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Ora che Dio è morto, che ne è del Mondo?

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Inizio a leggere alle sette del mattino, mentre attendo, in una corsia d'ospedale, la visita medica di una persona cara. Il testo è soffocante, soprattutto se ti sei alzato alle 5 e non hai trovato neppure un caffè aperto. Immediatamente ricordo la stessa sensazione di fronte a Diario di Hiroshima, di Michihiko Hachiya, il medico che racconta lo scenario post-apocalittico della bomba atomica; forse per associazione con la squallida corsia d'ospedale. 

La lettura si fa pesante, pure devo rimanere là, incollato al testo, finché la persona che ho accompagnato non esce dall'ambulatorio, ho bisogno di sentire quel senso di oppressione. Si tratta di un libro sulla fine del mondo, provo a trovare respiro nel ricordo dei miei studi giovanili. 

 

Nel 1977 esce La fine del Mondo, libro postumo dell'antropologo italiano Ernesto De Martino. Il libro è pubblicato a sette anni dalla morte dell'autore, quando, per l'antropologo napoletano, la fine del mondo era già da tempo accaduta. Il sottotitolo di quegli appunti, che avrebbero dovuto costituire l'impalcatura di un lavoro futuro, è Contributo all'analisi delle apocalissi culturali. Un anno prima di morire De Martino aveva già scritto un saggio dal titolo: Apocalissi culturali e psicopatologiche sulla rivista Nuovi Argomenti nel 1964.

 

Il caso della Fine del Mondoè un'ironia, un libro sulla fine del mondo pubblicato post-mortem, ma oggi, secondo Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro, la fine del mondo sembra assumere un significato differente. Da sempre si sente parlare della fine del mondo, annuncio millenarista, memento mori, profezia cosmologica, astrologica, ipotesi geofisica formulata da molti anni, connessa con l'ipotesi della costituzione del mondo. Qualcosa che accade all'umanità dall'esterno, per una volontà trascendente o per una transazione geologica. 

Si è parlato a lungo anche della morte di Dio, come nel noto aforisma della Gaia scienza, in cui il folle di Nietzsche annichilisce gli uomini del mercato con l'affermazione perentoria: “Lo abbiamo ucciso noi, io e voi!”.

 

Ebbene oggi siamo di fronte allo stesso dilemma riguardo alla fine del mondo. Ora che Dio è morto, che ne è del Mondo? Al libro aggiungerei un capitolo su Cassandra e l'avvento della catastrofe su homo demens. Da sempre, di fronte al possibile avvento di una catastrofe ci si divide in due gruppi: quelli che la considerano un fenomeno di poco conto (alla stregua degli uragani che devastano e passano) e quelli che la considerano un fenomeno epocale, accusati di esagerazione o di paranoia. Tra gli esseri umani che praticano attivamente la catastrofe ci sono coloro che lo fanno con un proposito cosciente – come nel caso della Shoah, dello sterminio degli Armeni, delle stragi praticate dagli Khmer rossi – e coloro che lo fanno in modo inconscio, come nel genocidio degli indiani delle Americhe o nel colonialismo. Nel primo caso la finalità distruttiva è praticata con proposito, qualcuno ha definito queste operazioni umane come “male assoluto”; nel secondo caso il proposito cosciente è il progresso, lo sviluppo, la crescita, che, come osservò nel 1968 Gregory Bateson, porta con sé distruzione ecologica.

 

Illustrazione di Andrew Archer.


Il problema contemporaneo sembra essere Gaia. La trasformazione della Gaia scienza in scienza di Gaia ci mette di fronte a una nuova istanza che riguarda la finitudine: la mia fine potrebbe coincidere con la fine del mondo, non più in senso soggettivo, ma in senso oggettivo: non si tratta della mia fine in Gaia, bensì della nostra fine “consustanziale” alla fine di Gaia: “l'«intrusione» nella nostra storia di un tipo di «trascendenza»” (p. 233). Gaia dunque sarebbe il nome di un evento, un'intrusione nella storia della natura, qui gli autori si riferiscono alla filosofa belga Isabelle Stengers. Si tratta di pensare il “fuori”, un mondo senza pensiero, un'irruzione dall'esterno, una fine della storia. I dati che forniscono gli autori sono molteplici e ben documentati: esplosioni atomiche, riscaldamento del pianeta, accelerazione delle mutazioni e dei cambiamenti conseguenti alle tecnologie umane. Insomma, se fino ad alcuni anni fa si pensava la fine del mondo come un evento “esterno”, oggi si tratta di pensarla come un evento interno, che ci riguarda direttamente, che potrebbe accadere di qui a pochi anni e, quel che più conta, che abbiamo prodotto noi umani. Un passaggio dal “si” al “noi”. O, per usare il linguaggio della clinica psicologica, dall'Es all'Ego. Aggiungerei dall'Es al Super-Ego. Questo movimento progressista e di sviluppo, che caratterizza il “periodo in cui il tempo è fuori sesto e scorre sempre più rapidamente”, si chiama Antropocene. Cos'è dunque l'Antropocene? “È l'epoca in cui la geologia entra in risonanza geologica con la morale, così come avevano profetizzato i celebri visionari Gilles Deleuze e Felix Guattari” (p. 46).

 

L'Antropocene sembra essere iniziato con la rivoluzione industriale: “Si pensava che l'edificio avrebbe tenuto in virtù del pianterreno, l'economia, ma ci siamo dimenticati delle fondamenta” (p. 46). La rivoluzione industriale porta con sé il modo di pensare illuminista, dal quale emerge che l'ipotesi della fine del mondo possa essere una realtà assai lontana, certamente preceduta dall'estinzione di homo sapiens, anch'essa da pensare in un avvenire indefinito, meno lontano della fine del mondo, ma comunque assai lontano. A questo modo di pensare sembra sfuggire come “l'umanità stessa sia una catastrofe, un evento improvviso e devastante nella storia del pianeta”.

 

Le apocalissi culturali e psicopatologiche di cui parlava Ernesto De Martino erano la descrizione di un mondo pre-moderno, un mondo contadino dove l'unità mistica tra il soggetto umano e l'oggetto naturale creavano un senso della finitudine inteso come unità indivisibile. L'uomo era parte della natura e i rituali esorcizzavano la fine del mondo, riproducevano una nuova unione in vista della fine, come per allontanarne l'apparizione, anno dopo anno, stagione dopo stagione. La Taranta di Galatina, dove la tarantola morde la spigolatrice scalza, era il luogo di osservazione privilegiato di De Martino. Decine di donne, ogni anno, cadevano in trance sentendo il rimorso (l'essere morse di nuovo dal ragno) di un rapporto tra loro e la terra (la terra del rimorso). Si tratta di un esempio da cui De Martino – coadiuvato dalle osservazioni cliniche di Michele Risso e Letizia Comba – trae riflessioni sulla presenza costante della fine del mondo nella vita contadina del Sud Italia: la distruzione del raccolto, le epidemie, i deliri, la morte precoce dei familiari, i dissidi interni alla comunità.

 

Oggi questo mondo non esiste più e anche i rituali che lo accompagnano sono finiti. Ogni forma di radicalismo, compreso quel radicalismo scientista e arrogante che domina le nostre università, ci sta conducendo verso la fine del mondo. Déborah Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro chiudono il loro libro con un'interrogazione di Isabelle Stengers: "Fino a quando saremo infestati dal modello ideale di un sapere razionale, oggettivo, suscettibile di mettere d'accordo tutti i popoli della Terra, resteremo incapaci di stabilire con questi altri popoli dei rapporti degni di tale nome". (Isabella Stengers, citata dagli autori, p. 236).

 

Déborah Danowski, Eduardo Viveiros de Castro, Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo 2017.

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Infestati dal modello ideale di un sapere razionale

Sciascia politico. Fra le palme dell’antimafia

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S’è discusso molto, negli scorsi mesi, delle palme a piazza Duomo di Milano. Botanici e climatologi, esperti di marketing territoriale e testeduovo di marche planetarie, amministratori locali e politici nazionali, paesaggisti e giardinieri, fancazzisti su Facebook e cittadini comuni: tutti a dire la loro, ché sembrava quasi di stare al bar dello sport durante un mundial prima dei fatidici rigori della semifinale. In pochi hanno però notato che, per ironia della storia, con quel curioso impiantamento nelle brume meneghine s’è avverata, alla lettera, la nota profezia di Leonardo Sciascia.La palma va a Nord, recitava il titolo d’un suo prezioso libro di trent’anni e passa fa – chissà perché mai più ristampato. E adesso sappiamo che c’è proprio arrivata, da quelle parti, sistemandosi benissimo, comodamente e orgogliosamente, a dispetto dei soliti detrattori sbraitanti in nome di un etnocentrismo deteriore che, per ulteriore ironia, oggi emana da tutti i pori tristi vampate di esoticità. Il monito di Sciascia, in quell’immagine delle palme viaggiatrici, era chiaro: non solo la più infida meridionalità, quella del malaffare sedicente politico e della criminalità organizzata, si espande verso il settentrione del Paese, ma lo fa con grande scaltrezza e celerità, ribaltando di fatto gli ideali di quel Risorgimento ottocentesco che avrebbero voluto unire il Paese in nome del migliore illuminismo padano. 

 

 

È, come al solito, il pensiero strategico dei brand ad aver capito la sottile comicità della faccenda, affondando, come si dice, il dito nella piaga. Starbucks, tanto vale fare nomi, è una marca che ha fatto la sua enorme fortuna esportando nel mondo il modello conviviale dei caffè italiani: ci si accomoda, si sorseggia una tazza fumante e odorosa, ci si rilassa, si legge, si chiacchiera, magari si discute. Insomma: il modello gastronomico-filosofico-politico che, fra l’altro, ha dato il nome a quel Caffè dei Beccaria e dei Verri che Sciascia, e Manzoni prima di lui, tanto adoravano. Habermas ci ha ben spiegato che l’Opinione Pubblica è nata là. E adesso che il mondo l’ha conquistato per intero, Starbucks ha deciso di fare il doppio salto mortale e aprire i suoi locali proprio dove era partito, ossia appunto da noi, e nella piazza più ricca e nota d’Italia. Quel caffè sotto la Madonnina è insomma uno schiaffo morale e civile, economico e sociale. Ce lo siamo meritati: sapremo porgere l’altra guancia? 

 

 

 

 

L’immagine sciasciana della linea della palma che sale impietosamente verso Nord acquista così, passando per la via larga della società dei consumi, una sua ulteriore verità, senza peraltro perdere quella che già aveva. Anzi rafforzandola: dovremo farcene una ragione. E in attesa di rileggere – si spera – il libro da cui tutto ciò che ha preso forma e sostanza, e soprattutto di darlo in lettura a chi da trent’anni viene praticamente secretato, possiamo provare a consolarci un po’ grazie alla ripubblicazione del suo più giovane compare d’anello, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), mandato in libreria da Adelphi per l’amorosa cura di Paolo Squillacioti (pp. 205, € 24). I due libri infatti, come si ricorda nella postfazione, si susseguono e in parte si sovrappongono cronologicamente: la Palma raccoglie testi, articoli e interviste di Sciascia fra il 1977 e il 1980; la Futura Memoria mette insieme quelli dal 1979 al 1988.

 

È lo Sciascia più schiettamente politico, quello che usa intelligenza letteraria e sensibilità poetica per leggere, e provare a interpretare, gli eventi d’attualità, che in quegli anni erano d’estrema importanza e gravità: il dramma del compromesso storico, l’emergere del terrorismo, l’ambiguità dei servizi segreti, la lotta alla mafia, le prime diatribe sull’antimafia. Il tutto condito da quella che lui stesso soleva chiamare, e in buona compagnia (si legga Settanta di Marco Belpoliti, Einaudi), “retorica nazionale”. 

Sta qui, se la memoria ha un presente, il famigerato articolo del 10 gennaio 1987 sul Corriere della sera dove, recensendo un libro di Christopher Duggan, con prefazione di Denis Mack Smith, sulla mafia durante il fascismo, viene fuori l’idea epocale dei cosiddetti professionisti dell’antimafia. Ricordiamo l’analogia che la genera: così come nel corso del Ventennio “l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile” (pagina 124), allo stesso modo oggi si usa l’“antimafia come strumento di potere” (stessa pagina).

 

E si fa l’esempio di “un sindaco che per sentimento o per calcolo cominci a esibirsi […] come antimafioso” (pagina 125) e di un magistrato – che poi era il giovane Paolo Borsellino – che “per specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare” viene nominato procuratore della Repubblica a Marsala a dispetto di colleghi più anziani e con altri genere di titoli preferenziali. Solo che quest’ultima citazione (sempre a pagina 125) è alla seconda: è la citazione di Sciascia che cita fra virgolette il “Notiziario straordinario” del Consiglio superiore della magistratura del 10 settembre 1986. L’idea, e la relativa terminologia, di una competenza professionale nella lotta alla mafia non è dunque di Sciascia ma del più alto organo della magistratura italiana, che ne fa, come si direbbe oggi in burocratichese, criterio principale per l’assegnazione di posti di prestigio nelle Procure dove la lotta alla mafia è pane quotidiano. Riprendendola, e sottolineandone l’analogia con alcuni fatti accaduti ai tempi del fascismo (il prefetto Mori che taccia di mafioso chiunque si opponga al Duce), Sciascia certamente la amplifica, aprendo un dibattito, per essere eufemistici, che dura ancor oggi, e che ha esasperato ed esacerbato gli animi di politici e studiosi, opinionisti, attivisti e, ovviamente, magistrati. 

 

Sarebbe troppo facile (e difatti lo si è fatto) dire che Sciascia aveva torto perché, fra l’altro, il povero Borsellino ha fatto la fine che ha fatto. Come si capisce bene rileggendo i successivi articoli presenti in A futura memoria, che entrano nel vivo della polemica con illustri giornalisti nazionali, Sciascia usava il caso Borsellino come puro esempio di una regola astratta e ben più generale. E sarebbe facile, allo stesso modo ma dalla parte opposta, additare il gran numero di sedicenti antimafiosi che, usando quest’etichetta (brand?), hanno fatto il gioco della mafia, direttamente o indirettamente, replicandone i modi aggressivi, gli obiettivi criminali, i mezzi delinquenziali. Basta ricordare un pungente libretto dello scorso anno di Gianpiero Caldarella, Frammenti di un discorso antimafioso (Navarra editore), per mettersi a ridere fino alla lacrime. 

 

Quel che a distanza di trent’anni, senza per questo voler chiudere un discorso che è ancora – ahinoi – più attuale che mai, possiamo ricavare da tutto questo è una lezione di metodo. Nel senso più alto e più urgente del termine. Al di là del fanatismo, della violenza, della brutalità politica, della disonestà intellettuale, dell’ingiustizia, quel che Sciascia combatte – qui come altrove – è soprattutto la bestia nera della stupidità. Da cui una tragica considerazione: se la retorica antimafiosa, alla fine, riesce a imporsi, a vincere e a dominare, è perché essa opera in modo solo parzialmente consapevole. Per molti versi essa è infatti – a rileggere il libro ci accorgiamo che viene ripetuto ogni due pagine – frutto di cretineria, dell’incapacità di capire, ma soprattutto della mancata comprensione delle differenze. Giudicare è distinguere, distinguere è capire, capire è esercitare l’intelligenza. Così, saper differenziare – come direbbe il sempreverde quadrato semiotico – tra l’essere antimafioso e l’essere non mafioso è estremamente difficile per uno stupido. Ma non impossibile. I miei studenti, e non solo i miei, lo colgono immediatamente. Gli altri, per usare una nuova immagine di un autore assai caro a Sciascia, preferiscono andare a coltivare il loro giardino. Magari quello delle palme a piazza Duomo, sotto la protezione della sirena che sta nel logo di Starbucks. A fare e disfare quel che resta dell’Opinione pubblica. 

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A futura memoria

Vecchi

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Quando si comincia a parlare di vecchiaia si ha sempre e subito la tentazione di ficcarsi nel fitto bosco delle magagne che essa porta, a partire da quelle del corpo. Il flash mentale che immediatamente si accende è quello dell’avvizzirsi della pelle, del piegarsi della postura, del ralentie dei passi. Ma non è corretto, quelle sono le conseguenze, per così dire, della vecchiaia, sono gli esiti ultimi di un cammino che ha un punto di inizio, un momento in cui tutto comincia.

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Giovanni Arpino

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Giovanni Arpino è stato uno scrittore totale, che ha osservato e narrato un pezzo di società italiana, dal Dopoguerra agli Anni Ottanta. A novant’anni dalla nascita e trenta dalla morte, è giusto (e necessario) ricordarlo.

 

Giovanni Arpino sembra aver perso contatto con il gruppo di testa degli scrittori del secondo Novecento, quello più illuminato dall'attenzione di pubblico e critica, per ingrossare la fitta schiera finita nell'ombra. Eppure la sua più che trentennale carriera è stata piuttosto in evidenza. Aveva cominciato bene, come esordiente venticinquenne, con Sei stato felice, Giovanni (1952), compreso nei neonati «Gettoni» di Einaudi, o meglio di Vittorini, sicuro sigillo, a partire dal 1951, di una consistente giovane promessa, come hanno dimostrato in effetti Fenoglio e Testori, Lucentini, Lalla Romano e Rigoni Stern per fare qualche nome.


Nemmeno ad Arpino i successi sono del resto mancati, sanciti anzi dai premi più prestigiosi: lo Strega del 1964 per L'ombra delle colline, senz'altro tra le sue opere maggiori, il Campiello nel 1980 per Il fratello italiano; da ricordare anche il film Profumo di donna, uscito nelle sale nel 1974 con la regia di Dino Risi, Gassman mattatore, tratto dal suo romanzo Il buio e il miele di cinque anni precedente. Contribuiva alla popolarità del narratore la contemporanea presenza da inviato, e da giornalista sportivo cui si deve l'immagine ciclistica del nostro incipit, per varie testate - «La Stampa», «Il Giorno», «Paese Sera», «Il Giornale» e «Il Giornale nuovo» -, compresa la breve stagione (1954-56) da condirettore de «Il Tempo». Del giornalista aveva dunque la facilità di scrittura, che l'ha portato ad accumulare un gran numero di romanzi e racconti, prefazioni e collaborazioni.

 

 


A dire di ciò la testimonianza personale per cui, scorrendone i titoli, mi sono sentito curiosamente sollecitato su diversi fronti intellettuali e biografici. Arpino ha scritto infatti di Resistenza in un librino a più mani per le scuole piuttosto introvabile che ho recuperato nella biblioteca dell'Isrec locale, ha introdotto un libro fotografico di un mio concittadino (Pepi Merisio, Paesaggio italiano 1984) e perfino di un mio lontano parente, Alberto Fumagalli, architetto che si è dedicato alla curatela di svariati volumi, nonché a comparsate con l'amico Olmi, di cui La casa e il contadino (Fertimont gruppo Montedison 1984). Forse troppo e con troppi alti e bassi; sarà allora opportuno in una sede ristretta come questa ricercare qualche punto fermo.

 

Uno dei punti fermi resta certamente La suora giovane (Einaudi 1959). Si tratta del diario che il protagonista, Antonio Mathis, tiene dalla domenica 10 dicembre 1952 al martedì 2 gennaio dell'anno successivo, per far chiarezza nello sconvolgimento della propria vita abitudinaria, per “controllare avvenimenti e sentimenti”. La struttura ottimamente equilibrata del romanzo vede nei primi giorni la delineazione urgente, inedita, affilata di sé da parte di Antonio, che così si presenta al lettore; seguono tre ampie campiture, incentrate sul dialogo con gli altri personaggi e ambientate a Torino e, l'ultima, nella campagna di Mondovì. Il primo dialogo lunghissimo, sussurrato e talvolta un po' surreale nei toni, è con Serena, la novizia occhieggiata a lungo alla fermata dell'autobus, fantasticata e finalmente abbordata; la seconda scena rappresenta l'allontanamento disgustato nella notte di (presunta) baldoria prenatalizia dal collega di lavoro, dalla fidanzata di lunga data Anna e pure dall'altra collega - “amante da corridoi” - con cui avvenivano quotidiani, estenuanti palpeggiamenti.


Chi è dunque Antonio Mathis? Sembrerebbe un everyman di quarant'anni, che si chiede: “Quanti saranno come me?”, e che potrebbe rispondersi: tantissimi nella vita e tanti pure nella letteratura italiana procedente lungo la linea degli inetti morali e affettivi di Svevo, Tozzi, Moravia. Niente politica (tre anni di guerra e poi imboscato), sport o viaggi, dentro l'ordine del ragioniere che scrive lettere commerciali in inglese e francese, vive da celibe in una stanza d'affitto al di là del Po, porta più o meno avanti una lisa relazione con una maestra coetanea, gratificato dal sesso domestico e dalla commozione che prova per lei. Antonio si sente tuttavia rispettato e sicuro fino all'incontro, alla fatale fermata del 21, con una giovane suora bianco-rosa nel viso, “immobile, minuta, nera”, che sembra ricambiare da settimane, da mesi, il suo stesso movimento interiore e paralizzato. La relazione con la ragazza accende all'improvviso una luce di cruda consapevolezza sulla sua vita, sul suo “travestimento da uomo comodo”. O addirittura affaccia il dubbio radicale di non essere mai stato propriamente un uomo, non avendo “mai capito, imparato, vissuto”, restando con ottusa inconsapevolezza e tenace malafede “sempre nascosto”, mentre gli anni gli scivolavano addosso e “tutto è successo pigramente”.


