanzo.

 

I rischi aumentano di conseguenza in modo esponenziale e gli incontri con mille pattuglie addestrate e armate fino ai denti diviene di “micidiale inaspettatezza”. Una vera e propria caccia nella quale le prede, una volta padrone del territorio delle colline, hanno smarrito tutte le loro basilari certezze (“si fermarono non sapendo che fare e dove orientarsi”). I boschi, spazio circoscritto ma pure percorso e ripercorso in dilatazione, diventano luoghi di agguati mortali, di separazione ed incontri con altri fuggenti. L'anabasi si fa geroglifico e nomadismo; ciò che resta connotato essenziale ed intatto è il movimento: “–Togliamoci da qui, – disse Ettore. – Per dove? – sospirò Pierre: a quest'ora son dappertutto. Est, ovest, nord e sud. – Non muoviamoci! implorò il ragazzo. Disse Johnny: – Muoversi bisogna. –” Inevitabile viene allora lo sbandamento. Terminati i rastrellamenti nazifascisti, il comandante Nord cerca di riformare i decimati e male armati reparti, ma all'oggettiva difficoltà si aggiunge l'appello del generale Alexander a sospendere ogni attività bellica e tornare a casa. Ma quella casa, oltre a non essere per nulla sicura, non è certo la casa promessa al fondo dell'anabasi: qui, nell'inverno '44, comincia la vera Resistenza, l'epica di Johnny. 

I partigiani che il 1° febbraio 1945 sul poggio di Torretta rispondono alla chiamata di reimbandamento da parte di Nord hanno compiuto la loro anabasi.

 

Il comandante stesso, che si era mosso di luogo in luogo instancabilmente con la sua guardia personale, li arringa proprio sul punto unificante la sopravvivenza dei migliori, il ritorno e la futura edificazione della patria, data ormai per certa. Qui si apre il rebus filologico del finale in base alle diverse redazioni. Nella nostra prospettiva ci fa gioco il rifiutare la morte in battaglia di Johnny che, pur sigillando nell'assolutezza individuale il partigiano, troncherebbe però il compimento dell'anabasi. Piuttosto abbracciare l'ipotetica versione lunga riportata per frammenti da Maria Corti (Einaudi 1978), ancora in provvisoria stesura inglese, con il possibile rientro in Alba, sarebbe la definitiva ripresa di possesso della casa dopo diciannove mesi di combattimenti in movimento. E tuttavia la progressiva conquista territoriale da parte dei resistenti, con trionfo finale che coincida con la Liberazione, inverte il vettore direzionale dell'anabasi. Inoltre pare un'atmosfera poco consona al temperamento di Fenoglio e al finale tradizionale così splendidamente carico di sprezzatura (“Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico... Due mesi dopo la guerra era finita.”).

 

Infine si correrebbe il rischio di appiattire in toto la patria del dopo guerra con l'approdo del 25 aprile, cosa ben lontana non solo dallo scrittore di Alba ma dalla stragrande maggioranza dei partigiani delusi, laddove il compimento pieno dell'anabasi era e resterà, come sempre in Italia, uno slancio verso un futuro d'utopia. Allora tra le due vie contrapposte vorremmo sceglierne una mediana, proprio quella del Libro di Johnny, che in certo modo interlocutorio lascia il reimbandamento quale ultima anabasi attestata, ma pure rinvia senz'enfasi a quella che avverrà nella storia:

 

Poi Pierre lo guardò e gli sorrise, tristemente ma a cuore pieno. E nell'inizio della marcia gli venne a fianco e a fianco gli marciò, e Johnny si sentì bene come non più da secoli, e la gioia era doppia per sapere che anche Pierre stava bene come non più da secoli. Ma, più avanti, Pierre s'aggrottò e disse a Johnny che era stato un pasticcio. – Ma andava fatto, – disse Johnny, guardando il cupo ma non ostile cielo. 

 

Tratto da La Resistenza e i suoi poeti, Il Filo di Arianna, 2017.

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25 aprile 2017

La carne è triste, ahimè, e ho letto tutti i libri

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Un verso

È un verso di Mallarmé, che nella sua lingua suona: La chair est triste, hélas! Et j’ai lu tous les livres. Apre Brise marine (Brezza marina), poesia scritta dal poeta nel 1865, a ventitré anni. Un verso, dunque, della prima stagione del poeta, una stagione ancora tutta segnata dall’entusiasmo per le Fleurs du mal di Baudelaire (la cui seconda edizione era uscita nel 1861). La poesia è infatti in dialogo con alcuni famosi fiori baudelairiani come Parfum exotique, o L’Invitation au voyage , o La Musique

 

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Scrittori misogini e groupie femministe

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I.


Girls è giunta a conclusione, si direbbe in coerenza con il resto della serie, con un calare smorzato. Le vicende aperte e quelle chiuse rimangono esterne al momento finale, che strascica e chiude l’ultima giovinezza, rimasta per tutta la serie di un certo tipo, cioè comunque sempre cool, economicamente instabile (ma a quanto ne sappiamo incredibilmente equilibrista) e spregiudicata nelle azioni, ma sempre pronta a deliberare sulle norme di condotta. Come Hannah, la protagonista, ci ricorda in una delle prime puntate dell’ultima stagione, abbiamo a che fare con un prodotto seriale che opina su qualsiasi argomento. I personaggi esprimono pareri a piede libero – e questo non è male, significa visibilità e articolazione di questioni che non potrebbero altrimenti venire a rappresentazione. Ma mettere in scena un problema significa articolarlo il modo soddisfacente?

 

Alcuni di questi problemi sembrano essere più centrali rispetto agli altri, come se rappresentassero cioè una sorta di fuoco dell’orbita di Girls. In alcune puntate chiunque si accorgerebbe dei marchi pedissequi che suggeriscono: «Guardate che questa cosa è davvero molto molto importante per noi!». Così noi ci diciamo, come spettatrici e spettatori: va bene, vediamo cosa c’è di così importante qui. Il terzo episodio dell’ultima stagione, che s'intitola American Bitch, è proprio una di queste occasioni, e per almeno due buone ragioni.

 

Innanzitutto si tratta di un cortometraggio che chiunque, digiuno del resto del telefilm, avrebbe gli strumenti per comprendere. Tuttavia, per il consumatore abituale American Bitch risalta rispetto agli altri episodi perché richiede un approccio differente. In secondo luogo, tutto l’episodio ci sottopone un discorso di secondo livello rispetto ai temi cari alla serie, una meta-riflessione: non solo l’episodio affronta gli argomenti abitualmente messi in scena, ma anche la prospettiva dalla quale vengono considerati. L’approccio ci viene letteralmente spiegato dai fotogrammi in cui il quadro alla parete riproduce la scena inquadrata e viene incluso a sua volta nell’inquadratura che si fa a matriosca: abbiamo capito che c’è da fare attenzione.

 

Di cosa ci vuole parlare questo American Bitch? Di scrittura, di esperienza e di autenticità dell’esperienza, di violenza sessuale esercitata dal genere maschile sul genere femminile e, perciò, di femminismo. Non stiamo leggendo fra le righe: questi temi sono tutti citati esplicitamente nel copione.

Sullo sfondo di questi presupposti emergono tuttavia due problemi. Innanzitutto l’episodio mette molta carne al fuoco, si atteggia cioè ad avere opinioni forti, vorrebbe prendere delle posizioni rispetto ad alcune questioni etiche e politiche, sia pure attraverso un prodotto che si vuole pop – posizioni che rimangono, purtroppo, ambigue. Secondariamente, nutriamo molti dubbi riguardo al rapporto che più o meno surrettiziamente viene articolato fra prodotto culturale, inteso in generale (messo a tema esplicitamente nella forma: opera narrativa), e la sua fruizione, fra esperienza individuale e dimensione etico-politica.

 

II.


Cominciamo dalla seconda domanda: che cosa ci viene raccontato su scrittura, prodotto culturale, fruizione dello stesso, norme che regolano la nostra vita più o meno in comune (con rispettiva realizzazione individuale) e conflitto politico? Abbiamo uno scrittore affermato (il fittizio Chuck Palmer) viene accusato via Tumblr di aver forzato una giovane donna a praticargli una fellatio (accusa cui ne sono seguite altre, a cascata). Hannah, protagonista dell’episodio e aspirante scrittrice, pubblica un pezzo sul caso e per questa ragione viene invitata dallo scrittore nel suo appartamento.

Dopo i convenevoli (le accuse e un'osservazione azzeccata sul fatto che Palmer si inscena e impone come scrittore di successo e riconosciuto), si arriva rapidamente al cuore della faccenda. Lui le fa notare: non ti sei informata, forse io non ho esercitato violenza proprio verso nessuno, tu sei troppo sveglia per perderti dietro a questi particolari superficiali, non hai colto il centro del problema. Il che vorrebbe dire che sì, c’è una questione che potrebbe essere etica e politica, ci sono giovani donne molestate sessualmente e c’è una pratica giornalistica bottom-up dotata di dubbio accertamento delle fonti. Ma tu e io, cara Hannah – suggerisce l’accusato –, siamo scrittori e siamo intelligenti (la riconosce, o forse la lusinga, come scrittrice di talento e giovane donna dotata di intelletto), noi non dobbiamo fermarci a questo. Noi dobbiamo arrivare al nucleo autentico della questione, che se viene trattato soltanto così, come un fatto di cronaca, rimane imbavagliato.

 

 

Spettatrici e spettatori si chiedono, legittimamente, quale sarà mai questo “nucleo autentico” adombrato dalla chiacchiera. A turno, prima lui e poi lei, si raccontano le rispettive storie. Lui raffazzona qualcosa su una giovinezza sessualmente costretta e infelice, lei confessa di un docente di inglese e scrittura creativa che si profonde in attenzioni troppo fisiche e troppo poco limitate all’ambito della scrittura, aggiungendo quanto l’episodio sia stato formante per la sua esistenza. Lui risponde che questa è una grey area, una zona indeterminata, dove non è chiaro decidere che posizione assume chi. Lei commenta, accortamente, che c’è un desiderio di essere riconosciuta da qualcuno che ti dice brava, sei di talento; ma anche che l’obolo da pagare per tutto questo è l’ingresso nella zona grigia delle attenzioni sessuali non richieste, non consensuali, non piacevoli. E allora, cosa fare?

La risposta è che boh, non si sa. Perché la questione c'è, e non è solo etica, ma anche politica: perché una classe di persone dovrebbe pagare un prezzo così alto per essere riconosciuta come ciò che desidera d’essere riconosciuta? Considerando soprattutto il potere che coloro i quali sono supposti riconoscere possono, a questo punto, esercitare. Eppure, arrivati a questo punto, ci accorgiamo che i due cominciano a cambiare atteggiamento uno verso l’altra, perché si sono comunicati autenticamente le reciproche esperienze individuali. Comincia a emergere una certa retorica dell'autenticità e a prendere corpo una soluzione estetica al problema.

 

 

Il dialogo procede. Lui non ammette esattamente il proprio errore – non ho esattamente fatto quello che tu mi accusi di aver fatto – però riconosce di non aver ascoltato la storia individuale delle donne con cui ha dormito (con quanto consenso e in quale zona grigia non ci è dato sapere) e aggiunge che quello che non ha fatto con loro può farlo con lei, riscattandosi. Perciò le chiede: dimmi chi sei, raccontami chi sei, confessami la tua storia. Lei, dapprima sollevata, poi compiaciuta e appagata, attacca a raccontare di se stessa – ironia del caso, l’impressione è quella di uno small talk fra colleghi incastrati in ascensore che per caso o per finta si trovano simpatici. Come a dire: la questione non sarebbe più la violenza, né la disparità di potere, né un sistema di diseguaglianze e marginalizzazione, bensì l’autenticità della nostra vera, profonda storia individuale. Ogni individuo è il racconto di se stesso e il resto è tutto sommato secondario. Qui cominciamo già a percepire, forse, come spettatrici e spettatori, una certa delusione. Sarebbe questo tutto quello che c’è da dire sull’argomento?

Non è ancora tutto. L’acme del nostro disincanto di pubblico si raggiunge poco dopo, nella camera da letto di lui, quando i due si mettono a parlare – ormai complici, ormai aperti e reciprocamente onesti, ormai scrittore-che-riconosce e scrittrice-riconosciuta – di un romanzo di Philip Roth, Quando lei era buona. Lei asserisce: in fin dei conti non mi interessa che sia uno sporco misogino, perché è uno scrittore così bravo. Si realizza così l’ultimo passo nel climax della retorica estetizzante dell’autenticità. Qui American Bitch sembra suggerire che sì, d’accordo, ci sono tutte queste cose importanti in merito alle quali dobbiamo mostrare di avere un’opinione, che esiste la questione della molestia, e quella del potere, e della visibilità, del riconoscimento e del prezzo da pagare per ottenerla – ma alla fine cosa vale tutto questo davanti a una comunicazione autentica? Alla mia storia? Alla mia vera esperienza individuale? E soprattutto cosa vale davanti a quello che chiamiamo letteratura, la cui funzione è a quanto pare limitata a farci godere esteticamente di questo bel racconto che siamo? La serie risponde: un bel niente.

 


Se questa risposta particolare, in American Bitch, fosse la cifra generale di Girls, allora avremmo a che fare solo con una sorta di riscatto estetico di ciò che viene denunciato. La rappresentazione naturalistica, distaccata, a tratti ironica della serie non esprimerebbe più un gusto per la contraddizione, ma una distanza sterile. Però che cosa sarebbe d’altro questa ironia, a tratti amara, tutta carica di paradossi, se non la risposta al fatto che qualcosa non va? Se qui si colloca l’intelligenza della serie, ritroviamo anche l’inciampo della puntata. L'episodio American Bitch, in fin dei conti, sembra dirci che l’unica soluzione possibile è dare vita a un prodotto culturale (sia esso narrativo o audiovisivo poco conta), che accortamente dimette ogni pretesa, esclusa quella di raccontarci la nostra storia, per darci quel poco di conforto che ci occorre per tirare avanti (“Voglio fare ridere la gente delle cose brutte”, dice Hannah).

Dispiace sottolineare tutto questo a proposito di una serie con parecchi momenti riusciti, ma la risposta alla questione del legame fra letteratura e sfera socio-politica si risolve unicamente in favore di una non meglio specificata “autenticità” – autenticità che finisce per porre a distanza qualsiasi attrito e fastidio, e assicura il riscatto nel compiacimento estetizzante. Il mondo si divide fra messinscena e contraddizione, senza che fra i due piani vi sia mediazione: possiamo solo godere di essere stati autentici e di esserci raccontati. Arrivati a questo limite, chiedersi che fine ha fatto e che posto ha (o che potrebbe o dovrebbe avere) tutto il resto, ci sembra non solo legittimo ma, come speriamo sia chiaro, piuttosto necessario.

 

 

III.


Non che si voglia invitare qui a una risoluzione univoca della zona grigia, sia chiaro. La serie di Dunham è stata una boccata di aria fresca nel panorama statunitense quanto a schiettezza e intelligente ambivalenza nel trattare temi scomodi, raramente mostrati sul piccolo schermo e da una prospettiva femminile, e soprattutto solitamente tagliati con l'accetta nel dibattito liberal. Una serie in cui ambivalenza non faceva rima con relativismo quanto piuttosto con dialettica, una comprensione profonda della complessità di alcune questioni, difficili da risolvere con slogan politically correct. Nel corso delle sei stagioni di una serie che ha fatto della rappresentazione del disagio la sua bandiera e cifra autoriale, abbiamo visto i personaggi alle prese con questioni spinose come il sesso non consensuale, il lavoro, la droga, l'aborto: tutti argomenti scottanti sempre trattati con acume, malinconia, partecipe (e mai cinica) comicità. La lente attraverso cui queste vicende erano narrate era quella di uno dei personaggi meno empatici della storia della televisione: l'egocentrica, inadeguata, meschina e lamentosa Hannah Horvath. Se il tasso di insopportabilità dei suoi personaggi è stato ciò che ha fatto allontanare molti spettatori, lo zoccolo duro (non certo minoritario) trovava invece liberatorio vedere rappresentate le vicende di individui sgradevoli, fallibili, talvolta gretti e calcolatori, spesso condannati a commettere gli stessi errori. L'insistenza di Dunham nel riproporli sembrava riuscire nella difficile impresa (condivisa in parte da alcuni registi dell'Indiewood) di comprenderli, compatirli, amarli, pur senza assolverli, senza concedere sconti morali a nessuno. Un precario equilibrio che American Bitch, nella sua volontà di fungere da nucleo e riassunto dell'intera operazione sembra far pendere invece sul piano del non giudicare, in nome di una malintesa redenzione estetica, la cui problematicità è già riconosciuta dal discorso benjaminiano.

Forse la forma del cortometraggio non si addice a una trattazione del tema femminista che fa da fil rouge a tutta la serie: per capire la psicologia di personaggi sgradevoli e francamente insopportabili è necessario frequentarli un po' più a lungo che non riassumerli in poche battute apodittiche riguardo a una questione sociale e politica (o “morale” nel senso più alto del termine). Si tratta di entrare nella loro esperienza, immedesimarsi, per cogliere cosa, nella loro esperienza individuale e “autentica”, esca da questa per farsi patrimonio e riflessione universale, relatable per uno spettatore potenzialmente lontano dalle vite hipster newyorkesi dei sopracitati. Perché persino nella fiction “l’esperienza personale” e il vissuto privato rischiano di diventare una gabbia (nemmeno tanto dorata), in primis per lo sguardo femminile, da sempre ri-confinato nella “stanza tutta per sé” di woolfiana memoria, il famoso sguardo del subalterno che non può ambire a dire nulla di universale, sempre costretto nei confini angusti della situatezza, sempre circostanziato da condizioni esistenziali che invece non sembrano toccare neanche lontanamente lo sguardo e la voce di quelli (maschi bianchi eterosessuali) che  hanno potuto parlare di tutto e per tutti.

Così anche l'esperienza di molestie vissuta da Hannah a scuola di cui parla a Palmer diventa infatti una sorta di autorità contro la quale non si può dire niente se non “mi dispiace”, come fa anche lui: l'intero portato politico e sociale della questione patriarcale viene ridotto al vittimismo su cui si è appiattito nel mainstream il nuovo (post-) femminsimo, come dimostrano certi movimenti dell'ultim'ora e la questione del femminicidio, che invocano per lo più punizioni maggiori e preventive contro la violenza domestica, in totale ignoranza e disinteresse del discorso di classe a cui si lega e al sistema che crea le condizioni per la subordinazione femminile (in particolare nel nostro Paese).

 

 

Da una voce attenta alla discriminazione capillare delle donne anche nel campo della rappresentazione, delude non poco vedere Hannah e Palmer concordare sul fatto che a spingerci a leggere Philip Roth dovrebbe essere il suo genio letterario, anche se “è un misogino che sminuisce le donne”. È proprio qui che casca l'asino e che Dunham fallisce, smascherandosi e rinunciando programmaticamente al compito di essere “la voce della sua generazione” che Hannah si era autoassegnata all'inizio della prima stagione. È qui che l'ingenuità estetica del culto del genio, della riduzione della letteratura (e della fiction in generale) alla mimesi del reale, dell’autentico rivela anche la loro portata politicamente disastrosa. Non dovremmo leggere Roth anche se è un porco misogino, Hannah, bensì proprio per questo. Non occorre citare lo Stoß heideggeriano, l'estetica di Adorno o anche solo la catarsi aristotelica per sapere che l'esperienza estetica (non solo o non necessariamente artistica, visto che stiamo parlando di un prodotto culturale di massa, e comprendere se si tratti di arte sarebbe contrario ai nostri fini in questa sede) ha e deve avere anche la funzione di offrire un laboratorio sociale per affrontare e riflettere su quei temi che ci provocano sconcerto morale.

 

La questione dei limiti etici della letteratura è nuovamente in auge di questi tempi nel dibattito culturale italiano. Lo si deve all’ultimo romanzo di Walter Siti intitolato non a caso Bruciare tutto e all'infelice recensione che ne ha fatto su Repubblica la filosofa Michela Marzano. Nel romanzo, Siti racconta con toni particolarmente scabrosi e scandalosi (scandalistici?) di un prete divorato dalla sua ossessione pedofila. Con buona pace di Palmer, che dichiara: “non lasciare che la politica determini cosa leggi e con chi scopi” (e di Hannah, che asserisce convinta: “questa me la tatuo”), ha ragione Marzano: la letteratura, e la cultura in generale, sono anche una questione morale. Proprio per questo non possiamo lasciarla in mano ai moralisti.

Pedofili e sexual harrasser, come lo stesso Palmer dunhamiano, sono diventati un bersaglio troppo facile per chi pensa di avere a cuore le questioni di genere, di essere sensibile alle tematiche femministe e della discriminazione sessuale. Un nuovo lupo cattivo, un mostro da sbattere in prima pagina, un bersaglio bipartisan che assicura coscienza pulita a chiunque lo additi. Non si tratta di sbattere il mostro in prima pagina, ma di cosa si ha da opporre al problema di violenza che si denuncia. Ecco: il genio artistico, l'autenticità, la poetica autoriale come redenzione da ogni male ci paiono un po' poco.


