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Ricardo Piglia. Solo per Ida Brown

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Sparizioni, sequestri, assassinii, attentati, ricerche che si concludono senza concludere, che portano a qualcosa che può anche essere niente, enigmi: i romanzi di Ricardo Piglia, il grande scrittore argentino scomparso qualche mese fa a 76 anni, parlano di questo. Ma così parlando, dicono anche altro, mai niente è semplice, e i livelli di lettura si moltiplicano quanto più il discorso sembra piano e diretto: un discorso di genere, e un genere dominante, il romanzo di investigazione, poliziesco, noir, che poi si combina con altri, secondo i debordamenti e le contaminazioni che il procedere delle vicende narrate richiede. Ma se i primi romanzi riproducono questa complessità nella loro stessa forma (inchieste personali o giornalistiche pe ricostruire storie famigliari; racconti che susseguono o si incastrano gli uni negli altri a fornire le differenti versioni di fatti tutti da costruire, ancor più che da decifrare; macchinari che producono storie non si sa se quanto veritiere di persone che sono di invenzione e insieme realmente vissute; scomparse che sono forse volontarie o forse atti di violenza, come nei due primi e già grandi romanzi Respirazione Artificiale e La città assente), gli ultimi, tra cui l’appena tradotto Solo per Ida Brown, hanno un’apparenza più tradizionale, più ossequiosa, almeno all’inizio, delle leggi del genere, di cui rispettano, senza apparente ironia, i vincoli e i cliché. Piglia non ha la vocazione dell’avanguardista o del provocatore, non gli piace il gesto clamoroso: preferisce muoversi tra le forme con circospezione, misuratissimo e sornione, e complicarle all’occorrenza sempre attento però alla leggibilità, celando abilmente le sottigliezze nel non detto o nell’appena accennato. 

 

Uno degli strumenti ricorrenti per favorire la stratificazione delle letture - oltre alla fittissima rete intertestuale, dichiarata o più spesso mascherata e poco appariscente, di rimandi letterali ma anche, secondo la lezione di Borges, apocrifi ma plausibilissimi -, è il ricorso a personaggi la cui indole o professione li porta a riflettere sugli eventi, la società, la politica e la letteratura. Anche le riflessioni tuttavia restano sempre interne alla narrazione e fortemente contrastate da ipotesi o idee alternative di altri personaggi, impedendo che qualcuna si ponga sopra le altre o addirittura al di fuori della trama, e disseminando le varie interpretazioni in modo che ne costituiscano spesso uno dei motori principali. Si vedano, per esempio, quelle del commissario Croce in Bersaglio notturno e di quasi tutti i personaggi di Respirazione Artificiale, ma si veda soprattutto la figura di Emilio Renzi, giornalista, scrittore e critico, vero e proprio alter ego a cui Piglia affida non solo il compito di dire cose che lui non si azzarderebbe mai a dire a proprio nome, la sua “anima radicale”, ma persino il ruolo di titolare dell’autobiografia in tre volumi (Los diarios de Emilio Renzi, l’ultimo dei quali postumo, di prossima uscita) nei quali lo scrittore ha condensato e organizzato  i 357 quaderni del diario tenuto per sessant’anni, dall’adolescenza alla vigilia della morte (come Julien Green, Paul Léautaud, Paul Valéry e altri maratoneti della scrittura quotidiana...), che speriamo di veder tradotti quanto prima. 

 

In Solo per Ida Brown questa dimensione è amplificata dal fatto che gli eventi si svolgono in buona parte in un campus universitario degli Stati Uniti che ricalca la Princeton in cui Piglia ha insegnato a lungo, dove Renzi è stato invitato su insistenza dell’Ida Brown del titolo, sua collega agguerritissima, che diventerà sua amante ma morirà ben presto in circostanze poco chiare.