Una situazione certo non molto originale letterariamente ma che Arpino, tramite il suo protagonista, sa rileggere in modo convincente, anche per mezzo dell'altrettanta già vista irruzione femminile che afferra “al collo come un coniglio” Antonio cominciando a scrollarlo. I riferimenti a Piovene e a Manzoni sono scontati (e per il secondo anche esplicitati con un'inutile lettura delle pagine dedicate a Gertrude da parte di Antonio), ma la coprotagonista vive di luce propria. È lei in fondo ad agire, dando appuntamento al goffo innamorato in un palazzo dove sta curando un malato molto grave: parlano a lungo i due tramite la porta socchiusa. La novizia ventenne, tranquilla, sorridente, appena colorita da un leggero rossore, avanza subito la proposta di matrimonio, dichiara la sua curiosità (“come fanno le donne a camminare con i tacchi alti?”) e fame per il mondo (comprare, vedere il mare, guidare...) come fosse una ragazza degli annunciati anni Sessanta. Invita perciò “Antonino” a “non essere timido”, ma quando lui tentenna scompare, ritirandosi in quell'alone di ineffato che ha reso fascinosi molto personaggi femminili della grande letteratura. Seguirà il viaggio a Mondovì, dalla famiglia contadina di lei, per cercar notizie, in una efficace tematizzazione sociologica del rapporto, allora ancora caldo, tra città e campagna, con i ritratti puntualissimi dei genitori. E un finale aperto.


Insieme alla caratterizzazione a tutto tondo del personaggio, questa letteratura sanamente tradizionale di Arpino, pare assai versata per lo schizzo dell'ambiente. Sono parti di transito e di sfondo che s'impongono tuttavia all'attenzione:


Così, film da solo poi il ritorno a piedi, per queste strade che portano al Po, sparse di globi bianchi che segnano piccole osterie traversate da tubi di stufa, strette tra grandi muri luridi di nebbia, sprangati da truci inferriate rugginose: mi sono sentito privo di tutto, il ricordo di Anna era insopportabile.  


Il paesaggio, strade, colli e fiume, notturno e caliginoso, o gli interni solenni di Torino, costringe ad innalzare il linguaggio, forse oltre le possibilità del personaggio narratore, verso un'esigenza profonda dell'autore: “i fanali aureolati da un fumo cangiante, le auto ammiccano da lontano”; “ le costole delle colline”; “il fiume mandava densi sospiri”; “la nebbia schiacciava un velo sull'erba e sul Po”; “le targhe d'ottone mandavano tenui barbagli a ogni piano”, la prensile sensorialità di Arpino, che sfocia naturalmente in metafora, appare soprattutto visiva, ma pure uditiva “pozza calda di luce”; “tutta la città ronza come un vino”; “ribollire lugubre e tiepido” (dei colombi).

 

All'occhio e alla sensazione del paesaggio, letto anche in chiave sociale d'ascendenza neorealistica, si devono probabilmente la propensione per i grandi realisti fiamminghi Bruegel il Vecchio e Rembrandt, che Arpino ha introdotto sagacemente negli anni Sessanta, nonché il commento alle fotografie dei libri citati in precedenza, a quelli di Berengo Gardin (Obiettivo Italia, White Star 1987), di Marcello Bertinetti e Angela White Bertinetti dedicato alla sua Torino (ancora White Star, 1984). Un ambito che sembra essersi sviluppato con curvatura ambientalista proprio negli anni precedenti alla morte del 1987: «Cos'è “un” paesaggio? Dov'è il “vero” paesaggio? E gli uomini d'oggi sono ancora capaci di “amare un paesaggio”, di “sostare davanti a un paesaggio”? Gli interrogativi sono non soltanto leciti, ma obbligati. L'uomo corre e non guarda, fotografa (da dilettante) per memorizzare attimi e cose e angoli che non ha pazienza di vedere nel momento esatto. E così il paesaggio diventa subito un fantasma del passato. Ma tutto il paesaggio italiano è il Passato. Maiuscolo, sublime, non imitabile, singolare in ogni zolla, miracoloso e travagliatissimo, però Passato […] Ciascuno di noi sa perfettamente che “perdere un paesaggio” (dal chiudere una finestra, all'alzare un muro, a rubar acque al mare, al distruggere un campanile, ad abbattere un albero centenario) significa perdita di umanità. […] Finché dura un paesaggio durerà l'Italia.»


Tale vocazione di intellettuale in difesa del paese sfigurato meriterebbe uno studio più approfondito, qui dobbiamo tornare però ancora a La suora giovane. Il paesaggio, strade, colli e fiume, notturno e caliginoso, o gli interni solenni di Torino, costringe ne La suora giovane ad innalzare il linguaggio, forse oltre le possibilità del personaggio narratore, verso un'esigenza profonda dell'autore: “i fanali aureolati da un fumo cangiante, le auto ammiccano da lontano”; “ le costole delle colline”; “il fiume mandava densi sospiri”; “la nebbia schiacciava un velo sull'erba e sul Po”; “le targhe d'ottone mandavano tenui barbagli a ogni piano”. La prensile sensorialità di Arpino, che sfocia naturalmente in metafora, appare soprattutto visiva, ma pure uditiva: “pozza calda di luce”, “tutta la città ronza come un vino”; “ribollire lugubre e tiepido” (dei colombi).


Le impennate delle immagini s'inquadrano in uno stile che è stato in ogni libro, anche il meno felice, sempre nitido, accessibile ma scioltamente elegante. In particolare nel già citato L'ombra delle colline spicca la definitiva maturazione stilistica di pari passo con la strutturazione più complessa della trama. Anche Sefano è come Antonio un quarantenne, ma che vive a Roma e torna nelle natie Langhe per mettere ordine dentro di sé. Si tratta di un viaggio fisico, con diverse tappe sul tragitto verso nord, e memoriale, con puntate al periodo del Regime legate alla figura del nonno antifascista, e soprattutto a quello cruciale del 1943-45. Se Antonio restava irresoluto, l'irrequietezza di Stefano viene agita in più impetuosi gesti di rottura, ben rappresentati dalla fuga: dalla famiglia per arruolarsi nella Guardia Repubblicana e poi nella Decima Mas, dalla milizia verso i partigiani in compagnia dell'amico d'infanzia Francesco, figlio di contadini, una specie di Nuto pavesiano meno saggio e sapienziale. La fuga, topos della Resistenza antiretorica di Meneghello, Caproni e Zanzotto, apre anche il primo capitolo sotto le parole introduttive “sapevo di sognare”: si passa dai boschi al proustiano sentiero Millemosche, lungo “l'onda delle colline” e poi, con misteriosa transizione onirica, alla città, dove un grande albero pare coperto di usignoli canterini e subito dopo di piccoli teschi tintinnanti. Segue la veglia e la rievocazione dell'uccisione di un tedesco con la pistola rubata al padre (il Colonnello distrutto dall'8 settembre), in un episodio capitale vissuto “come gli agguati visti nei film”. Da tale approfondimento psicologico e storico, mediato da una struttura più stratificata, mossa e varia, deriva la convinzione che L'ombra delle colline sia l'altro punto fermo nella produzione di Arpino, naturale sviluppo del romanzo di cinque anni prima.
Piace concludere allora con un paio di ultimi prelievi relativi al paesaggio. Il primo, ad inizio di romanzo, dove appunto nell'atmosfera è verificabile anche la suddetta pienezza stilistica, quasi traboccante di sole e di movimento pronti però a volgersi nell'incertezza onirica. Il successivo, più smorto nei colori ma comunque lievemente allucinato, prende nel giro sintattico, accostabile sembra al Parise più maturo, sfumature psicologiche e apprensione sensoriale del mondo: 

 

"Sul sentiero, isolate o a mucchi, secche nel fango, erano le forme biforcute e larghe dei buoi, e altre, appena accennate, minuscole, forse di cani, di volpi. E ogni tanto, tra i fili d'erba asciutta, apparivano i coni leggeri, granulosi, dei formicai. La luce era ancora alta, morbida come il pelo di un coniglio, ben tesa nella sua celeste uniformità di dopo il tramonto.

[…] scoprii l'accelerato notturno per Savona, poi Ceva, fino a Torino... Dopo ore di un viaggio immenso, sepolto nella notte, lacerato da brani di sonno che mi costringevano a risvegliarmi più stravolto da freddo e stanchezza, sbarcai alla stazione del paese, il mattino invernale già distillava le sue luci tra la nebbia, la piazzetta oltre la stazione apparve deserta, col chiosco dei giornali sbarrato, i tigli del giardino pubblico che balzavano nudi nel grigio, decapitati d'ogni ramo."

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Circolo dei lettori Torino

Consumo. Possedere tanto, non possedere tutto

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Da alcuni decenni, le società occidentali vengono spesso definite «società dei consumi». Con ciò si intende sottolineare la notevole importanza che ha assunto al loro interno il mondo dei consumi. Un mondo che è stato in grado di generare una vera e propria “cultura dei consumi”, la quale si espande in continuazione su territori sociali sempre nuovi.

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Società liquida e chef televisivi

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"Il mio bagno, il mio living, la mia cucina"... recita la pubblicità mentre nella finzione il noto chef televisivo si aggira solitario nel suo appartamento...

 

Il potere della cucina di Francesco Antinucci è libro che solo in parte corrisponde alla dichiarazione del titolo. Sono invece le Storie di cuochi re e cardinali del sottotitolo a rivelare il racconto presente nelle pagine edite da Laterza.

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Bigger than life

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Il necrologio è sfortunatamente un genere letterario. Lo si capisce quando chi scompare è qualcuno che conosciamo bene. Se si sono vissute molte cose insieme a una persona, il fatto che non ci sia più rende spesso difficile fare i conti con la sua vita. A prescindere dalla commozione (che è un sentimento nobilissimo, ma molto soggettivo, spesso piangiamo il noi stessi che la persona si è portata via) e dal rispetto (che è dovuto a coloro che transitano, ma che dopo un po’ diventa qualcosa di diverso, riserbo, dimenticanza o mistero), ogni necrologio è ingiusto. Proprio perché si permette di fare i conti con la vita di qualcuno come se “si fosse risolta”. Se c’è qualcosa di propriamente umano è la non conclusione, vorrei dire la “sconclusionatezza”. Se amiamo qualcuno la cosa è ancora più forte. La vita di qualcuno che abbiamo amato è sempre fuori da ogni conclusione, proprio perché l’interruzione lascia dei filamenti che vanno molto oltre il punto e a capo. Nel caso dei necrologi di personaggi illustri, cioè di quelli che i giornali chiamano “coccodrilli”, c’è una forma di retorica che soffoca ogni commozione. Colui o colei sono “entrate” nel novero degli “obituary” proprio perché di loro è facile “dire bene”, basta rifarsi alle loro opere, a ciò che essi nel campo scientifico o letterario avrebbero lasciato ai posteri. Perfino il Foscolo ci credeva poco e nei Sepolcri sapeva già che la vera sostanza di cui sono fatti è spesso proprio retorica e ipocrisia.

 

La cosa salta agli occhi – ed è un miracolo dell’irruenza con cui la realtà fa piazza pulita della retorica – quando ci si accorge che di qualcuno è difficile parlare “solo bene”.

È vero che c’è una retorica del male, che i grandi biografi – che sono grandi necrologisti – si esaltano quando il personaggio di cui devono parlare era pieno di contraddizioni e di lati nascosti, di difetti e di armadi di scheletri. Anche questo però è retorica. Le vite non sono “gloriose” nel loro essere una raccolta di opere per i posteri, o nell’essere una scarica di atti malvagi. Più semplicemente accade che non si sa bene dove dividere bene da male e che nell’insieme, se abbiamo conosciuto qualcuno, non è il giudizio morale da posteri che ce lo fa inquadrare. La vita ha una sua inconcludenza che impedisce a chiunque di trasformarla in una storia con un punto. È vero per tutti, ma lo capiamo solo quando abbiamo a che fare con qualcuno che era “bigger than life”, come dicono gli americani con un’espressione che è davvero difficile tradurre, ma si può dire “che gli andava stretta, la vita”.

 

Qualche mese fa ho partecipato alla rievocazione – accademica – di un signore che avevo conosciuto molto bene, Maurizio Tosi, archeologo. Ufficialmente era ordinario all’Università di Ravenna, paleo-archeologo, con scavi e pubblicazioni su Asia Centrale, Oman, Iran, Pantelleria. Amico di Bruce Chatwin, che ne parlava malissimo nei suoi notebooks (come riportato da Nicholas Shakespeare nella biografia di Chtawin). Insieme pubblicammo Bruce Chatwin in Afghanistan (Bruno Mondadori) e I confini dell’Afghanistan (Bup). Avevo viaggiato, insegnato, parlato, litigato con lui, lo avevo evitato con tutte le mie forze per lunghi periodi. L’avevo incontrato a Nuova Delhi nel 1990. Un uomo imponente, che svettava fisicamente in orizzontale e verticale. Un corpo deformato da una pinguedine maldistribuita si concludeva con una bella faccia “classica” arricchita da una nobile barba. Era a quei tempi l’attaché culturale dell’ambasciata italiana a Delhi. 

 

 

La rievocazione si svolgeva al Dipartimento di Archeologia di Ravenna. Nell’aula magna studenti, dottorandi e colleghi erano seduti di fronte a un elegante vaso poggiato sulla cattedra. Le ceneri dell’archeologo erano circondate dalle volute di frankincenso, l’incenso del paese, l’Oman, in cui il nostro aveva lavorato negli ultimi dieci anni.

L’atmosfera seria e compita si era aperta nel più classico dei modi. Alcuni colleghi avevano ricostruito la carriera scientifica dell’archeologo, i suoi vasti interessi, il largo viaggiare, lo scavare in Medio Oriente come in Centro Asia, in Russia come in Sicilia, in Romagna come negli Stati Uniti. Dopo il primo si erano avvicendati altri luminari che avevano coperto altri aspetti dell’uomo: l’insegnamento, le pubblicazioni, i rapporti internazionali, le reti di rapporti costruiti. Tutto era molto ovvio e interessante per chi non avesse mai conosciuto l’individuo. 

Una corrente serpeggiava nella sala, un certo disagio ed un fremito. Perché in realtà l’avevamo conosciuto un po’ tutti. L’uomo era talmente “overwhelming” che era difficile racchiuderlo nelle descrizioni che ascoltavamo.

 

Ci guardavamo e parlavamo tra di noi misurando le differenze tra l’impressione che avevamo di lui e quelle frasi per lo più asettiche e di circostanza.

Fu il sesto a svegliarci. Salì sul podio e iniziò a parlare dicendo: “Era un uomo insopportabile”. Ci guardammo intorno e tra di noi e fummo grati che qualcuno non ce l’avesse fatta più. “Era un uomo insopportabile, quando mangiava era disgustoso, litigava con tutti, era qualcuno incapace di vivere e intollerante, fragile e allo stesso tempo prepotente, insicuro e autoritario”. Era una descrizione approssimativa, parziale, ma evocava in tutti noi ciò che sapevamo ognuno per parte sua. Ciascuno di noi poteva raccontare decine di episodi che confermavano e allo stesso tempo questi episodi non dicevano tutto.

 

Dal sesto intervenuto in poi è come se una diga fosse crollata. Chi parlava adesso, il settimo, l’ottavo collega, aggiungeva al quadro tutto l’imbarazzo e la vergogna di non sopportare altri aspetti del defunto. Lo faceva senza astio però, non c’entrava nulla l’accademia, anzi c’era finalmente in quel posto paludato e triste una buona ventata di verità. Chi parlava si lasciava andare. Veniva fuori un mosaico slabbrato, mancante di pezzi, rotto, che restituiva però il casino che era quest’uomo.

 

Su questo si era tutti d’accordo, l’uomo era un casino vivente, riusciva a mettersi nei guai e a mettere gli altri nei guai, e nonostante tutto inventava e portava avanti grandi imprese, percorreva migliaia di chilometri, parlava decine di lingue, connetteva mondi, ma rimaneva un disastro umano. 

Era impossibile a chi non l’avesse conosciuto capire come una rievocazione potesse prendere questa piega. Si era passati dall’ambito accademico al tavolo intorno al quale ci si racconta le storie di qualcuno che era “un personaggio”, nel senso più narrativo del termine, qualcuno di cui si potevano raccontare storie, ma che se ti attraversava la strada poteva incasinare la tua di vita. Era diventato un discorso da veglia funebre, quelle veglie sincere in cui si piangeva, si mangiava, si beveva, il morto era ancora presente e poi si rideva, se ne dicevano di cotte e di crude e ci si liberava dal lutto e dall’imbarazzo del lutto. E si riconosceva al morto la sua vita, una vita che non poteva essere riassunta, che non poteva essere lodata ma nemmeno biasimata, una vita che aveva avuto l’effetto di un disastro e nello stesso tempo che era riuscita a tenersi viva per tanto tempo. 

 

Di persone così si pensa in vita molto poco che moriranno, perché in ballo per loro non c’è l’esistenza, ma qualcosa di più primitivo: l’assillo, l’ansia, la paura e allo stesso tempo un divorante desiderio di farcela. Sono persone che non arrivano a porsi problemi esistenziali, perché lo sono loro stessi anzitutto. Questa persona era qualcuno che veniva voglia di aiutare come fosse un bambino, ma poi devastava tutto ciò che avevate costruito per difenderlo. Era il primo nemico di sé stesso, qualcuno che entrava nella vita a gamba tesa e non si accorgeva che stava perdendo la partita. Era la vittima e nello stesso tempo colui che trattava gli altri da prede, ma il gioco si volgeva presto nel contrario. In una serie di ruzzoloni coinvolgeva donne, figli, costruiva e disfaceva famiglie, inseguiva ideali da ragazzino con la protervia di un generale, ma le sue truppe non lo seguivano e lui stesso non era capace di credere alla sua autorità su se stesso.

Era “bigger than life”, proprio nel senso che era impossibile fargli indossare l’esistenza, era smanioso, bulimico, cannibale e allo stesso tempo sbatteva in tutti gli spigoli che la vita gli preparava. Viveva come un eroe negativo con la convinzione che non ci fosse nulla di peggio del patetismo e finiva per produrre situazioni che andavano oltre ogni pietà perché erano tragiche. Era qualcuno che pensava di poter gestire tutto, di potere intervenire su tutto, di potere indurre tutti a fare quello che lui voleva e poi invece la vita gli crollava addosso. Ricominciava ogni volta da zero con le stesse intenzioni e con la stessa incapacità di fermarsi un attimo, di concedersi uno sguardo su di sé. Un uomo che non riusciva a stare solo un attimo, che raccontava la sua vita al tassista che lo portava dall’aeroporto di Tashkent a Samarcanda e alla prima studentessa che voleva scandalizzare.

 

Quest’uomo mi aveva accolto all’arrivo a New Delhi, dicendomi che ogni anno poco lontano di lì almeno 80 uomini venivano sbranati dalle tigri. Con quest’uomo ho viaggiato, ho scritto, ho scoperto mondi e ho litigato, ho fatto di tutto perché non mi coinvolgesse nei suoi casini. È qualcuno di cui non saprei dire se non che la sua presenza era insostenibile per buona parte del tempo. Era grande, nel senso più terribile e pesante della parola. Era troppo grande anche per sé. Di lui si può dire che finalmente ha trovato pace? No, anche questa è solo retorica. Si può solo pensare che lascia il mondo in gran disordine, ma non è questo il problema, il mondo sa come aggiustarsi da solo.

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Occhiello: 
Una vita che non poteva essere lodata né biasimata

Le profetiche caricature di Philip Guston

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Il volto tra le gambe

 

Un volto senza corpo, stempiato, le ciglia folte; il naso prominente a forma di pene, le guance flaccide rese come testicoli pelosi. Una “dick head” che, col naso fallico, annusa o scrive ideogrammi cinesi su un rotolo di carta. L’artista è Philip Guston (1913-1980), il soggetto nientemeno che il 37imo Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, in procinto d’organizzare il celebre viaggio in Cina del febbraio 1972.

Immagini: 

Pedofilia

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Confesso di aver paura di scrivere o parlare di pedofilia – oggi, è come attraversare un campo minato. Il vespaio provocato dal romanzo di Walter Siti, Bruciare tutto, il cui protagonista è un prete che desidera i bambini ma casto, mostra bene che la pedofilia tocca certi nostri nervi scoperti.