L'intimità e il mutuo rispetto che si creano tra Hannah e Palmer si basano sul presupposto sbagliato, quello che proprio perché stanno condividendo con l'altro esperienze autentiche e private, la questione dello squilibrio di potere, impugnato da Hannah nella conversazione, sparisca. Così, quando Palmer ne approfitta per tirare fuori il membro e appoggiarlo sulla coscia di Hannah (più con l'intento di dimostrare l'ingenuità, la cattiva coscienza, e il velleitarismo moralistico della stessa che non per via del suo irreprimibile impulso sessuale da lui menzionato), sembra di rivedere il finale di Nymphomaniac. E non è un caso se anche nella scena finale, in cui una lunga fila di donne entra in casa di Palmer proprio mentre Hannah, turbata e sconvolta dopo aver dovuto assistere al momento più assurdo dell'intero incontro, quello in cui la figlia di Palmer suona il flauto traverso sotto lo sguardo adorante del padre, ricorda un altro film di Von Trier, regista fra i più ambigui in tema di etica sessuale e in odore di non troppo velata misoginia. Nella risoluzione estetica della grey area a cui assiste Hannah, segnalata non a caso dall'unica scena che si allontana dal rigoroso realismo della serie, troviamo quella dittatura dell'immagine, il limite costitutivo dell'art pour l'art: se in American Bitch la processione silenziosa vorrebbe indicare l'appartenenza di Hannah al suo genere, ricondurre a una bigger picture l'esperienza “autentica” e disturbante appena vissuta, in un film come Antichrist la discesa nella valle di centinaia di donne senza volto sembra invece rappresentare in un'immagine la minaccia del femminile agli occhi terrorizzati del maschio. Lo stesso significante che vorrebbe avere un significato opposto. Un'immagine dialettica, o forse piuttosto la dimostrazione che senza la volontà di decodificare le immagini, di riflettere sulla finzione e sul suo ruolo politico e sociale, la superiorità morale lascia il tempo che trova?

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Su “Girls” e “American Bitch”

Bisogna bruciare Siti?

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«“Mettermelo in culo”, disse, con tranquilla innocenza, Ernesto»: così risponde un ragazzino sedicenne, nella Trieste del 1880, a un uomo adulto che gli ha fatto capire le sue intenzioni erotiche e gli ha dichiarato, in dialetto, e usando un rispettosissimo pronome di terza persona, «non sa cosa mi piacerebbe tanto farle?». La forza eversiva, scandalosa, della battuta, circondata da un’aura che si percepisce ancora oggi, composta dalla magica rarefazione del dialogo, della situazione imbarazzante, della differenza di classe (Ernesto è colto, di famiglia medio borghese, il bracciante è povero, usa quasi sempre la lingua del popolo), non sta certo nel termine usato e nell’atto che presuppone. Nell’Italia del 1975, quando esce il romanzetto di iniziazione scritto da Umberto Saba durante un soggiorno in clinica più di vent’anni prima, e mai pubblicato, il termine e il verbo hanno di sicuro perso forza e peso. E qualcuno potrebbe sempre rifarsi allo stesso atto che Lawrence mette in scena tra la consueta e ormai desueta Connie Chatterley e il guardiacaccia, oppure contare quanta frequenza ha lo stesso atto in una pagina di Sade, dove, come insegna Barthes, il coito anale ha uno specifico valore filosofico, in quanto sovverte le leggi naturali tanto detestate dai filosofi libertini. Le strategie usate in circostanze diverse per circondare di un cordone sanitario robusto l’atto sodomitico fanno parte della storia della cultura.

 

Lawrence stesso, nel difendersi dall’accusa di pornografo, dovette ricorrere a una complessa ricostruzione storica che risaliva fino al momento in cui “flusso sessuale” e “flusso escrementizio”, rigorosamente separati, iniziavano a contaminarsi. Così come, secondo il tribunale vittoriano, la colpa del guardiacaccia stava nell’aver contaminato la mente della bella Connie insegnandole parole proibite.

Le idee di Lawrence intorno a sesso e contaminazione escrementizia vengono ricostruite con grande puntualità dal premio Nobel J.M. Coetzee: «Non esiste forse un rapporto diretto fra lettura, curiosità e fiuto per ciò che è sporco?» (Pornografia e censura, Donzelli, 1996). E anche ammesso che Lawrence immaginasse per la sua Lady una rinascita di liberazione dalle convenzioni, un trascendimento dei valori borghesi attraverso la vittoria sulle paure e sui tabù legati alla sessualità, «il tabù viene davvero eliminato una volta che è stato trasgredito?» si chiede Coetzee, che cita subito un immancabile Bataille: «La frequenza e la regolarità della trasgressione non ledono l’intangibile stabilità del divieto, perché ne sono anzi il complemento».

 

L’azione che suona così esplicitamente cruda e irriverente nella bocca dell’adolescente Ernesto ritorna, con un rimando altrettanto diretto, nella mente di Leo, giovane prete diciannovenne che si trova in un campo estivo con alcuni ragazzini e sente la spinta del desiderio erotico per Maicol, nove anni, che lo invita a dormire con lui nel sacco a pelo. Dopo aver rifiutato, Leo combatte per tuta la notte col desiderio, al mattino ritrova la lucidità e capisce che Dio comunque lo attende, che la sua vocazione può procedere. E allora, coraggiosamente, ricorda le parole senza via d’uscita del Vangelo di Matteo (5.21-37): “il vostro parlare sia sì sì, no no; il di più proviene dal Maligno”. Leo (e la regola vale per tutta la sua esistenza) non riesce a «cincischiare in malafede con gli eufemismi». Il verbo giusto per definire quello che desidera dal ragazzino è “incularlo”.

 

Mario Giacomelli

 

Siti ci ha sempre abituato a un parlare che risponde al principio del “sì sì, no no”. Ora ci fa ascoltare anche il “di più” che viene dal Maligno, più volte evocato nel romanzo, secondo un modello che lo stesso autore fa risalire al Thomas Mann del Doctor Faustus (che era un esorcismo contro il nazismo attraverso l’allegoria della musica). Bruciare tuttoè l’opera con cui Siti dimostra che la “exit strategy” del romanzo precedente in qualche modo ha funzionato. Là era annunciato: «Nel pomeriggio in biblioteca leggo breviari e libri di teologia, il protagonista del mio prossimo romanzo sarà un prete». E la scena finale si svolgeva al Famedio, nel cimitero monumentale di Milano, dove Walter vuole interrogare –senza successo– la tomba di Alessandro Manzoni.«Chi non sarà in emergenza non avrà diritto di parola» risuona il motto che Walter si immagina di ricevere come risposta, anche se poi deve accontentarsi di cadere in ginocchio di fronte a una croce e pregare «senza sapere Chi». Dunque una crisi religiosa apriva due anni fa lo spiraglio attraverso il quale oggi esce don Leo. E, risalendo indietro al 2006, Troppi paradisi finiva con l’assunzione di adultità da parte di Walter, che affermava orgogliosamente (e ironicamente): «Ora che Dio mi ama, non ho più bisogno di esibirmi».

 

La tecnica di Siti prende oggi una nuova forma, e bisogna partire forse di qui per capire meglio l’approdo alla figura del prete e al nodo che si stringe sul tabù della pedofilia. Finora Siti ha costruito un racconto indagando dentro mondi diversi con lo strumento di un personaggio che lui ha ritagliato su se stesso. La sua operazione (prendo l’immagine che Pasolini usò per Volponi) consiste nel sovrapporre due superfici trasparenti sulle quali si trovano disegnate due tipologie di forme diverse: da una parte la condizione esistenziale e psichica dell’omosessuale maschio maturo, dall’altra i mondi differenziati che questo omosessuale si trova ad attraversare (università, palestre, società romana sia alta che media, televisione). Il diritto di parola Siti se lo prende proprio nel favorire l’eccezionalità che nasce dal disegno inaspettato prodotto dal contatto tra le due lastre. L’omosessualità, proprio perché esibita, provoca il bisogno di una parola “vera” da mettere in contrasto irrisolvibile con le parole che circolano dentro i mondi frequentati e riprodotti da Siti. Saba aveva scritto la battuta di Ernesto pensando a una liberazione da lui raggiunta a fatica con la complicità di Freud e Nietzsche. Siti ha messo ripetutamente in scena un se stesso in “stato di emergenza” per ansia di inseguimentodella verità (la verità su di sé, innanzitutto, e conseguentemente la verità sui mondi che lo circondano). Da qui due delle forme più esplicite dello stile di Siti: lo scambio dialogico intrecciato fittamente per creare un effetto di confusione, dove spesso domina la parola falsa del quotidiano, e il motto caustico, sapienziale, cinico (sempre in bocca al protagonista) che vuole smascherare le opinioni diffuse per sgonfiarle.

 

Per condurre questa operazione fino in fondo, e per darle una forza inesauribile, Siti ha dovuto creare Walter Siti, cioè il suo doppio che gestisce il racconto e agisce in quasi tutti i romanzi. Questo Siti “finto” in realtà ha un peso specifico molto superiore a quello di un personaggio letterario, dal momento che la sua carne e il suo sangue hanno qualcosa del Siti “vero”. Qualcosa: non importa quanto, basta “qualcosa” per creare il cortocircuito che fa saltare in aria le convenzionali distinzioni tra autore, narratore, personaggio. Siti li ha compressi in un’unica sagoma, ne ha ricavato un millefoglie finto-vero, o vero per eccesso di finzione. Tanto che lui stesso può giocare sulle continuità tra un romanzo e l’altro, facendoci seguire le vicende di un Siti che si sviluppa nel tempo, che si innamora, si perde dietro un culturista in disarmo e cocainomane, si rovina per assecondarne i desideri, si sottopone a un intervento di chirurgia plastica al pene ecc. ecc. Alla fine, trasferendosi da Roma a Milano, Siti rinuncia ai troppi paradisi e si converte a un amore come tutti, accettato nella sua quotidiana medietà. Incontra Gerardo, si libera a fatica degli ultimi sussulti di desiderio infinito (il corpo dei culturisti) e scopre la vita privata («in entrambi i sensi del termine, come aggettivo e come participio passato»).

 

Al termine di Troppi paradisi, il romanzo dedicato alla finzione assoluta implicita nel reality televisivo, Siti dichiarava di sentirsi finalmente nato, cioè capace di affrontare il mondo con la consapevolezza di un nuovo rapporto tra sé e la realtà. Exit strategyè il diario conseguente a questa rinascita, dove ancora una volta viene messo in scena il bisogno di uscire dal ruolo di personaggio che ormai gli sta stretto, come la cornice del quadro da cui tenta di scappare il ragazzo dipinto a fine ottocento da Pere Borrell e messo in copertina.

 

 

Ora, in Bruciare tutto, Siti crea don Leo Bassoli dandogli la completezza di un personaggio che si muove nel mondo con la stessa rabbia, le stesse paure, il bisogno di affetto, l’aggressività che contraddistingueva il Walter Siti dei romanzi precedenti. Tutto quello che prima era una complessa strategia per raggiungere l’infinità del corpo maschile, ora diventa un ininterrotto tormento per mantenere vivo un corpo a corpo con Dio. «Non posso dire di volerti bene, ora, anzi provo verso di te un’inticchia di risentimento (come tu verso di me); ma sei nato dalla mia testa, senza sdolcinatezze ci apparteniamo e siamo obbligati, lo sai»: la dichiarazione di Siti autore, posta nel passaggio tra capitolo quarto e capitolo quinto, quando siamo condotti a scoprire qualcosa di importante del passato di don Leo, rivela il rapporto di paternità che lega l’autore al suo personaggio. Siti è un “padre” che riconosce (lucidamente) la necessità di questo rapporto, ne sottolinea l’obbligo, cioè il legame ormai necessario, inscindibile. Però, e questo rende complessa la narrazione, don Leo risponde solo a metà alla giurisdizione del suo padre creatore, per l’altra metà deve rispondere a un altro Padre, e con questo Padre è in continuo conflitto, in un dialogo che sembra fatto più di rabbia che di amore, anzi: un dialogo dove la rabbia e l’amore sono la stessa cosa. Per Leo essere prete significa innanzitutto cercare di agire per far fronte al dolore degli altri, offrire agli altri se stesso in un sacrificio che non concede sosta (la balbuzie è l’unico segnale che frena la sua lingua quando i discorsi degli altri prendono d’assedio il suo segreto). Complementare all’azione è l’estasi (trasumanar e organizzar): annullarsi nel mondo significa fare spazio alla presenza di Dio, aprire in sé quel vuoto dove solo Dio può abitare.

 

La vita di Leo, che è arrivato non a caso a trentatré anni, si svolge all’insegna di un’immagine assoluta che viene da Clemente Rébora: «Solo calcai il torchio: / con me non c’era nessuno: / calcavano su me tutti». La solitudine nell’annullamento, la sensazione di stringere un torchio sotto il quale ci si sente stritolati. Questo è Leo. Siti ha sentito il bisogno di creare un figlio a volte incomprensibile che a sua volta si contorce nel rapporto con un Padre incomprensibile («l’incomprensibile amore del Padre» è il verso con cui si chiude la poesia di Rébora, prima dell’invocazione a Gesù).

 

Nel rapporto di Leo con il mondo si concentra fino allo spasimo il rapporto che Siti ha sempre instaurato con i suoi personaggi: amarli fino al punto di assumere la loro lingua, e nello stesso tempo avere la consapevolezza che è quasi impossibile ricevere in cambio da loro quello che a loro viene offerto. La Milano di Leo è la Milano del nuovo quartiere Gae Aulenti, della torre Unicredit, dei migranti, dei poveri, dei centri di accoglienza, dei bambini maltrattati, delle intellettuali esaltate, dei ricchi costruttori, delle famiglie impossibili. Tutti coloro che girano intorno a Leo gli offrono spudoratamente esempi di rapporti distorti. Fermo, il prete anziano e saggio, vive una segreta avventura con la perpetua Adua (come si diverte Siti a giocare ancora con Manzoni!), la ricca Matilde ha perso il figlio Sebastiano e si consuma nell’esaltazione di mantenerne nel presente la memoria, Duilio e Federica aspettano un figlio che non nascerà, Bianca e Adolfo attraversano una violenta crisi coniugale che si ripercuote sulla pelle del figlio Andrea. E di nuovo, con la coppia omosessuale di Roberto ed Emilio, dedita a pratiche sadomaso ormai sbiadite nella continuità, Siti ripresenta la ricaduta nel quotidiano che aveva creato una pausa pacificatrice nel romanzo precedente (a Roberto ed Emilio sono lasciate le ultime tre pagine del racconto, con un viaggio esotico e una passeggiata sotto gli occhi inquietanti di un lucertolone tropicale che ricorda l’occhio spalancato del pesce mostruoso al termine della Dolce vita di Fellini).

 

 

Don Leo è un prete che attira sulla sua parrocchia «gli squilibri». I conflitti interni al mondo ormai irredimibile del consumismo e della falsificazione, con cui Siti aveva combattuto dal di dentro, anche assumendone le nevrosi (desidero tutto, e lo desidero nel corpo finto di un escort culturista, che a sua volta riassume in sé tutti i desideri possibili di un Occidente che consuma tutto), diventano ora l’oggetto della lotta di un prete che vuole agire e che parla una lingua diversa, la lingua della verità, quella che non si concede mediazioni o ipocrisie. Don Leo può bestemmiare Dio, se è necessario farlo per andare fino in fondo alla sua ricerca. Ma è Dio stesso che gli dice di andare avanti, di uscire dai cunicoli, dal momento che la rivoluzione non è affidata alle talpe ma alla allodole (Marx? Nietzsche? San Paolo?).

 

Bisogna dunque mostrarsi alla luce del sole, esibire la propria diversità, affrontare il mondo. E don Leo lo può fare grazie a una forza e a una superiorità intellettuale senza paragoni. Alla quale non può non corrispondere quella del suo inventore. «A Leo piacciono i bambini». La rivelazione arriva improvvisa, nel capitolo quinto, e Siti la accompagna con una nota dove vuole puntualizzare: «Il desiderio erotico di cui qui si parla è, più ancora dell’incesto, l’assoluto tabù della nostra epoca». Non c’è niente che venga nascosto, non ci sono sotterfugi o strategie ipocrite. La nota non serve a renderci consapevoli che la pedofilia è un tabù, non ne abbiamo bisogno. Questa nota, come tutte le altre che accompagnano il racconto, ha la funzione di farci sentire la presenza dell’autore. Siti vuole che leggendo ci sentiamo accompagnati dalla mano di qualcuno che ci rassicura. Lo dice lui stesso nella nota finale. Il suo modello è ancora Thomas Mann, e la tecnica è quella con cui si affronta il Male (Satana, qui esplicitamente più volte evocato) proprio per tenerlo alla giusta distanza. Nella pornografia questa tecnica non è prevista, come non è prevista in tutte quelle occasioni di pornografia dei sentimenti con cui ogni giorno ci viene messo sotto gli occhi “il dolore degli altri”. Siti è un narratore, un narratore vero, e conosce benissimo gli strumenti necessari per costruire una rappresentazione che non si consuma rapidamente nella chiacchiera, ma che produce domande fondamentali e sa scardinare false sicurezze.

 

Siti aveva già affrontato il tema della pedofilia nel ritratto di un personaggio di Troppi paradisi, Alfredo, un uomo dolce e infelicissimo che si suicida proprio per liberarsi dalla sua ossessione. E là, nel presentare Alfredo, Siti aveva esplicitamente affermato, attraverso il suo alter ego: «Lo so che non dovrei mai parlare di pedofilia, perché alla fine dò l’impressione di stare dalla parte dei pedofili». La radice di Leo è qui: poter parlare di un argomento tabù senza dover giustificare il fatto di “stare dalla parte di”. Thomas Mann aveva parlato della Germania nazista attraverso il patto tra Adrian Leverkuhn e il Diavolo, e non “stava dalla parte di”.

 

Il privilegio di un narratore come Siti è quello di chi può permettersi un’operazione simile solo perché la ha preparata, romanzo dopo romanzo, negli anni precedenti. Il fastidio e le reazioni moralistiche prodotte da Bruciare tutto non nascono dal fatto che viene messa in scena una sessualità distorta. Anche perché questo, se si vuole fare un banale computo di pagine, è il romanzo più casto di Siti. L’unica scena in cui viene raccontato un rapporto sessuale tra Leo e un bambino, Massimo (esperienza che precede la sua ordinazione, risale al 2003 e si svolge a Roma) ha la compostezza e la nettezza richiesta dalla tecnica degli esercizi spirituali, è un quadro della memoria con cui ci si purifica dal passato rivivendolo. Il Massimo ragazzino, non per niente romano (attraverso di lui Siti recupera una lingua popolare abbandonata per il dialetto milanese) è in cerca di un adulto che sappia ascoltarlo. Quando sale a Milano per rivedere Leo dopo più di dieci anni, è ancora un ragazzino sperduto. Non gli è stato concesso crescere malgrado gli incontri d’amore (eterosessuali) e le esperienze fatte. Con lui, a Leo ritorna il vuoto dell’infanzia che non trova risposta nel mondo degli adulti. La ferita che Leo si è procurato incidentalmente durante quel primo e unico rapporto sessuale non si è chiusa, anzi ha preso le dimensioni dell’intero corpo di Leo. Leo è un uomo il cui corpo è un’unica ferita, un uomo che ha ricoperto con le fasce dell’intelligenza piaghe ormai cancerose. All’esterno tutto questo non è visibile, la tonaca lo copre e lo protegge come un’astronave protegge i viaggiatori nello spazio, consentendo loro di respirare là dove non c’è ossigeno. «La rieducazione di entrambi (di Massimo e sua) alla presenza di Dio sarebbe stata la strada giusta»: forse a qualcuno che sta scrivendo in questi giorni questa frase è scappata?

 

 

Quando Leo pronuncia la sua ultima omelia, la terza, ormai impostata su una forza visionaria che lo sta staccando da terra, il narratore –con la premura che lo caratterizza– scrive nella nota 40: «Caro Leo, qui è il tuo inventore perplesso: non so fino a che punto devo prenderti sul serio quando parli così». Il prete raggiunge qui un vertice che ha la sua origine nel pensiero leopardiano: «l’universo non si conclude col genere umano, e tanto meno l’Essere si conclude con l’universo». Il Siti narratore decide che è il momento di abbandonare Leo, di fargli compiere da solo l’ultimo pezzo di strada: «Forse ormai, più che il mio alter ego, sei la mia spettrale proiezione – simile a quella che le radiazioni nucleari stamparono sui muri di Hiroshima» (l’immagine è stata usata da Moravia per il suo ultimo romanzo, La vita interiore).

 

In Leo si rispecchia il “legno storto” dell’umanità. Un legno storto che («in un altro luogo lontanissimo») potrebbe diventare radice, cioè dare origine a una nuova visione del mondo. Del resto, come dice bonariamente Fermo, riprendendo una frase di sapore evangelico che nasce dal terreno tranquillo di una fede conciliatrice, «siamo tutti frutti guasti». Ma a Siti non è sufficiente riversare su questo figlio rabbioso e sofferente la rabbia e la sofferenza di cui era portatore alcuni anni fa il suo Walter Siti personaggio. Leo è un figlio che non può trovare conciliazione con il Padre, qualunque esso sia. Quando Leo decide di morire, lo fa abbandonando Milano e tornando a Roma, la città che Siti ha abbandonato per dare una svolta alla sua opera, e alla sua vita. Il luogo che Leo sceglie per attuare il suo sacrificio attraverso il fuoco, è un luogo abbandonato, arcaico, una discarica paludosa che sembra fuori dal presente. Si ripete qui l’olocausto che lo stesso Leo aveva immaginato in uno dei suoi esercizi spirituali, il sacrificio di Abramo che sa di dover «bruciare tutto» per non lasciare tracce del corpo di Isacco. Abramo ha deciso che si addosserà la colpa di questo atto di fronte al figlio, per mettere al riparo Dio da ogni sospetto. Quando Leo si dà fuoco e brucia interamente «il rancore di una vita», il narratore osserva, tra parentesi: «Nessun padre da invocare». Questo olocausto non rientra in un disegno divino, non ha altre giustificazioni se non quelle che si muovono nella mente esaltata di Leo.

 

Ma Siti aveva bisogno di creare un altro figlio sofferente, e farne di nuovo il testimone di un’umanità distorta. Questo secondo figlio è Andrea, il terzo ragazzino (dopo Maicol e Massimo) che entra nell’orbita del desiderio di Leo. Entra però di sua volontà, senza che sia Leo a cercarlo né a volerlo. Andrea è un «cucciolo senza padrone», gettato nel mondo di due adulti che se lo contendono per quella malvagità (la malvagità vera) di cui solo gli adulti sono capaci quando diventano genitori. Anche Andrea, come Leo, è aggressivo per mancanza di amore. Anche lui avrebbe bisogno di una casa solida, se non di una Chiesa solida. Se Leo non pensasse alla sua condizione di figlio mai appagato, forse potrebbe aiutare Andrea nella sua ricerca. Forse potrebbe compiere con lui un percorso pedagogico salvifico.

 

Sembra però che Siti abbia molti dubbi sulla possibilità concessa oggi agli uomini di diventare adulti. In questo romanzo quasi tutti muoiono perché non riescono a farei conti con una mancanza dalla quale vengono segnati. Non è un caso che un ragazzo di Manila, quando Leo compie la sua breve esperienza di maestro, reciti storpiandoli i primi versi di “A Silvia”, cioè del canto in cui la giovinezza si consuma su un limitare e avvizzisce. Questo blocco della crescita, la condizione di eterna immaturità di cui Pasolini si faceva vanto in opposizione al mondo degli adulti, in Siti acquista un aspetto drammatico. Si tratta dello stesso problema di cui ha parlato Edoardo Albinati nel romanzo saggio La scuola cattolica, un racconto sugli anni settanta dove i preti hanno un ruolo fondamentale, soprattutto perché sono i preti di una Chiesa ipocrita e connivente con un’Italia borghese. E bisognerebbe forse notare un’altra serie di risonanze che si creano tra questi due romanzi: il tema della famiglia borghese, la vocazione, le tecniche pedagogiche come dominio sulle pulsioni, l’emergere della violenza stessa là dove sembrava essere per sempre tenuta sotto controllo, l’elaborazione del desiderio erotico come percorso accidentato attraverso il quale si può diventare eterosessuali o omosessuali (e non cambia molto). Gli adolescenti di Albinati diventano uomini portandosi dietro l’ombra di oscuri riti di iniziazione che possono sfociare nella violenzae nello stupro. Il delitto del Circeo rappresenta il debito di sangue che una classe sociale paga per riscattare il futuro dei propri figli lasciandoli apparentemente sani e intatti, anche se poi uno di loro (il più intelligente) è ossessionato dal bisogno di annullare quel mondo con il fuoco, e un altro dal bisogno di salvarlo con la scrittura.

 

 

 

In Siti, solo Ettore, un novizio ventenne, ha il privilegio di avviarsi verso l’età adulta. Un fratellino morto gli ha aperto il varco per crescere. Per Leo, l’infanzia «è un labirinto in cui si torna sempre allo stesso punto». Il piccolo Andrea sembra essere fuori da questo labirinto grazie a un’intelligenza sviluppatissima e anomala, ma vi ricade dentro e si trova chiuso in una trappola dalla quale si esce con la morte.

 

«Posso toccarti il pisello?» è la frase che Andrea pronuncia, con tutta la tenera violenza (e non l’innocenza) di cui è capace un bambino, cercando un rifugio nel corpo di Leo. Ancora una volta, lo stesso rifugio che Leo cerca spasmodicamente in un altro corpo. Un rifugio impossibile per Andrea, dal momento che Leo è occupato dal vuoto di un’unica ossessione, quella che lo spinge a interrogare la voce del Padre. Siti ha deciso che il destino di questi due figli deve essere simile. Entrambi devono affrontare un sacrificio da consumarsi dentro un mondo fatto solo di immagini false, di barbagli inutili, di abbacinamenti pubblicitari. Il figlio adulto è cresciuto nella pòlis infetta per ripetere con disperazione le sue urla di rabbia e di dolore. Il figlio bambino ha ottenuto pietosamente il privilegio di non crescere, esattamente come l’Useppe di Elsa Morante, che muore perché conosce il Male. La pagina del monologo interiore di Andrea nel momento in cui si uccide basterebbe da sola a dare al romanzo di Siti il valore che si merita. Che è un valore letterario in primo luogo, e poi profondamente etico in quanto letterario. Il bambino pretende dal prete una pienezza d’amore che è simmetrica a quella che il prete cerca in Dio. Da questa simmetria nasce l’impossibilità di un rapporto reale tra loro due, che si potrebbe realizzare solo se Leo riuscisse a insegnare ad Andrea quella famosa differenza «sì sì, no no», cioè la capacità di distinguere e di separare, che è la base di un pensiero adulto.

 

Il fatto che intorno a Bruciare tutto stia crescendo uno steccato ogni giorno più fitto di discorsi giudicanti, un bla bla di ipotesi e deduzioni che prescindono dalla lettura attenta del libro, è la dimostrazione che il romanzo non dà fastidio perché parla di una sessualità distorta o di un tabù. Il fastidio nasce dal fatto che quel tabù non viene liquidato con le modalità scandalistiche di un dibattito televisivo. Dal momento che leggere Siti è difficile e richiede attenzione, se si affronta la fatica e si legge con attenzione la storia di Leo si capisce che quella storia riguarda tutti. E questo dimostra che qualche volta la letteratura ha qualcosa da dire.

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Dove tira l'Ostro

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Sandro Campani, classe 1974, approda, dopo qualche vicissitudine, ai Supercoralli einaudiani. Una scelta non trascurabile di questi tempi, in cui vanno le scritture spoglie, mutuate da altri mezzi di comunicazione o quelle sentimentali, declinate su qualche spunto memorialistico, tanto per non dover imbastire una storia. E arriva Campani, così incatalogabile, così anomalo ma talmente accurato nella parola da evocare scrittori morti, poeti anche, con la sua dolcissima cantilena che richiama il fraseggio e la solitudine di Francesco Biamonti o il silenzio parlante di Andrea Zanzotto, quel segreto che risiede “dietro al paesaggio” a cui bisogna dare voce.

 

 

Con Campani, infatti, ritorna rivitalizzata la letteratura di natura, quella che timidamente si è riaffacciata nel nostro panorama con Giacomo Verri e il suo Partigiano inverno (Nutrimenti), con Claudio Morandini e il suo Neve, cane, piede (exorma) e ora con l'applauditissimo romanzo di Paolo Cognetti, Le otto montagne. Inattuale per scelta, isolato di necessità, lo scrittore emiliano, racconta una storia che parte con il passo dell'epica. L'aedo, colui che racconta è anche testimone dei fatti, un po' come insegna la tradizione post asburgica. Si tratta di Giampiero, un vecchio falegname con un braccio inutilizzabile, marinaio di lungo corso alla Stevenson. Una notte bussa alla sua porta Davide, l'uomo intorno a cui tutto il romanzo si concentra, portandosi dietro, dentro casa, tutto la frustrazione, il dolore, la tenacia e l'ostinazione che lo hanno condotto fino a lì. Davide è uno che ha perso tutto: l'amore di Silvia, il lavoro con le api, la falegnameria.

 

Giampiero gli vuole bene come ad un figlio, lui e l'Ida l'hanno allevato da quando la madre è morta prematuramente. Educato al lavoro, alla manualità attenta, alla devozione nei confronti degli oggetti, anche di quelli più umili, Davide sembra risvegliarsi solo quando incontra Silvia. Disfatta, distrutta dalle notti alcoliche, persa dietro ad un progetto andato in fumo, la ragazza si è trasferita a Bologna, dove Davide, con il furgoncino del miele, la ritrova buttata per terra a dormire in un parco e la riporta a casa. Per loro si apre una stagione felice, sposi, vivono al passo con la natura, con le sue stagionalità, le sue alternanze, convinti che “assecondandola, quel che potevano aspettarci era soltanto la primavera”. Eppure Davide non regge, gli scarsi guadagni lo portano a fare una scelta incompatibile con la presenza di Silvia. Nel suo salto dentro al fondo nero, Silvia sente di essere a sua volta in pericolo. I ricordi bolognesi l'assediano, il dolore di un tempo, una sorta di maledizione, stingono sulle arnie maltrattate, sui sentieri coperti di lattine, di chiodi, di trascuratezza da turismo familiare.

 

Questo Appennino basso, costellato da comuni dai nomi come Toano, Casola, Gazzano, luoghi così periferici da far apparire Bologna una vera metropoli, sono la catena che si stringe intorno a Silvia e a Davide fino a separarli per sempre, fino a renderli ostili nei corpi. Questo romanzo è un romanzo d'amore e struggimento, d'amore in assenza d'amore, d'amore con la bocca e il cuore ancor pieno di una nostalgia palpabile, viva. Come sono belle infatti le pagine in cui Davide racconta la meraviglia, lo stupore che lo coglie alla vista di Silvia, una conquista totale, una resa assoluta da stilnovista. Una vicenda che si consuma in una notte fino a quando l'alcol raggiunge la tacca segnata da Giampiero mentre fuori “tira l'Ostro e piove sabbia” ed è possibile imbattersi in una lince, presenza animale magica come nei racconti di Dino Buzzati, incarnazione del destino contro cui non possiamo opporci. Nulla di esotico, di virile, di alto in questa mezza montagna malmostosa. Solo personaggi fatti duri dalla perdita, dalla lontananza dal centro. Come l'Uliano, il padre di Davide, mutato in sasso dopo la morte della moglie. Ma lo sforzo maggiore di Sandro Campani sta tutto nella lingua, sempre adatta agli slittamenti dei personaggi, una lingua savia come Giampiero, uomo di memoria e compromessi, saggio narratore dalla chiosa illuminante sul contenuto della vita. Fatta di “svariate convenzioni e qualche omissione dolorosa”.

 

Sandro Campani, Il giro del miele, pp.248, euro 19,50, Einaudi, Torino 2017.

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Hanne Darboven

Resistenza!

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Trenta persone strette in due file di sedie in una grande mansarda intorno a un tavolo. Su di esso una zimarra di prete, una stola viola, un libricino, qualche foglio vergato con vecchia calligrafia.  

Una basilica francescana bombardata due volte durante la guerra e ricostruita, nella navata centrale. Immagini astratte, terrose, baluginanti, suoni, sirene ricostruiscono l’emozione, l’orrore, del bombardamento, la guerra portata scientemente tra i civili per sgretolare il fronte interno.

Una scena di colonne spezzate tra le quali si aggirano cinque persone che verrebbero definite disabili, per rievocare l’olocausto nazista dell’eugenetica. Lenz quei suoi interpreti li chiama invece attori sensibili. 

Tre spettacoli, due a Bologna, uno a Parma, tre modi per rivivere la Resistenza, lontano dalla retorica, nelle sue pieghe meno epiche, mitiche, fondative, più umane; per smontare le troppo rassicuranti narrazioni di un tempo, ormai chiamate al banco di interrogazione della storia. Quando la storia marcia e, in relazione a tempi nuovi, per certi aspetti migliori per altri no, muta i propri criteri di analisi e giudizio. O semplicemente le proprie domande.

 

Un cristiano, Alessandro Berti, ph. Stefano Vaja.


Un cristiano: don Fornasini a Montesole (Massimo Marino)

 

Si sale la scala di un portone nel vecchio centro di Bologna. Marmo, cotto, ferro battuto. Si entra in un appartamento all’ultimo piano. Qui Alessandro Berti recita la storia di don Giovanni Fornasini, il parroco trucidato dai nazisti nella strage di Monte Sole, un atto di guerra contro i civili che solo negli ultimi anni ha acquistato contorni storiografici e umani più precisi. Si viene accolti. Si entra in uno stanzone ingombrato da un tavolo con sopra pochi elementi, tra i quali spicca una zimarra, traccia di un corpo assente. In Un cristiano don Fornasini apparirà attraverso le parole di Berti, con tutto il suo mondo pastorale, con tutto l’amore per il suo gregge, con la fatica, l’accoglienza degli sfollati, le trattative estenuanti con i tedeschi per salvare anche solo una persona, le salite in bicicletta per raggiungere le frazioni più sperdute di una montagna piena di frazioncine e casolari, il dialogo rassicurante con i timori della madre, dei vicini, degli altri parroci. 

 

Non è un monologo questo: è un concerto di voci, una polifonia, la ricostruzione di mondo di vita e fatica quotidiana in cui irrompe la violenza, ricostruito attraverso l’espressione incantata, compresa, accigliata, preoccupata, incalzante, fredda, appassionata dell’attore, che dà vita al protagonista, al coro che lo circonda, agli avversari, ai tedeschi, con la loro lingua tagliente come lama, che porta paura, morte, e il prete deve studiare le contromosse, addobbare la faccia con un sorriso, con un pretesto, con una giustificazione.

 

Si parte dai bombardamenti del 1943, dal lavoro per accogliere gli sfollati. Lampeggiano uffici per i morti, recuperati in scarpate di montagna mediando con l’invasore, salite per le erte a piedi o a cavallo di bicicletta, con il tempo, improvviso, per sentire il bosco, i suoi suoni, gli animali; per ascoltare se stessi nel frastuono, tra le urla della guerra. La mano batte un tempo per incalzare le cose, oppure graffia il tavolo e dà l’idea del lento arrampicarsi in bicicletta. Le voci della comunità si affollano, come l’apparizione della voce del Cristo, l’archetipo dell’umanità sofferente che diventa immagine di ripiegamenti sul tavolo a braccia aperte, come nella crocifissione. Le certezze del don Fornasini di Berti assomigliano a domande sul perché, veloci, appena accennate, giacché non si ha tempo di interrogarsi sul male quando gli eventi incalzano e c’è qualche rastrellato da salvare, qualche trattativa da aprire per dimostrare che sono solo contadini, non partigiani, per procurare lenzuola nuove o nascondiglio a qualcuno. 

 

Un cristiano, Alessandro Berti, ph. Stefano Vaja.


Una litania liturgica, qualche parola o silenzio accompagnati da una struggente, lirica, musica di chitarra. Un virare verso i toni cupi del cataclisma della Passione. E arriva il grande rastrellamento, la strage, anzi le notizie della strage perpetrata in borghi, in fienili, in chiesette, in un territorio di montagna vastissimo. Qualcuno, ancora, consiglia al prete di chiudersi in casa. Il comandante gli impone di non interessarsi, di non uscire, di non raggiungere i rastrellati, di non seppellire i morti. Siete bestie? Si sente, mentre la lingua tedesca dilaga, secca, violenta, e si incunea nell’italiano di don Fornasini. L’ultima notte, la Passione, solo con la propria coscienza. L’ordine disubbidito. L’andare incontro alla morte, alla notte (o alla luce), con il sorriso sulle labbra. Buio.

 

Segue spuntino e incontro, approfondimento, dibattito: La chiesa e la “memoria divisa” del Novecento, a partire dal libro di Alessandra Deoriti e Giovanni Turbanti (Pendragon). Un piccolo teatro-casa, fuori dei circuiti, diventa cuore pulsante di riflessione.

Alessandro Berti, reggiano del 1971, in giorni lontani (era la metà grunge degli anni novanta) con altri fondò a Bologna un movimento detto dei “Teatranti occupanti”. Dialogò con Leo de Berardinis, insieme con altri giovani arrabbiati come lui con un’occupazione ridiede vita sociale al teatro dell’Accademia di belle arti, chiuso da sempre. Fondò, con Michela Lucenti un gruppo, L’impasto, che fece alcuni spettacoli in cui musica, canto, danza, disgusto esistenziale e impegno politico si mescolavano in meravigliosa, quasi “rossiniana” stridente armonia (in particolare Skrankrer, la storia di una famiglia che rifiuta il figlio ballerino). Poi visse nuove avventure da drammaturgo-attore-regista, in cerca di quel felice tono degli inizi, che non sempre ritrovò. Negli ultimi anni si è concentrato su un teatro di elementi e di estasi – possiamo dire mistica? Qui allargando lo sguardo alla storia, una storia ‘umile’, già narrata ma non troppo, ancora tutta da interpretare, ritrova una propria ispirazione in chiave di teatro essenziale, che potremmo definire francescano, necessario, stringente, entusiasmante per noi che guardiamo, un dialogo serrato con il pubblico, nel quale risveglia domande profonde attraverso il veicolo, reinventato, del monologo. 

Da non perdere, nella Casavuota Resistente di via San felice 39 a Bologna o dovunque lo replichi. 

 

Bombs Away! Teatro del Pratello (da uno dei video).


Bombs Away! (Massimo Marino)

 

Sediamo in due nutriti gruppi, uno di fronte all’altro, sulle panche della chiesa, nella sua navata centrale. San Francesco, Bologna, alte colonne e volta a crociera gotica. Mura disadorne, di una basilica sfregiata dai bombardamenti della guerra. L’altare e l’uscita sono velati da due grandi tulle. Saremo immessi in un emozionale concerto di immagini e suoni, con apparizioni e voci. Bombs Away! Racconta per suggestioni la guerra moderna, i bombardamenti che se ne infischiano dei fronti e delle trincee, che portano la distruzione nelle città, per fiaccare il morale del nemico, per distruggerne la vita quotidiana. Una ragazza legge alcuni scritti sulla guerra aerea del generale Giulio Doueht, che nel 1921 teorizzò le nuove frontiere del terrore e della distruzione, memore dei successi dei massacri perpetrati dalla nascente aviazione italiana in Libia, precursore delle stragi in Etiopia e di quelle che avrebbero insanguinato l’ultima guerra mondiale e i successivi conflitti asimmetrici, con distruzione di città di ospedali, di impianti civili di ogni tipo. 

Altre parole più misteriose, silenti, vengono recitate tra i banchi, nel buio, da ragazzi e da signori e signore di una certa età, ombre illuminate solo da mozziconi di candela tenuti sul palmo della mano. Parole di lutto, di preghiera forse. 

 

Bombs Away!, Teatro del Pratello, ph. Malì Erotico.


Polvere, detriti, squarci di buio e piccole luci, cose senza forma definita trascorrono sugli schermi, come rottami nella chiesa due volte bombardata. Descrizioni di cosa restava, tra i pilastri gotici squarci verso la città. Un gruppo carnevalesco, un corteo con due grandi barelle, uomini e donne ingabbiati da un filo mentre qualcuno agita rami d’ulivo, una fila di bendati guidati da un bambino vestito di rosso, uomini e donne che spolverano il terreno, un corteo mestamente festoso con bandiere passano nelle navate laterali. Intanto la musica, composta dalla classe di musica applicata di Aurelio Zarrelli del Conservatorio di Bologna gocciola, invade, crea attesa, propaga ansia, esplode nel lamento della grande sirena a mano, si fa materia astratta, percussione, stato d’animo, come le immagini mai descrittive di Manuela Tommarelli, Simone Tacconelli, Fabio Maggi. 

 

Sono solo cinquanta minuti ma densissimi. Quando a un certo punto tutto sembra pacificarsi quasi in accordi di musica capaci di ritrovare la tonalità o in un’immagine di danza sfrangiata di luce e a volte capovolta, allora, alla fine, tutto esplode, in ultime dissonanze e viaggi dentro cespugli che forse sono ciglia, sopracciglia dell’occhio umano che non riesce a vedere. Tutto diventa frastornante, con il ricordo che quello “sganciate bombe a volontà” continua oggi, e che nessuna bomba è intelligente perché l’errore è solo una delle funzioni previste del terrore. 

C’erano, in scena, ragazzi in carico alla giustizia minorile, adulti e anziani dell’Università del tempo libero Primo Levi, studenti di scuole medie e superiori, giovani attrici e attori di Botteghe Molière, Maddalena Pasini, il fotografo Simone Martinetto e i suoi allievi. Collaboravano Conservatorio e Accademia di belle arti. Le coreografie erano di Elvio Assunçao e c’era la collaborazione scientifica dell’Istituto Parri, con Luca Alessandrini che ha guidato ricerche e laboratori nelle scuole, in una produzione del Teatro del Pratello (è il nome del carcere minorile di Bologna). Tutto questo era concertato da Paolo Billi, che da quasi vent’anni lavora a inventare teatro nei luoghi più impossibili, principalmente il carcere, facendo dialogare i luoghi dell’esclusione con la società, con altri ragazzi, con adulti, con professionisti e non professionisti, in un’idea di teatro aperto che guardi la realtà, la interpreti, la provochi. 