Siti in un’intervista (“Il caso Siti”, La Repubblica, 20 aprile 2017) si è sbagliato quando ha detto che desiderare i bambini senza farci nulla non è reato. Invece, si incrimina qualcuno anche solamente per aver visitato siti pedopornografici. Non solo gli atti pedofili, ma il desiderio pedofilo in sé oggi è criminalizzato. Come il decimo comandamento, il solo che proibisca un desiderio – dei beni altrui, compresa la donna altrui.

 

Anni fa una rivista di psicoanalisi mi chiese un intervento sulla pedofilia, e io scrissi un saggio in cui esaminavo alcuni casi di pedofilia presi dalla letteratura clinica. Con mia sorpresa il saggio fu rifiutato; il compianto amico Pietro Barcellona, membro della redazione, mi disse che quel mio scritto era apparso una lancia spezzata a favore dei pedofili. Caddi dalle nuvole. Il mio pezzo, almeno così credevo, era un’analisi scientifica, cioè distaccata, del mondo mentale pedofilico, senza una minima intenzione di apologia. Eppure, quel mio articolo è uno dei pochissimi, tra i tanti da me scritti, che nessuno abbia voluto pubblicare. In effetti, articoli anche di genere scientifico iniziavano con un anatema contro il flagello della pedofilia, con una denuncia di una quasi-cospirazione mondiale dei pedofili, ecc. Il mio saggio mancava di questo preambolo, forse perciò era apparso compiacente nei confronti della pedofilia.

 

Perciò tengo a informare prima di tutto il lettore di due cose: 1) non sono pedofilo; 2) ritengo giusto che la legge punisca l’adulto che indulga ad atti sessuali con bambini. Spero che, detto questo, io possa esprimere impunemente la mia idea.

Appunto, quel che mi sembra importante analizzare è proprio questa nostra esacerbata reattività quando si parla di pedofilia. Perché non è stato sempre così. Quando alla fine del XIX° secolo nacque la sessuologia medica, e Krafft-Ebing, Havelock Ellis e altri descrissero le perversioni – oggi chiamate parafilie – la pedofilia vi svolgeva un ruolo alquanto marginale. I medici europei di allora erano ossessionati piuttosto dall’omosessualità e dalla masturbazione. L’omosessualità era descritta come la peggiore perversione, del resto era perseguita penalmente in molti paesi (ma – questo lo si ignora – non in Italia, paese sempre permissivo nei confronti degli omosessuali). Gli omosessuali erano perseguitati in modo triplice: come peccatori dalle chiese, come malati mentali dagli psichiatri, e come delinquenti dallo stato. Quanto alla masturbazione, specialmente quella infantile, veniva denunciata come causa di terribili disturbi mentali e sessuali. I medici di allora ricorrevano a strumenti inquietanti per combattere “la peste onanista”, come corsetti antimasturbatori, astucci da erezioni, macchinari per allargare le gambe delle bambine, manette per le mani, addirittura cauterizzazione della clitoride, e altri sistemi sado-medici. All’inverso, si parlava e si scriveva ben poco di pedofilia. In sintonia con una certa omertà della popolazione nei confronti dei pedofili, soprattutto di quelli ecclesiastici, fino a pochi decenni fa.

 

Mio padre, professore di filosofia nato nel 1916, aveva studiato a Napoli in scuole di barnabiti e gesuiti, cosa che aveva prodotto in lui un desiderio di sacerdozio. Eppure ogni tanto alludeva a preti chiaramente pedofili; mi disse che un nostro caro amico di famiglia, una persona molto fragile, da ragazzo aveva accettato una relazione con un prete pedofilo. Mi disse che anche lui era stato oggetto di attenzioni, che aveva respinto. Apparirà oggi stupefacente che poi lui stesso mi mandasse a 15 anni a studiare dai barnabiti, a Napoli, istituto Bianchi, per due anni. E là alcuni compagni mi indicarono a dito i due o tre monaci “pericolosi”, dai quali stare alla larga.

Una volta un barnabita che non avevo mai visto, un uomo magro sulla trentina, mi dette appuntamento per parlarmi; evidentemente era il sacerdote incaricato della consulenza spirituale dei giovani allievi, tutti maschi. La sera mi recai al Bianchi. Attraversai lunghi corridoi bui con grandi finestroni, senza incontrare anima viva; quindi giunsi nella camera di questo sacerdote, anch’essa alquanto spettrale. Mi fece sedere di fronte a sé, molto vicino, la sua bocca quasi mi alitava in faccia, e mi prese una mano. Ricordo le sue mani fredde, i suoi grandi occhiali, il volto ossuto, la voce felpata e vischiosa. Senza andare troppo per le lunghe, mi chiese se avevo avuto polluzioni, se mi toccavo… mentre mi guardava fisso negli occhi come a volermi trivellare l’anima. Capii che dovevo tagliare la corda, difatti, senza rispondere alle sue domande, trovai una scusa e me ne andai.

 

Non so se quel tutore spirituale volesse sedurmi sessualmente, ma considero la sua lubrica curiosità sulla mia aurorale vita sessuale come già di per sé un attentato pedofilo. Era evidente che godeva nello strappare il velo di pudore degli adolescenti, nel penetrare anche solo verbalmente la loro intimità. Fu così che trovai del tutto pertinente la tesi che, molti anni dopo, Michel Foucault espresse in La volontà di sapere: che il nostro moderno interesse per il sesso, lungi dall’essere una novità rivoluzionaria, eredita una lunga tradizione, non solo cattolica, di investigazione della libido, di confessioni balbettanti, di puntiglioso smascheramento delle nostre fragilità sessuali.

 

 

Come mostra il film Spotlight di Tom McCarthy, quando il giornale The Boston Globe lanciò un’inchiesta sui preti pedofili ruppe un muro del silenzio. Ma questo muro non era stato alzato solo dalle alte gerarchie cattoliche, era mantenuto e rafforzato dalle stesse famiglie, non diversamente da quel che accadeva nella Napoli degli anni ’50 e ’60. D’un tratto, qualcosa che tutti sapevano ma di cui non si poteva parlare in pubblico, e che andava accettato come fosse un dato di natura, come i freddi invernali e la canicola estiva, veniva immesso nel discorso pubblico come oggetto di denuncia. Un cambio di discorso. O, come si dice in filosofia della scienza, un cambio di paradigma.

 

Sin dalla seconda metà degli anni ‘80 il mondo anglo-americano, pur dominato dall'apologia reaganiano-thatcheriana dei valori familiari, fu scosso dalla campagna contro il child abuse. D'un tratto un'intera società alzò un velo sulla privacy propria e altrui, e si convinse che una quota ingente di famiglie – anche insospettabili – praticava correntemente l'incesto e la violenza sui figli piccoli. Questo ciclone ha fatto breccia nella pedagogia, nella critica letteraria, nella psichiatria, nel cinema, ecc. Vi ricordate che per molti anni in tanti film americani i protagonisti prima o poi evocavano violenze o molestie subìte nell'infanzia, a opera di parenti o vicini? Se qualche personaggio rivelava turbe psichiche, potevate essere certi che prima o poi spuntava qualche abuso sessuale patito nell’infanzia. La psichiatria si convinse del valore patogeno del trauma, e il trauma per lo più erano abusi sessuali. Non si contavano i biografi di scrittori, artisti, politici, musicisti, ecc., che ricostruivano qualche violenza, o gioco erotico, di cui le suddette celebrità sarebbero state oggetto da bambini, come esperienze cruciali della loro vita. In Italia si dice "i panni sporchi si lavano in famiglia", invece nel mondo anglo-americano si andavano e si vanno a cercare prima di tutto i panni sporchi delle famiglie per esibirli in pubblico. La denuncia della pedofilia fu all’inizio una denuncia degli scheletri negli armadi delle rispettabili famiglie middle class. Poi il faro dell’attenzione si è spostato sui preti e sul “potere pedofilo”.

 

Eppure questa ricerca del parente pedofilo aveva orli paranoidi. Ho vissuto spesso negli Stati Uniti negli anni ‘90, e mi resi conto che in tante famiglie dei miei amici erano state sporte denunce per pedofilia da parte di figli o nipoti nei confronti di genitori, zii o nonni. Una febbre querelante, dove era difficile separare il delirio dalla rimemorazione di eventi reali, sconvolse le famiglie statunitensi. Se un americano soffriva di qualche malessere spirituale, si lambiccava il cervello per ritrovare nella propria lontana memoria situazioni e atti incestuosi, e di solito li trovava, perché spesso è difficile stabilire una linea di demarcazione netta tra l’abbraccio affettuoso e quello eroticamente stimolante.

 

Ha colto qualcosa di questo il regista danese Thomas Vinterberg. Nel 1998 Vinterberg diresse un film, Festen, in cui a una festa di famiglia ricca uno dei figli denuncia drammaticamente il padre-padrone per aver abusato sessualmente di lui e della sorella, morta suicida, quando erano piccoli. Era chiaramente una critica in chiave “di sinistra” della pedofilia familista, dove il pedofilo coincideva non solo col padre, ma anche con “il capitalista”.

 

Fotogramma tratto da Festen (1998), T. Vinterberg.

 

Poi nel 2012 Vinterberg produce Jagten, “Caccia”, distribuito in Italia col titolo fuorviante Il sospetto; mentre si tratta propriamente di caccia, di caccia al pedofilo. Un giovane maestro di asilo in un villaggio danese viene accusato (noi spettatori sappiamo ingiustamente) di aver sedotto sessualmente una bambina sua allieva. Il villaggio non è garantista, per cui tutti sono convinti che il maestro sia un pedofilo e perseguitano lui e il figlio adolescente. Poi il maestro viene scagionato dal giudice, ma questo non basta: egli continua a essere oggetto di violenze e ostracismi. Col tempo, tutto sembra calmarsi, il risentimento pare archiviato. Ma un giorno, durante una partita di caccia con amici, qualcuno che non vediamo spara addosso al maestro, mancandolo. Insomma, “il villaggio” continua a vederlo come un pedofilo, anche se è stato prosciolto da ogni accusa. Quel che Vinterberg coglie è insomma un bisogno collettivo di avere un pedofilo da perseguitare. Un paradossale desiderio di pedofili. Siamo nella logica del capro espiatorio, su cui tanto si è scritto. Così, la psicosi della pedofilia si è diffusa anche nel mondo carcerario e tra la criminalità. I condannati per pedofilia non possono essere messi in cella con i detenuti “normali”, altrimenti verrebbero sicuramente uccisi. Mentre un compagno di cella che ha ucciso più persone viene accettato.

 

Nel film di Vinterberg si tratta di fiction, ma storie analoghe sono accadute realmente in molti paesi. In Italia avemmo il caso inquietante di Rignano Flaminio: in questa tranquilla cittadina a nord di Roma, nel 2007, quattro insegnanti, tutte donne, della scuola materna locale e un autore televisivo furono accusati di praticare orge sessuali con alcuni piccoli allievi. Molti media parlarono di loro come di “orchi”, anche se sin dal primo giorno non ho mai creduto in una storia così assurda: possibile che quattro maestre tutte pedofile si ritrovassero guarda caso nella stessa scuola e portassero fuori dell’edificio scolastico dei bambini senza che nessuno se ne accorgesse? Sembrava una storia di caccia alle streghe del Rinascimento (anche allora, contrariamente a quel che si pensa, l’Inquisizione perseguiva donne che venivano denunciate “dal basso”, attraverso la vox populi, come streghe). In seguito tutti gli accusati sono stati assolti e le accuse archiviate, ma non c’era bisogno di aspettare quelle sentenze per rendersi conto che si trattava di un delirio collettivo. Una persecuzione come quella delle streghe di Salem nel Massachusetts, nel 1692, potrebbe ripetersi anche domani, qui in Italia; e le “streghe” sarebbero ovviamente delle pedofile.

 

Come spiegare questo orrore per il pedofilo, ambiguo perché esprime il desiderio di averne uno da perseguitare? Alcuni sostengono che esso è il segno di una nostra maggiore sensibilità al mondo infantile, che insomma oggi i genitori sono molto più attenti nei confronti dei figli. Dovremmo rallegrarci del fatto che finalmente la nostra società si sia accorta di qualcosa che pur esiste da che mondo è mondo, e cioè che i bambini vengono picchiati, i padri vanno a letto con le figlie e i fratelli con le sorelline, e alcuni preti seducono ragazzi e ragazze.

Non a caso, si dice, nelle società industriali avanzate facciamo sempre meno figli: anziché disperdere le cure e l’eventuale patrimonio tra tanti figli, preferiamo concentrare cure ed eredità su uno o due figli. Viviamo in una società dove il bambino è sempre più importante, da qui la tendenza – soprattutto italiana – a permettergli tutto. La psicosi del pedofilo sarebbe solo un corollario della venerazione per quello che Freud chiamava “Sua Maestà il bambino”.

Ma qualcun altro non la pensa così.

 

Mi colpì un episodio, letto sui giornali qualche anno fa. In una cittadina inglese si diffuse l’idea che ci fosse in giro un pedofilo. Una banda di uomini alticci andò in giro per la città, di notte, con una maledetta voglia di picchiarne uno. Videro una porta con su scritto “Paediatrician” e presero la scritta per “Pedophile” – devastarono lo studio della pediatra. Ora, quel che mi colpisce non è solo l’idea assurda che un pedofilo possa mettere una targhetta qualificandosi come tale, ma anche che, in vino veritas, si sia punita una persona che cura i bambini, non che li violenta. È una specie di lapsus freudiano, che andrebbe interpretato.

 

Emerge insomma un’ambivalenza nei confronti del bambino che andrebbe esaminata con attenzione. Come ha mostrato bene lo storico Philippe Ariès nel libro Padri e figli nell’Europa medievale e moderna (Laterza, 1981), l’infanzia non è sempre esistita; la “scoperta” dell’infanzia è un evento relativamente recente, che risale al XVI° secolo; prima i piccoli d’uomo erano visti altrimenti. Insomma, ogni epoca ha un diverso sentimento dell’infanzia, ogni società la tratta, la veste, la educa, la ama, la detesta in modi diversi. Dovremmo chiederci quale sia il nostro modo attuale.

 

 

Mi pare che oggi trattiamo l’infanzia in una maniera che parrebbe del tutto opposta a quella che l’angoscia del pedofilo farebbe supporre. Ovvero, aboliamo sempre più la differenza tra i bambini e noi, soprattutto per quel che riguarda la sessualità. Innanzitutto vestiamo i bambini sempre più come noi adulti. Il successo della Barbie – attraverso i giocattoli gli adulti plasmano la mente dei loro bambini – la dice lunga: si propone alle bambine come ideale non una bambola-bambina, ma una ragazza alta e magra, quasi anoressica, bionda, modello scandinavo, vestita sportivamente… La Barbie ha imposto alle bambine il paradigma della donna moderna. Quanto poi alle altre bambole alternative alla Barbie, come Bratz, mi sembra che esaltino la figura della adolescente sexy e alla moda che va in discoteca. E non dobbiamo più dare scappellotti ai nostri bambini, proprio perché non li diamo agli adulti.

 

Il sesso viene insegnato nelle scuole, ovvero vogliamo che i nostri bambini sappiano sulla sessualità e sulla nascita più o meno le stesse cose che sappiamo noi. Favole come la cicogna o i bambini sotto i cavoli sono derise e vituperate. Inoltre esponiamo sempre più i bambini a immagini sessuali, attraverso la televisione, i rotocalchi, i film; questo spiegherebbe tra l’altro la tendenza delle bambine occidentali ad anticipare sempre più la loro pubertà. L’esposizione a scene erotiche ha l’effetto, pare, di affrettare il primo ciclo estrale. Aggiungiamo che la verginità non è più considerata un valore, così che se una ragazza perde la verginità a tredici anni, i genitori ormai non se ne preoccupano più di tanto. Evidentemente la teoria di Freud – che ha svelato un segreto di Pulcinella, il fatto che i bambini abbiano impulsi sessuali, cosa che ogni madre e padre e baby sitter sa – è stata assorbita dalla nostra cultura, per cui non reprimiamo più atti sessuali tra bambini. Certo non proibiamo più la masturbazione. Insomma, la barriera tra il mondo infantile e quello adulto – che era enorme ancora nella mia infanzia, anni ’50 – è caduta. Assieme al femminismo, che ha realizzato un’ampia omologia tra uomini e donne, un tacito bambinismo ha omologato sempre più bambini e adulti. Come si spiega allora questo accanimento anti-pedofili? Non contraddice la nostra tendenza a secolarizzare l’infanzia, ovvero a de-sacralizzarla?

 

Probabilmente proprio questa caduta della barriera bambini/adulti ha riaperto un vasto campo di tentazioni in molti: siccome i bambini sono “come noi”, perché non avere giochi sessuali con loro? Ci sono impulsi pedofili in moltissime persone, anche se sono repressi dalla nostra etica sessuale. La secolarizzazione dell’infanzia fa affiorare questi impulsi, da qui il terrore di esternarli. L’orrore per i pedofili – per coloro che non resistono a questi impulsi – va allora letto come un orrore per la propria stessa pedofilia. Il pedofilo funziona allora come capro espiatorio su cui delegare il proprio interesse morboso per i bambini. Come nel film di Vinterberg o a Rignano Flaminio, si ha bisogno di un pedofilo, anche se inventato, per incarnare in un altro le proprie tentazioni. È l’eterno ritorno della lettera scarlatta di Hawthorne: il pastore che perseguita la donna peccatrice è proprio colui che l’ha resa peccatrice.

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Dalla "scoperta dell'infanzia" all'infanzia oggi

Democracy in America

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La parola e il vuoto: ecco i confini estremi dell’ultimo spettacolo di Romeo Castellucci. La parola che annuncia la Terra Promessa e si infrange contro un deserto che non dà frutti. Il misterioso nome di Dio che concede la grazia per sua insindacabile scelta e le preghiere che contro tale nome troppo presente e troppo assente si rompono, risuonando a vuoto.

 

È un vuoto frastornante, travestito di molte parole, comprensibili e incomprensibili, in parlate conosciute e in lingue lontane. Sono suoni magici, che hanno il senso delle cose, sono cose, sono azioni, oppure pervadono di puri percussivi significanti corpi in trance, in forma di glossolalie, linguaggi divini ignoti a chi li parla, simili a quelli che invasero gli apostoli durante la Pentecoste. Sono parole cantate come strazianti blues di carcerati o come spiritual che, ripetendo versi simili a formule, cercano di incontrare lo spirito di un Dio che riserva solo dolori e promette una liberazione sempre lontana. È il deserto pullulante di presenze dietro il nome di Dio, Democracy in America di Romeo Castellucci, visto al Metastasio di Prato e ora in scena all’Arena del Sole di Bologna, poi a Trento, quindi alle Wiener Festwochen, all’Holland Festival e in altri appuntamenti europei. Uno spettacolo velato dietro vari schermi trasparenti, che si sovrappongono, si duplicano, si triplicano, in assolvenza e dissolvenza, fino a sfumare l’immagine, a renderla fantasmatica ombra di ombre. Un vorticare di parole, suoni, didascalie, dialoghi e immagini, con un cast tutto femminile che interpreta anche i ruoli maschili, un rutilare di idee e visioni ispirato all’artefice della Raffaello Sanzio dal famoso saggio di Alexis de Tocqueville, aristocratico francese che agli inizi degli anni trenta dell’ottocento viaggia negli Stati Uniti e pubblica poi due volumi nel 1835 e nel 1840, fondando la sua analisi della democrazia americana sulla lotta tra i padri fondatori puritani e un paesaggio bellissimo ma aspro, severo, inospitale, da conquistare.

 

© Guido Mencari

 

L’America del nord è la Nuova Israele, il sogno del Vecchio Testamento, la promessa fatta da Dio ad Abramo, il patriarca che agisce senza ombre, senza discutere, pronto a sacrificare il figlio, sostituito solo all’ultimo momento per l’intervento di un angelo. L’angelo in Castellucci, però, recalcitra ad arrivare e i figli, bocche da sfamare, diventano vittime da immolare, merci da scambiare con un sacco di semi per sopravvivere. Già nell’episodio di Parigi della Tragedia Endogonidia (2003) l’apparizione del messaggero divino, a indicare l’ariete da sostituire a Isacco, era tardiva, a sacrificio avvenuto, su una lavatrice (e Cristo veniva crocifisso sull’abitacolo di una macchina piovuta dal cielo). E anche qui Elisabeth pensa che la salvezza non arriverà, perché la terra che dio ha destinato alla sua famiglia di pionieri produce solo tuberi secchi e non ci sono parole della Bibbia che possano farla fruttare. Forse solo le formule e le credenze magiche dei nativi, che vedono i fiumi risalire verso la sorgente, possono riportare ai semi, alle radici, alle origini, al fruttificare. Solo parole dotate di ombra, di alone magico, di aura. E questa eresia, e le bestemmie contro un Dio che invocato in molti modi non appare, non dà segno alcuno, porteranno all’ira della comunità dei pionieri puritani, dei vari Isac e Samuel, nel testo che occupa la parte centrale dello spettacolo, scritto, come gli altri, da Romeo e Claudia Castellucci. Della sorella Castellucci, collaboratrice di lunga data, già avevamo ammirato le parole dense dello spettacolo ispirato al quarto libro dell’Ethica di Spinosa, Ethica. Natura e origine della mente, presentato in Italia solo alla Biennale Teatro di Venezia del 2016.