 

 

AKTION T4, Lenz Fondazione, ph. Maria Federica Maestri.


Aktion T4(Matteo Brighenti)

 

Corpi scolpiti dalla diversità annientati alle Olimpiadi dell’eugenetica. Sono tutti vestiti di nero, Barbara Voghera e Carlotta Spaggiari, storiche attrici ‘sensibili’ di Lenz Fondazione, insieme a Tommaso Sementa, Giacomo Rastelli e Alessia Dell’Imperio, performer anch’essi ‘sensibili’ del laboratorio Pratiche di teatro sociale. Indossano top e pantaloncini che li fanno somigliare ad atleti, scarpe tipo crocs, tutori. Fanno esercizio, si riscaldano con il credo dell’igiene razziale, paiono avvitarsi fronte al pubblico inseguendo la doppia elica di Watson e Crick, scandiscono “gene, eredità, genoma, cromosoma, DNA”.

Riguarderà gli ebrei, gli zingari o i dissidenti devono pensare. In realtà, stanno recitando i loro capi d’imputazione, la sentenza ce l’hanno scritta nel sangue: malattie genetiche inguaribili e handicap mentali rendono per il Terzo Reich le loro “vite indegne di essere vissute”. Anche se sono nati da genitori ariani.

 

Aktion T4è il nome convenzionale con cui viene designato il programma nazista di soppressione sistematica delle “persone mentalmente morte”, dei “gusci vuoti di esseri umani”, e dà il titolo al nuovo lavoro di Francesco Pititto (testo originale e imagoturgia) e Maria Federica Maestri (creazione scenica e regia), al debutto in prima assoluta nel loro Lenz Teatro a Parma il 25 aprile (repliche fino a domenica 30 aprile), e realizzato in collaborazione con il locale Istituto storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea. L’anno scorso hanno presentato Kinder [Bambini] sulla Shoah dell’infanzia, il prossimo, a chiusura della trilogia sui temi della Resistenza e dell’Olocausto, metteranno in scena Rosa winkle [Triangolo rosa] sullo sterminio degli omosessuali.

 

‘T4’ è l’abbreviazione di ‘Tiergartenstrasse 4’, l’indirizzo di Berlino (è la strada del giardino zoologico) dove era situato il quartier generale dell’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale e dove abitavano Karl Brandt, medico personale di Hitler, e Viktor Brack, il suo assistente: avevano avuto l’incarico dal Führer di rendere pura la razza ariana, ripulendola dai ‘sub-umani’. Il programma fu avviato in Germania e nei territori occupati nel ’38-’39 e sospeso ufficialmente (le vittime erano pur sempre tedeschi, il malcontento sociale divenne insostenibile) nel ’41-’42, anche se gli omicidi proseguirono oltre il termine stesso della guerra, portando il totale stimato delle vittime intorno alle 200.000.

Le fasi del progetto di sterminio si succedono in Aktion T4 per quadri meccanicamente accostati, che vanno dalla nascita imperfetta alla sterilizzazione, dalla cremazione dei cadaveri dei malati gasati in veri e propri campi di concentramento alla guerra e al costo della malattia. La voce documentaristica di Marco Musso accompagna dall’alto lo spettatore nel contesto storico, nelle razziste decisioni pubbliche, nelle speranze cieche delle famiglie indottrinate, che inizialmente credevano alla benevolenza della “morte pietosa”, mentre i cinque attori disabili, accanto ai testi scritti da Pititto, urlano Re Lear di Shakespeare, Il flauto magico di Mozart, Elena e Ifigenia di Euripide, La vita è sogno di Calderón de la Barca, Faust di Goethe, Adelchi di Manzoni.

 

Opera barocca e opera grandiosa si presterebbero, questa almeno è l’intenzione, al riscatto di nuove forme di bellezza, ma ciò che vediamo è semplicemente dimostrativo, cosa davvero insolita per Lenz. Viene mostrata, ad esempio, l’uccisione di una malata: seppur sublimata dall’Adelchi, siamo di fronte a una rappresentazione che non restituisce e incoraggia stati d’animo, riflessioni o visioni altre, ma soltanto la teatralizzazione (d’occasione, commemorativa) del pensiero stesso degli autori e dei loro collegamenti letterari intorno al tema. Aktion T4, quindi, non ci trasporta da nessuna parte, eccetto che qui, in teatro, davanti a una selva di colonne di polistirolo abbattute.

 

AKTION T4, Lenz Fondazione, ph. Francesco Pititto.


Si tratta della manifestazione della teoria del “valore delle rovine” di Alfred Speer, l’architetto di Hitler: tutti i nuovi edifici del regime sarebbero stati costruiti in modo da lasciare resti grandiosi, quanto quelli dell’antica Grecia o dell’Impero Romano, per testimoniare nei secoli a venire la grandezza del Terzo Reich. La potente idea di accostare ruderi da preservare, fondati sul polistirolo e quindi sulla finzione, sull’inganno della propaganda, a corpi ‘rovinati’, invece, da distruggere, si rivela solo un ornamento, per giunta d’impedimento quando si spostano le colonne e si cambia scena (senza, peraltro, mutare davvero l’atmosfera).

 

Baricentro e fuoco di Aktion T4 sono due bandiere naziste, centri di attrazione fatale a indicare la Germania del tempo: sono gli unici elementi dalle tinte accese, l’ideologia, del resto, è sopravvissuta e continua ad attecchire; al contrario, le proiezioni sui due lati lunghi e in fondo rimandano colori che hanno perso intensità, i gerarchi sono ormai stelle morte di un cielo passato. 

Lo spettacolo ritrova impatto e inventiva quando i Lenz tornano a fare i Lenz, a essere “l’unico teatro stabile di ricerca in Italia”, cioè quando abbandonano il testo e il teatro classico, e lasciano l’espressione dei cinque attori libera di evocare i corpi martoriati dei loro ‘progenitori’. Qui sta il nodo drammatico. Succede con la danza di spasmi, che ricordano gli esperimenti o le torture naziste, di Tommaso Sementa, che cerca una simmetria, una perfezione invisibile al Reich, oltre il movimento e la disabilità. E succede, poi, con il finale.

 

Alessia Dell’Imperio viene avanti nel buio, tremante, quasi a ogni passo rischiasse l’equilibrio, e si piega come in un tuffo tragico, una crocifissione all’ingiù, così tanto da essere irriconoscibile, da farci capire, per la prima volta, la violenza disumana del Reich. Al grido di “Zwillinge heraus!” “Fuori i gemelli!” (Josef Mengele ad Auschwitz trascorreva ore a investigare i corpi dei gemelli per trovare il segreto inesistente della moltiplicazione della razza), escono gli altri dalle loro ‘celle’ e si mettono nella medesima posizione: la voce, pare, del Führer, alterata dal compositore elettronico Andrea Azzali, che ha interpretato anche frammenti musicali di Adolf Wölfli (artista polivalente e controverso di inizio Novecento internato in un manicomio svizzero), è quasi un ‘rap’ di ordini ossessivi e incomprensibili, come se il senso fosse solo nell’urlo, nel grido, e per il resto fossero insensati.

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Tre pièce per il 25 aprile

Wolfgang Tillmans: un nuovo registro visivo

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“Sei libero di usare gli occhi e di attribuire valore alle cose nel modo che vuoi. Gli occhi sono un grande strumento sovversivo perché tecnicamente non sottostanno a nessun controllo, sono liberi quando li usi liberamente” (Wolfgang Tillmans, conversazione con l’autore, dicembre 2005).

 

Ci sono fotografie di Wolfgang Tillmans che sembrano inesauribili. Non perché sono complicate nella composizione o così piene di informazioni visive da far emergere sempre nuovi dettagli. Talvolta è così, ma la ricchezza di cui parlo è di tipo differente. Posso tornare in continuazione su alcune sue immagini e ogni volta sperimento la stessa sensazione di qualcosa di fondamentalmente imperscrutabile. Per esempio, non posso smettere di guardare la fotografia Senza titolo (La Gomera), del 1997, che getta un incantesimo su di me non solo perché è strana – in effetti non riesco a capire bene cosa vi accade – ma anche a causa del suo innegabile fascino visivo. Due persone stanno strisciando carponi sulla spiaggia, creando un grande disegno nella sabbia: una linea senza meta, composta da due curve e poi un giro completo, il cui inizio è rimasto fuori dal riquadro dell’immagine. La coppia sulla spiaggia continua a strisciare e la linea non è conclusa: sono insieme e il loro futuro rimane aperto.

 

Wolfgang Tillmans, Senta titolo (La Gomera), 1997. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Misteriosamente un cane bianco li sta seguendo alle loro spalle, sta giusto per entrare nel cerchio, come se facesse parte di uno schema segreto. Chiaramente questa è un qualche tipo di attività ludica da spiaggia eppure sia lo strisciare che la figura che produce nella sabbia sembrano possedere un significato più profondo. Non so spiegare perché mi sembra così significativo, e anche un po’ inquietante. (Leggo la notazione dell’artista che questa immagine è stata realizzata nel periodo più buio della sua vita come una sorta di conferma. Ma una conferma di che cosa?) Infine, l’angolo in alto a sinistra sembra aprire una finestra su un nuovo capitolo o una storia completamente diversa: in lontananza un essere umano con un cane – entrambi appena visibili – stanno per uscire dall’immagine e andarsene.

 

Presa da un luogo sopra la spiaggia, la fotografia ha delle zone ben definite segnate da diverse texture e colori: rocce grigie, la sabbia liscia con il meandro scuro, ancora rocce (bagnate e quindi quasi nere), poi la schiuma bianca creata dalle onde che si infrangono, e infine la brillante superficie del mare leggermente corrugato. Queste campiture creano una composizione ben bilanciata con evidenti qualità pittoriche. (Guardo per un momento di traverso e l’immagine diventa astratta senza perdere il suo fascino.) “Non penso secondo le categorie specifiche dei media. Penso prima di tutto: ‘Una macchia di colore è una macchia di colore’”, dice Tillmans in risposta alla domanda sul rapporto che hanno le sue immagini con la storia della pittura. Poi, mentre nega di dipingere con la macchina fotografica, è pronto a riconoscere che la sua arte trascende il contesto fotografico: “E per quanto riguarda il mio ambito di riferimenti, esso include ovviamente più di 150 anni di pratica fotografica”.

 

Per me non c’è dubbio che il piacere visivo – sì, la bellezza – trasmesso da Senza titolo (La Gomera) e da numerose altre immagini classiche di Tillmans è più legato alla ricca storia della pittura che a quella della fotografia. “Non cerco ciò che sembra pittorico e non cerco di far sì che le mie immagini sembrino dei quadri”, dice Tillmans. Certo, un’enfasi sulla pura estetica e su composizione, colore e texture – in breve, sul pittorico – può facilmente portarci fuori strada come quella sul significato ultimo di quest’arte motivata politicamente. Ma se non si comprende questa dimensione e invece si sottolinea soltanto la natura transitoria e casuale delle sue immagini, si perde qualcosa di vitale. “È che vedo in questo modo. Vedo le immagini; sono proprio qui di fronte a me”, dice Tillmans.

 

Chiunque pensi che la sua arte abbia qualcosa a che vedere con le istantanee non perda tempo con queste immagini. Esse sono artefatti selezionati e fabbricati con cura, che restituiscono un inimitabile punto di vista, un distinto modo di vedere il mondo intorno a noi. Di fatto la personale visione di Tillmans sulle cose è diventata una delle più immediatamente riconoscibili e significative dalla metà degli anni Novanta, che ha avuto influenza non soltanto nel mondo dell’arte ma anche in un contesto molto più vasto della cultura pop. Sembra che le sue immagini, che volutamente evitano ciò che chiama “il linguaggio dell’importanza”, abbiano aggiunto un registro visivo completamente nuovo al nostro apparato percettivo. La vita imita l’arte e grazie all’“effetto Tillmans” molti di noi riconoscono le proprie immagini Tillmans o le situazioni “proprio qui di fronte a noi”, qui fuori nel mondo. È giusto menzionare il fatto che molte delle sue immagini contengono un elemento “messo in scena”, senza però che l’artista ne abbia un controllo totale. I concetti di “messo in scena” versus “non messo in scena” non catturano veramente ciò che è tipico del suo approccio alle persone e alle cose con cui lavora.

 

Per una migliore comprensione della sua arte e di come vi sia giunto è cruciale indicare che il punto di partenza non ha niente a che vedere con la fotografia di moda nel senso commerciale del termine. Altri fotografi emersi nel mondo della moda negli anni Novanta sono stati salutati con entusiasmo quando sono passati nel contesto dell’arte. Non è così che vi è giunto Tillmans e l’idea che sia emerso prima nel mondo della moda e della pubblicità è un diffuso fraintendimento che ha reso più difficile il giudizio sulla sua arte. Da ragazzo Tillmans raccoglieva fotografie dalle riviste in un album, sperimentava con la fotocopiatrice laser, visitava mostre e leggeva riviste d’arte, e ha realizzato la sua “immagine numero uno” – Lacanau (sé), 1986 – all’età di diciott’anni e ha avuto la sua prima mostra l’anno seguente. La sua prima apparizione sulla rivista «iD» nel 1989 non ha niente a che vedere con il mondo della moda commerciale ma piuttosto con la sua passione per i locali notturni, le riviste di musica e la cultura di strada. Va visto più come un tentativo di espandersi artisticamente in un ulteriore medium per raggiungere altri tipi di pubblico della subcultura.

 

Questo artista infatti se ne è stato notevolmente lontano dall’industria della moda e non ha mai accettato offerte lucrative.

 

Wolfgang Tillmans, Lacanau (sé), 1986. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).

 

In una certa misura la mercificazione che generalmente detta legge nel mondo della moda e della pubblicità rappresenta il nemico stesso per Tillmans, e la volontà di comunicare l’“identità completa di una persona” venne presentata come una parte strategica della “più ampia battaglia culturale”: “Io uso la mia posizione nel mondo delle riviste per fare esattamente questo, qualcosa in cui credo completamente e qualcosa che come artista posso soltanto fare se sono credibile, realizzandolo dall’interno. L’industria ha sempre fame di marchi, trend e le mode trasformano ogni stile in un’altra storia di mercato benigna. In qualche modo io cerco di incanalare l’attenzione verso la multistratificazione della personalità e dell’identità...”. L’insistenza sulla possibilità di una più ricca diversità di vita e per forme alternative di stare insieme ricorre a prescindere dal medium. Attraverso attività parallele come fotografo che produce immagini per le pagine delle riviste, per i propri libri e per le sue eterogenee installazioni che sono montate in gallerie e musei, Tillmans ha di fatto creato una posizione unica per se stesso nel mondo dell’arte e al di là. Ogni nuovo passo e ogni nuovo contesto ha richiesto sue considerazioni estetiche e morali, ogni nuova opportunità ha richiesto nuove decisioni politiche.

 

Wolfgang Tillmans, Dispositivo anti-homeless, 2000. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Le prime immagini di Tillmans di suoi amici e del suo ambiente sociale comunicano un senso di speranza politica. Un’insistenza sugli stili di vita personali inventivi e radicali e sulle nuove politiche sessuali libera questi giovani dagli stereotipi repressivi, e i mondi della musica tecno, dei locali notturni, delle manifestazioni pacifiste e per la difesa dell’ambiente sembrano suggerire un ordine sociale diverso, forse anche un “ideale utopico di modo di stare insieme”, per usare le sue parole. Una vena di assurdità emerge in molte opere, un senso acuto per la possibilità di trasgressione con strumenti semplici, come in AA breakfast, del 1995, o Uomo che piscia sulla sedia, del 1997. Fondamentalmente vi è un tenore ottimistico in molte opere di Tillmans, ma le dure realtà sociali non sono mai molto lontane e occasionalmente gli aspetti più sinistri del controllo sociale e del “micropotere” sono analizzati, per esempio in Dispositivo anti-homeless, del 2000, implacabile nel suo realismo. La nozione politica più decisiva comunque è la fiducia di Tillmans nel potere critico della visione, nell’occhio come “strumento sovversivo” che siamo liberi di usare in modi che non obbediscono alle aspettative della società. Le fotografie di Tillmans non sono mai educative in senso limitato, ma sono veicoli di pensiero critico, non solo di esperienza sensuale.

 

Questa è l’unica nozione di politica che realmente importa in arte.

Le sue installazioni – che mescolano ritratti di dimensioni che variano moltissimo, nature morte e fotografie astratte con pagine di riviste, appesi secondo una logica rigorosa – danno espressione a un senso di radicale molteplicità e adesione alla varietà della vita: “Ogni cosa richiede un trattamento diverso”. Tillmans è un artista del contingente, dell’effimero e del temporaneo, afferma il critico Midori Matsui. Egli ci mostra la bellezza latente in ciò che è periferico e negli oggetti e fenomeni il cui significato sfugge alle leggi della cultura alta. La bellezza, dice Charles Baudelaire in Il pittore della vita moderna, è fatta da un lato di qualcosa di “eterno, invariabile” e di “un elemento relativo, occasionale” dall’altro. Dubito che Tillmans voglia parlare delle cose in questi termini – eternità? – ma non vedo un altro artista d’oggi che viva secondo i requisiti di Baudelaire, come nelle sue note introduttive sul bello, la moda e la felicità, che inoltre abbia un acuto senso del “transitorio, fuggitivo, contingente”, che viva cioè per la modernità stessa, come fa Tillmans. Al tempo di Baudelaire non c’erano dubbi su dove trovare esempi di modernità radicale. C’era un unico luogo: Parigi, capitale del XIX secolo. Cento anni dopo non era più così chiaro e nei primi anni Novanta del XX secolo Tillmans giocava un ruolo chiave in almeno quattro contesti artistici che si trovavano occasionalmente legati ma anche abbastanza distinti: a Colonia faceva parte della movimentata scena intorno alla galleria Daniel Buchholz e alla rivista musicale «Spex»; a Parigi era legato al gruppo di artisti e scrittori associati alla rivista «Purple»; a Londra, dove viveva la maggior parte del tempo, diventò uno dei collaboratori principali della rivista «i-D» e una sorta di ponte tra il mondo della musica e la scena YBA (Young British Artists); e durante gli anni tra il 1994 e il 1996 si stabilì tempestivamente a New York, dove divenne amico di gruppi come Art Club 2000 e Group Material e subito pubblicò sulle riviste «Interview» e «Index». Ci sono molti artisti che si sentono a casa propria in città diverse, ma credo che i legami produttivi di Tillmans con tutti questi contesti sia unico. La sincronicità creativa tra città diventa realmente visibile soltanto quando le connessioni d’atmosfera diventano concrete nel lavoro di specifici artisti. Nella prima metà degli anni Novanta l’artista che più di chiunque altro si può dire che rappresenti la sensibilità di una generazione emergente è stato Wolfgang Tillmans.

 

Nel tentativo di riassumere alcune caratteristiche centrali della sua arte, Tillmans punta su due filoni che sembrano attraversare la maggior parte del suo lavoro: l’alchimia della luce e l’interesse per il nostro essere-al-mondo con gli altri e il suo desiderio di relazionarsi a questi altri. Entrambi questi interessi tendono a essere presenti nella sua opera, in alcuni casi uno dei due prevale. L’alchimia della luce non è mai pura quanto nelle opere astratte che investigano l’effetto della luce su materiali fotosensibili. Di fatto questa è effettivamente una sorta di pratica pittorica con mezzi fotografici (fatta con le mani, non con la macchina fotografica): interventi in camera oscura e manipolazioni del processo di esposizione producono immagini che non rappresentano la realtà ma creano le proprie realtà astratte, che appaiono stranamente fisiche, viscerali e spesso cariche di erotismo. In serie di immagini come Rossori, Pesche e Freischwimmer si incontrano orifizi corporei, pelle umana e fibre muscolari – o cose del genere. In realtà nessuna immagine trasmette un senso più forte di carne di questi puri esperimenti alchemici sulla luce, neppure immagini di reali corpi nudi. Tillmans espone queste grandi stampe in mezzo a ritratti e nature morte e li inserisce nei suoi libri tra altri generi di immagini. Talvolta questa pratica produce un effetto quasi allucinatorio, come nel recente Centro studi verità, del 2005, dove quindici pagine estatiche di carne cosmica ci trasportano da una serie di ritratti (che finiscono con Tony Blair, Isa Genzken, Morissey e Richard Hamilton) a una sezione in bianco e nero di un giovane soldato che smonta il suo fucile. Nessun altro compone in questo modo.

Gli esplosivi lavori astratti chiariscono una cosa: nel mondo di Tillmans anche l’esplorazione della luce ha un aspetto corporeo. La sua opera è sempre quella di un soggetto incarnato, anche quando gli oggetti rappresentati sono celestiali. Un’eclissi solare, il passaggio di Venere del 2004 o la notte stellata non sono mai rese in un modo che pretende di essere oggettivo e distaccato.

 

Wolfgang Tillmans, Arkadia I, 1996. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


Questi fenomeni sono qui fuori nel cielo, ma sono anche visti da qualcuno, e questo qualcuno è un essere sociale che vive in un corpo e si relaziona ad altri esseri umani. Il frammento di corpo dell’artista di cui si ha un assaggio in Lacanau (sé)è veramente di importanza simbolica per l’intera opera: anche se tendente all’astrazione, l’immagine cattura il punto di vista di un soggetto incarnato – un essere umano che cammina sulla sabbia vestito di una t-shirt rosa e short Adidas neri.

L’interesse di Tillmans per il suo fondamentale essere-al-mondo con altri, l’altro “filone” che egli menziona, è naturalmente più immediatamente visibile nei ritratti e nelle fotografie che mostrano coppie, raduni, dimostrazioni e locali notturni. Quello che cerca, dice l’artista in una delle prime conversazioni, è “la complessità nelle persone”. Interrogato sul significato culturale dei primi numeri di «i-D», sottolinea che la rivista rendeva chiaro che nessuno deve sottoscrivere le regole ufficiali su come comportarsi e come apparire, regole formulate da altri; invece ognuno si può creare una personalità e un’identità come vuole al di là degli interessi commerciali.

 

Wolfgang Tillmans, Paul, New York, 1994. Courtesy dell'artista; Galerie Buchholz (Berlino) e Galerie Chantal Crousel (Parigi).


(L’«i-D» degli anni Ottanta e dei primi Novanta era molto diverso da quello di oggi, che punta strategicamente all’avanguardia dell’industria della moda.) Per i suoi ritratti Tillmans cerca persone che mostrano l’instabilità e la vulnerabilità che sono sempre un aspetto della bellezza individuale. Queste fotografie sono radicalmente diverse dai ritratti distaccati e neutri per esempio della Scuola di Düsseldorf. Il mondo della classificazione e della tassonomia interessa poco a Tillmans. Fondamentalmente le sue immagini sono basate su coinvolgimento e affezione, e amore.

Essere insieme può talvolta generare stati mentali che liberano l’individuo dall’esperienza di essere confinato e bloccato nella finitudine. “Il Paradiso è forse quando dissolvi il tuo ego – perdita di sé, essere in un fascio di altri corpi”, dice Tillmans. Questa dissoluzione può avvenire in momenti di euforia, di estasi. Esistono certamente istanti esaltanti nell’opera di Tillmans: danza, sesso, gioia collettiva. Talvolta questi momenti eccezionali non riguardano l’essere in molti: il dj Mike Pickering da solo con la sua musica, 1989, o Paul sul tetto con le luci di Manhattan in Paul, New York, del 1994. Alcune immagini di Tillmans rappresentano uno stato di beatitudine che è difficile da descrivere, istanti in cui un diverso tipo di luce sembra attraversare e far brillare il mondo in colori completamente nuovi. Benché i fari degli elicotteri che si librano sullo skyline normalmente produrrebbero associazioni sinistre, Elicotteri della polizia, del 1995, mi dà piuttosto una sensazione di vita intensa. Non c’è nessuno in particolare da guardare, la città stessa irradia uno splendore cosmico. Questa strana illuminazione ricorre in altre immagini, producendo talvolta una sorta di ipertranquillità, una calma che confina con l’estatico. Il sottile ma drastico spostamento può accadere in immagini apparentemente semplici che rappresentano gli oggetti più ordinari: fiori in bottiglie di plastica, frutta o verdura. (Tillmans ha significativamente contribuito al genere classico della natura morta.)

 

 

 

L’astronomia è stata la sua prima ossessione e le “meccaniche dei cieli” rimangono una sfera importante di riferimento anche se la curiosità scientifica non è più la prima forza motrice. Un’eclisse solare totale senza dubbio comporta forme singolari di irradiazione luminosa, come fa l’immacolata superficie d’oro quando è illuminata in modo da produrre nuovi effetti “alchemici”. In Tempesta di ghiaccio, del 2001, per me la più estatica delle immagini, la luce soprannaturale non è necessariamente benigna. Tra tutti i suoi piaceri visivi anche questa “intervention piece” trasmette qualcosa di veramente ambivalente. È pericolosa. Il paesaggio è interrotto da macchie di colore e segni che producono un’atmosfera di artificialità in cui la nozione stessa di qualcosa di naturale sembra rapidamente svanire. Che genere di tempesta sta spazzando la foresta radiosa? Ardenti esplosioni rosse riempiono il cielo velenoso.

 

Daniel Birnbaum, A New Visual Register for Our Perceptual Apparatus, in Wolfgang Tillmans, Hammer Museum, Los Angeles e Museum of Contemporary Art, Chicago 2007. Traduzione dall’inglese di Elio Grazioli. Questo articolo è presente nel nuovo numero di IMM Intensità, intermittenza, registrazione, a cura di Elio Grazioli, Riccardo Panattoni.

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IMM' n. 3: Intensità, intermittenza, registrazione

Rete: autonomia illusoria

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Il modello della rete ha una lunga storia alle spalle. Per parecchi secoli l’impiego di reti sociali e culturali è stato riservato alle necessità amministrative dei grandi imperi e a quelle commerciali di pochi mercanti. Ma nell’Ottocento, grazie alle notevoli innovazioni introdotte nell’ambito dei trasporti e in quello dei mezzi di comunicazione, il modello della rete ha cominciato a introdurre dei profondi cambiamenti anche nella vita quotidiana delle persone comuni.

Immagini: 

I Puffi nella foresta segreta

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Viaggio nella foresta segretaè il terzo film dedicato da Sony Picture Animation al rilancio della celebre serie di personaggi animati disegnati da Peyo. Si tratta di un ritorno, manco a dirlo, fortunato che ha ottenuto l’effetto di rimettere al centro dell’attenzione l’esperimento di pensiero della serie di fumetti e di cartoni, tanto amata dai bambini negli anni ‘80. 

La ribalta dei simpatici incappucciati si inserisce, infatti, nel grande trend di riscritture e rilanci che sta rimettendo in circolo l’immaginario dorato della produzione per bambini e ragazzi della cosiddetta generazione Bim Bum Bam. Con un doppio target, quello dei genitori affezionati a storie e visioni di gioventù e quello dei loro figli, a cui essi stessi si rivolgono, nel desiderio di condividere le proprie passioni di ex bambini. A questo proposito, I Puffi si rivela perfetto, allargando il proprio potere di fascinazione anche più indietro, ovvero verso la generazione di nonni ex lettori del Corriere dei Piccoli che già negli anni ‘60 ne pubblicava le storie. 

 

La serie arriva, così, al cinema, forte di una connivenza trasversale, fra le generazioni e, d’altra parte, non dimentichiamolo, anche come mito globale, in grado di raccogliere consensi da ogni angolo del globo terraqueo. Di quali possano essere i segreti di un successo così duraturo, si è fatto un gran parlare. Tornare criticamente sui Puffi significa, così, confrontarsi con un brusio ininterrotto di discussioni a margine, popolato da interlocutori diversissimi. Fan sfegatati e odiatori seriali, complottisti di ogni sorta e famigliole di abbonati a Famiglia Cristiana, sociologi, psicologi, antropologi, teorici del gender, mamme blogger e, si capisce che, fra poco, anche io, nel mio piccolo, mi aggiungerò alla lista. 

Mi sembra giusto cominciare, inserendo ogni considerazione all’interno del piccolo itinerario che progressivamente ho provato a tracciare, intervenendo sui cartoni animati. A proposito di Zootropolis, per esempio, avevo riflettuto sul fatto che i cartoni possano essere dei potenti strumenti di articolazione del pensiero astratto e rappresentare così vere e proprie metafore politiche, aprire un discorso sul modello di società perfetto.

 

È questo anche il caso dei Puffi. La qual cosa non è di certo passata inosservata. Già Umberto Eco in un simpatico articolo uscito su Alfabeta ne descriveva i contorni, sottolineando la complessità semiotica della neolingua puffa, gli aspetti egualitari del loro vivere insieme (tutti i puffi sono uguali e maschi), la forma di governo gerontocratica (tutto il potere va all’anziano Grande Puffo), l’enigma della loro riproduzione (come si diventa puffo?), il carattere di utopia politica misticheggiante del loro modello di società (una comune sessantottina) che assume le sembianze di un’età dell’oro tanto bucolica quanto fiabesca. Ci vorrà una trentina d’anni da quell’articolo, perché il filosofo francese Antoine Buéno, nel suo famoso Libro nero dei puffi, possa ribaltare il punto di vista di Eco, riconoscendo nei medesimi tratti individuati dal semiologo (e in altri ancora) il segno di una mira totalitaria, più o meno consapevolmente ispirata al modello comunista e nazista. Si potrebbe obiettare che, nella metafora politica dei Puffi, sia gioco facile rintracciare alcuni elementi archetipici generali da cui anche comunismo e nazismo hanno sicuramente pescato. Si tratta di una retorica comunitarista più ampia e radicata dei totalitarismi novecenteschi, che trova il suo senso nella dialettica con l’ipotesi alternativa, fondata sull’individuo e sull’anonimato.

 

Comunità versus Società, per dirla con il celebre sociologo Ferdinand Tönnies che per primo aveva riconosciuto una tale dicotomia. Nel modo di stare insieme dei puffi, ognuno può, così, riconoscere somiglianze con questo o quell’altro modello politico, tutti afferenti, nel bene e nel male, all’idea del vivere comunitario: comune sessantottina, nazismo, mondo contadino, ecologismo deep, comunismo – di volta in volta, tirati in ballo a proposito de I Puffi– sono tutte forme ideologiche fondate su un comunitarismo di ritorno, inteso come reazione a una modernità societaria sempre più competitiva e individualista. In tempi di trumpismo e di rivolta contro la società liquida, si capisce che il mondo di stare al mondo dei puffi possa essere guardato con sospetto da un mondo liberal costretto a fare i conti con il ritorno in grande stile della retorica della chiusura etnica e del localismo più deteriore. 

E deprecata questa retorica è, infatti, dalla produzione americana dei film della nuova serie che, non a caso, prendono posizione proprio sulla purezza identitaria alla base del puff-concept. Il ritorno dei puffi sul grande schermo si costituisce, infatti, come un tentativo di liberarli del loro esibito comunitarismo, traghettandoli verso un’ideologia societaria più aperta alle ragioni dell’individuo, più compatibile con i gusti del pubblico attuale e con, parolone, l’ideologia americana. 

 

 

Il leit motiv di questi film è l’ibridazione. Nel primo film della serie (The Smurf Movie), i puffi dovranno imparare a cavarsela a New York, interagendo nella complessità della città-che-non-dorme-mai e con gli umani. La loro complicità di gruppo finisce, allora, per apparire naïf e sempliciotta agli occhi degli smaliziati newyorkesi, destando in bambini ed adulti un’ilarità ribaltata: piuttosto che ridere per le gag delle loro avventure, si ride di loro, della loro ingenuità e della loro inadeguatezza. Di questa sorta di derisione finisce per essere vittima perfino il perfido Gargamella, che non riesce più a fare veramente paura: finirà ai margini della società, fenomeno da baraccone in spettacoli da circo di quarta categoria. 

Nel secondo film, il personaggio di Puffetta, secondario nel lavoro di Peyo, viene utilizzato come elemento per rompere la compattezza etnica del gruppo. Puffetta è l’unico puffo che non condivide con gli altri la medesima affiliazione, essendo stata creata da Gargamella come clone imperfetto e malriuscito dei puffi, al fine di sedurli e farsi condurre al loro villaggio. Puffetta, successivamente trasformata da Grande Puffo nella graziosa creaturina blu che tutti conosciamo, si ritrova così a essere l’unico individuo in un gruppo di uguali, soggetto sradicato e vulnerabile sempre in piena crisi di identità e per questo ipersensibile. Essa vive con senso di colpa la sua cittadinanza puffa, convinta di non averne davvero titolo e, per questo, si sente spesso esclusa e dimenticata dalla comunità. Sarà il gruppo e Grande Puffo in persona a ribadire il pieno diritto di cittadinanza di Puffetta, costituendo una prima breccia nell’idea urfascista della purezza etnica degli omini blu. 

 

E arriviamo, dunque, al terzo lungometraggio, appena uscito nelle sale. La neolingua puffa che tanto aveva divertito Eco, è ormai solo un pallido ricordo: già da tempo, i puffi mostrano di non puffare più come una volta. Ancora una volta è Puffetta l’anello debole della catena. Se è vero che tutti i puffi sono uguali, prendendo il nome da un tratto caratteriale o dal proprio lavoro, il nome di Puffetta non si riferisce a un segno particolare. 

Durante una delle tante avventure, Puffetta scorgerà di sfuggita una sagoma di puffo sgattaiolare oltre il muro che divide il bosco dalla foresta proibita. Una volta catturata da Gargamella, sarà proprio lei a rivelare involontariamente al cattivo l’esistenza di un altro villaggio di puffi oltre il bosco. Gargamella riesce così, attraverso un incantesimo, a dotarsi di una mappa del villaggio sconosciuto, che userà per andare a catturarli. 

 

Sarà per avvertire il villaggio dell’imminente pericolo che Puffetta deciderà di varcare la soglia dello spazio proprio, mettendosi alla prova come soggetto, nonostante l’esplicito divieto esibito dal líder máximo Grande Puffo. La sua insoddisfazione, insieme al desiderio di trovare una vera alterità nel piccolo mondo rappresentato da pufflandia, la guideranno nell’impresa. 

È a questo punto che I Puffi si trasforma in un racconto di esplorazione, storia di scoperta e riconoscimento dell’altro in pieno stile progressista holliwoodiano (Balla coi lupi, L’ultimo samurai, Avatar). Lo scenario oltre il muro si dispiega come mondo fantastico e meraviglioso, popolato come in Avatar, da strane creature e pericolosi insetti volanti. Ci vorrà poco perché la piccola spedizione di puffi composta da Puffetta, Quattrocchi, Tontolone e Forzuto, possa venire a contatto con l’alterità così tanto anelata. 

 

Si tratta di un ennesimo villaggio puffo, stavolta composto da sole femmine (rimane il problema, come si fa a diventare puffo?), in tutto speculare a Pufflandia, nonostante qualche diversità di superficie (sesso diverso, cappelli di un colore diverso, abiti finto-tribali etc.). Chiaramente la trovata di escogitare un villaggio popolato da soggetti di genere femminile costituisce una risposta alle critiche di sessismo maschilista in stile Buéno piovute da tempo sulla serie. Ribaltare l’orientamento sessuale dei puffi ottiene l’effetto di mostrare l’inutilità dell’oziosa questione del sesso dei puffi. Il sesso biologico dei puffi è, infatti, totalmente indifferente. Rimane il problema degli stereotipi sessisti attraverso cui sono costruiti Puffetta e Forzuto, uniche vere creature connotate dal punto di vista del gender, non a caso, protagonisti/cavie del film, destinati a cambiare, trasformando la loro identità, alla fine della storia.  

L’avventura nella foresta segreta del manipolo di puffi servirà, allora, loro come lezione collettiva: i puffi impareranno a uscire dal loro particolarismo, riconoscendo nel prossimo villaggio una comune puffità in cui riconoscersi e specchiarsi, fatta di natura (l’essenza blu) eppure soprattutto di cultura (l’organizzazione sociale gerontocratica), nonostante ogni differenza di superficie. 

Ma servirà anche come insegnamento rivolto all’interno della comunità, incidendo sull’articolazione profonda della cittadinanza puffa. È a questo punto che la trilogia può provare compimento nell’ultima battuta del film, pronunciata da Forzuto, in risposta dei dubbi identitari della sua sodale: «Puffetta può essere qualunque cosa voglia essere».

 

Il traghettamento appare, così, finalmente, completato: i Puffi, racconto comunitario per eccellenza si ritrova trasformato in Zootropolis, rubando la battuta alla piccola coniglietta Judy, che, al fine di realizzarsi come individuo svincolato da ogni costrizione, aveva scelto di liberarsi dalle angustie del suo piccolo mondo contadino, andando a vivere in città. Grazie a Puffetta, il virus dell’individualismo societario riesce, così, a espugnare Pufflandia, con il risultato di rendere i puffi un po’ meno urfascisti e un po’ più aperti all’eventualità che il singolo possa contribuire autonomamente, oltre ogni vincolo comunitario, al benessere del gruppo sociale. 

Tönnies sarebbe davvero orgoglioso di loro.

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Generazione Bim Bum Bam

Il terrore contemporaneo

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Prosegue la riflessione attorno al tema delle immagini e della violenza al centro del dibattito svoltosi a Torino il 15/16 marzo. Come dobbiamo e vogliamo rapportarci a tutte queste immagini che pervadono e ossessionano la società occidentale? Che effetto ha il predominio dell’immagine sulla costruzione e tradizione del nostro canone culturale? È possibile formulare un’etica dell’immagine per il XXI secolo? Doppiozero riprende qui un articolo di Maurizio Guerri per contribuire a costruire un dibattito attorno al tema, urgente e fondamentale.

 

Nelle ultime settimane le immagini che hanno aperto tutti gli organi di informazione sono quelle relative ai brutali sgozzamenti di James Foley, Steven Sotloff e David Cawthorne Haines da parte dei membri dell'Isis in una zona imprecisata tra Iran, Iraq e Siria. Questi video e le immagini estrapolate coinvolgono gli organi di informazione di tutto il mondo, con particolare incidenza, ovviamente, per gli Stati Uniti, l'Europa, il Medio Oriente.


È facile intuire che le immagini scelte dai giornali e telegiornali, dalle riviste, dalle testate on-line per aprire la prima pagina sono particolarmente significative dell'importanza che più o meno volontariamente e in modo più o meno consapevole un certo organo di informazione intende dare a eventi politici o di cronaca, piuttosto che a altri, e dunque del peso che i diversi eventi rappresentati in immagini assumono presso l'opinione pubblica. A volte risultano molto significative le differenze nella scelta delle immagini, le diverse prospettive in base a cui uno stesso accadimento è mostrato. Sempre molto interessante è il verificarsi di una totale convergenza e uniformità tra gli organi di informazione in merito all'evento da mostrare in immagine, come in questo caso.


Gli sgozzamenti a puntate dei tre ostaggi prigionieri dell'Isis hanno sollevato un unanime e globale coro di indignazione per molteplici ed evidenti ragioni: si tratta di tre uccisioni di brutalità tale da mettere alla prova il sentimento di pietà di ognuno di noi. Nel video del primo assassinio si preannuncia il secondo. E nel secondo si preannuncia il terzo, che è accaduto – o almeno il video ha iniziato a circolare sulla rete – mentre sto scrivendo. Nel terzo se ne annunciano altri ancora e anzi un quarto ostaggio è già stato mostrato come possibile prossima vittima designata dai terroristi.


La sceneggiatura entro cui i due brutali sgozzamenti si inseriscono è sempre la stessa: un paesaggio desertico, il boia in piedi, vestito di nero con il volto coperto e il coltello in mano che proferisce minacciosi e deliranti proclami alla platea globale. La vittima sembra tenuta dal boia come un burattino, è sempre in ginocchio con una divisa che ricorda quella in uso per i detenuti di Guantanamo ed è costretta a pronunciare una sorta di condanna della politica militare USA e britannica nei confronti dell'Isis, negli istanti che precedono l'istante in cui il coltello affonderà nella gola. La posizione in ginocchio del condannato sembra evocare una richiesta di perdono da parte della vittima e allo stesso tempo permette al condannato di non crollare su se stesso sotto il peso del terrore, nonostante tutti gli ostaggi abbiano mostrato una serenità estrema di fronte a una morte così assurda e ingiusta. Nei video non manca nulla, nemmeno l'attimo in cui la lama inizia a tagliare il collo dell'ostaggio, né la testa mozzata appoggiata sul corpo dell'assassinato.


Di certo, la dimensione seriale all'interno della quale questi video sono inseriti rinvia al linguaggio televisivo: la prima decapitazione rimanda e preannuncia la seconda e così via. Si utilizza un linguaggio a cui ormai gli spettatori di tutte le culture sono globalmente abituati. La serialità, il macabro susseguirsi di questi appuntamenti con la morte tende a far scivolare lo spettatore dentro alla spirale di orrore. Un ulteriore elemento di orrore deriva dalla scelta delle vittime: due dei tre uomini uccisi erano giornalisti particolarmente attenti e sensibili alla storia e alle tragiche vicende che da decenni lacerano i paesi medio-orientali; l'ultimo assassinato, David Cawthorne Haines, era un membro di una organizzazione impegnata in aiuti umanitari in zone di guerra.

 


L'orrore suscita terrore e il terrore paralizza, paralizza lo sguardo, blocca la memoria e l'immaginazione. Molti commenti a queste immagini sono spesso l'esito di una comprensibile paralisi dello sguardo e della immaginazione. Il discorso si affievolisce e tende ad ammutolire. Davanti a queste testimonianze visive di atti brutali, si prende atto, ci si indigna, si inorridisce, ma le parole sembrano venire a mancare. Oppure, quello che leggiamo e ascoltiamo sono altre minacce, dichiarazioni di vendetta e di guerra nei confronti di coloro che si sono macchiati di crimini di tale portata.