 

© Guido Mencari

 

Il regista, nella zona centrale di Democracy in America, affidata alle brave Giulia Perelli, Elizabeth, e Olivia Corsini, con barbetta puritana Nathanael, sembra tornare a quella scritta di Sul concetto di volto del figlio di Dio: “Tu (non) sei il mio pastore”, con il “non” che lampeggiava e si abbuiava, scompariva. De Tocqueville individua nella Bibbia, nello spirito comunitario puritano la radice della democrazia americana, diversa da quella greca, nata nell’Atene di Pericle, sostanziata di filosofia, di arte e di teatro. Castellucci in quella nuova veste del potere del popolo basata sull’egualitarismo biblico scorge, sulla scorta del pensatore francese, possibili derive maggioritarie, rischi di consenso, sterminio o oppressione delle minoranze, spianamento delle differenze. I neri sono voci di lamentazioni blues e spiritual. Gli indiani appariranno nei deliri di Elizabeth come forza magica e poi nella scena finale, in un discorso sull’accettare la lingua dei colonizzatori che potrebbe essere detto dal Calibano della Tempesta di Shakespere, nel retro, rossastro come un paesaggio roccioso, di un fregio, di un bassorilievo greco. Siamo nel rovescio della tragedia attica, della democrazia come dialettica della parola che indaga il mondo e i suoi scontri, in una zona di azione pura ed efficace apparentemente senza ombre, che stermina ciò che si oppone al Disegno, distrugge, chiede di omologarsi o perire. I due nativi, un uomo e una donna, discuteranno se conservare la propria lingua, una lingua fatta di cose, di paesaggio, di memorie, di azioni efficaci, o adeguarsi per non morire.

 

Ma varie forme di linguaggio sono attraversate da Castellucci in questo spettacolo. Non a caso Bologna gli dedicò una rassegna intitolata e la volpe disse al corvo, con il sottotitolo significativo Corso di linguistica generale, a indicare un continuo duello ingaggiato dall’artista con i linguaggi, verbali e di immagini, e con la lingua che li impronta e che ne deriva. Una vera lotta senza quartiere per sfuggire le cullanti stanze della riproduzione, della re-citazione, della rappresentazione– in poche parole dello spettacolo– per avventurarsi in marosi inquieti, ad ascoltare, catturare, assecondare, contrastare, far spirare e perfino infuriare nuovi venti indefiniti, sfuggenti, contemporanei (vedi lo speciale di doppiozero Lettere a Romeo Castellucci).

 

© Guido Mencari

 

Democracy in America incomincia con la glossolalia, lingua profetica di possessione, che chi parla non conosce. Da questo iniziale s-concerto di voci, illustrato da didascalie che ne spiegano il senso, appare un esercito con bandiere (esercito americano in gonnella o Salvation Army), ognuna con una lettera, a formare il titolo, Democracy in America. Poi il gruppo si scioglie e si ricompone molte volte in tableaux vivants da Opera di Pechino, a esplorare le possibilità anagrammatiche del nome del libro di Tocqueville, a suggerire, con le lettere sulle bandiere, ”crime”, “coca”, “car comedy”, “carcinoma”, “cynic” e altre parole contenute nello scrigno del potere di tutti, della massa. E poi lampeggiano nomi di paesi di tutto il mondo, scenari di conflitto o semplici località del Grande Impero Globalizzato, dalla Macedonia all’Iran all’Oman all’India, mentre una donna si spoglia, nascosta dal gruppo, e poi si dimena, come in preda a trance, dipinta di rosso, come sangue, a terra, piangendo, battendo i capelli su un’asta calata dal cielo. E intanto scendono e salgono velatini di tulle, a sfumare le immagini, a farle lampeggiare come sogni tra musiche chirurgiche e telluriche di Scott Gibbons e canti di carcerati.

Baluginano figure primitive: una donna con un bambino, quasi una visione animalesca, l’ombra di un contadino, una terra nera, patate secche, una stella polare o rosa dei venti o stella degli stati americani… Vedere. Sfumare. Scomparire. Appare un aratro, e la sfiducia, il dialogo sull’indifferenza di Dio e sulla costruzione della Nuova Israele, sul bestemmiare con tutto il cuore e vendere, rubare, offendere, violare le leggi di una comunità coercitiva… Le nostre preghiere tutte a vuoto… Il coro, il gruppo, la setta, il processo. Un nuovo volteggiare di danze, senza volto la donna, circondata da figure incalzanti, rosse, tribunalizie, mentre scritte ricordano le tappe principali della storia dell’affermarsi della democrazia e della potenza americana... La società e l’individuo, la società sopra l’individuo, contro l’individuo. Balletto della maggioranza, del patto, del grande sacrificio. Scende un ramo d’oro.

 

Il finale è degli indiani: imparare o non imparare la lingua dei coloni, in quel retro del fregio a bassorilievo greco, nella sua parte cava, negativa, cartapesta rossastra come un pueblo, come un paesaggio roccioso. Spogliarsi della lingua, come se fosse la pelle: i nativi abbandonano alla fine in primo piano le loro pelli, appese all’asta di trapezio discesa dalla soffitta del teatro.

 

© Guido Mencari

 

È uno spettacolo misterioso, questo. Non perché incomprensibile. Perché interroga profondamente lo spettatore, in cerca del suo mistero, in questi tempi di consenso, in cui, per provare disperatamente a consistere, ci abbandoniamo a qualche rassicurante maggioranza, a un gruppo, a un clan, a una fede, calcistica, politica, virtuale... Castellucci, attraverso Tocqueville e l’America, come sempre, ci riporta a noi, al magazzino delle nostre visioni, delle nostre ossessioni, del nostro rapporto con il magma del reale e con le possibilità infinite e inevase del linguaggio. Come pochi altri sanno fare in teatro, senza bisogno di prediche o di storielle edificanti, ci mette davanti a uno specchio, però ustorio, che concentra i raggi sulle nostre ombre, sulle nostre oscurità, sui nostri bui e sui nostri incolmabili vuoti. E, più che illuminarli, riempirli o rifletterli, li incendia.

 

Democracy in America, liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville; regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci; testi di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci; musica di Scott Gibbons. Con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila e con dodici danzatrici locali. Si può vedere all’Arena del Sole di Bologna l’11 e il 12 maggio, al Teatro Sociale di Trento il 16 maggio e in vari festival in Europa.

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Romeo Castellucci, da Alexis de Tocqueville

Graffiti dell’Inquisizione

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Nel 1906, mentre si compiono lavori per l’ampliamento delle stanze del Tribunale di Palermo nel Palazzo dello Steri, emergono disegni e scritte. Subito è avvisato Giuseppe Pitrè, grande studioso del folclore. Arriva e si mette a scrostare personalmente i muri delle stanze del primo piano. Vi lavora sei mesi, e man mano affiorano iscrizioni, versi, disegni. A lavoro finito si trova davanti quattro pareti intere fino all’altezza delle mani di un uomo “fitte di manifestazioni grafiche”. Per dieci metri quadrati in ogni parete non c’è solo un dito di spazio libero, scrive ancora emozionato della sensazionale scoperta: “linee sovrapposte a linee, disegni a disegni davano l’idea d’una gara di sfaccendati ed erano sfoghi di sofferenti”. Li battezza: “palinsesti del carcere”. Dopo due secoli e mezzo riappaiono così i graffiti dei prigionieri sepolti nelle segrete del palazzo: “erano uomini che tornavano a parlare in versi e in mozzi accenti, a rivelarsi con ghirigori, volute ed accartocciature”.

 


Sono, come recita oggi una dedica, ebrei, luterani, musulmani, quietisti, rinnegati, negromanti, guaritrici, prostitute, ecclesiastici, bestemmiatori, eretici. Stavano stipati nelle otto celle del piano terra e nelle sei del primo piano. Allo Steri c’erano le carceri dell’Inquisizione, dette Filippine, costruite al tempo di Filippo III, l’Ostello Magno, costruito da Manfredi Chiaromonte nel XIV secolo. Da abitazione dei Vicerè, l’edificio con le parti accluse era divenuto dimora degli inquisitori del tribunale e dell’annesso reclusorio, poi passato, dopo la cessazione dell’abominevole istituzione, a essere Tribunale civile, e oggi sede del Rettorato dell’università. Per gli imputati l’ingresso nelle celle era entrare in un mondo altro, di cui non si conoscevano né le regole né i protagonisti, implicava perdere la nozione del tempo e insieme della propria identità, vivere nell’isolamento e nel buio per anni e anni, come ha raccontato Maria Sofia Messena. Durata quasi tre secoli, dal 1487 al 1782, l’Inquisizione, armata di strumenti di tortura, si accaniva su uomini e donne nutriti “col pane del dolore e l’acqua della tribolazione”, come asserisce il manuale inquisitorio, al fine di far loro espiare la colpa e rieducarli all’ortodossia. 

 

 

Oggi quei palinsesti e altri, apparsi dopo nuove campagne di restauro, si possono vedere nelle quattordici celle del piano terra e del primo piano, oltre che nelle Carceri della Sala Terrana. Lasciano stupefatti, sbalorditi e commossi tanto quanto, se non di più, le pitture nelle grotte di Altamira, poiché gli autori di questi straordinari graffiti non erano cacciatori di ritorno o in andata a una battuta vittoriosa su animali, bensì dei perdenti, degli scomparsi, gli uomini ridotti a bestie, e che bestie non vollero essere, tanto da lasciar traccia di sé su queste pareti attraverso pensieri, immagini, esortazioni, descrizioni, paesaggi, episodi sacri e profani. Bisogna proprio venir qui per sentire quelle che Leonardo Sciascia, che tanto ha fatto dal 1964 per riscoprire e conservare i disegni dello Steri, ha definito le “urla senza suono”. “Averti ca cca si dura la corda/ Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura.”, sta scritto su una parete; poco più in là, Pitrè legge: “V’avertu ca cca prima donanu corda…/ Statti in cervellu ca cca dunanu la tortura/ arti infami”. Invocazioni: “O Rosalea, sicut liberasti a peste Panhormum/ me quoque sic libera carcere et a tenebris”; e ancora: “Tu celeste Guerrier che la Donzella/ Salvasti, togli me a questa tortura”.

 

Vergate con punteruoli, primitivi pennelli, utilizzando come pigmento sangue, piscio, feci, fumo di candela, mattoni d’argilla, latte, albume d’uovo, succo di limone, cera, i palinsesti ricoprono le pareti da terra al soffitto, fino a cinque metri. Ci sono scritte in quattro lingue (siciliano, latino, inglese, arabo-giudaico), graffiti con firme, date, simboli esoterici, personaggi religiosi, donne, navi, oggetti, carte geografiche, architetture, piante, animali, motivi decorativi. Nella cella numero 2 del piano terra è raffigurato il Leviatano, enorme pesce dalla bocca spalancata. Divora i patriarchi dell’Antico Testamento e i progenitori inginocchiati che si rivolgono imploranti al Cristo, il quale regge uno stendardo. Segno del desiderio irrefrenabile di sfuggire alla propria condizione, speranza posta in un miracoloso intervento divino, unica possibilità che forse si poteva contemplare dal fondo della Bestia infernale, che li aveva inghiottiti e lentamente masticati. Al di sopra dell’Animale biblico c’è una testimonianza in lingua inglese di un condannato a morte che è stato risparmiato.

 

 

La firma sotto al disegno è di Don Leonardvs Germanvs, con un’iscrizione latina, che poi prosegue in inglese per descrivere la salvezza dell’umanità intera grazie al sacrificio di Cristo. Lo spazio è tramato da fittissime annotazioni; dentro il disegno del Leviatano c’è poi una citazione dantesca, e il mostro, pensato come porta dell’Inferno, riproduce l’originario ingresso al carcere stesso visibile dalla cella. Visionari e realisti, i graffitari delle segrete manifestano una grande nostalgia del mondo esterno, della dolce vita alla luce del sole: odori, colori, amici, famigliari, casa. Sono perciò disegnati paesaggi a loro noti, e persino due dettagliate e attendibili mappe della Sicilia stessa, con i nomi dei paesi. Un cartografo è stato senza dubbio prigioniero dell' Inquisizione tra il 1637 e il 1647, e ha raffigurato la terra amata. Sul fondo delle galere c’erano intellettuali, scrittori, poeti, letterati, oltre a commercianti, pescatori, ecclesiastici, nobili. Qui fu rinchiuso, da qui evase e poi tornò in catene per morirvi, Fra Diego La Matina, che Sciascia ha immortalato in La morte dell’Inquisitore. Come osservano gli autori di un utilissimo atlante dei disegni e graffiti dello Steri, nelle parti più alte o luminose delle celle compaiono temi e figure d’ispirazione religiosa, mentre nelle zone più buie, in basso, vicino al pavimento, ci sono i segni delle irrefrenabili pulsioni: sberleffi, insulti, oscenità.

 

 

Non è irragionevole pensare che gli inquisitori avessero tollerato le scritture murarie, i graffi e le pitture edificanti, per verificare pentimenti, ravvedimenti, abiure; gli studiosi ipotizzano che in alcuni casi, per le pitture più eleganti, gli aguzzini stessi avessero fornito istruzioni, oltre tavolati, scale, pennelli e colori. Si può restare per ore a guardare alla luce dei fari queste lettere, i graffi, le immagini consegnate a nessuno, se non a se stessi e ai propri compagni di sventura. Ogni volta che si torna alle camere murate dello Steri, con quelle piccole e terribili feritoie in alto, si scoprono sempre nuovi ritratti o dettagli sulle pareti, e non si può non pensare che queste sono forme di resistenza al destino inclemente, al dolore e alla morte che minacciavano di continuo i condannati. Sono vite vissute, che ci sono state consegnate dal lavoro paziente e del Pitrè, poi di Sciascia e di altri come loro, che hanno salvato dalla damnatio memoriae un patrimonio straordinario che colpisce per la sua ossessività, la costanza e per la forza d’animo degli autori. Il repertorio delle immagini religiose (Santi, Cristo, Crocifissione, Maria, Ecclesiastici) è spesso inserito in strutture architettoniche, sino a riempirne tutti gli interstizi tra un edificio e l’altro, in mezzo a nicchie, balaustre, finestre, androni, tetti. 

 

 

Ci sono motivi a zig zag, fregi decorativi, che ricordano l’arte barocca, e senza dubbio provengono da chiese frequentate dai carcerati nella loro passata vita di uomini liberi. Il motivo delle navi è assai presente a partire dai graffiti che raffigurano la battaglia di Lepanto del 1571 contro l’Impero Ottomano. Per i più fortunati la pena da espiare era infatti a bordo di galeoni, ai remi, come schiavi, sui mari, in mezzo ai flutti e ai pericoli. Queste parti dipinte trasudano terrore e sconforto e spesso sono accompagnate dalle figure dei medici mascherati davanti alle ricorrenti malattie pestilenziali diffuse nei porti del Mediterraneo. Uscendo da questo mondo sotterraneo, prigione e tomba, luogo di sofferenza e di espiazione, resta negli occhi una scritta in maiuscolo: “ANIMO CARCERATO”. La speranza è sempre l’ultima a morire, anche allo Steri. 

 

Cosa leggere per saperne di più:

 

Gli scritti di Pitrè e Sciascia sono raccolti con altri testi nel volume Urla senza suono (Sellerio 1999); lo studio più importante sull' Inquisizione in Sicilia è opera di Maria Sofia Messana, scomparsa da pochi anni, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia Moderna (1500-1782) (Sellerio 2007); a lei è dedicato il recente restauro delle celle del piano terra; nel volume Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo, a cura di Antonietta Iolanda Lima (Plumedia Edizioni, 2015) è compreso uno scritto di Gianclaudio Civale, Le testimonianze dei reclusi sulle pareti delle carceri; allegato al volume di Plumedia sullo Steri c’è l’indispensabile: Disegni e graffiti dei prigionieri dell’Inquisizione. Atlante fotografico, con le riproduzioni delle immagini, la legenda dei disegni e graffiti, la trascrizione dei testi incisi sui muri; vi figurano testi di C. Catalano, O. Ferro, A.I. Lima, B. Mazzola, F. Sommantino, O. Tuttolomondo; si tratta della più approfondita indagine su questo incredibile patrimonio espressivo del dolore. 

 

Questo articolo è comparso in forma più breve in “Robinson” il supplemento culturale de “La Repubblica”, che ringraziamo.

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Palermo, Palazzo dello Steri

Meritocrazia come eugenetica

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Nel film di David Fincher The Social Network (2010), Zuckerberg viene raffigurato nel finale come un uomo solo in cima a un lussuoso cumulo di rovine affettive, come il protagonista di Quarto potere (Orson Welles, 1941) intento a rimpiangere, in punto di morte, la sua “Rosabella”. In The Startup di Alessandro D’Alatri, che racconta la storia (vera) dello “Zuckerberg italiano” Matteo Achilli, il finale è invece riconciliatorio, secondo il canone nazionale. Achilli (interpretato nel film da Andrea Arcangeli), romano del Corviale e maturando al liceo scientifico, aspira a vincere i campionati italiani di nuoto, ma al suo posto viene selezionato il figlio dello sponsor della squadra, proprio nei giorni in cui il padre cinquantenne viene licenziato per una ristrutturazione del personale.

 

Il “vero” Matteo Achilli (a destra) con l'attore Andrea Arcangeli.

 

Sembrano gli ingredienti per una presa di coscienza dei meccanismi sociali ed economici di produzione della disuguaglianza. Invece per Matteo è l’occasione per maturare un aspro ressentiment individualistico: asseconda i genitori sulla scelta della Bocconi e congegna un rivoluzionario social network come antidoto meritocratico all’ingiustizia. Chiunque si colleghi al sito Egomnia, esibendo i propri titoli, ottiene una valutazione “oggettiva” del proprio valore, grazie a un apposito algoritmo. In tal modo le aziende potranno assumere i soggetti realmente più dotati. La giustizia, insomma, viene incarnata in una selezione dei soggetti effettuata con parametri calcolati in base a un algoritmo, al riparo da raccomandazioni e favoritismi: la competizione è vinta da un vincitore legittimato dalla Verità scientifica. Ovvio quindi che la natura “teologica” e soggettiva del “merito” – già sottolineata da Michael Young nel distopico The Rise of meritocracy (1958) – venga del tutto ignorata nel corso della narrazione. “Qui non siamo nella Silicon Valley, in Italia l’impresa più fiorente è quella della politica”, dice a Matteo un amico bocconiano di una famiglia di finanzieri legata al governo. Ma Matteo rifiuta di rilanciare Egomnia, afflitta da una prima crisi di crescita, entrando nel partito del Ministro. Come a dire che il problema non è la Silicon Valley: un sistema che, grazie alla rete e alla borsa, promette grande mobilità sociale per poche eccellenze e disoccupazione e sfruttamento per i molti normodotati, vendendo una schiavile precarietà per creativa flessibilità. Cioè il problema – per The Startup– è l’anomalia italiana, in cui la politica impedisce di fare bene impresa.

 

Si tratta dello stesso sottotesto di Smetto quando voglio di Sydney Sibilia (ITA, 2014), in cui la protesta verso un mondo del lavoro universitario caratterizzato da precarietà e sfruttamento si rivolge moralisticamente al tema del baronato, nella convinzione che una gestione onesta dell’Accademia porterebbe giustizia, sostituendo i meritevoli ai raccomandati. Ma poi l’Italia resterebbe comunque in fondo alle classifiche per l’investimento nella ricerca e nel mondo continuerebbero a essere sforbiciate le discipline umanistiche ed estratta gratuitamente o quasi una gran massa di lavoro intellettuale. Si tratta peraltro di un capitolo della più generale storia con cui, da Tangentopoli in poi, si è ritenuto che il problema sociale del paese fosse la “corruzione” e la medicina la “legalità”, senza più disturbare i meccanismi materiali che una certa legalità produce (e, connaturata ad essi, la corruzione).

 

 

Tornando a The Startup, non mancano stoccate al marketing, accenni nostalgici al capitalismo produttivo, ma il risultato qual è? Il film glorifica la Bocconi (e l’abolizione del valore legale del titolo di studio, cara al Movimento 5 Stelle), vista come un vero e proprio tempio del sapere economico e dell’eccellenza accademica e un’idea di azienda digitale che si muove nello stesso quadro dominato dal marketing e dalla finanza.