In ogni caso la reazione più diffusa nei confronti di questi filmati – oltre alla condanna delle uccisioni assurde e crudeli – è di indignazione nei confronti delle immagini in quanto tali. È un orrore che questi video siano stati prodotti e una volta prodotti non devono essere diffusi o devono essere diffusi con moderazione. Diversi commenti si sono soffermati sulla differenza “stilistica” rispetto ai video dei terroristi medio-orientali del passato: ci troveremmo davanti a un genere di filmati molto più raffinati rispetto al passato.
Nei commenti di molti osservatori affiora la richiesta di non mostrare i filmati delle decapitazioni e di censurare le immagini tratte dai video. Attraverso questa rimozione, si interromperebbe la catena che alimenta il voyeurismo più o meno consapevole della platea globale, cui secondo alcuni finirebbe addirittura per contribuire anche il Dipartimento di Stato americano, con un video dal titolo Welcome to the “Islamic State” costruito con un assemblaggio di girati dai terroristi jihaidisti.


Dunque, come affrontare questa paralisi dell'immaginazione e del pensiero davanti al terrore e all'orrore? La censura è una possibile via di uscita? La rimozione dei video da Youtube e la non-pubblicazione dei fotogrammi tratti dai video è o potrebbe essere una risposta a quella che è già stata ribattezzata come «porno-jihad»? Nel sottotitolo di un articolo de «La Stampa» si legge: «Qualità basic, facile accessibilità, immagini cheap: i “registi” del Califfo al Baghdadi filmano decapitazioni e crocifissioni come fossero indirizzati a un pubblico di voyeurs».
Da secoli il mito di Medusa ci ricorda il pericolo che l'uomo affronta ogni volta che si trova a dover guardare in faccia l'orrore, il mostruoso. Quando Atena spinge Perseo a uccidere il mostro, lo mette in guardia dal guardarlo direttamente negli occhi. L'unica possibilità data a Perseo è quella di osservare l'orribile volto della Gorgone riflesso nel lucido scudo che la dea gli aveva donato, di guardarlo riflesso in immagine. Riattualizzando il senso di questo antico mito ci domandiamo: la rimozione delle immagini non è piuttosto un'altra forma di questa condizione di tracollo afasico, di mutismo terrorizzato, di blocco dell'immaginazione di fronte a ciò che ci atterrisce?


Vorrei chiamare in causa Siegfried Kracauer, uno dei teorici delle immagini a mio avviso ancora oggi più interessanti. Kracauer fu costretto a migrare dalla Germania nel 1933, per via della sua avversione al regime nazista e per la persecuzione cui sarebbe andato incontro, a causa delle leggi razziali. Nel 1962 negli Stati Uniti, Kracauer scrive la celebre Teoria del film in cui tra l'altro si interroga sul rapporto tra noi e le immagini dell'orrore provenienti dai massacri della Seconda guerra mondiale e dai campi di sterminio, liberati nemmeno vent'anni prima. Kracauer cerca di interrogarsi sul senso di guardare quelle immagini in cui emerge con tutta la forza possibile l'orrore del genocidio partorito nel cuore stesso dell'Europa. Ed è proprio nelle pagine della Teoria del film che Kracauer riporta in vita il mito di Perseo e di Medusa.


Kracauer osserva che i film, i telegiornali così come le immagini sulle riviste indugiano con una certa insistenza su scene violente, come se la violenza fosse congenere all'immagine fotografica e filmica, come se cinema e orrore si attirassero reciprocamente. Kracauer ci ricorda che proprio in uno dei primi film della storia cinematografica The execution of Mary, Queen of Scots (1895) «il boia taglia la testa, poi la solleva con la mano tesa affinché a nessuno degli spettatori possa sfuggire l'orribile spettacolo». E di seguito non manca di aggiungere: «Anche i motivi pornografici si manifestarono fin dal principio». Da questo momento in avanti, la storia delle immagini in movimento viene percorsa in misura sempre maggiore da una serie interminabile di violenze tali «da dare l'incubo».
A noi oggi rimane in eredità una fenomenologia degli orrori della storia ancora più vasta rispetto a quella a disposizione di Kracauer: dopo le immagini delle guerre mondiali, dei campi di sterminio, di Hiroshima e Nagasaki dobbiamo aggiungere la guerra del Vietnam, diversi altri genocidi sparsi per il mondo e una serie infinita di cosiddette small wars e ancora avanti fino alle Twin Towers in fiamme, ai falling men, agli sgozzamenti degli ostaggi nelle mani dei membri dell'ISIS, in una galleria che lascia davvero atterriti.

 


Ma che senso ha rappresentare il terrore, mettere in mostra questo orrore? Per Kracauer è una spiegazione che non spiega nulla quella che cerca di addebitare un presunto accrescimento della violenza in immagini all'oscuro desiderio umano di distruzione, o al semplice piacere voyeuristico che i nuovi media susciterebbero. Kracauer è convinto che né lo stordimento e il trauma provocati dagli eccessi di crudeltà e di sofferenza, commisti a un brivido di gioia con cui assistiamo a ciò che accade sullo schermo, sia il senso più profondo del fluire della violenza nelle immagini filmiche.
«L'esperienza visiva delle file di teste di vitello o dei corpi umani torturati, che facciamo assistendo ai film sui campi di concentramento nazisti, riscatta l'orrore dell'invisibilità a cui lo condannano il panico e la fantasia. E questo rimuove il tabù più potente. Forse il maggior merito di Perseo non fu di tagliare la testa di Medusa, ma di superare le proprie paure e guardarne il riflesso nello scudo. E non fu proprio questo atto di coraggio che gli permise di decapitare il mostro?»


Kracauer con questo non intende ovviamente innalzare un elogio acritico dei media contemporanei, quanto piuttosto tentare di costruire un'etica dello sguardo foto-cinematografico che credo può essere molto prezioso per tentare di comprendere il nostro rapporto con le immagini e in particolare con il terrore in immagine. Fin dagli anni Venti, infatti, prima ancora delle analisi di Walter Benjamin sul cinema e sulla fotografia, Kracauer era ben consapevole di come le riviste illustrate con la loro ricerca della «fotogenia» seppelliscano sistematicamente la storia di un uomo sotto un «manto di neve» e i cinegiornali con la produzione di un continuum spazio-temporale abbiano la capacità di sterilizzare lo sguardo dello spettatore trasformandosi così in uno dei mezzi più potenti di «sciopero contro la conoscenza».

 

Ma tutto questo per Kracauer non implica ancora una condanna della fotografia e del cinema, quanto piuttosto il tentativo di comprendere i modi in base a cui ognuno di noi abbia il compito di rimettere in movimento le immagini dei media grazie alla nostra memoria e alla nostra immaginazione. L'orrore reale è sempre fonte di terrore e di impotenza, le immagini riflesse sullo scudo offrono invece la possibilità a colui che sa guardare di muovere il primo passo, di conoscere, di riuscire a mettere a fuoco anche ciò che è rimasto finora invisibile, per trovare un senso, una direzione, per agire, e infine «per decapitare il mostro». Troppo spesso ascoltiamo moralistiche professioni di fede iconoclaste che sembrano dimenticare ciò che per Perseo e per Kracauer è innegabile: attraverso le immagini noi abbiamo la possibilità di «riscattare l'orrore dalla invisibilità».

 

Riscattare l'orrore dalla invisibilità, significa avere la possibilità di uscire dalla condizione di terrore che ci paralizza e ci confonde, significa poter vedere e muovere il primo passo, mettere a fuoco il pericolo, non i suoi fantasmi.
L'invisibilità ancora oggi si offre in una duplice modalità: da un lato l'assenza e la distruzione delle immagini, dall'altra la ridondanza delle immagini fino alla riduzione di queste a un sottofondo visivo così monotono da non essere più percepibile. Anche ai piedi del faro non c'è luce. Come ha scritto Georges Didi-Huberman in uno degli scritti fondamentali di filosofia delle immagini «distruggere e moltiplicare sono i due modi di rendere un'immagine invisibile: con il niente e con il troppo». Il punto non è essere a favore o contro la messa in immagine dell'orrore, quanto piuttosto scrive Didi-Huberman «imparare a maneggiare il dispositivo delle immagini, per sapere che farcene del nostro vedere e della nostra memoria». Immagini malgrado tutto: anche davanti alle decapitazioni dobbiamo imparare a guardare nei nostri scudi di Atena, come Perseo imparò a fare con il suo.

 

È strano osservare come negli stessi giorni in cui le immagini delle decapitazioni da parte dei terroristi dell'Isis fanno discutere in merito a questioni di politica internazionale, di etica e di estetica, altre immagini abbiano suscitato altrettanta attenzione da parte degli organi di informazione. Il caso dell'orsa Daniza uccisa nei boschi del Trentino è comparso sulle prime pagine dei giornali e in apertura dei telegiornali spesso immediatamente accanto o di seguito alle immagini diffuse dall'Isis. Il montaggio di immagini che abbiamo visto in questi giorni assemblava senza soluzione di continuità le riprese dell'orsa che fugge inseguita dai veterinari muniti di fucile carico di anestetizzante, agli ostaggi sgozzati nelle mani dell'Isis.


Da questi montaggi di immagini e dagli orrori che di immagini sono privi molto si può comprendere in merito a ciò che ha valore per il nostro sistema di giudizio e a ciò che di fatto non ne ha, in merito a ciò che è visibile al nostro sguardo e a ciò che rimane non-visto, al di fuori del nostro sguardo. Ciò che non è degno di essere messo in immagine non è degno di entrare nella sfera dei nostri giudizi, in fondo non esiste nemmeno.

Alessandro Dal Lago in Carnefici e spettatori. La nostra indifferenza verso la crudeltà osserva molto opportunamente che il nostro sguardo sulle diverse forme di crudeltà che attraversano il nostro tempo, si caratterizza come un «sistema culturale di giudizio efficace», ovvero come un modo attivo ed organico di «sintetizzare la nostra visione facendone qualcosa di coerente e sopportabile».

 

 

 

Il nostro sguardo non riceve passivamente le immagini dal mondo esterno, ma attivamente le sceglie, le ordina, in altri termini è un «sistema di interpretazione attivo, che contiene fin dal principio gli elementi essenziali di una grammatica e di una sintassi dell'azione (e dell'inazione)». E potremmo aggiungere tra ciò che è degno di essere trasposto in immagine e ciò che invece degno non è. Ciò che è degno di essere trasposto in immagini è anche ciò che è degno di essere conosciuto e che esiste per il nostro sistema di conoscenza. Così, stando alla logica delle immagini immanente al sistema informativo italiano (ma il discorso sarebbe analogo in tutti gli altri Paesi che potremmo prendere in considerazione) il tipo di violenza che vige nelle immagini degli sgozzamenti degli ostaggi dell'Isis è degno di essere conosciuto e interrogato, in modo simile a quel tipo di violenza relativo all'orsa Daniza che subisce una troppo massiccia dose di narcotico sulle Alpi italiane. In altri termini: concesse le debite differenze, si tratta di forme di violenza, di modalità del terrore che allo stesso modo prendono immagini, che si riflettono sullo scudo di Atena dei nostri media.

 

È interessante osservare come tante altre forme di terrore di rilevanza e dignità uguale o addirittura maggiore rispetto a quelle che abbiamo ricordato, rimangano invece senza immagini, totalmente irriflesse, completamente tagliate fuori dal nostro sguardo. Penso, per esempio, al probabile milione di morti che la guerra in Iraq ha provocato dal 2003 a oggi (per la maggior parte inermi e civili), alle migliaia di individui che ogni anno perdono la vita nel corso di “guerre minori” in molte parti del mondo, alle migliaia di morti nello Stretto di Sicilia (uomini, donne e bambini in fuga da fame, guerre e persecuzioni). La possibilità di vedere riflesse in immagini le forme di terrore connesse a questi eventi è quasi nullo o comunque molto più basso rispetto ai casi sopra citati. Queste forme di terrore, per utilizzare l'espressione di Kracauer, non sono riscattate dall'orrore della invisibilità e per questo tendono a scivolare sotto la soglia di esistenza.

 

A dieci anni di distanza dalle terrificanti immagini scattate ad Abu Ghraib sono stati eseguiti negli Stati Uniti processi con sentenze definitive a carico dei militari americani colpevoli, sono stati girati film e documentari – come il celebre Standard Operating Procedure di Errol Morris – che ricostruiscono i tragici eventi all'interno del carcere, numerosi artisti si sono confrontati con le immagini di forzate piramidi umane, dell'uomo incappucciato costretto a stare in piedi su un supporto per non essere attraversato da una scossa elettrica e con tutte le altre immaginabili torture avvenute nel carcere. In questi giorni il fotografo di moda Chris Bartlett ha presentato una mostra a New York in cui per la prima volta abbiamo la possibilità di guardare negli occhi coloro che furono sottoposti a quelle terrificanti sofferenze. Quegli eventi sono entrati nel nostro sguardo, si sono riflessi nel nostro scudo di Atena, hanno assunto un senso e un valore per noi. Di quello che è accaduto ad Abu Ghraib esistono immagini che sono potute entrare in relazione con la nostra memoria, con la nostra immaginazione, con il nostro senso di responsabilità, con la nostra idea di giustizia e di dignità.

 

Non accade lo stesso per le centinaia di migliaia di morti civili uccisi in Iraq nel corso dell'operazione Shock and Awe, né per tutti i morti che giacciono sul fondo del Mediterraneo, né per tutte quelle innumerevoli forme di terrore che rimangono escluse dal nostro sguardo. Come ha scritto Pierandrea Amato in un libro molto importante In posa. Abu Ghraib 10 anni dopo, la «molteplicità apparentemente infinita d'immagini che ci accerchia, in realtà, è quasi sempre radicata in un unico codice visivo. Nostro compito, allora, è rifiutare questo linguaggio, dilatando una versione sovversiva, disordinata, destabilizzante delle immagini».

Diversamente rispetto a questa riconfigurazione dello sguardo, le analisi lette o ascoltate in questi giorni dedicate alle immagini dei prigionieri assassinati dai membri dell'Isis appaiono tutt'al più come truismi in cui oltre a ribadire la crudeltà dei gesti crudeli che nelle immagini si documentano, oltre a meravigliati commenti in merito all'uso di programmi di montaggio video da parte dei terroristi, o in relazione all'analogia tra i filmati pornografici classificati come «gonzo» e i video dell'Isis non v'è assolutamente nulla.


Oppure quello a cui assistiamo è l'invocazione dell'intervento dell'esercito degli Stati Uniti considerato di volta in volta come una sorta di «Croce Rossa» o come un angelo vendicatore. In ogni caso, non v'è nulla in tutti questi commenti che vada nella direzione di una riconfigurazione del nostro sguardo di fronte alla violenza contemporanea, di una lettura delle immagini che sappia anche solo mettere in relazione ciò che scorre illimitatamente sugli schermi dei nostri media, con ciò che rimane senza immagini, senza volto, senza riscatto. Dare visibilità a queste immagini, ampliare l'orizzonte del nostro sguardo, è un passo necessario per iniziare a fare luce sulla genealogia del terrore contemporaneo, sulla dimensione di puro annientamento delle nostre economie e dunque delle nostre guerre.

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Nietzsche pianista e compositore

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La musica occupa interamente i centri vitali della filosofia di Nietzsche, del suo pensiero, del suo agire. Vissuta sempre in una dimensione immanente, per Nietzsche la musica non è mai quella dell'essere, ma quella che si riconnette alla vita, quella che “offre alle passioni di poter gioire di loro stesse”. Il suo rapporto con l'arte si esaurisce quasi esclusivamente nella musica: “l’arte universale”, “il magico fuoco”, “il selvaggio oceano dei suoni”. È raro che riesca a godere di un'opera figurativa, tutto ciò che non si lascia cogliere in termini musicali gli dà “addirittura un senso di nausea e di ripugnanza”.

 

Il suo sentirsi orgogliosamente musicista non subisce mai cedimenti neppure negli ultimi anni della sua vita cosciente quando non ha più molte occasioni per fare pratica musicale come compositore o pianista. “Forse, non c'è mai stato un filosofo che fosse, au fond, musicista quanto lo sono io” scrive un anno prima della follia al direttore d'orchestra Hermann Levi. Una vicinanza alla musica testimoniata anche nei momenti di maggior amarezza: “non conosco più nulla, non sento più nulla, non leggo più nulla: e malgrado tutto ciò non c'è niente che, propriamente, mi interessi di più del destino della musica”. 

 

Sono oltre seicento le lettere scritte da Nietzsche dove ritroviamo citazioni, commenti, analisi o resoconti musicali. Testimonianze che ci ricollegano a una quotidianità nella quale si avverte distintamente come la musica sia la vera forza motrice del suo sentire, la sua rivelazione prima. Il filosofo francese Clement Rosset arriva ad affermare che Nietzsche sia in grado “di rifiutare la metafisica e la religione solo perché queste avrebbero dovuto occupare uno spazio già occupato in lui dalla musica. […] per questo Nietzsche non è da considerare un filosofo musicista bensì un musicista filosofo, musicista portato alla meditazione filosofica da un'incessante riflessione sulla natura della giubilazione musicale”.

 

Fin da giovanissimo Nietzsche si dedica assiduamente alla composizione lasciandoci una settantina di brani in gran parte composti prima dei vent’anni. Molti Lieder per voce e pianoforte, brani per pianoforte solo o per pianoforte a quattro mani. Se si escludono alcuni abbozzi ed un paio di brevi pezzi d’occasione, sono solo cinque le composizioni “mature” scritte o rielaborate dopo il 1865. Brani ai quali lavora ancora con dedizione e vane speranze di essere riconosciuto come musicista.

 

Nel 1871 compone l’enigmatico Das Fragment an sich (Frammento in sé) un brevissimo brano per pianoforte solo che sembra evocare con quell’ininterrotto e ineluttabile “da capo” la circolarità dell'eterno ritorno. Dello stesso anno è Nachklang einer Sylvesternacht (titolo completo Eco di una notte di San Silvestro con canto di processione, danza campestre e campana di mezzanotte) per pianoforte a quattro mani che rielabora una composizione per violino e pianoforte scritta otto anni prima. Entrambi i pezzi si ispirano alla notte di San Silvestro, momento cruciale nella vita di Nietzsche "nel quale – scrive alla madre – si formulano proponimenti decisivi […] e ci si sente come elevati al di sopra del tempo. Si assicura e si autentica il proprio passato e si riceve coraggio e decisione per proseguire nella propria strada”.

 

Nel 1872 si dedica al suo brano pianistico più complesso e controverso la Manfred Meditation per pianoforte a quattro mani ispirata al dramma di Byron di cui accenneremo in seguito. Nel 1873 compone invece Monodie à deux, sempre per pianoforte a quattro mani, ironico dono di nozze a Olga Herzen, “figlioccia” dell'amica Malwida con Meyensbug, che si univa in matrimonio con lo storico Gabriel Monod.

 

È invece del 1874 Hymnus auf die Freundschaft (Inno all'amicizia), ultima fatica compositiva di Nietzsche che sarà rielaborata in differenti versioni per pianoforte a due e a quattro mani per essere nuovamente trasformata nel 1882, con l’aggiunta del testo poetico di Lou von Salomé, in un lied dal titolo Gebet an das leben (Orazione alla vita) e successivamente, in un inno, Hymnus an das Leben, (Inno alla vita) per coro e orchestra.

 

Nelle sue ultime composizioni Nietzsche tenta invano di forzare l’espressività del pianoforte oltre i limiti timbrici dello strumento. Quando compone Eco di una notte di San Silvestro confessa all'amico Gustav Krug che il brano “è costruito su pochi temi, con un carattere [...] letteralmente avido d'orchestra, ma come sai, a questo punto non posso più competere”. Così come nelle sue Meditazioni sul Manfred spiccata natura sinfonica delle quali resta anche traccia dell'orchestrazione delle prime battute a testimonianza di una volontà che non riesce più a contenersi nei limiti di una tastiera.

 

 

Di quest’ultimo lavoro Nietzsche è talmente soddisfatto da inviarne subito una copia al celebre direttore d’orchestra Hans von Büllow, interprete acclamato di molte opere wagneriane e primo marito di Cosima Liszt. La risposta del maestro, citata in molti testi a conferma del poco talento musicale del nostro filosofo, fu, come la definì Nietzsche stesso molti anni dopo, “una sentenza di morte”. Queste le parole di Bülow: “La sua Meditazione sul Manfred è di una estrema stravaganza fantastica, la cosa più sgradevole e anti musicale che da gran tempo mi sia capitata sotto gli occhi tra le annotazioni su carta da musica. [...] A parte l'interesse psicologico – dato che nel suo febbrile componimento musicale, accanto a tutti gli smarrimenti, si avverte uno spirito inconsueto e distinto – la Sua meditazione dal punto di vista musicale ha lo stesso valore di un delitto nel mondo morale... […] D'altronde Ella stessa ha definito la Sua musica “orribile” – e, in effetti, lo è. E certo in modo più orribile di quanto creda... dannosa per Lei stesso, che non avrebbe potuto ammazzare in modo peggiore anche un eventuale eccesso di ozio che stuprando Euterpe in tal maniera”.