 

Eppure non mancavano spunti in direzione del pensiero critico. Emma, l’amata fidanzata di Matteo, lo cura dall’iniziale ubriacatura del primo successo; ne denuncia, cioè, gli atteggiamenti da oligarca neo-ricco e spiega perché lei non aspiri a diventare prima ballerina nonostante il suo intenso impegno per la danza: “il senso della fatica è ciò che la fatica fa di me”. L’ingegnere che mette a punto il software è un precario sfruttato e sottopagato, che Matteo a sua volta accenna a sfruttare e ributtare in strada ma che poi riprende con sé, seguendo il consiglio di rilanciare il social network migliorando la sua fattura anziché cercando appoggi politici o economici esterni. Gli amici bocconiani di Matteo, in relax sui laghi lombardi, fantasticano sull’ipotesi di essere gli ultimi sopravvissuti della terra, trasponendo la logica di Egomnia nella selezione naturale necessaria per il miglior ripopolamento della terra (meritocrazia come eugenetica). Ma nessuno di questi spunti mette in crisi l’individualismo meritocratico del giovane imprenditore, che non si trova affatto male in compagnia dei nuovi, vuoti amici (peraltro una specie simile al figlio dello sponsor che gli aveva avvelenato la vita). La psicometria, del resto, discende da quella scienza positivistica che, misurando i crani, legittimava nell’Ottocento l’idea della superiorità della razza bianca. E alla fine Matteo riconquista la sua fidanzata, salva l’amicizia con l’ingegnere precario e rilancia l’impresa senza aiuti politici e finanziari, godendosi con la coscienza a posto l’ex Milano da bere. Insomma un ben lieto fine.

 

 

Renzi, Salvini, Berlusconi, Grillo, Macron, Le Pen, Trump, Hillary Clinton, Obama: probabilmente tutti questi tiferebbero per Matteo, guardando il film. Tutti, cioè, tiferebbero per un’idea di giustizia definita dall’ordoliberalismo tedesco, che fin dal Trattato di Roma del 1957 fonda l’Unione Europea (come hanno sottolineato nel 2013 Pierre Dardot e Christian Laval in La nuova ragione del mondo). Giusta è una società che garantisca una giusta concorrenza: che i forti vincano e i deboli perdano, senza irruzioni abusive (comprese quelle dello Stato a fini redistributivi), con la Sacra Unzione dell’Algoritmo. Il problema non è cambiare la struttura della società che dà tutto il potere agli sponsor, ma far sedere Matteo, giovane superdotato, sul trono prima riservato ad altri privilegiati.

 

The Startup non sfonda, insomma, l’orizzonte della soggettivazione neo-liberale. Il testo è solo apparentemente antagonistico e in qualche misura può aiutare a spiegare come negli ultimi anni la protesta verso il sistema si sia coagulata verso incarnazioni estreme del sistema stesso. Chi più patisce il disagio sociale sceglie per il proprio riscatto paladini responsabili della loro stessa subalternità: questo perché i soggetti, quando protestano, non fuoriescono dai limiti dell’immaginario consumistico e meritocratico a cui quarant’anni di egemonia neo-liberista li ha educati. Ecco perché lo sfruttamento finisce per generare una reazione che proietta l’atomismo individualistico nell’egoismo nazionale, producendo il fascismo lepenista e salviniano e il cripto-fascismo che governa in Polonia e Ungheria.

 

Ha fatto scuola, in Italia, il berlusconismo, che ha capitalizzato le critiche contro i partiti ormai privi di scudo geo-politico e avviati verso la gestione austeritaria del passaggio in Europa (la cui triste eredità avrebbe raccolto il centro-sinistra). L’illusione era che la società civile, intesa come privato economico, rompesse il fronte delle rendite politiche, sindacali, industriali, finanziarie: un turbocapitalismo sano che poi spargesse i suoi effetti benefici su tutta la base sociale. Peccato che invece la disuguaglianza (con la meritocrazia come teodicea) si sia riaperta a forbice in Italia come nel resto dell’Occidente, entrato ormai in una fase che sempre più osservatori definiscono “post-democratica”. La storia italiana si è del resto ripetuta con tratti molto simili negli Stati Uniti di oggi, in cui la denuncia dei danni sociali provocati da Wall Street e da una politica ad essa subalterna, si è canalizzata addirittura in Donald Trump, che nel verticalismo faraonico del suo grattacielo newyorkese sembra incarnare fisicamente il ritorno ad antiche immobilità sociali. La protesta contro la finanza e le multinazionali, insomma, esprimendosi con il linguaggio parlato dalla fantasmagoria delle merci a cui quei poteri hanno improntato sempre più la pedagogia sociale dominante, sfocia nello storytelling populistico, mercatistico o nazionalistico (o in entrambi assieme). 

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Alessandro D'Alatri, “The startup”

Se l’avanguardia incontra il popolo

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È il 1968. Ketty La Rocca realizza l’opera Segnaletiche, una composizione di segnali stradali con su scritto: “Il senso di responsabilità”, “Io tu e le rose”, “Amava molto gli animali”. Di queste la prima ha la freccia verso sinistra ed è in cima, le seguenti con la freccia nella direzione opposta e cioè verso destra. Anche senza soffermarsi sulle citazioni o sui contenuti veicolati, in quest’opera sono presenti i temi dell’estetica del tempo: la coincidenza di testo e immagine, l’impiego di oggetti d’uso comune decontestualizzati, ma soprattutto il riferimento a una dimensione esterna all’arte e ai suoi luoghi. In primo luogo, l’immagine fonda il suo impianto visivo su una grafica verbale (o verbo-visiva per usare un tecnicismo). Quindi, la segnaletica stradale diventa supporto materiale e semantico, ed è al tempo stesso supporto, immagine e concetto. La scelta della stessa come supporto implica il rimando a un immaginario condiviso, tanto comune, che inevitabilmente dirotta lo sguardo di chi osserva e legge al di fuori dei luoghi dell’arte. È su questa linea che si muove la ricerca di Alessandra Acocella nel saggio Avanguardia diffusa. Luoghi di sperimentazione artistica in Italia. 1967-1970, pubblicato per Quodlibet (collana Biblioteca Passaré, diretta da Pietro Nicoletti e patrocinata dalla Fondazione Passaré). E cioè il tentativo di ricomporre le fila di un panorama artistico che ha avuto il suo svolgersi all’aperto. Non solo. Ma che ha scelto luoghi comunemente periferici alla centralità delle metropoli.

 

 

Il libro ripercorre quanto accaduto in Italia tra il 1967 e il 1970 quando, già forte di una disinvolta fusione dei linguaggi, la sperimentazione artistica ricercava un dialogo stretto e privo di mediazioni con il territorio, inteso sia in termini geografici che sociali. Sono questi gli anni in cui le istanze di autonomia dell’arte trovavano una loro forma nelle pratiche e ponevano le basi per gli ulteriori sviluppi del decennio a venire. Dalla poesia sonora a quella visiva, fino all’avanguardia musicale o architettonica, Acocella si muove nel proliferare di tendenze e diversità concettuali e formali, ragionando soprattutto sulla trasformazione del rapporto tra opera e spazio. In particolare sul progressivo superamento dell’opera plastica, espressione di una relazione spaziale fondata sull’equilibrio dei volumi, a favore di un’opera semantica, fondata sulla relazione dialettica con l’ambiente.

 

Più precisamente, invece che di arte ambientale, Acocella preferisce parlare di “una storia delle manifestazioni all’aperto” e del modo in cui queste hanno attraversato i luoghi dove sono state “ideate, vissute, recepite”. È infatti esattamente questo l’ordine in cui ogni episodio viene rigorosamente ricostruito e raccontato, dalle corrispondenze che hanno generato l’idea del singolo progetto tra artisti e istituzioni, alla sua realizzazione, fino alle reazioni di pubblico, istituzioni e stampa, e quindi agli epiloghi artistici, sociali e politici.

 

Insieme al distanziamento dalla categoria di arte pubblica, un secondo aspetto significativo, e innovativo di cui si pregia questa ricostruzione risiede nell’estensione dello sguardo oltre le esperienze poveriste o quelle dislocate nei territori più centrali. Negli ultimi anni si iniziano a incontrare altri studi e occasioni di confronto che rileggono il periodo e le tensioni dell’arte verso lo spazio pubblico. Tra questi, Alessandra Pioselli ad esempio, con L’arte nello spazio Urbano. L’esperienza italiana dal 1968 a oggi (Johan&Levi 2015), contribuisce a una rilettura sulla convergenza tra esperienze autonome e strutturate, e l’inquadramento artistico nei contesti pubblici. O ancora il convegno Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta (Università Cattolica, Milano 12-13 ott. 2016) a cura di Cristina Casero, Elena di Raddo, Francesca Gallo, ha riunito i contributi di storici, critici e protagonisti di diverse generazioni. Quello che sembra accadere non è solo il recupero di una memoria sfilacciata. È anche la ricerca di un diverso approccio di studio e di una diversa definizione. Un dettaglio interessante che vorrei sottolineare, è come le spinte di una rilettura provengano in primo luogo dalle realtà accademiche. Quelle su cui si sta posando la lente d’ingrandimento sono per lo più esperienze considerate ai margini dal mercato come dalla storiografia generalista. A volte neanche riportate dagli stessi artisti nei propri curricula. Esperienze che sono state emblema di un’effervescenza le cui tracce sono ancora tutte da raccogliere e che, sebbene non sia ancora entrata a regime nella letteratura storico artistica, ha costituito il tessuto nel quale si sono mossi artisti, critici e testimoni più o meno riconosciuti, potendo anche sperimentare senza nulla a perdere.

 

Il viaggio di ricognizione di Acocella inizia a Fiumalbo nel 1967. Provincia di Modena. Quasi mille metri sul livello del mare. L’occasione è Parole sui muri. Di questa Acocella ricostruisce la fitta corrispondenza tra Claudio Parmiggiani, artista, e Mario Molinari, sindaco del centro che ne costituirebbe la genesi e l’ideazione. Parmiggianni ne divenne il curatore unico, con il supporto del “comitato organizzativo”: Henry Chopin (musicista), Corrado Costa (Gruppo 63), Adriano Spatola (Geiger). In questo caso, solo artisti; tutti altalenanti tra il mondo della poesia, dell’immagine, della musica. Ogni dato è stato ricomposto grazie alla dettagliata ricchezza dei contenuti filologici del testo, testimoni diretti di un panorama dove gli artisti stessi potevano essere i promotori principali della divulgazione dei nuovi linguaggi. Qui, l’esclusione di qualsiasi contributo critico fu confermata nella scelta editoriale con un catalogo privo di testi critici, ma contenente tutte le recensioni dell’evento pubblicate sui giornali. Parole sui muri si ripeté l’anno successivo, nel 1968, con la stessa partecipazione numerica degli artisti, ma – riporta Acocella – senza la stessa vivacità. L’esperimento era riuscito la prima volta per la sua vena inedita. Nei due anni, la rassegna riunì la scena italiana d’avanguardia, dalla poesia visiva ad altre forme di sperimentazione. Ketty La Rocca presentava la sua segnaletica comune, ispirandosi tra le altre cose alla canzone di Orietta Berti. Dal balcone del Municipio, Henry Chopin, recitava poemi sonori. Anche la sperimentazione filmica ebbe il suo spazio con il film ad esempio di Alberto Grifi, Transfer per camera verso Virulentia. Dalla ricostruzione così dettagliata emerge anche il dato reale della risposta pubblica. Il girovagare per il piccolo centro del paese da parte di artisti venuti da tutta Italia con atteggiamenti che sfuggivano a quelli canonici non passò inosservato. Al termine dell’iniziativa la DC ne approfittò per un bilancio contro lo spreco del denaro pubblico dell’amministrazione di governo a sostegno di eventi, dal loro punto di vista, non adeguati alla morale, attraverso un manifesto di protesta affisso per la città di cui si riporta qui l’apertura:

 

“ Raccolti qui in tendopoli / da Voi sovvenzionati / quei capelloni luridi […]”

 

Lavori di affissione, Fiumalbo 1967. Courtesy Archivio del Comune di Fiumalbo.

 

Oltre alla naturale circostanza espositiva, una delle necessità più urgenti era quella di dialogare con il territorio e di contribuire a definire delle soggettività capaci di riconoscersi nei nuovi linguaggi, senza esserne respinte. Inoltre, si è detto sopra, il valore dell’opera come volume nello spazio perdeva progressivamente importanza a favore di un riscontro emotivo o partecipativo sul tessuto sociale e culturale del luogo. Scrive Luciano Caramel nel 1969 a proposito di campo Urbano:

 

«l’inserimento effettivo del coefficiente estetico nella vita della comunità e quindi l’apertura sociologica, il coinvolgimento popolare, il superamento di una dimensione gustativa o esilmente “decorativa”».

 

La citazione è riportata da Acocella e viene da domandarsi se non sia proprio questo che intenda parlando di “Avanguardia diffusa”. Le dinamiche dell’organizzazione corale (o “dal basso”, per usare un’espressione più familiare a molti) e l’esclusione di una direzione programmatica si ritrovano in altri episodi raccolti da Acocella. Uno di questi è Un paese + l’avanguardia artistica. Località: Anfo, comune della provincia di Brescia. All’epoca poco più di 500 abitanti. Il deus ex machina dell’iniziativa anche in questo caso è un artista; anche in questo caso protagonista della poesia visiva. Parliamo di Sarenco (Isaia Mabellini). Appena ventenne e di origini bresciane. Artista, giovane, legato a quegli stessi territori. Ulteriore aspetto d’interesse che emerge dalla lettura della corrispondenza è che, nonostante i contenuti a tratti provocatori e anticonvenzionali delle opere, le istituzioni locali erano ben disposte a sostenere e promuovere queste iniziative artistiche, non ultimo per il loro potenziale attrattivo. Qualunque essa fosse, si trattava di costituire un’occasione di interesse per un luogo e trasformarlo in catalizzatore turistico. Il caso di Anfo si presta bene a giustificare quanto appena detto anche per le possibilità ludiche che hanno generato alcune opere, come ad esempio i gonfiabili di Jorrit Tornquist, artista austriaco residente in Italia dagli anni Sessanta, o quello di Hidetoshi Nagasawa, sul modello del Grande oggetto pneumatico (1960) del Gruppo T, messi nelle acque del lago, o ancora il Biscione da divertimento del gruppo Ti.Zero di Torino.

 

Andrea Bersano, Maria Grazia Magliocca, Giorgio Nelva e Marco Parenti, Biscione da divertimento, Anfo 1968. Courtesy Quantica Studio, Torino.

 

Cito il gonfiabile per introdurre la reazione dei rappresentati locali della DC, perfettamente sovrapponibile a quella dell’episodio di Fiumalbo. Il segretario della sezione locale scrisse:

“Da questa manifestazione, ho rilevato, a mio modesto giudizio […] delle opere di manifestazione sessuale, maoiste, antireligiose, e anarchiche […]”.

 

La carrellata prosegue con lo stesso rigore considerando la genesi, gli episodi significativi, i protagonisti, le opere e le reazioni. Soprattutto queste costituiscono la cartina tornasole del valore delle manifestazioni: la loro capacità di riferirsi a una creatività diffusa presente sul territorio italiano negli anni Sessanta. Quindi in ordine: VI Premio Masaccio (San Giovanni Valdarno, 1968). NuovoPaesaggio (Milano, 1968), mostra cancellata e ricordata da F.M. [Fabio Mauri suppone Acocella] nell’articolo Una mostra da Salvare (Almanacco letterario Bompiani, 1969). Al di là della pittura (VIII Biennale d’arte contemporanea, San Benedetto del Tronto, 1969), curata questa da critici come Gillo Dorfles, Luciano Marcucci, Filiberto Menna. Come sottolinea Acocella, la mostra riprendeva il saggio di Dorfles su Artificio e natura (Einaudi 1968) e creava un terreno di confronto con la parallela esperienza poverista, che pubblicava il celebre catalogo Arte povera + azioni povere a pochi mesi di distanza (maggio 1969), dove lo stesso Dorfles si dichiarava a sostegno di iniziative di scambio con il territorio, che non fossero calate a piombo dall’alto delle istituzioni.

 

Allestimento-opera di Gianni Pettena sulla facciata del Palazzo d’Arnolfo (Dialogo Pettena-Arnolfo), San Giovanni Valdarno 1968. Courtesy Museo Casa Masaccio. Archivio Premio Masaccio, San Giovanni Valdarno.

 

A seguire ancora: Nuovi materiali, nuove tecniche (Caorle, 1969) che recuperava e rinnovava nelle intenzioni la manifestazione che dalla fine degli anni Cinquanta si svolgeva nel comune veneto. L’innovazione dell’episodio passava attraverso l’allestimento diffuso della rassegna, distribuito per le calli cittadine sotto la direzione di Giuseppe Fronzoni (architetto). Quindi Meno 31. Rapporto estetico per il Duemila (Varese, 1969) e Campo Urbano (Como, 1969).

Come si legge, in linea con quanto affermato sopra, l’intento di Meno 31 era quello di “sensibilizzare l’opinione pubblica ai problemi di vitalizzazione e tutela del centro storico”.

 

Mario Di Salvo e Carlo Ferrario, Riflessione, Como 1969; sullo sfondo: intervento di Gianni Pettena (Laundry). Foto © Paolo Zanzi.

 

Di fatto il valore di sperimentazione trovava conferma nelle polemiche a volte aspre che ne uscivano sulla definizione di arte pubblica piuttosto che sul rinnovamento delle istituzioni. Campo Urbano, il cui catalogo fu curato da Luciano Caramel, Bruno Munari e Ugo Mulas, fece esplodere il dibattito critico sull’arte in Piazza. Caramel, critico d’arte, in opposizione a Francesco Vincitorio – sostenitore del rinnovamento delle istituzioni permanenti, promuoveva invece una “prospettiva operativa extramuseale, contingente, effimera […] capace di rispondere alla dinamicità delle proposte estetiche e alle loro istanze democratizzanti” (Acocella, p. 179). Protagonista di Campo Urbano sembra essere per Acocella il tempo libero (p. 181) e in particolare la sua fruizione. Anche questa era uno degli argomenti di sviluppo di un decennio che, per la prima volta in Italia, aveva portato alle masse e ai vari livelli sociali la possibilità di avere e immaginare un tempo libero. La vitalità e la vasta partecipazione si comprimono per Acocella, con un evento cui si rimanda normalmente l’esordio della strategia della tensione e del conseguente timore per gli spazi pubblici: la strage di piazza fontana del 12 dicembre del 1969. Questo clima di “riesame critico” è riassunto da Interventi sulla città e sul paesaggio (Zafferana Etnea 1970), evento di chiusura del saggio, che vide la partecipazione dei critici Francesco Vincitorio, Lara Vinca Masini e degli artisti Franco Vaccari e Ugo La Pietra e che, si svolse in contemporanea alla quarta edizione del premio letterario Brancati Zafferana, diretto quell’anno da Pier Paolo Pasolini. Acocella raccoglie e ricostruisce le tappe di una tensione tra arti visive e critica letteraria per l’utilizzo degli spazi pubblici, che sfociò in gesti di estrema provocazione come l’incendio di cumuli di copertoni in strada.

 

Segnali di fuoco. Intervento di Ugo La Pietra con Getulio Alviani e Maurizio Nannucci (Segnali di fuoco), Zafferana Etnea 1970. Foto Ugo La Pietra. Courtesy Archivio Ugo La Pietra, Milano.

 

Tra gli aspetti più evidenti di questa ricostruzione sono la presenza radicata e capillare di una volontà auto organizzata di artisti sul territorio e uno scenario caratterizzato da almeno due polarità contrapposte. Due Italie che premono l’una sull’altra per la rispettiva affermazione. Da un lato residui di perbenismo conservatore atterrito dallo spettro malefico del comunismo e della rivoluzione dei costumi. Dall’altro liberi artisti che si divertono a sparigliare le carte e a intervenire nelle periferie non urbane con pratiche dirette di presenza, portando nella dimensione reale e più periferica i dibattiti che le élite intellettuali masticano già da alcuni anni attraverso, ricorda ad esempio Acocella, testi come Opera Aperta (1962) di Umberto Eco.

È in questo senso forse che va intesa allora l’avanguardia diffusa del titolo, cioè un’avanguardia capillare, un sottobosco che ha contribuito a mantenere vivi i dibattiti in superficie e a generare identità fondate su nuove estetiche di base.

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Alessandra Acocella. Avanguardia diffusa

Holt, il luogo che non c’era

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Kent Haruf

“Quante volte sono entrato e uscito da quella porta. Non è così, Mary? Secondo te quante volte, caro? Sei giorni alla settimana, cinquantadue settimane all’anno per cinquantacinque anni, rispose lui. Quanto fa? Fa una vita intera. È vero. È la vita di un uomo, disse Dad.”

 

Alla fine de Le nostre anime di notte, quarto libro di Kent Haruf uscito in Italia (e anche l’ultimo romanzo da lui scritto prima della morte nel 2014), c’è una mappa, quella di Holt. Holt è una cittadina del Colorado che i lettori di Haruf hanno imparato ad amare; è lì, infatti, che sono ambientati i suoi quattro romanzi pubblicati da NN editore: Benedizione, Canto della pianura, Crepuscolo (che compongono la Trilogia della pianura) e Le nostre anime di notte, appunto. Holt che però non esiste, è un luogo inventato, potrebbe essere Yuma, o qualsiasi altra piccola città di una sperduta contea nordamericana.