 

Parole fatali che scuotono il fragile animo musicale di Nietzsche. Incerto sul da farsi attende diversi giorni prima di rispondere. Ci restano due lettere: quella effettivamente inviata ed un abbozzo più sofferto dove Nietzsche tenta di confessare le ragioni più intime che lo portarono a comporre quelle pagine: “ho scritto fughe en masse, e sono capace di uno stile puro […]. Per contro talvolta sono sopraffatto da una voglia così barbarica, da una tale mescolanza di caparbietà e di ironia, che io stesso non riesco a scorgere con chiarezza – così come non riesce Lei – che cosa nell'ultima musica sia da interpretare seriamente e cosa invece come caricatura e sarcasmo. […] Con ciò mi è purtroppo chiaro che il tutto, con questa mescolanza di pathos e cattiveria, corrispondeva assolutamente a un vero stato d'animo, e che io nella stesura di quella composizione ho provato un godimento come mai prima d'allora”.

 

Nietzsche ammette di riconoscersi pienamente in quella pagina. Non sembra invece in grado di cogliere una sorta di riconoscimento implicito sulla natura estrema del suo agire che certamente la lettera di Büllow contiene. Lui stesso aveva definito “orribile” il suo pezzo nella lettera che accompagnava l’invio del brano. Forse per pudore, forse perché sapeva quanto nella sua musica prevalesse la necessità di mescolare insieme “piacere, disprezzo, tracotanza e sublimità”. Forze “delittuose” che, seppur ancora incostanti e malferme sul piano compositivo, avevano l’ardire di forzare lo stile e l’estetica musicale del tempo così come il suo “filosofare col martello” agiva sul mondo morale.

 

Se si escludono gli abbozzi giovanili di alcuni pezzi sacri per piccolo organico orchestrale, solo con l'aiuto di Heinrich Köselitz riuscirà a completare l'orchestrazione del suo ultimo lied, Gebet an das Leben, trasformandolo in quell'Inno per coro e orchestra che si augurava potesse essere un giorno cantato in sua memoria. Brano che, coraggiosamente, quindici anni dopo, osò inviare nuovamente a Büllow per un parere con una lettera di accompagnamento nella quale traspare chiaramente il bisogno di chiudere in qualche modo quell'antica ferita. Sappiamo invece che rimarrà aperta fino alla fine come testimoniano la brevissima lettera del 9 ottobre 1888 e quell’ultimo “biglietto della follia” del 4 gennaio 1889 dove Nietzsche, trasformatosi ormai in Dioniso, condanna senza appello il povero direttore tedesco “ad essere divorato dal Leone di Venezia” (titolo di un’opera musicale che Nietzsche amava moltissimo composta da Köselitz).

 

Nietzsche afferma in molte lettere come nei suoi brani si manifesti la sua più intima natura dove il pathos predomina sull’ethos, il tutto sulla parte. “Possa la mia musica dimostrare che si può essere dimentichi del proprio tempo e che in ciò v'è qualcosa di ideale!”, scriveva nel 1875 all'amica Malwida von Meysenbug, “per me resta sempre un fatto straordinario come nella musica si riveli l'immutabilità del carattere; ciò che vi esprime un fanciullo è così chiaramente il linguaggio essenziale della sua intera natura, che anche l'adulto non ritrova nulla da cambiare”.

 

Una frenesia incontenibile lo domina in particolare quando compone al pianoforte, lo strumento della sua creatività musicale, dell'intimità solitaria, il suo principale confidente: “per un po’ rimasi senza parola. Poi istintivamente mi buttai su un pianoforte, come l'unico oggetto dotato di anima di quella compagnia e accennai alcuni accordi che sciolsero il mio torpore”. Poco più che ventenne, scrive incredulo alla sorella Elisabeth e alla madre Franziska dei sui primi riconoscimenti come pianista: “le mie improvvisazioni al pianoforte hanno non poco successo, e fui solennemente festeggiato con un brindisi in mio onore. Ernst ne è assolutamente incantato, come direbbe Lisabeth; dovunque io mi trovi debbo suonare e vengo applaudito: è ridicolo. Ieri, nel pomeriggio, ci recammo a Schwelm, […] la sera, in un ristorante, suonai, senza saperlo, alla presenza di un rinomato direttore d'orchestra, il quale rimase a bocca aperta e mi fece ogni sorta di complimenti, scongiurandomi di far parte, la sera, della sua società corale.”

 

Nel suo continuo errare di città in città Nietzsche cerca di avere sempre a disposizione un pianoforte. Lo affitta anche a caro prezzo o cerca di trovarne uno in un locale o da un amico. Avvilito scrive da Bonn alla sorella: “tra le mie grandi operazioni finanziarie c'è anche il proposito […] di non prendere più in affitto un pianoforte, tutto questo, in parole povere, per risparmiare denaro”. Così come all’amico Carl von Gersdorff lamenta di essersi purtroppo occupato poco di musica perché a Kosen, dove si trovava in quel periodo, non ha un pianoforte a disposizione. È entusiasta invece quando scrive sempre ad Elisabeth pochi giorni dopo il suo arrivo a Basilea: “ho affittato uno splendido pianoforte a coda (non costa caro)”. 

 

Il pianoforte è lo strumento per comporre, per conoscere i grandi capolavori e per improvvisare. Qualità non comune a tutti i musicisti nella quale Nietzsche certamente primeggiava. Chissà quanti altri brani nacquero da questa pratica compositiva estemporanea, chissà come il suo rapporto con la musica vivesse nell'immediatezza di quel gesto creativo che faceva appello alla sua “memoria riproduttrice”. Nonostante in gioventù si augurasse che “lo studio approfondito delle regole della composizione musicale attenuasse il pericolo di diventare superficiale a forza di improvvisazioni”, questo bisogno non cessò mai. Forse perché, più di ogni altra attività creativa, lo riconduceva a quella dimensione corporea della pratica musicale, a quelle tensioni armoniche e ritmiche vissute nel gesto fisico di suonare come elementi da gestire nel presente senza ripensamenti o correzioni. La vera dimensione della libertà dionisiaca.

 

Il pianoforte sarà poi lo strumento che lo accompagnerà nella follia. A Torino, quando Franz Overbeck si precipita per accertarsi delle condizioni dell’amico e lo trova nella sua stanza “seduto al pianoforte dove canta a voce spiegata in preda alla frenesia”; a Jena, dove malato e vegliato dalla madre esce dalla clinica per raggiungere uno strumento nella sala di un ristorante poco lontano dove può suonare un paio d'ore o nella casa materna; a Naumburg, dove attende con impazienza il momento per mettersi alla tastiera dopo la passeggiata del mattino e le cure del barbiere. 

Gli ultimi contatti sono con un pianoforte suonato a Weimar da Heinrich Köselitz. Pochi accenni che rianimano per un istante quel corpo demente condannato ormai all'estrema solitudine.

 

Nota di lettura:

Di seguito sono elencati i riferimenti di alcune delle lettere citate nell’articolo. Lettera inviata a:

Franziska ed Elisabeth del dicembre 1864 e del 18 febbraio 1865; Carl von Gersdorff del 11 ottobre 1866; Elisabeth Nietzsche del 28 maggio 1869; Gustav Krug del 13 novembre 1871; Erwin Rohde del 21 dicembre 1871; Hans von Büllow del 20 luglio 1872; Heinrich Köselitz del 29 ottobre 1872; Friedrich Hegar dell’aprile 1874; Malwida von Meysenburg del 20 marzo 1875; Hermann Levi del 20 ottobre 1887; Heinrich Köselitz del 22 ottobre 1887 e del 21 marzo 1888; Hans von Büllow del 9 ottobre 1888. Testimonianza di Paul Deussen, che racconta della visita di Nietzsche in una casa del malaffare.

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Gli inganni della trasparenza

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Ci sono pochi dubbi sul fatto che la trasparenza sia la retorica dominante di questo primo scorcio di Nuovo Millennio. Numerosi gli studi che hanno affrontato tale questione, pressoché infiniti gli esempi offerti dalla quotidianità politica e cronachistica a sostegno di questa tesi. Parlamento come casa di vetro, riunioni in streaming, accesso diretto ai dati, quantificazione compulsiva delle informazioni, imprescindibili esigenze confessionali: ecco un piccolo ventaglio della mania di trasparenza che irrora i discorsi sociali. Ma questa visibilità virtualmente illimitata non rischia di essere anche una trappola, come ammoniva Michel Foucault più di quarant'anni fa nella pagine di Sorvegliare e punire? Il filtro invisibile della perfetta trasparenza, denegando la sua stessa presenza, non finisce per essere nient'altro che un trompe-l'oeil, inganno insieme sensoriale e cognitivo?

 

Laurent Grasso, Visibility is a Trap, 2012. 

 

Questi pensieri si rincorrono mentre sfoglio le pagine che compongono La trasparenza inganna (Luca Sossella Edizioni, 2015), una raccolta di interventi curati da Maria Albergamo, corredati da un interessante apparato iconografico che costruisce una mappa anacronistica e dialogica attorno alla polarità opacità/trasparenza. Una prospettiva spagnola – è questo il primo luogo di elaborazione del volume – che fa continuo riferimento all'esperienza italiana e che mostra un duplice piano di interesse.

Anzitutto perché se Italia e Francia erano stati i Paesi pionieri nella messa a punto della “società dello spettacolo integrato”, come sosteneva Guy Debord nei suoi Commentarii del 1989, Italia e Spagna sembrano essere oggi i centri propulsori proprio di quella “società della trasparenza” che dello spettacolare integrato ne costituisce l'ultima incarnazione. E dunque questa prospettiva non può che giovare al lettore italiano, che osservando un fuori per molti versi analogo al nostro Paese sarà in grado di ricodificare le conclusioni analitiche nel proprio orizzonte di senso. In secondo luogo, perché qui gli strumenti offerti dalla semiotica sviluppano appieno la loro efficacia diagnostica a partire da una validità analitica messa in rilievo dal dialogo istruito con le discipline affini, quali la sociologia, l'antropologia, la teoria dell'arte. Uno sguardo che sembra ancora riuscire a cogliere in profondità i processi di significazione come operazione imprescindibile per la comprensione delle dinamiche culturali nel momento del loro apparire.

 

 

Attraversando le pagine del volume, il lettore si imbatte in alcuni snodi che hanno segnato il dibattito contemporaneo sulla dialettica tra diritto alla conoscenza e diritto alla riservatezza, così come in episodi minori eppure esemplari di questa dicotomia instabile. Se la trasparenza qualifica la relazione tra soggetto e mondo, nelle forme di un’esigenza politica, allo stesso modo orienta il rapporto tra individuo e sé, nei termini di un’impostazione etica sulla quale lo stesso Foucault si è soffermato a lungo nelle sue ultime ricerche affrontando il dispositivo confessionale e i processi di conoscenza dei moti dell’animo. Due movimenti, verso l’esterno e vero l’interno, profondamente intrecciati, al cui punto di intersezione emerge il problema della rappresentazione e dell’immagine di sé. Appunto per questo in tutti gli interventi la trasparenza non è mai disgiunta dall’opacità, coppia dialettica che costituisce il fondamento proprio di quella teoria dell’enunciazione iconica proposta da Louis Marin e adottata con profitto (sebbene con varianti) da gran parte della teoria dell’arte contemporanea.

 

Non si tratta affatto di temi astratti: basti pensare alla questione capitale dell’immagine efficace che ogni istanza di potere deve sviluppare per trasformare la sua riserva di forza in atto performativo, come già ricordato da Francesco Zucconi in un bell’articolo. Le forze politiche italiane hanno sviluppato in questi ultimi anni strategie sempre più raffinate (a maggior ragione quando sembrano particolarmente rozze), sottolineando la prossimità tra “uomo politico” e “uomo qualunque”. Strategie che, rispetto ai sovrani medievali o dell’Assolutismo (oggetti delle analisi rispettivamente di Kantorowicz e Marin), e che ancora erano rintracciabili in qualche modo nella figura berlusconiana, non puntano più ad enfatizzare quella zona opaca e inconoscibile del potere, che ne costituirebbe appunto la grandezza, quanto semmai a rappresentarsi nella loro “nudità” immediatamente accessibile. Una politica dunque de-ritualizzata perché trasformata integralmente in un incessante rito liturgico e glorioso – come ha argomentato Giorgio Agamben ne Il Regno e la Gloria– fatto di happening, convention, tour, dimostrazioni e sit-in, sempre a stretto contatto con il “popolo”.

 

Una strategia che non è ovviamente esente da rischi, come testimonia il caso francese, dove la richiesta di fiducia all’elettorato che traspare dalle immagini di vita quotidiana “messa in posa” dei politici diventa talmente marcata da ingenerare il sospetto di una manipolazione nascosta; la conseguenza è la perdita di consensi da parte delle forze “tradizionali” nel momento in cui si avventurano sul terreno dell’“anti-politica” senza riuscire a opporvi antidoti specifici. Il saggio di Juan Alonso, ricorrendo all’efficacia della teoria dell’enunciazione, mette bene in rilievo i valori implicati in questo ordine discorsivo, per evidenziare l’emersione di un “nuovo realismo” che altro non è, a conti fatti, che una nuova forma di idealismo. Una prospettiva che il dibattito filosofico e giornalistico italiano farebbe bene a tenere a mente.

 

Antonio Corradini, La pudicizia.

 

Le considerazioni qui sommariamente elencate attraversano puntualmente l’introduzione di Maria Albergamo, che si sofferma su un passaggio decisivo per descrivere la situazione italiana odierna: "La trasparenza sottrae spazio al segreto, mette in questione quei principi rappresentativi ed elettivi su cui si sono basate sino a oggi le democrazie, e che appaiono sempre più inadeguate. La trasparenza nega alla politica le ideologie, dando in cambio solo opinioni o mero esercizio di amministrazioni pubbliche" (p. 8).

La trasparenza intercetta così quel quadrato semiotico della veridizione proposto da Algirdas Greimas che descrive in termini minimi le strategie e le retoriche del dir-vero all’interno del discorso, lavorando sui due poli dell’essere e dell’apparire. Contrariamente al luogo comune che interpreta la nostra come “società dell’apparenza”, la trasparenza sottomette l’apparire all’essere, idealizzando la verità nella forma utopica del suo mostrarsi senza mediazioni, a discapito del segreto – come visto – e ovviamente della menzogna e della falsità, i quattro poli che emergono dall’interazione fra i termini del quadrato. Nell’epoca della post-truth, allora, sembra proficuo rispolverare utensili apparentemente desueti per esercitare una lettura diagnostica del presente, specialmente quando intercettano quella riflessione critica che sul tema si è interrogata con notevole lungimiranza.

 

Penso ad esempio ancora a Foucault nel momento in cui rimarcava il proliferare inconsistente di espressioni (a noi ormai molto familiari) quali “essere se stessi” ed “essere autentici”, evidenziando l’urgenza e insieme l’impossibilità della costruzione di un “etica del sé” quale compito “politicamente indispensabile” (L'ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-1982, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 221-222). O, molto più recentemente, a Byung-Chul Han, quando mette in rilievo lo svuotamento di tutte le “forme d’apparenza” in una società contemporanea de-ritualizzata e denudata, sempre più prossima a una “porno-società” che elimina le proprie maschere e lascia campo libero al controllo nella forma di una sorveglianza continua che è solo un simulacro instabile della democrazia (La società della trasparenza, Nottetempo 2014).

 

Vietnam Veterans Memorial, Washington D.C. 

 

La trasparenza, insomma, non è altro che “un effetto di senso”, come afferma Rayco Gonzalez nel suo ricco contributo che evidenzia come tale proliferazione di trasparenze sia in parte anche una risposta alla “sindrome del sospetto” (78) che attanaglia il presente. Un effetto di senso ascrivibile a un più ampio contesto ideologico, riscontrabile nel cuore del concetto stesso di medium, nota Marcello Serra, che di tale ideologia descrive una curiosa inversione: dal caratterizzare un rapporto di piena conoscenza – il linguaggio di programmazione dei primi computer, che l’utente padroneggiava sino a raggiungere la “nudità” della macchina (p. 61) – la trasparenza è passata a indicarne uno di piena fiducia, tipico della fruizione a finestre dei sistemi operativi più diffusi. Una modalità adottata poi dai motori di ricerca più utilizzati, dove gli algoritmi celano le proprie operazioni presentando i risultati in forme che “naturalizzano” i filtri di ricerca (qui una disamina approfondita di Flavio Pintarelli).

 

È proprio nel web che l’ambivalenza della trasparenza trova il suo terreno d’elezione (se ne occupa da anni, tra gli altri, il collettivo Ippolita) e forse il caso WikiLeaks ne è stato il fenomeno più esemplare. Sarà a causa della speciale risonanza che il famoso Cablogate ha avuto nel modo ispanofono, la figura di Julian Assange (messo frettolosamente ai margini delle cronache recenti) è la grande co-protagonista di questo libro. Ma la sua sete di trasparenza, notano tanto Oscar Gómez quanto Pablo Francescutti, si ammanta di una duplice opacità. La prima relativa alle forme di diffusione dei dati, ovvero il terreno d’efficacia della trasparenza, che hanno dovuto sottostare a processi di incorniciatura che istituiscono soglie di mediazione spesso istituzionalizzate, quali ad esempio i grandi quotidiani che hanno agito da cassa di risonanza per portare a conoscenza del vasto pubblico i contenuti delle comunicazioni. La seconda relativa alla stessa figura pubblica di Assange, che viene costruita attraverso un’auto-rappresentazione estremamente opaca in modo da garantire l’autorità di un discorso che si presenta come rivelato (un “mascheramento soggettivante”, lo avrebbe definito Greimas).

 

Il volume si conclude così con un’ipotesi “machiavelliana”: che la torsione subita dalla trasparenza propugnata da WikiLeaks rappresenti un male minore e tutto sommato inevitabile per permettere la circolazione del discorso di svelamento. Con una sfumatura inquietante: che sia stato questo un pegno necessario che Assange ha dovuto pagare per acquisire l’agognata notorietà. Ma questo non è il grande interrogativo che attraversa tutte le ideologie della trasparenza non appena si incarnano in un’entità politica?

 

Mentre scrivevo queste righe, sono stato raggiunto dalla notizia della scomparsa prematura di Maria Albergamo. Al suo lavoro e alla sua memoria dedico questo testo.

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La sottomissione dell'apparire all'essere

La leggenda privata di Michele Mari

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“Io mi chiamo Roderick Duddle!” “Ti conosco io, non sei il figlio di Iela ed Enzo Mari?”. Così, con il sogno del protagosta, finiva il precedente lavoro di Michele Mari, a dire che le reinvenzioni iperletterarie di Rosso Floyd o di Fantasmagonia, per limitarsi alle ultime prove, sono sempre state nutrite dalla biografia dell'autore. Certo con l'appena uscita Leggenda privata, un romanzo familiare nero, la percentuale delle componenti vita-letteratura viene ribaltata. Ciò con grande piacere dei lettori affezionati, che hanno amato soprattutto Tu, sanguinosa infanzia oppure Euridice aveva un cane, e che però si trovano qui nella posizione un po' vergognosa dei voyeurs, se non, quando critici e recensori, in quella scomoda dell'Accademia dei Ciechi, tirannici e mostruosi committenti di tale horror autobiografico. A questi “raffinatissimi e marci”, l'autore, regredito ai propri terrori infantili, per frammenti e grazie anche a un ricco corredo fotografico, offre, ora con pietas più spesso spietatamente, i ritratti del padre e della madre; nonché una filogenesi di sé, figlio dell'“amplesso abominevole”, del raptus su tavolo di carpenteria.

 

All'interno della cornice goticheggiante giganteggia dunque la corpulentissima figura dell'“apulo barbaro” Enzo Mari, rude, geniale, più che ammirato per le sue creazioni da “re del design”, e più che temuto per la pedagogia proveniente da progenitori di durissima esistenza. (Peraltro al nonno paterno dell'autore, Luigi, si riserva affetto incondizionato.) Gli episodi relativi alla figura del padre sono assai numerosi e la collegano talvolta, come già fu per esempio in La legnaia (da Euridice aveva un cane 2004), all'impianto horror. Ed ecco l'enuresi, forse inconsciamente ribelle, e pericoloso indice di debolezza (l'incubo leitmotiv di diventar “culattina”), sfogata in una vacanza all'Elba: “Voleva il caso crudele che proprio quell'ultima notte alloggiassimo in un albergo di un certo lusso, e che, non essendo disponibili camere doppie, io e mio padre dovessimo dormire in un letto matrimoniale. C'è bisogno di andare avanti? All'alba, ridestatomi, mi trovo avvolto nel ben noto sudario inzuppato, e… anche metà del pigiama di mio padre (ancora nel sonno) è bagnata, e di brutto... Oh tempo, per quanto ti sei fermato?” Segue un agghiacciato viaggio di ritorno a Milano, poiché più terribile la divinità quando silente.