 

 

Cosa c’è a Holt? Come è fatta? Non mancheranno una Mainstreet, poi una strada che va verso i campi, e subito dopo i campi, e oltre i campi le montagne, una o due macchine ferme a un incrocio, gente che si saluta, un’altra macchina che va fuori città, un furgone che svolta su una Highway, e poi una casa, una veranda sul portico, lattine di birra o del tè freddo, qualcuno seduto a parlare ma più spesso a tacere e ogni tanto a buttare lo sguardo fin dove è possibile. Ci saranno infiniti silenzi, torride estati, un temporale improvviso, una nevicata e poi vento e ghiaccio, e un cielo di un azzurro limpido che di più non si potrebbe. Ci sarà un autunno giallo di foglie cadute e prima dell’autunno un raccolto buono o meno buono. Ci saranno cavalli e mucche al pascolo, tori da monta; e ci sarà una sera verso la fine di un novembre in cui uno dei personaggi, magari un anziano, si accorgerà che il soffio del vento è diverso e sentirà il nuovo inverno alle porte. Ci saranno case basse, vicini alle finestre, agricoltori e scuole, piccole attività, il pub, il bar, il supermercato.

 

Holt è più o meno così, così l’ho immaginata; l’hanno resa indimenticabile il peso delle storie dei suoi abitanti e la bellezza della prosa di Haruf che ha descritto ogni piccolo accadimento, e così, per i lettori, ogni piccolo accadimento è diventato eccezionale.

 

La letteratura nordamericana che preferisco, quella che ha a che fare con una sorta di sacralità è quella della terra, dei rituali, dei conflitti combattuti e taciuti per decenni e ha a che fare con i cambiamenti (soprattutto) interiori mentre fuori si alternano le stagioni e il ridipingere di steccati e passa da queste cose, da luoghi come Holt – dove forse non vivremmo – ma diventano familiari, passa da McCarthy, da Faulkner, da Carson McCullers, da Sherwood Anderson, da John Williams, passa dalla pietra e dalla religione, dal dolore al calore, dalla vita alla morte, dalla morte a Dio, e da un paio d’anni a questa parte passa da Kent Haruf.

 

“Erano stanchi e spenti. Scaldarono sul fornello una zuppa in scatola che mangiarono al tavolo della cucina, poi misero i piatti in ammollo e si spostarono in salotto per leggere il giornale. Alle dieci accesero il vecchio, massiccio televisore in cerca di un notiziario qualsiasi proveniente da qualunque punto del mondo, prima di salire le scale e buttarsi a letto sfiniti, ciascuno nella propria stanza ai due lati del corridoio, confortati oppure no, demoralizzati oppure no, da ricordi e pensieri familiari logorati dal tempo.”

 

In Italia, della Trilogia della pianuraè uscito per primo Benedizione, l’ultimo dei tre, per ragioni che NNeditore ha spiegato. Ragioni romantiche, giuste e legate alla storia dei primi passi della casa editrice milanese; ma se vogliamo capire bene il modo di scrivere di Haruf, le storie che intendeva raccontare, le scelte compiute di volta in volta per arrivare al punto e quindi al lettore, faremo bene a tener presente che, di Trilogia della pianura, Benedizioneè il terzo libro.

 

L’ordine è questo: Canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione e Le nostre anime di notte.

Ritengo, comunque, che il quarto romanzo non sia slegato dalla trilogia, se vogliamo, è una costola, una certificazione, una conseguenza, il dettaglio finale sulla contea di Holt. Si potrebbe, invece, tentare, se teniamo presente il modo di raccontare e le scelte lessicali o di ambientazione di Haruf, una separazione a blocchi: Canto della pianura e Crepuscolo sono scritti in un modo, Benedizione in un altro e Le nostre anime di notte in un altro ancora (seppur più vicino a Benedizione); con il terzo romanzo da considerare come vertice della scrittura di Kent Haruf, il suo capolavoro.

 

Canto della pianura e Crepuscolo

I primi due romanzi sono corali, anzi polifonici. I protagonisti sono più o meno una dozzina, tutti contribuiscono sostanziosamente allo sviluppo della trama. La maggior parte dei personaggi è presente in entrambi i libri,le storie si intrecciano e si completano, potrebbe trattarsi anche di un lungo romanzo unico. Gli elementi dominanti sono la vita e il tempo. I nomi dei personaggi sono: Ike, Bobby, Victoria, Tom, Ella, Maggie, gli indimenticabili fratelli McPheron, e poi Luther e Betty e i loro figli, Rose Tyler, Dena e Dj, e così via.

 

Tom è il papà di Ike e Bobby, due ragazzini in gamba. Tom insegna, Ella, sua moglie, passa il tempo chiusa in una stanza, poi in un’altra casa, poi in un’altra città. Si tratta di abbandono della famiglia? Più probabilmente è sofferenza, è depressione, è solitudine. Maggie è un’altra insegnante, sarà lei a occuparsi di Victoria, adolescente incinta cacciata di casa dalla madre. Maggie è una donna saggia, non è la sola. Propone ai due fratelli McPheron, Harold e Raymond, che vivono in una fattoria fuori città, dove lavorano e spendono i giorni nella loro perfetta solitudine, di accogliere Victoria in casa almeno fino al parto. Alcuni di questi personaggi torneranno in Crepuscolo. Qualcuno un po’ defilato come Tom e Maggie, o Victoria che, diventata madre, prenderà saldamente in mano la propria vita, allontanandosi da Holt per studiare; ma tornando a far visita agli amati Harold e Raymond ogni volta che potrà. Faranno la propria comparsa Luther e Betty, incapaci di badare a se stessi e ai propri figli ma capaci di muovere il lettore a compassione, perché compassionevole è chi li ha inventati; e poi Rose Tyler donna fuori dal comune che sa stare al mondo, sa aiutare e sa ballare. E l’amicizia tra due ragazzini creerà, come sempre sanno fare i più piccoli, codici più saldi di quelli degli adulti.

La polifonia della pianura ci porta nei sentieri di Haruf che sono fatti di speranza per l’umano e dal senso di appartenenza a una comunità; di come una piccola comunità possa distruggere qualcuno e salvare qualcun altro. A Kent Haruf stanno a cuore il tempo e le persone, i comportamenti di uomini e donne davanti a situazioni impreviste e come si muovono nelle cose di tutti i giorni,e per raccontarlo mette in scena un grande spaccato della provincia americana, grazie a una splendida prosa e a uno sguardo mai cinico.

 

Prosa precisa e diretta che andrà asciugandosi nei romanzi successivi. Di questi primi due romanzi non ci toglieremo mai più dalla testa Harold e Raymond, i due burberi dal cuore d’oro; due vecchi sempre pronti a rimettere tutto in gioco per dare una mano, per far sì che la vita prosegua. Due vecchi capaci di prendersi cura delle persone. Li lascio con una citazione di un bellissimo passaggio di Crepuscolo, quello in cui Rose insegna a Raymond a ballare.

 

“No signora. Non riesco a pensare al ritmo e a non pestarle i piedi allo stesso tempo. Ascolti la musica. Ci provi, almeno. Iniziò a contare il tempo a bassa voce, guardandolo in faccia, e lui le restituì lo sguardo, soffermandosi sulle sue labbra. Aveva un’aria concentrata, quasi sofferente, e si teneva indietro per non starle troppo addosso. Si muovevano nella pista tra gli altri ballerini. Rose continuava a contare. Fecero un giro completo. Poi la canzone finì. Bene, grazie, disse Raymond. Adesso mi sa che è meglio se ci sediamo. Perché? Sta andando bene. Non si è divertito? Non so se divertito è la parola giusta. La donna sorrise. Lei è un uomo gentile, disse. Non so neanche questo, rispose lui. Il gruppo riprese a suonare. Oh, disse lei. Un valzer. Il tempo è tre quarti. Se lo dice lei. Rise. Si lo è.”

 

Ph: Aows. 

 

Benedizione

Il primo ribaltamento riguarda il subentro della malattia e della morte, inevitabili conseguenze dello scorrere del tempo. Un’altra importante differenza rispetto ai primi due romanzi è l’ambiente in cui si susseguono i capitoli.

Gran parte della storia si svolge nella casa del protagonista e nel suo negozio di ferramenta (negozio che – come sappiamo – nelle piccole cittadine americane vende quasi tutto, comunque molto più di un martello o di un cacciavite) e conta molto più quello che è accaduto rispetto al poco che sarà. Sono le ultime settimane di vita di Dad, è una caldissima estate in Colorado. Dad, assistito da Mary, sua moglie, e da Lorraine, sua figlia, vedrà i suoi giorni scemare come quando il pomeriggio si fa crepuscolo e poi notte fonda. Dad trascorrerà le giornate dalla camera da letto alla poltrona, dalla poltrona al portico. Passeranno a trovarlo gli amici, i vicini.

Gli faranno visita ricordi e rimpianti; dolori forse più duri da sopportare di quelli provocati dal cancro. Gli farà visita il peso dell’assenza del figlio, andatosene via troppo tempo prima; fuori dalla sua casa si svolgeranno altre piccole ma significative vicende come quella di un prete cacciato da Denver, esi parlerà di pregiudizio e di relazioni. Il fisico cederà lentamente, giorno dopo giorno. Resisterà, d’altro canto, una compostezza interiore, un’idea di rettitudine – qualche volta sbagliata – ma impossibile da cambiare per chi è nato da troppi anni e ha soltanto lavorato, per chi è vecchio e sta per morire. Dad è stato un uomo duro e, a suo modo, giusto e buono, sappiamo poco del suo prima, eccetto qualche piccolo flash, ma dell’uomo che è stato e che è ci diranno Mary e Lorraine.

 

Ce lo spiegherà Haruf attraverso la tenerezza di chi assiste e si prepara alla morte di un caro aggiungendo amore come se fosse una coperta in più, perché è così che ci si prepara a un distacco, stando più vicini possibile. Benedizioneè una storia che salva. Rispetto ai primi due romanzi qui accade molto poco, ma quel poco è ogni cosa. Il perdono, l’amore, il rimpianto, il rimorso, il dolore, la malattia, il silenzio; Haruf scrive la storia perfetta asciugando tutto il superfluo e riuscendo a mostrarci tutto il cuore umano mentre fuori dalla casa di Dad non si muove una foglia. Disegna la simbiosi perfetta tra uomo e territorio con dialoghi brevi; qui ogni parola o gesto tendono all’indimenticabile.

 

“Sembra una specie di benedizione, una benedizione a doppio taglio, disse Lyle. Dad lo guardò. Eh, sì. Un sacco di volte le benedizioni non sono andate per il verso giusto. Deve averne viste parecchie nel corso della sua vita. Sono cresciuto in Kansas, nelle pianure occidentali. Ne ha visti di cambiamenti. Giusto un paio.”

 

 

Le nostre anime di notte

Fabio Cremonesi (l’ottimo traduttore di tutti e quattro i romanzi) nella nota in coda al libro marca due differenze sostanziali con i precedenti libri; sottolinea l’importanza del tempo e l’urgenza che vive Haruf sapendo di non averne molto a disposizione e un’ultima storia che andava raccontata. E, ancora, Cremonesi spiega che Haruf nei primi tre romanzi si è occupato – a suo avviso – della Working class, tracciandone un’epopea mentre nel quarto romanzo ha messo in scena un’elegia della Middle class.

 

Sono d’accordo con Cremonesi, ma c’è dell’altro. Le nostre anime di notte pur non avvicinandosi alla perfezione di Benedizione, proprio per l’urgenza con cui è stato scritto, ha con quel libro molti punti in comune: il rimpianto e la presenza della morte, che incombe negli “ormai è troppo tardi”, per esempio. È accaduto molto di più di quello che potrà ormai accadere. Addie e Loius provano a battere il poco tempo rimasto prendendolo per mano e tenendosi per mano. Sono entrambi vedovi. Addie una sera va a casa di Louis e gli chiede di andare a dormire da lei, da quella notte, per farsi compagnia, per raccontarsi la vita. Così faranno e funzionerà per un bel pezzo. Naturalmente nella piccola comunità di Holt questa relazione non piacerà, come non piacerà ai figli dei due. Sono considerati scandalosi, loro due, anziani in pigiama che si tengono per mano e si raccontano quel che è stato.

Addie e Louis sono altri due personaggi straordinari, fanno venire voglia di invecchiare.

 

Questo libro è per i lettori di Haruf una specie di carezza. Se prima avevamo visto la vita e la morte e la malattia qui vediamo – nella vecchiaia – un meraviglioso tentativo di rinascita; è come se la vera “benedizione” si sciogliesse tra le mani di due vecchi che è tutto quello di cui abbiamo bisogno. Anche tra queste pagine le frasi sono dirette, i protagonisti sono soltanto due, molto si svolge in una camera da letto.

 

“È così che iniziò? Sì, il giorno della dichiarazione dei redditi. Sembra una follia, no? Non so. Queste cose succedono nei modi più strani. Tu ne sai qualcosa. So come accadono le cose nella vita delle persone. Lo spieghi anche a me? Magari. Un giorno o l’altro.”

 

Haruf è partito con dieci carte da gioco, poi le ha ridotte a sei, poi a quattro e infine a due, e non ha mai sbagliato una mano. Ha inventato un luogo che non c’era e ci ha raccontato che quel luogo avrebbe potuto appartenerci; ci ha lasciati nella stanza da letto di Addie, dopo averci portati nella fattoria di Harold e Raymond, nel negozio di ferramenta e nella casa di Dad, in giro in bicicletta a portare i giornali con Ike e Bobby, ci ha portati a casa.

 

Libri:

Benedizione, NN editore, 2015.
Canto della Pianura, NN editore, 2015.
Crepuscolo, NN editore, 2016.
Le nostre anime di notte, NN editore, 2016.

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Kent Haruf

La possibile collaborazione tra pubblico e privato

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Fa sempre piacere trovarsi di fronte a persone che, nonostante i numerosi titoli e incarichi ottenuti, si dimostrano disponibili, entusiaste del proprio lavoro e anche molto umili (nel senso nobile del termine). È il caso di Ilaria Bonacossa, classe 1973, milanese di nascita, con una laurea in Storia dell’Arte conseguita all’Università Statale di Milano e un Master in Curatorial Studies al Bard College di New York.

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Nietzsche e il Tristano

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Wagner rappresenta una parentesi relativamente breve nella vita di Nietzsche, pochi anni (1869 – 1872) che si possono circoscrivere al periodo in cui, dalla vicina Basilea, frequenta assiduamente Tribschen, la villa sul lago di Lucerna dove Wagner si rifugia insieme a Cosima (figlia di Franz Liszt) dopo lo scandalo scoppiato a Monaco di Baviera per la loro relazione clandestina. Anni in cui un giovane Nietzsche è anzitutto fiero di sentirsi intimo amico del musicista tedesco più celebrato d'Europa che lo ospita a casa sua, lo capisce e lo apprezza (così scriverà molti anni dopo in una lettera Franz Overbeck: “Wagner è stato l'unico, o per lo meno il primo, ad avere la percezione di ciò che si agitava dentro di me.”). Anni in cui subisce fortemente la personalità e il fascino di Cosima, quell'Arianna a cui indirizzerà l'unico “ti amo!” che ebbe mai l’ardire di scrivere a una donna.

 

È curioso notare come dalla lettura dell'epistolario le grandi opere di Wagner restino quasi sempre sullo sfondo. Opere per le quali in alcuni casi esprime apertamente i propri dubbi: “in Walkiria, a grandi bellezze e virtutes fanno da contrappeso altrettante grandi bruttezze e difetti”. Oppure, in un’altra lettera: “in molte cose gli do ragione specialmente là dove egli [Hahn] considera Wagner come il rappresentante di una forma moderna di dilettantismo, che assorbe e digerisce tutti gli interessi artistici”. Quella che a Tribschen si trasformerà presto in ardente venerazione, qualche anno prima è addirittura cinica irriverenza, anche sul piano personale: “Wagner permette che il re [Ludwig di Baviera] ‘il grazioso protettore della sua vita’, come è detto nella dedica, gli faccia di quando in quando visita. Del resto, non ci sarebbe alcun male se ‘il re andasse con Wagner’ (nel senso più sfacciato della parola andare), naturalmente però in cambio di una decente rendita vitalizia”.

 

Vi è una sola opera di Wagner verso la quale Nietzsche esprimerà solo piena adesione per tutta la vita: Tristano e Isotta, “l'opera capitale”, “l’opera risanatrice”, il “non plus ultra”.

 È il 1862 quando, non ancora diciottenne, inizia la suo lungo cammino verso quell’opera. Letta al pianoforte insieme all'amico Gustav Krug tra Naumburg e Pforta, diviene subito l'opera simbolo che lo condurrà alla devozione per Wagner: “dal momento in cui apparve una riduzione per pianoforte del Tristano, fui wagneriano” ricorderà 25 anni dopo in Ecce Homo.

Non è un fatto marginale che il primo contatto con Wagner sia stato solo strumentale. Ancor più che dall'opera nel suo insieme, Nietzsche viene totalmente soggiogato dal “fascino pericoloso” e dalla “dolce e tremenda infinitezza” di quella musica senza il canto, letta e riletta al pianoforte. Quei suoni, quelle armonie sembrano la sintesi estrema di quell'anelito vitale da suscitare “in somma eccitazione” solo attraverso quella musica.

 

 

Questo a conferma di un temperamento che fin da ragazzo è certamente anti-teatrale. Alle voci preferisce gli strumenti, all'opera lirica l'oratorio, come se in ogni esperienza artistica volesse che “nessun altro senso, eccetto l'udito, venisse sollecitato”. 

Nell'ottobre del 1868 per la prima volta ha occasione di ascoltare a Lipsia il suono dell'orchestra wagneriana nell'esecuzione del preludio del Tristano e dell'ouverture dei Maestri Cantori. Ancora una volta una musica senza dramma che lo rapisce al punto da scrivere la sera stessa a Erwin Rohde : "... mi riesce impossibile mantenermi freddamente critico a contatto con questa musica: ogni fibra, ogni nervo vibra in me...". Commenti quasi fisiologici di un corpo scosso dalla forza di quei suoni. Solo nel 1872, dieci anni dopo averla conosciuta al pianoforte, riuscirà ad assistere a una vera rappresentazione teatrale dell'opera a Monaco di Baviera, in una produzione diretta da Hans von Bülow. Di questa rappresentazione Nietzsche parla in un breve frammento postumo dove si sofferma a commentare l'allestimento in termini apollinei, evidenziando la perfetta “plasticità” della scena che è stata in grado di “mantenere una pacata grandezza” attraverso “gruppi plastici, per lo più fermi”. Una sorta di elogio all'immobilismo di un palcoscenico che solo smarrendo il movimento naturalistico, la dinamica del racconto visivo, può sottomettersi alla musica così importante ed elevata da imporre la ricerca di una corrispondente “elevatezza nelle posizioni e nelle disposizioni dei gruppi”.

 

Un legame essenzialmente strumentale, così forte e radicato nella sua sensibilità di musicista, che lo porterà a scrivere ne La nascita della tragedia: “Si può immaginare un uomo capace di ascoltare il terzo atto del Tristano senza il supporto del canto, come una gigantesca sinfonia, senza che la sua anima esali l’ultimo respiro in un doloroso spasimo? Una persona che abbia, per così dire, posto l'orecchio vicino al ventricolo della volontà del mondo, e che da lì senta riversarsi in tutte le arterie del mondo il desiderio furioso dell'esistenza, fiume tonante o delicatissimo ruscello, non dovrebbe spezzarsi di colpo?”

L'invito ad un ascolto solo strumentale come unica possibilità per giungere all'origine di quel “desiderio furioso dell'esistenza” e la ricerca di un uomo, nel quale certamente lui si identifica, capace di correre il rischio di affidarsi interamente alla musica senza l'apparente “protezione” del dramma, della parola, sono elementi che attestano quanto Nietzsche si sentisse vittima felice di questa partitura. Parole non tanto dissimili da quelle che, mosse da una prospettiva opposta, ritroveremo nelle ultime riflessioni sul Tristano in Ecce Homo.

 

Attraverso il Tristano Nietzsche si immerge nella musica e da lì, nel pensiero e nella vita di Wagner con un'intensità ed un trasporto che lo porteranno ad una sorta di idolatria per questo musicista che in quegli anni identifica come l'unico genio capace di una prospettiva universale, di quell'opera d'arte totale, rigenerante e fondatrice di una società nuova.  

 

L'idea di una “rivoluzione culturale” che scaturisse da un'opera simbolo come Tristano e Isotta sarà poi alla base del lungo processo che porterà alla nascita del Festival di Bayreuth.

“Per noi Bayreuth significa la consacrazione mattutina nel giorno della battaglia. Non ci si potrebbe far torto maggiore di quello di supporre che a noi interessi l'arte soltanto: quasi essa dovesse agire come un farmaco o un narcotico con cui liberarsi di tutte le altre miserie. Nell'immagine di quell'opera d'arte tragica di Bayreuth noi vediamo appunto la lotta degli individui contro tutto quel che si oppone loro come necessità apparentemente invincibile, contro il potere, la legge, la tradizione, la convenzione e gli interi ordinamenti delle cose.”

 

Queste sono le premesse ideologiche che precedono la nascita di Bayreuth. Immaginato come il luogo dello scontro culturale, della rigenerazione di un popolo, il luogo simbolo di quell'unità dell'opera d'arte, tanto dionisiaca che apollinea, il luogo nel quale coagulare quella forza propulsiva contro tutto ciò che si oppone a quel cambiamento. Il luogo dove radunare quegli “uomini inattuali che hanno la loro patria altrove che in quest'epoca”.  Solo una “via eroica” valeva la pena di essere vissuta ed il filosofo aveva la responsabilità di indicarla e di preparare gli uomini a percorrerla. 

 

Un piglio sicuro e determinato che forse appare eccessivamente declamatorio per la fragile sensibilità nietzscheana. In Wagner a Bayreuth stupisce infatti il passo e l'enfasi di una prosa che sembra quasi smarrire quell'autentico ritmo poetico, quella forma metrica musicale che caratterizza gli scritti di Nietzsche fin dai suoi esordi letterari. Lo stile e l'accentuazione retorica, da ventriloquo di Wagner, contrasta in modo radicale anche con la diversa sensibilità che traspare dalle lettere di quel periodo nelle quali si manifestano più i dubbi e le incertezze, la consapevolezza di sentirsi chiamato ad un compito che ormai non gli appartiene più. Così scrive il 7 ottobre 1875 all’amico Erwin Rohde: “Mio carissimo amico […] la mia Considerazione dal titolo Richard Wagner a Bayreuth non verrà stampata, è quasi pronta, ma io sono rimasto molto indietro rispetto a quel che esigo da me stesso [...]. Non ne vengo a capo, e mi rendo conto che neppure io sono riuscito a orientarmi del tutto – non parliamo poi di essere d'aiuto ad altri!”

 

L'interno del Festspielhaus di Bayreuth. 

 

Che fosse necessaria la musica affinché “il tempo della piccola politica” potesse trasformarsi nel tempo della “grande politica”, in quell'Europa dell'avvenire nella quale sentirci semplicemente, in una parola, “buoni europei”, fu un pensiero che, nonostante il fallimento di Bayreuth, Nietzsche non abbandonò mai del tutto. Questo immenso disegno inizia a rendersi irriconoscibile proprio nel momento della sua consacrazione, nelle giornate di preparazione alla grande inaugurazione del 1876.

 

Sono tre le lettere inviate alla sorella nelle quali si coglie il profondo disagio vissuto da Nietzsche a Bayreuth. Giorni che aveva immaginato come decisivi per un’intera civiltà e che oggi vive solitario con orrore e tormento. Tre lettere datate 28 luglio, 1 agosto e 6 agosto 1876: 1. Bayreuth: “Mia buona e cara sorella, ora va meglio, da tre giorni non posso lagnarmi delle mie condizioni.[…] Io però debbo raccogliere tutte le mie forze e respingo tutti gli inviti, anche dai Wagner. A Wagner è parso che mi facessi prezioso.”; 2. Bayreuth: “Ho voglia di andar via, è troppo assurdo che io rimanga. Ogni volta ho orrore di queste lunghe serate artistiche; eppure non riesco a starne lontano. […] Io ne ho abbastanza. Non voglio assistere nemmeno alla prima. Da qualsiasi altra parte, ma non qui, dove per me c'è solo tormento”; 3. Klingenbrumm: “Carissima sorella, spero che tu sia a Bayreuth. […] Io so per certo che là non posso resistere, anzi veramente avremmo dovuto saperlo prima. Qui voglio restare, forse per 10 giorni, ma non voglio ritornare passando da Bayreuth. [...] Oltretutto mi tormenta anche una terribile diarrea.” 

Tre brevissimi scritti, tre frammenti che tratteggiano chiaramente la realtà di quelle giornate, il travaglio fisico di un uomo ancora magicamente attratto da quella musica, da quell'orchestra “d'oro liquido”, ma al tempo stesso sconfitto, estraneo a quel mondo nel quale si esibiva la variegata umanità del nuovo impero tedesco.

 

Ritorna più lucidamente su quei giorni due anni più tardi in una lettera a Mathilde Maier: “quell'annebbiamento metafisico di tutto quanto è vero e semplice, la lotta con la ragione contro la ragione, per cui si vuol vedere in tutto e ovunque un prodigio e un'assurdità – inoltre, in piena conformità con essa, un'arte barocca della tensione spasmodica e dell'esaltazione dell'eccesso – intendo l'arte di Wagner – sono state queste le due cose che alla fine mi han fatto ammalare sempre di più e quasi mi avrebbero alienato dal mio sano temperamento e dal mio talento […] Durante l'estate a Bayreuth presi di ciò pienamente conoscenza: dopo le prime rappresentazioni cui assistetti cercai scampo sulle montagne”. Così anche in un frammento postumo di Umano troppo umano dello stesso anno: “Il mio errore fu di andare a Bayreuth con un ideale: così dovetti subire la più amara delusione. L'eccesso di bruttezza, di caricatura, di droga mi respinse con violenza”. Parole ancora sofferenti che ci descrivono un contesto ben diverso da quello vissuto da Nietzsche il 22 maggio 1872, quattro anni prima dell’inaugurazione, quando volle in tutti i modi essere presente alla posa della prima pietra di Bayreuth in una cerimonia solenne, quasi religiosa. Il teatro dell’adempimento in pochi anni era ormai divenuto il luogo “dove raccattare tutte le canaglie sfaccendate d'Europa”, dove Wagner, da Eschilo di Tribschen, si era ormai trasformato nel Cagliostro di Bayreuth. 

 

Nietzsche abbandona quindi Bayreuth, si distacca da Wagner ma non riesce ancora ad allontanarsi dal Tristano. La lettura delle ultime pagine che gli dedicherà in Ecce Homo ci aiutano a comprendere, più di ogni altro scritto, come dopo molti anni, la natura di quel godimento fosse ancora immutata nella sua originale potenza. Ormai lontano da quel mondo, riesce a contrapporre un corpo più forte nella sua capacità d'ascolto. Un corpo ormai risanato dalla luce mediterranea in grado di subire il fascino “malato” di quelle pagine senza soccombere nuovamente tra le magiche spire di quelle melodie infinite: “Ancora oggi vado in cerca di un’opera che abbia il fascino pericoloso, la dolce e tremenda infinitezza del Tristano– la cerco in tutte le arti, e invano […] il mondo è povero per chi non è mai stato abbastanza malato da godere di questa voluttà dell’inferno”.

 

Nonostante fino agli ultimi giorni di vita cosciente siano molte le tracce nelle quali è ancora presente il lontano ricordo di Wagner, il definitivo distacco, la vera liberazione da quella idealità avviene solo la notte di San Silvestro del 1878: l'ennesimo capodanno vissuto da Nietzsche come “momento per formulare proponimenti decisivi”. Quella notte, sentendo di poter “riprendere la propria strada”, trova la forza per separarsi dal suo spartito del Tristano e Isotta, quello donatogli da Wagner con una sua dedica nel 1869. Decide di regalarlo a Heinrich Köselitz il “nuovo amico” musicista che gli sarà fedele compagno per il resto della vita. Poche righe di accompagnamento che sanciscono il definitivo commiato da quella musica: “questo spartito darà più frutti nelle sue mani, mio caro amico Köselitz, che nelle mie: certo esso aspira da tempo a un proprietario e discepolo dell'arte più degno di quanto sia io, sempre che in esso sia rimasto qualcosa dello spirito del grand'uomo che me l'ha dato”.

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Da quel momento fui wagneriano

Elogio dell’Occidente

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Franco La Cecla ama provocare e spesso lo fa in modo intelligente e originale. Lo aveva già fatto in Contro l’architettura, lui, architetto di formazione, scagliandosi contro le cosiddette “archistar”. Questa volta il percorso controcorrente lo ha portato a criticare le critiche che spesso vengono mosse, proprio dagli occidentali, e in particolare dagli antropologi, categoria di cui l’autore fa parte, all’Occidente stesso. Una delle caratteristiche del sapere antropologico è di fondarsi su un approccio relativistico, che non solo ha portato a dare pari dignità a tutte le culture espresse dalle diverse società umane, ma che spesso ha messo sotto accusa l’etnocentrismo e in particolare quello occidentale.

 

Pur non essendo una specificità dell’Occidente, l’etnocentrismo di questa parte di mondo è però quello che, almeno in epoca moderna, ha condizionato in modo più pesante il resto del pianeta. In un suo libretto del 1953 dal titolo Il mondo e l’Occidente lo storico inglese Arnold Toynbee scriveva: «Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è il mondo che è stato duramente colpito dall’Occidente (…) L’Occidente è stato l’aggressore capitale dei tempi moderni, e ciascuno gli potrà rinfacciare la propria esperienza di tale aggressione».

La Cecla non è del tutto d’accordo. Denuncia le colpe dell’Occidente, sia ben chiaro, ma ci avverte: attenzione, non dimentichiamone le conquiste. L’autore denuncia una certa attitudine di molti studiosi occidentali a manifestare una sorta di sentimento di odio nei confronti del proprio continente, inteso in senso culturale. Un atteggiamento che sembrerebbe portare a gettare via il bambino con l’acqua sporca. L’esotismo, altra malattia infantile del pensiero occidentale, conduce a volte anche molti antropologi a dimostrare una certa caritatevolezza nei confronti di altre culture, che vengono così ammantate di un’aura romantica, fingendo spesso di non vederne le contraddizioni o gli aspetti meno edificanti.

Il percorso dell’autore si sviluppa partendo ora da episodi personali, ora da considerazioni generali di carattere storico, antropologico, politico.

 

Ph Michael Wolf.


Non a caso La Cecla inizia il suo cammino partendo dall’India, che ha occupato e occupa ancora un posto di primo piano nell’immaginario esotico occidentale e ricorda, attraverso le parole di Jawaharlal Nehru, Gandhi e di scrittori contemporanei come Amitav Gosh e Dipesh Chakrabarty, come la cultura indiana abbia anche creato una rigida gerarchia castale, i roghi delle vedove sulla pira del marito defunto e spesso condizioni drammatiche di vita per il popolo indiano.

La Cecla è troppo acuto e sensibile per dimenticare i danni fatti dal colonialismo inglese e non solo, ma punta tutto su una parola: “nonostante”. Parte da un’idea, che può anche apparire un po’ cinica, ma senza dubbio realistica: non viviamo in un mondo perfetto e facendoci largo nella selva delle cose criticabili, cerchiamo di salvare quanto di buono è stato prodotto. E l’Occidente, secondo l’autore, nonostante la sua lunga storia di fallimenti, nefandezze e prevaricazioni, avrebbe gettato le fondamenta di principi universali come la libertà individuale, il diritto e la separazione tra religione e politica.

I trentacinque capitoli, che sembrano le tessere di un mosaico, poco a poco vanno a formare l’immagine, non certo perfetta, di una parte di mondo in cui, “nonostante” i gravi errori, c’è molto da salvare e da difendere e sarebbero queste caratteristiche ad attirare molti migranti verso l’Europa.

Forse questa posizione potrebbe essere discussa e a mio parere è più il sogno di un riscatto economico a muovere migliaia di esseri umani, che non un modello culturale, ma non dimentichiamo che le due cose non sono disgiunte.

 

L’invito che percorre tutto il libro è di provare a guardare all’Occidente, non solo dal suo interno, ma dal di fuori, insieme al resto del mondo e di tentare di cogliere i tratti migliori di ogni parte dell’umanità. A questo si potrebbe obiettare che non tutti potrebbero riconoscere l’universalità di certi valori, ma senza dubbio è uno sforzo che va fatto. Correndo sempre sul filo della lama, La Cecla si sposta in diverse parti del mondo, dalla medina di Tunisi, ai monti del Caucaso, dall’India alla Cina, proprio per guardare a noi con sguardi incrociati. Il risultato è convincente, nonostante qualche leggero scivolone, come quando afferma che l’India sarebbe un paese autoreferenziale, stupendosi della scarsa conoscenza di una regista indiana di Caravaggio e della pittura italiana. Quanti registi italiani o europei conoscono pittori o musicisti indiani del passato?

 

Il profondo sapere antropologico (e non solo) di La Cecla ci porta però a una visione più ampia e profonda, che finisce con l’interrogarsi sull’Europa di oggi, sulla crisi del modello capitalistico-finanziario, rispetto alla quale uno sguardo più allargato risulterebbe sicuramente utile. Anche per ricuperare quel sapere occidentale da salvare, provando a ri-separare l’apparato politico-militare-finanziario dell'Occidente dalla sua, per usare parole dell’autore, «costellazione culturale e deposito di umana esperienza».

Sarà l’immigrazione che ci salverà? Forse sì, se l’Europa, unita, saprà ritrovare e mettere in pratica quei valori che ha prodotto e di cui non sempre deve avere paura.

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Gianni Scalia. Dionisiaco anche negli errori

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In quel periodo il nome che era meglio non fare a casa di Gianni era quello di Franco Fortini, suo acerrimo nemico accademico. Credo che avesse osteggiato la sua nomina a professore di alto livello ma è questione che non so e non voglio definire più esattamente.

Non conoscevo il lato accademico di Gianni, sono stato suo allievo de facto anche perché vicino di casa. Da via dello Scalo a via Riva di Reno erano cinque minuti a piedi. Salivo da lui e mi accomodavo tra i libri, che erano l’unico mobilio del grande appartamento. Non c’erano mobili in quella casa, e se c’erano erano coperti di libri, a decine e decine di migliaia, fino al soffitto e dovunque. Era in causa con il condominio per seri pericoli di crolli, tanto che il comune gli aveva offerto una sistemazione altrove.

 

Non conoscevo Fortini di persona, ma lo avevo letto, e mi era capitato di incontrarlo insieme ad altri aspiranti scrittori. Questo è il ritratto di Gianni Scalia e non voglio fargli il torto di inserirci surrettiziamente quello di Fortini! Ricordo però che pensai: “Ma caro Gianni, proprio Fortini dovevi sceglierti come nemico?!”. Di Fortini in realtà non saprei dire proprio nulla. Mi era sembrato irraggiungibile e coltissimo, per nulla interessato (e forse giustamente) a noi giovani scribacchini. E soprattutto mi era sembrato assai tosto, come persona, uno che sapeva e voleva intimidire gli altri

Per Gianni la carriera accademica consisteva in alcune notti passate in un albergo ingiustamente stellato di Siena, dove gli spifferi e l’umidità gli infliggevano notti spaventose. Soffriva moltissimo di mal di schiena, e anche di altri acciacchi alle ossa. Il suo letto assomigliava a una barella, aveva uno strano aspetto ospedaliero, e naturalmente era immerso nei libri. Il comodino, con tanto di lampada professionale sopra, era un cubo di libri, forse un’intera enciclopedia.

Spesso i nostri dialoghi (o monologhi) cominciavano con la descrizione di queste notti dantesche. Immaginavo la città che brillava nel gelo, e Gianni dolente che l’attraversava coprendosi meglio che poteva, con coperte e sciarpe, con tutto quello che sviluppava calore.

 

Ma presto l’università svaniva dai suoi pensieri e cominciava a raccontare. Le sue riviste, i convegni, gli articoli letti, si confondevano con ricordi antichi di Pasolini e Roversi. Per me era come parlare con uno che aveva passato decine di sere con i Beatles. A volte il pomeriggio si prolungava. Mi invitava a cena al ristorante e poi magari si ricordava di dover partecipare a un dibattito. Ne ricordo uno abbastanza clamoroso. Durante la cena gli era tornato in mente un appuntamento. E aveva detto a me e a Roberto Bergamini: “Dirò due parole su Pasolini…per me è un impegno morale, se mi chiamano a parlare di lui dico sempre di sì.” Roberto gli chiese notizie sugli organizzatori della serata e lui fu vago: “È una professoressa qui di Bologna, sono il circolo Europa, mi pare si chiamino…”

 

Gianni amava il momento del convivio e gli piaceva brindare. Diceva spesso: “Brindiamo e mandiamo in frantumi i bicchieri, via!” Lo diceva ad altissima voce, aprendo il suo sorriso dionisiaco, e i camerieri si allarmavano. Insomma arrivò, scortato da noi, un po’ allegro alla conferenza. Presieduta da una onorevole professoressa all’epoca molto nota, già un po’ seccata per il leggero ritardo. Mi sembra di ricordare un piccolo pubblico standard da conferenza bolognese. Guardando i manifesti appesi al tavolo degli oratori io e Roberto avevamo già colto la tragedia che si stava profilando ma non potevamo più evitarla. Gianni partì a ritmo sostenuto con un ricordo pasoliniano. Ma dopo alcuni minuti la professoressa-onorevole lo interruppe. “Scusi professore, ma qui staremmo parlando di Europa…”. E così Gianni venne a capo dell’equivoco, e sistemando la cravatta e facendo brillare il sorriso dionisiaco ammise l’equivoco e se così posso dire lo trasformò in metafisica dell’equivoco. Prendendo atto che il circolo “Pasolini” lo aveva invitato a parlare della comunità europea come istituzione, si avventurò in uno dei discorsi più oscuri e affascinanti che avessi mai sentito. Aveva una capacità di improvvisazione straordinaria, sostenuta da una memoria prodigiosa... Eh sì, ora la mitica Europa cavalcava il suo toro bianco davanti alla sala sbigottita. La professoressa si infuriò e scoppiò una lite. “Che donna stupida” disse Gianni uscendo. Sono passati decenni da quella sera e ancora la ricordo. Sono sicuro che Gianni l’avrà dimenticata il giorno dopo. Nella sua aneddotica figuravano esibizioni ben più clamorose, che qualcuno forse trovava un po’ fantasiose. In realtà posso testimoniare che Gianni non diceva il falso. Ma spesso le sue superbe invettive non le capiva nessuno! “Amici non più amici, nemici non più nemici…” aveva dichiarato a dei suoi attoniti colleghi.

 

Sono sicuro che con il suo spessore filosofico mi perdonerà se insisto ancora sul ruolo dei libri nella sua vita. Banale dire che erano la sua vita. Li leggeva e li ricordava bene. Ma non ricordava dove li riponeva. Quindi se doveva controllare una citazione si alzava e andava a comprarne un’altra copia. Con tutta la naturalezza del mondo. Inutile combattere contro di loro, sembrava dire voltando le spalle al suo infinito labirinto di libri irraggiungibili. “La Pléiade è tutta laggiù…” diceva indicando un punto non proprio preciso.

 

Mi offrì non so più quante cene, in ristoranti che mai avrei potuto permettermi. Gianni era molto generoso. Ricordo una sera, più intensa di altre. Gianni volava alto, citava Eraclito nella sua bellissima lingua, e a un certo punto (finalmente, si potrebbe dire) mi sentii in colpa e gli dissi qualcosa del genere: “Gianni stai facendo filosofia davanti a me, stai scrivendo un libro bellissimo… perché non lo scrivi davvero? Perché perdi tempo con me che sono soltanto uno studente?” Gianni non la prese come una critica, e mi rispose con grande semplicità e con un ampio sorriso da Gatto nel paese delle Meraviglie. Lo diceva a me perché voleva dirlo a me. C’era una dissipazione in tutto questo ma in fondo non c’era. Mi rispose insomma con un gioco di prestigio, con uno dei suoi trucchi verbali. Stava lavorando al De Anarchia, e sapeva che gliel’avrebbero fatto pagare. “Bere lo champagne e gettare via il bicchiere!” questo bisognava fare.

 

 

Era fatto così. Dionisiaco in tutto, anche negli errori. Gli capitava di invaghirsi di un filosofo e si metteva in treno per andare a conoscerlo a centinaia di chilometri di distanza. Quando tornava sorrideva di sé e raccontava: “Appena mi sono seduto nel suo salotto professorale dove mancavano solo le pattine mi sono detto: sto incontrando un cretino!” Il grande filosofo della settimana prima svaniva per sempre dai nostri discorsi. La scrittura poteva essere ingannevole, alcuni sviluppavano una certa abilità imitativa ma in realtà non avevano niente da dire. Il presente era melmoso e ingannevole, bisognava esser morti da moltissimo tempo per essere capiti.

 

Gianni voleva conoscere tutti quelli che scrivevano. Anche gli sconosciuti. Mi era capitato di mostrargli delle poesie di una poetessa romagnola, brava ma schizofrenica e lui se ne era innamorato e volle conoscerla a tutti i costi. Lei si chiamava Mariangela. Un vero talento, purtroppo devastato dalla malattia, che l’avrebbe portata a una fine tragica di lì a poco. Di solito Mariangela si trasformava in uomo verso sera, ma anche da Gianni volle venire nella sua versione maschile. Gianni le carpì i fogli che aveva portato e lesse, anzi interpretò, un intero poema guardando l’autrice negli occhi. Purtroppo a Mariangela sfuggivano commenti inconsapevoli. Parlava tra sé ma a voce ben udibile: “Che cazzo ci faccio qui con questo vecchio trombone!” L’incontro non ebbe seguito. Ma Gianni si commuoveva quando gli raccontavo le telefonate di Mariangela. Che si innamorava di giovani studentesse e poi le chiamava a casa, avventurandosi in dialoghi impossibili. “Amo sua figlia disperatamente…” diceva. E poi ispiratissima aggiungeva: “La prego signora, dica ancora Contronatura… la prego!” Gianni faceva un gesto con la mano verso l’alto, in questi casi, un segno alla Sraffa per capirci. Per dire che c’è sempre una variabile impazzita, nella realtà, al di là di ogni logica.