 

Viene allora alla mente il pezzo su Stevenson, già nella prima edizione di I demoni e la pasta sfoglia, che “fra gli attributi propri dell'infanzia non c'è solo l'irresponsabile gioco, c'è anche l'angoscia, l'immodulata e profetica angoscia di essere al mondo”. Oppure il lungo corridoio shiningiano della casa-studio, che vede camera filiale e genitoriale poste agli antipodi, riempito in piena notte di urla e da un enorme fragore di vetri infranti. Il figlio piccolo s'attenta a percorrere il buio spazio, dove rinviene una scarpa ricolma di sangue: gli sarà spiegato la mattina dopo dalla madre, con garrula nonchalance, il di lei lancio contro una porta vetrata, il taglio della safena, la corsa al pronto soccorso.

 

 

Più tenue e struggente l'ombra della madre Iela, disegnatrice e scalatrice ugualmente aerea ed infaticabile, proveniente invece dalla buona borghesia cattolica ripudiata, amica di Buzzati e Jannacci; una complementare ed avvolgente tristezza autodistruttiva non meno micidiale del martello paterno. Non c'è quasi racconto della sua eccellenza professionale (tranne accenni alla bella mano), mentre la più lunga vicinanza testimonia di un progressivo e fatale sfacelo; se nella foto di copertina il figlio, ancora assai somigliante nel viso affilato e nello sguardo corrucciato, sembra mettersi a protezione col suo stesso corpo, il testo via via lo porta a sfilarsi lontano. “Non son chi fui” chiosa con Foscolo l'autore a proposito della madre, la cui trasformazione viene segnalata da un'abnorme spia linguistica: la storpiatura, in chiave diminutiva, dialettale, esterofona, delle parole o espressioni d'uso comune e dei nomi propri. Tale manipolazione linguistica, autoreferenziale, malata e forse salvifica, doveva risuonare consona e sospetta a uno scrittore che avrebbe fatto dello stile personalissimo una propria bandiera, fino a rivendicare nella terza edizione di I demoni e la pasta sfoglia (Il Saggiatore 2017), più precisamente nella lode controbloomiana ai benefici dell'influenza, la “perversa necessità” dell'alessandrinismo: “non esiste vera arte che non abbia una forte componente manierista”, poiché lo scrittore “come bambino gioca imitando ciò che ha visto”.

 

“Ho preso il peggio di entrambi”, dichiara il figlio “diminuito” che dà in pasto agli esosi accademici delle cantine e dei solai tutti i tic d'un bambino disturbato e le rigidità di un adolescente vagante dentro al mondo femminile in un perverso stilnovismo. Il padre proporrà al figlio, nel frattempo cresciuto di statura e di barba, del tutto somigliate a lui (impressionante la foto di pagina 138), di intraprendere la via già aperta del designer; il rifiuto diventa in automatico uno dei tanti tradimenti di cui è costellato il racconto (frequentare compagni normali, interessarsi al calcio, lasciare cibo nel piatto etc. etc.). Ma pure la madre era solita disegnare Michelini, “figurine schizzate a tempo perso, in economica stilizzazione: la sola faccia, forse”, come ambigui doppi dimidiati di cattura. Il tradimento diviene allora addirittura vitale per sottrarsi all'identificazione protocollare con il genitore, e sviluppare così, junghianamente, la propria identità, ma non per questo meno apportatore di dolorosi rovelli, di obblighi a primeggiare in modo assoluto. 

 

La letteratura si dà di conseguenza ben presto quale forma difensiva che il dolore secerne: “Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto”. Ed anche, si presume, una maledizione gemella. Nella sopra citata riproposizione di I demoni e la pasta sfoglia si legge infatti che “bisogna abitarla, la fastosa casa-letteratura, bisogna auscultarla”; allo stesso modo, e secondo la teoria dei vasi comunicanti, abbisogna l'attraversamento della tradizione familiare incistata nella casa-vita.

 

Certo deve essere costato molto allo scrittore eviscerare questo libro, che fa il paio con Rondini sul filo, e che infatti nelle prime pagine è stilisticamente piuttosto irto e serrato per sciogliersi via via con il racconto come rotto un argine antico e tenace. Perciò ci vergogniamo ancora una seconda volta: questa volta a ridere tanto largamente della sequela di aneddoti feroci, ma non è possibile trattenersi, a conferma che, al modo di Cervantes, Gadda (molto Gadda: l'improvvisa micragna dei nonni ricchi a Nasca, umiliazioni e offese) o Kafka, il comico più sincero vive soltanto nel tragico. E che “il regolamento di conti”, personalissimi e in fondo trascurabili, forse per qualche lettore addirittura ripugnanti, vive meglio nel comico e necessita del lievito della forma di cui Michele Mari continua a dare grande prova. 

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Ennio Flaiano. Tempo di uccidere

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Il dattiloscritto del romanzo che Leo Longanesi ricevette da Ennio Flaiano nel marzo del 1947 si intitolava Il coccodrillo, animale emblema di un momento fondamentale della trama. Emblematiche erano pure altre ipotesi di titolo volute dall’autore: Il dente e La scorciatoia. Eppure, tutte quelle proposte non convincevano, soprattutto Il coccodrillo.

Immagini: 

Lo sguardo, le forme, il senso: Trittico dell'infamia

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Per parlare dell’ultimo romanzo di Pablo Montoya, Tríptico de la infamia (2014, tr. it. di Ximena Rodríguez, Trittico dell’infamia,   Roma, Ediziono e/o 2017 e illustra Milano. Fondazione Mudima), vorrei partire non da Jorge Luis Borges, come il titolo suggerirebbe, ma dall’affascinante aforisma racchiuso in un altro ‘trittico’, quello eterodossamente analitico che Jonathan Littell dedica all’opera del pittore Francis Bacon: nessuno sguardo – dice Littell con spirito foucaultiano – è mai innocente, sia sulla tela che fuori. Passando dai ritratti del Fayyum (I secolo d.C. circa) alle creature urlanti di Bacon, e ancora da Las Meninas (1656) di Diego Velázquez fino – perché no – al supercomputer HAL 9000 immaginato da Stanley Kubrick, non sarà difficile constatare che le arti visuali sono effettivamente costellate di occhi obliqui, inquisitori, a tratti minacciosi. Eppure, secondo Jacques Lacan, lo sguardo rappresenta il primo, fondamentale strumento ermeneutico di conoscenza dell’altro e, per riflesso, di sé: nella sua teoria dello specchio l’esperienza del mondo si configura innanzitutto in termini visivi. Ma la storia ad un tempo particolare e universale affrescata da Montoya, ironica testimone delle “magnifiche sorti e progressive”, è soprattutto una collezione di occhi avidi, fanatici e razzisti, di terribili conquiste, sottomissioni e scontri – rarissimi gli incontri – segnati dalla più efferata violenza.

 

Così, nel cuore di Tríptico de la infamia batte incessante un interrogativo sulla possibilità, sulla necessità, sul senso di ogni forma estetica: una tela, un foglio di carta o una lamina incisa possono rendere vivo il dolore della realtà, esorcizzandolo? Ecco la scomoda domanda, intrinseca allo statuto dell’opera di finzione e per certi versi già fagocitata, nonché digerita, dal primo ‘900, cui Montoya risponde in chiave squisitamente postmoderna.

Trittico dell' infamiaè un metaromanzo storico incentrato su tre artisti francofoni del ‘500 realmente vissuti – formuletta tanto superficiale quanto necessaria – e sulle loro maggiori produzioni. Si tratta di acquerelli, incisioni e dipinti che ritraggono tre spaventose, altrettanto autentiche stragi dell’epoca: la truculenta guerra tra indigeni e francesi in Florida; il massacro degli ugonotti a Parigi nel 1572 (24 agosto, la notte di San Bartolomeo); il genocidio perpetrato dagli spagnoli in America centrale e meridionale. Quello offerto da Montoya con elegante mise en abîmeè quindi uno sguardo di terzo grado, un complesso percorso su oggetti estetici dal linguaggio differente ma complementare alla letteratura, ispirati a carneficine che sono figlie di un impianto culturale-ideologico estremamente intollerante, di una Weltanschauung volta a cancellare l’Altro. E tutto – anche i racconti biografici relativi ai tre autori, accomunati dalla fede protestante, dall’esilio più o meno volontario e dai dubbi metapoetici – concorre a un doppio, disperato atto di (auto)denuncia: da una parte, contro l’universalità cronotopica della malvagità e dell’infamia umane; dall’altra, verso l’impotenza dell’arte.

 

 

Prima scena del trittico: Jacques le Moyne. Il giovane cartografo e illustratore di Dieppe si imbarca per la Floride française nella spedizione guidata da René de Laudonnière. Le intenzioni degli ugonotti, e in particolare del capitano, sono apparentemente pacifiche: Laudonnière vuole stabilire un contatto amichevole con le varie tribù degli indigeni e ottenere il loro supporto per costruire Fort Caroline, oggi Jacksonville. Ma ben presto i francesi ricorrono alla violenza, prima nominale e antropologica, poi economica e infine fisica: l’Altro viene europeizzato negli usi e nei costumi, ingannato con bigiotteria di scarso valore, sottomesso a scambi iniqui e lavori forzati, ucciso se riottoso. Jacques le Moyne, curioso indagatore dei segni come il Giano bifronte Marco Polo/Kublai Khan calviniano, è l’unico a stabilire un vero incontro con gli indigeni: affascinato dalla nebulosa ermetica dei loro tatuaggi, prova – senza grande successo – a decifrarne il significato. Sulla pelle di queste tavole viventi Jacques trova un corrispettivo enigmatico dei feticci semantici lasciati oltremare: le amate carte geografiche, i portolani, un profetico sassolino sul quale pare incisa la mappa eurocentrica del mondo, che emblematicamente sbiadisce lungo l’avventura in Florida per poi scomparire nella concitata conclusione.

 

Al contrario di le Moyne, François Dubois racconta la sua storia in prima persona. Cattolico convertitosi al calvinismo, si trasferisce a Parigi quando le tensioni religiose hanno ormai raggiunto il punto di saturazione: Dubois assiste sconcertato ai prodromi del massacro di San Bartolomeo, anticipando con malcelate prolessi la testimonianza dell’incubo, sempre incombente e tuttavia sempre rimandata fino alle ultime pagine del capitolo-sezione, dove si condensa in un resoconto allucinato, ricco di iperboli. Nella capitale Dubois incontra per caso le Moyne, ritornato rocambolescamente in Europa, ma non condivide le sue idee sugli indigeni. Il pittore, che ha la fortuna di non assistere in presa diretta alle violenze francesi, si dimostra per certi versi fazioso, superficiale: crede che soltanto la colonizzazione spagnola sia un’impietosa strage e afferma, suscitando vivaci proteste da parte di le Moyne, che gli indigeni si trovano su un gradino inferiore della ‘scala evolutiva’ rispetto agli europei. Eppure, con Dubois la riflessione metapoetica si fa più pregnante e tragica, alimentando un climax che raggiungerà l’apice nell’ultima scena del trittico, dedicata a Théodore de Bry. Dubois, rifugiatosi a Ginevra dopo la notte di San Bartolomeo, non fa che chiedersi quale senso abbia il dipinto che sta realizzando mentre racconta, Le Massacre de la Saint-Barthélemy (1576 circa), di fronte alla tragedia reale: il lutto e la sua rappresentazione artistica sono fenomeni ontologicamente differenti, in apparenza inconciliabili.

 

Si tratta, come già anticipato, della domanda che fa da Leitmotiv epitomatore all’intero romanzo: le considerazioni di Le Moyne, Dubois, de Bry e dello stesso ‘autofinzionalizzato’ Montoya convergono infatti verso una fosca presa d’atto delegittimante; l’arte non può arrivare all’essenza delle cose, “inafferrabile” – aggettivo molto ricorrente nell’attenta traduzione di Ximena Rodríguez – per natura. 

Da una prospettiva narrativo-strutturale, quella sul belga Théodore de Bry risulta forse la sezione più interessante del trittico. De Bry è un incisore bricoleur– nell’accezione mitopoietica di Claude Lévi-Strauss – che, sconcertato da alcune testimonianze visuali e scritte sugli eccidi europei nel Nuovo Mondo, decide di raccogliere le più significative per riprodurle o illustrarle. Nato a Liegi ma costretto all’autoesilio dalle persecuzioni cattoliche, peregrina per diverse città europee: Strasburgo, Anversa, Londra, Francoforte. Nel corso dei suoi viaggi conosce direttamente Dubois e le Moyne, ammirando del primo Le Massacre de la Saint-Barthélemy e realizzando grazie al secondo una serie di incisioni sulla drammatica epopea francese in Florida. La fama di de Bry, però, si deve soprattutto alle diciassette illustrazioni per Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552, tr. it. Brevissima relazione della distruzione delle Indie) di Bartolomé de las Casas, crudo opuscolo sul genocidio spagnolo in America centrale e meridionale. Uno degli ultimi capitoli viene raccontato proprio da de Bry, che lì traccia la summa della sua opera e, in un certo senso, dell’intero romanzo: la nostra realtà – afferma rassegnato – “sarà sempre più atroce e più sublime dei diversi modi che abbiamo di mostrarla”.

 

Con immagine benjaminiana de Bry descrive il futuro come un equilibrista costantemente rivolto al passato, infinita sequela di violenza insensata – o, se vogliamo, di macerie accumulate le une sulle altre – che nessuno può redimere del tutto. E il trauma è destinato a ripetersi, ad essere rivissuto ma non razionalizzato né efficacemente estetizzato. 

Ora, dietro al de profundis metapoetico intonato da de Bry si riconoscerà con particolare evidenza Montoya, che in questa sezione alterna la sua voce a quella dell’incisore belga, le considerazioni più o meno esplicite sul presente storico alla narrazione romanzata – eppure, per quanto possibile, rigorosamente documentata – del ‘500, il resoconto delle proprie ricerche a Liegi e Francoforte sulle tracce del protagonista all’analisi meticolosa delle illustrazioni per Brevísima relación de la destrucción de las Indias. In poche parole, la genesi del romanzo viene interpolata alla vita di de Bry: abbiamo quindi a che fare con un intricato “teatro catottrico” – felice espressione utilizzata da Umberto Eco per definire The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket– che rischia di irretirci tra biografie fittizie e biografismi verosimili, giochi di specchi, narratori omodiegetici, eterodiegetici, autoriali, alter ego, ecc.

 

 

Credo vivamente, tuttavia, che l’io-autore delle ultime pagine, così critico verso la società capitalista, così rassegnato all’ineluttabile, “eterno ciclo della violenza” e all’impossibilità di stabilire un contatto autentico con il passato, coincida in modo fedele al vero Montoya che si trova ‘fuori’ dal testo. Come una sorta di detective, questo feticcio autoriale – sebbene aderente all’io-extratestuale, si tratta comunque di un doppio narrativo – descrive con sguardo ironico e curioso le città visitate, la faticosa ricerca sul campo, le varie tappe dell’indagine, i sogni ad occhi aperti e le apparizioni epifaniche di uno spettrale de Bry, inseguito con ansia ma inevitabilmente irraggiungibile perché Théodore de Bry e io non possiamo parlare né lo faremo mai. Non mi resta che guardarlo svanire per sempre lungo la fiancata della chiesa. In un momento o nell’altro so di trovarmi già a metà del ponte, solo e tremante di freddo. Più in là, in mezzo alla nebbia autunnale, gli alti grattacieli delle banche di Francoforte si drizzano come emblemi arroganti dell’usura. 

 

Ancora una volta, in Trittico dell' infamia il confine tra finzione e realtà si dimostra sottile.

Lo stile fluido di Montoya, che – come José Saramago, ad esempio, o un certo Mario Vargas Llosa – non impiega alcun segno grafico per ‘isolare’ il discorso diretto, si sposa armoniosamente con le tante ecfrasi disseminate nel romanzo. Certo, prevale la descrizione delle opere di le Moyne, Dubois e de Bry, ma non mancano analisi dettagliate di Albrecht Dürer, Jan van Eyck, Paolo Uccello. Si noti che anche il raffinato approccio intermediale ha una densa, umbratile connotazione metapoetica: l’attenzione per i dettagli sfuggenti, soprattutto in van Eyck e Uccello, ricalca il Leitmotiv della ricerca ermeneutica frustrata. Così, davanti a Caccia notturna (1470 circa) lo spettatore – ci spiega con parole sue de Bry, e dietro di lui Montoya – non può che rivolgere gli occhi al bosco “impenetrabile e misterioso”, sfondo senza fine dove convergono i punti di fuga e si dirige “quel cervo salterino che i trafelati uomini di Uccello non riusciranno mai a catturare”: nuova, inquietante mise en abîme legata all’atto visivo.

      

Centrale, per l’appunto, è pure la rappresentazione della violenza, sia essa ‘in presa diretta’ o riprodotta sulla tela: Montoya non risparmia al racconto né al commento delle opere – e spesso, come già riferito, l’uno confluisce nell’altro – una considerevole quantità di particolari macabri, perfino truculenti. Ora, se già qualche anno prima Winfried Sebald ha proposto un’analoga, disperata intermedialità nel saggio Luftkrieg und Literatur (tr. it. Storia naturale della distruzione, 1999), Montoya delinea con rara e sintetica chiarezza la necessità di un approccio descrittivo dall’impatto visuale forte, che non si pieghi a pericolosi compromessi. Curiosamente è proprio las Casas a fornirgli uno spunto di riflessione sull’atroce immaginario iconografico messo in mostra da le Moyne, Dubois, de Bry e parimenti da se stesso: Montoya valutaBrevísima relación de la destrucción de las Indias“eccessivo”, “scritto male”, frettoloso e ripetitivo; ciononostante, il suo autore riesce comunque nell’intento di fornire una valida testimonianza, uno sguardo attendibile sull’agghiacciante colonizzazione spagnola. E poco importa che l’opuscolo non sia esteticamente apprezzabile, che manchino orpelli e ghirigori: “de las Casas sa che per narrare delle atrocità non occorre essere colti, né raffinati, né grammatici, che bastano alcune idee semplici ma definitive, che la ponderatezza letteraria non serve a nulla di fronte alla realtà del male”.

      

Torniamo quindi alla domanda fondamentale posta da Trittico dell' infamia: parafrasando Montoya, che senso ha l’arte, immagine imperfetta del mondo, se non può alleviare le nostre pene? Il romanzo sembra offrire due diverse risposte a riguardo, tra loro complementari. Da una parte, la ricerca del senso porta sistematicamente al fallimento i quattro protagonisti, viaggiatori – volenti o nolenti – e cacciatori di segni: le Moyne comprende il significato di un solo simbolo indigeno, la lucertola-amicizia che porta impressa sul corpo; Dubois pensa in un primo momento di lasciare su Le Massacre de la Saint-Barthélemy alcuni spazi bianchi, vuoti emblemi del trauma inesprimibile; de Bry osserva con rassegnata tautologia che i suoi disegni sono mere immagini, mentre la colonizzazione spagnola costituisce una concreta ferita aperta, insanabile; Montoya, o meglio l’io-autore, si arrende all’inaccessibilità del passato e all’inesorabile trascendenza della miseria umana. Quello appena tratteggiato è un climax ermeneutico in negativo, che dal particolare oggetto mancato della prima sezione, il tatuaggio indigeno, arriva all’universale scetticismo epistemologico dell’ultima. E alla ricerca semantica frustrata corrisponde un radicale pessimismo socio-antropologico che l’io-autore sente di condividere nel profondo con de Bry, confermando – se mai ce ne fosse bisogno – che tutti e quattro i personaggi sono reciprocamente speculari. Dall’altra parte, però, il corposo capitolo dedicato a Dubois diventa strenuo emblema di una necessaria – per quanto fallibile – testimonianza, cui l’arte può contribuire con i propri mezzi: incalzato dall’amico Simon Goulart, il disilluso pittore ugonotto decide comunque di riempire gli spazi bianchi, completare Le Massacre de la Saint-Barthélemy e soprattutto raccontarci la sua triste vicenda. Così, anche se non possono carpire l’essenza “inafferrabile” della realtà, penna e pennello hanno il dovere di salvare gli sconfitti dall’oblio, trasmettendone il ricordo lungo una narrazione storica genuinamente alternativa. Walter Benjamin scriveva che la ‘versione ufficiale’ viene sempre scritta dai vincitori: a suo modo, Dubois accetta di “spazzolare la storia contropelo”.

        

Ricostruendo con immaginazione mai eccessiva le vite dei tre ugonotti a partire dalle forme e dai colori delle loro opere visuali, Montoya realizza in qualche modo il corrispettivo romanzesco di La conquête de l'Amérique. La question de l'autre (Tzvetan Todorov, 1982): uno sguardo semiotico sulla violenza attraverso eventi sciagurati che hanno segnato il folle percorso dell’uomo. Ma qui non sembra ammesso riscatto: l’io-autore – come certi hominesficti di William Faulkner e Álvaro Cepeda Samudio – resta in bilico tra la pulsione insaziabile verso il passato e la precisa consapevolezza di un eterno ripetersi della storia, senza mai arrivare ad alcuna conciliante sintesi. Proprio in questa filosofia tragica, a mio parere, sta la grandezza di Trittico dell' infamia

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Una storia universale
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