 

NdA: Preciso che questo ritratto nasce dall’esperienza di un ragazzo di ventidue, ventitré anni. Ho frequentato Scalia alla fine degli anni settanta. In seguito, lavorando altrove, ci siamo persi di vista. Non ho mai partecipato direttamente alle imprese editoriali di Gianni e non ho mai scritto nelle sue riviste. Cosa che mi sembrava normale. Ero lì per ascoltare e lo consideravo un privilegio. Non ho mai osato mandargli un mio libro.

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Un ricordo

Lo scrittore è un calamaro

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In Arrival, il bel film che Eric Heisserer, come sceneggiatore, e Denis Villeneuve, come regista, hanno di recente tratto, con qualche necessaria libertà, dal racconto Stories of your life di Ted Chiang (ne ha già scritto su “Doppiozero” Sergio Di Lino: Cerchi e palindromi), gli alieni paiono enormi calamari. A differenza di quelli del pianeta Terra, i cefalopodi alieni hanno sette tentacoli ed eptapodo è conseguentemente il nome che film e racconto assegnano alla lingua che fa da nocciolo tematico della narrazione. Sono peraltro sette anche le dita, per dire così, con cui (nel film ma non nel racconto) si aprono le estremità dei loro tentacoli in momenti cruciali dei processi comunicativi con gli esseri umani.

 

 

Sulle prime, la protagonista, che fa di nome Louise Banks, tenta come linguista di intendere la “ratio” dell’eptapodo. Sopra tale suo carattere professionale ha molto insistito chi ha parlato del film. Si vive del resto in una temperie che nel (presunto) esperto venera uno dei suoi feticci. Non deve essere parso vero potere celebrare, con l’occasione, un’ulteriore “professionalità” che va peraltro oggi per la maggiore, in Italia.

 

A conoscenza di chi scrive, nessuno ha notato invece che, quando in conclusione il personaggio cui dà le sue sembianze la brava Amy Adams riesce nell’impresa, vi riesce semplicemente come intima ‘parlante’. Si immerge infatti nell’eptapodo e ne viene profondamente intrisa, fino a farne un elemento della sua “Erlebnis” (l’italiano “vissuto” o il francese “vécu” non ne rendono il valore; lo fa meglio lo spagnolo “vivencia”, osservò Jorge Semprún: sulla questione capiterà di tornare). Dottrina e professione ne risultano trascese. Ai nastri di partenza, Louise Banks è una linguista – e in uno stato di risentimento, se non proprio in collera con il mondo. È invece un sereno essere umano che vive dentro sé la lingua aliena a toccare infine il traguardo di una dolorosa consapevolezza.

 

La prospettiva è ispirata da un’acquisizione cruciale per lo sviluppo del pensiero moderno, di quello, naturalmente, più consapevole e riflessivo. E non solo in riferimento alla lingua, ma la lingua è quanto qui preme e di altro non si dirà, se non in quanto correlato all’esperienza linguistica.

La lingua dà forma a ciò che gli esseri umani pensano e percepiscono, in quanto parlanti e ancora prima di acquisire, in proposito, qualsiasi competenza dottrinale, la linguistica inclusa. Nelle sue diverse e variabili declinazioni, essa dà quindi forma al modo con cui gli esseri umani istituiscono il mondo intorno a se medesimi e si concepiscono in esso.

 

In proposito, già nei primi decenni dell’Ottocento, scrisse pagine splendenti Wilhelm von Humboldt. Si riflessero, un secolo dopo, in quelle di Edward Sapir, arricchendosi di ulteriori bagliori. Non si tratta di un’idea semplice, si badi bene. La si traspone in un facile relativismo linguistico, con esemplificazioni soprattutto semantico-referenziali e apparentemente sostanziate nel lessico (neve, colori e altri luoghi comuni). Lo fa una divulgazione tanto sussiegosa quanto a buon mercato. Più che divulgare, essa involgarisce ciò che tocca. Racconto e film hanno quindi tutta l’aria d’essere migliori delle prose che li hanno presi a pretesto per rinfocolare simili banalità.

 

Essi paiono appunto costruiti intorno all’idea di una “innere Sprachform”: nel modo appropriato alle opere d’invenzione, ovviamente, diverso da quello del saggio scientifico o filosofico. E la storia si conclude appunto con l’accesso di Louise Banks a una nuova consapevolezza: l’avere introiettato l’eptapodo le consente di acquisire un punto di vista diverso da quello di una linearità temporale che procede dal passato verso il presente e dal presente verso il futuro. Cos’è d’altra parte una lingua se non un punto di vista? E cos’è un punto di vista se non la metà correlativa di ciò che molti, credendola intera, chiamano realtà con un’ingenuità che sarebbe toccante se non fosse il più delle volte violenta e prevaricatrice?

 

Alla protagonista non diventa tutto presente: così è capitato di leggere in alcuni scritti di commento al film. “Presente” resterebbe infatti un tempo. Per lei, invece, tutto diventa attuale. E si tratta appunto di una prospettiva modale, non temporale. Tutto, per lei, si presenta d’improvviso sotto il modo attuale. E come attuale Louise Banks vive (dolorosamente) la sua intera “Erlebnis”.

 

Lo si precisa dal momento che sta qui, concretamente, uno degli snodi concettuali e narrativi intorno al quale ruotano racconto e film. E, di nuovo, sembra che sopra tale snodo si sia sorvolato. In effetti, la storia deflette rapidamente dalla prospettiva di individuare l’“innere Sprachform” nell’aspetto acustico dell’espressione, tanto dell’aliena, quanto dell’umana. Non è parlando con gli alieni e ascoltando la loro parola (se così si può dire) che la protagonista riesce a penetrare nel nocciolo generatore della loro espressione. Come mai?

 

Anche la fantasia umana che presiede alla composizione di un racconto di fantascienza, anche la fantasia umana più fantasiosa trova lì un limite: umano. Fuori del tempo, l’acustico linguistico non si dà. Il limite è appunto quello della linearità: concetto ovviamente d’ordine temporale e non spaziale. In essa Ferdinand de Saussure aveva appunto individuato un carattere intrinseco dell’espressione umana. Con impeccabile ragionevolezza, racconto e film tengono conto di tale limite. Si dirà che (come si è appunto appena osservato) non avrebbero potuto fare diversamente. Sapere come superare gli ostacoli opposti dalla materia, anche dalla materia del racconto, è però uno stigma dell’arte.

 

Racconto e film escludono di conseguenza ogni aspetto acustico e non si dilungano sulla lingua parlata (il film, a dire il vero, ancora meno del racconto). Portano invece in primo piano l’eptapodo scritto. Sottilmente, il racconto parla in proposito di un eptapodo B, dalla grammatica diversa da quella dell’eptapodo A. Proprio quanto al processo con cui l’eptapodo si realizza come lingua scritta accade però che racconto e film divergano crucialmente.

 

Quanto alla scrittura, gli alieni del racconto sono infatti banalmente tecnologici: ficcano un tentacolo

nel piedistallo di una sorta di televisore a schermo piatto e sullo schermo compare ciò che scrivono e che viene definito un logogramma. Fanno una cosa molto diversa e integralmente naturale, se così si può dire, gli alieni del film. Paiono calamari e, del calamaro, hanno il carattere intuitivamente pertinente, per uno spettatore umano: spruzzano un inchiostro. Lo fanno dall’estremità di un tentacolo che nell’occasione si apre (sopra lo diceva) nelle sue sette dita. Così si esprimono, si potrebbe dire, in termini peraltro strettamente etimologici: ‘premere per fare uscire’.

 

 

Sulle prime, l’inchiostro spruzzato pare diffondersi come lo farebbe in un liquido, per poi comporsi in circonferenze perfette, dai bordi interni e esterni, però, variamente sfrangiati: ecco un modo grafico per sterilizzare l’idea intuitiva di linearità. La trovata è ovviamente orientata anche a rendere il racconto visivamente più interessante e spettacolare. La sua portata narrativa è tuttavia di grande rilievo. Ha infatti un carattere simbolicamente sistematico e incide profondamente nell’interpretazione di ciò che viene narrato. Forse, dà al film valori che il racconto non ha. Non li ha o deve rinunciare ad averli. Se li avesse evocati, sarebbe diventato troppo esplicito e quindi corrivo. Insomma, come del resto si sa, un’immagine esprime il suo valore segnico meno mediatamente di come lo faccia una parola. Tale immediatezza è però già per se stessa figura e ha di conseguenza la preziosa vaghezza che si richiede all’allegoria. E qui di allegoria apertamente si tratta: una figura che lo spirito d’oggi fa fatica a elaborare, assuefatto com’è al più facile processo mentale richiesto, in senso stretto, dalla metafora.

Si noti di passaggio, a questo punto e anche solo per divertimento, che lo spruzzo sostanzia la figura da cui forse origina l'inglese “squid”, ‘calamaro’, sempre che di figura si tratti e che la parola abbia appunto una parentela con “squirt”: nell'incertezza, vagamente così pare si ipotizzi. La proprietà di contenere inchiostro sostanzia d'altra parte la figura da cui origina (e qui si è certi) il nome romanzo del mollusco. Esso è ovviamente un allotropo di “calamaio”, dal latino “calamus”, ‘penna per scrivere’, con quel diverso esito di superficie che distingue nelle parlate italo‑romanze “notaro” e “notaio”. Viene qui fuori, come comparazione formale, un esempio che torna (solo accidentalmente: ma che importa?) al tema dell’annotazione, quindi della scrittura, e al tema connesso della memoria e della consapevolezza.

 

Non accidentalmente, del resto, tali temi sono qui richiamati, a questo punto per avviarsi a concludere. Per via allegorica, si scopre infatti che la favola illustra il ruolo (ancora pieno di contenuti arcani) della scrittura e, in modo correlato, di chi la pratica consapevolmente: lo scrittore.

Lo scrittore spruzza il proprio inchiostro: si esprime. Lo dice l’ambigua parola che, nel film, porta quasi la storia verso un esito catastrofico: “arma”. Chiuso l’evo aureo della tradizione orale di una consapevolezza umana ultra-temporale, lo scrittore mette tecnologicamente e ideologicamente all’opera l’“arma” che toglie valore al tempo. Altrimenti, a un dispotico governo del genere sarebbe irrimediabilmente condannata la parola dell’umanità. Poco importa allora che cognizione e consapevolezza che ne conseguono siano impietose e, talvolta, dolorose. È il loro valore, per se medesimo, che conta.

 

Capita appunto così a Louise Banks in una scena cruciale della pellicola. Dall’immersione viene fuori profondamente mutata. Ciò che raggiunge la sua coscienza non è quanto ha vissuto o vivrà: così ha detto un’interpretazione banalmente e paradossalmente realistica del film, correlata a un’idea ingenua del tempo linguistico. È invece la sua vita tutta attuale, nel modo ultra-temporale proprio nella scrittura e nella narrazione. Ed è già questa una bella illustrazione del pretesto linguistico di ciò che il film racconta, con il sentimentalismo (tendente al funebre) tipico dei tempi e quindi contestualmente scusabile. Non c’è storia che non sia, per via della sua esistenza medesima, storia del raccontare storie e del modo di raccontarle.

 

Lo scrittore dota allora chi si intride della sua espressione dell’arma che subordina il tempo al modo. Lo mette in grado di avere una diversa cognizione della sua esperienza, di renderla attuale, al di là del tempo. C’è qualcosa in Tacito che non sia attuale? O in Montaigne? E il merito di Primo Levi non è nell’avere prospettato come attuale la sua “Erlebnis”? Ecco tre casi esemplari di calamari alieni. Chi vuole arricchisca il campionario, ma lo faccia con ironica cautela. E, visto che dello scrivere alfine si tratta, tenga presente la distinzione proposta da Roland Barthes. Da non confondere con l’“écrivain” è l’“écrivant”. Di scriventi, non di scrittori sono infatti pieni i mercati della scrittura. Proprio come quelli ittici sono pieni di totani che, agli ignari della differenza, vengono bellamente spacciati per calamari. 

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“Arrival”

Documenta a Atene

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Documenta, celebrato emblema della volontà germanica di investire denari e spazi nelle trame dell’avanguardia, dalla dimensione raccolta di Kassel approda a una delle città più tumultuose del Mediterraneo, che negli ultimi venti anni è al centro di una vicenda economica, politica e sociale molto complessa. Adam Szymczyk, il curatore, punta su una versione francescana dell’evento, con poche cene e mondanità. Tutta la città è invasa da eventi che spesso sono minimi, e non di rado difficilmente individuabili, per cui necessita di prendere appuntamento. Appartamenti in stradine vicino al Museo Archeologico (in cui nessuna delle gentilissime maschere sa dare informazioni sulla prevista installazione del rumeno-tedesco Daniel Knorr), ospitano installazioni sulla relazione architettura/politica nella tormentata vicenda ateniese postbellica, uno spazio anonimo in Tossitza Odos ha una serie di “orgasmi”, ossia oggetti in vetro curvati in modi ambigui, ispirati al guru queer Preciado, più interessante come autore (magnifico il suo Texto junkie, uscito in Italia da Fandango), che come curatore. 

 

Il punto è girare tutta la città, scoprendo luoghi inediti, musei e collezioni spesso in condizioni precarie, a cui la gran rassegna offre soccorso. In periferia, a Kifissia, i muratori aspettano a restaurare la casa-museo di Ghiannis Tsaruchis, strepitoso pittore, costumista e scenografo, legato alla memoria di Maria Callas, per cui realizzò mirabili scene e costumi di una celebre Medea a Dallas. Omosessuale, artefice di un coloratissimo mondo di marinai e di cupidi nerboruti, sarebbe contento che alacri muratori stiano rimettendo a posto la sua dimora. Quando la costruì, a fine anni ’60, era isolata in campagna, ora è nel cuore di un territorio residenziale: gli operai che tirarono su i muri compaiono tutti in dipinti e disegni, e facevano a gara per farsi fare il ritratto.

 

Le sue illustrazioni per Kavafis, magnifiche, sembra che abbiano ispirato il giovanile e magnifico lavoro grafico di David Hockney intorno al poema dedicato a Cesarione. Legato a Visconti, suo collezionista, a Bolognini, ebbe una lunga collaborazione con Lila De Nobili, con cui negli anni ’70 a Parigi inventò una paradossale accademia per l’insegnamento della pittura di icone. Tra i lavori esposti spicca specialmente il magnifico corpus delle Troiane, suo unico spettacolo come regista, di magnetica evidenza. Nel 1977, poco dopo la fine della dittatura dei colonnelli, tornato dall’esilio a Parigi, mette in scena nel parcheggio di un complesso edilizio in rovina ad Atene una versione memorabile delle Troiane: donne in nero, semplici nell’abito, vengono tormentate da soldati che per tutti erano una memoria recente e terribile. Tsaruchis ebbe legami con tutti, ma la sua prima mostra è avvenuta per l’impegno del Museo Benaki solo nel 2010. Niki Gripari, nipote dell’artista, accoglie con grande gentilezza tutti i visitatori, e racconta con affetto il profilo, le avventure dell’artista, i suoi amori, le sue ossessioni, ma anche le difficoltà della Fondazione, che Tsaruchis pensò prima della morte, soprattutto le brillano gli occhi quando ricostruisce le trame di spettacoli, che ha visto o a cui ha collaborato, come la mirabile ultima Manon Lescaut di Visconti a Spoleto nel 1973, canto del cigno per il regista e per Lila De Nobili, che decise poi di abbandonare la scena. 

 

 

Altro scrigno, incomparabile per ricchezza di materiali, è quello della casa-museo di Nikos Ghika, pittore cubista, appartenente al Museo Benaki. Qui ci accoglie uno storico dell’arte assai dotato per la narrazione, George Manginis, che offre numerosi piani per comprendere una collezione eccezionale, per vastità e complessità. Il padrone della dimora, appartenente a un' illustre famiglia, fu in contatto con molti intellettuali e artisti, amico diletto di Henry Miller (forte è la sua presenza ne Il colosso di Marussi dello scrittore americano, gioiello di viaggio riproposto qualche anno fa da Adelphi) e di Patrick Leigh Fermor (autore del celebre Mani), che ha lasciato un’altra dimora-museo nella città, sempre gestita dal dinamicissimo Benaki. Manginis sottolinea la complessità di una cultura che nel Novecento è stata segnata in modo fortissimo dalla politica, in una sequenza di guerre, disastri e contrapposizioni, a partire dalla tragica diaspora dei greci cacciati dalla Turchia nel 1922.

 

I duecento ritratti di artisti, poeti, studiosi, intellettuali spiegano un mondo in cui tutto è stato politicizzato: l’archeologia, la bizantinistica vennero orientati a celebrare una tradizione nazionale tanto difesa strenuamente, quanto spesso difficile da identificare nei suoi tratti. Anche la lingua fu un campo di battaglia tra autori di sinistra che volevano raffigurare l’idioma quotidiano (demotico) e altri, conservatori, che cercavano una difficile se non impossibile classicità moderna. Figure come Nikolaos Skalkottas, che trasferiva la musica popolare nella dimensione sonora di modelli schonberghiani, e per questo veniva marginalizzato nelle vicende musicali greche, oppure come Stratis Tériade, che fu estensore del catalogo dell’opera di Picasso, nonché editore dei surrealisti e curatore dell’influentissima rivista Minotaure, spiegano che la città, crocevia di Oriente e Occidente, seppe comunque seguire le piste dell’avanguardia. 

 

La casa Ghika, di cui colpisce il design modernissimo, opera dell’artista, con una sorta di “neoclassicismo brutalista”, fatto di spazi e volumetrie equilibratissime, realizzate però in  cemento armato, fa riflettere su come le mappe del moderno non passino solo da Parigi, ma esista anche una traiettoria meno frequentata, e che sarebbe l’ora di riacquisire in tutta la sua complessità, che tocca la Bucarest di Tristan Tzara e Mircea Eliade, la Varsavia di Witkiewicz e Gombrowicz, la Zagabria di Miroslav Krleza, e Atene, nei suoi molti incroci di figure e motivi. Il teatro e il cinema in questa vicenda hanno avuto un peso importante: nella casa Ghika spicca una cartolina di Vittorio Gasmann a Kathina Paxinou, chiamata con affetto mamacita, in omaggio al suo storico personaggio in Per chi suona la campana. Le potenti revisioni aristofanesche di Karolos Koun (famoso per una vivacissima versione di Gli uccelli), stanno insieme al profilo di Alexis Minotis e alle immagini del magnifico melodramma Stella di Michael Cacoyannis, protagonista una mirabile Melina Mercouri, scene di Ghiannis Tsaruchis che in questa casa è molto rappresentato.

 

 Nel Parco Elefteria (ossia Libertà) è ospitato uno dei più notevoli luoghi della memoria, appartato dentro il verde si trova la memoria delle micidiali azioni della Junta, ossia dei colonnelli che dal 1967 al 1974 esercitarono una micidiale dittatura in Grecia. Nelle sorprendenti sale del museo della Resistenza Antidittatoriale e Democratica i volti dei morti, spesso ragazzi, sono attaccati al muro in foto d’epoca, tra articoli di giornali ingialliti, ciclostili, oggetti realizzati in carcere.

 

Spiccano specialmente le icone barricadere di capi della rivolta rappresentati con il mitra a tracolla, la bandoliera, ma come se fossero dei San Michele Arcangelo. L’artista spagnolo Daniel Andujar realizza un notevole volume, dal titolo LTI – Lingua Tertii Imperii, che analizza, in omaggio al capitale libro di Viktor Klemperer, l’idioma della dittatura nella sua continua e distorta manipolazione della classicità e la reazione internazionale, tra ciclostili, riviste, volantini. All’Odeion, ossia Conservatorio, spazio notevolissimo, con auditorium brutalista di cemento di grande impatto, rende invece omaggio a un’altra figura capitale, Iannis Xenakis, e da lì presenta, incrociandoli con le notevoli opere pittoriche dell’albanese Eli Hila, che dipinge le spiagge di Albania segnate dai bunker di Hoxha, le partiture e le immagini di sperimentatori musicali come Pauline Oliveros e Alvin Curran. Ci vorrebbe molto tempo per poter vedere tutti i luoghi coinvolti, ma senz’altro il filo con la memoria cittadina è l’elemento più forte, disegnando un' immagine di Atene lontana dalle memorie classiche e ben collocata nelle trame del ‘900 e del presente.

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