Ma anche qui, le riflessioni di Renzi, Ida e altri personaggi, che vertono principalmente sull’oggetto dei loro studi (Hudson, Conrad, Melville e Tolstoj) non servono solo a caratterizzarli o a fare solo da contrappunto alla narrazione (come in molti libri recenti, a partire da quelle su Huysmans in Sottomissione di Houellebecq), ma sono dei veri e propri congegni che servono a portare avanti la storia, a suggerire corrispondenze e implicazioni (le differenze e corrispondenze tra Usa e Argentina, i ricordi personali e dei periodi di dittatura, il sogno di una società precapitalistica, le utopie...) e indurre il narratore a compiere dei passi decisivi per cercare di chiarire la morte di Ida, come in un giallo, e dare un senso agli eventi. 

 

 

 

Del resto “Qualunque racconto è un giallo (...) Solo gli assassini hanno qualcosa da raccontare, la storia personale è sempre la storia di un delitto”, aveva già scritto Piglia in La città assente (p. 178), anche se i suoi libri, nonostante la loro frequente forma di romanzo di investigazione quando non di vero e proprio noir (come Soldi Bruciati), non contemplano mai la figura dell’investigatore come narratore o protagonista, ma figure che si potrebbero compendiare in quella del lettore. Nessuna contraddizione però: anzi, una conferma in più della prima affermazione, dal momento che se il romanzo di investigazione, che per lui è l’unico genere veramente moderno, nasce proprio con la figura dell’investigatore (il Dupin di Poe), questi è al contempo una delle prime incarnazioni del moderno lettore: di libri, ma anche delle tracce che sono disseminate nelle notizie, da quelle dei giornali (come nel caso inaugurale dei delitti della Rue Morgue), alla rete, come nel caso del Ralf Parker di Solo per Ida Brown. E lettori (e scrittori, o critici, o giornalisti: chi legge, scrive) sono anche molti personaggi: dal quasi onnipresente Emilio Renzi, al Junior protagonista di La città assente e ad altre figure non di secondo piano (come lo zio Maggi e l’esule polacco Tardewsky, ricalcato sul modello di Witold Gombrowicz che tanta importanza ha avuto per tutta una generazione di scrittori argentini, nello straordinario Respirazione artificiale), o gli oggetti delle loro indagini (l’Enrique Ossorio, traditore, politico e scrittore, capostipite della famiglia di signorotti locali ancora in Respirazione artificiale), per non parlare dei professori e scrittori dell’ultimo romanzo. 

 

La morte di Ida Brown troverà un inizio di spiegazione a partire dalle sue sottolineature e note a margine della copia di L’agente segreto di Conrad da lei usata per il seminario che stava tenendo in quel semestre. È questa morte, probabilmente un omicidio anche se non sono chiare le modalità e soprattutto il movente, ma che potrebbe anche essere un incidente, che imprime una svolta alla trama: per cercare di capire cosa è successo, e che gli sembra che la polizia e l’Fbi gli nascondano, Renzi contatta un detective, Parker, che rappresenta una evoluzione della figura tradizionale così come si era venuta delineando nell’hard boiled americano a cui Piglia ha dedicato uno dei saggi più belli di L’ultimo lettore: non più qualcuno che agisce a proprio rischio e pericolo, ma uno che cerca informazioni e le mette insieme. Uno che non risolve più i casi, ma si avvicina ad essi raccontandone una versione, come dice lo stesso Parker (p. 145): un lettore, cioè, che diventa scrittore...

 

È attraverso di lui che Renzi arriverà ad avvicinarsi a una plausibile interpretazione dei fatti, senza però approdare a nessuna certezza.

Infatti, se a proposito di L’agente segreto Renzi afferma: “Non era la realtà a permettere di capire un romanzo, ma il romanzo a rendere comprensibile una realtà che, per anni, era rimasta indecifrabile” (p. 188), nemmeno questa decifrazione può dare accesso a una realtà ultima, in quanto a sua volta non può essere completamente decifrata, ma solo, di nuovo, raccontata. Come già  evidenziato dai grandi libri di Gadda, i casi non si risolvono mai ai nostri giorni (nella letteratura odierna: in quella di Piglia, di sicuro). C’è sempre un residuo, un’ipotesi ulteriore che a sua volta ne suscita altre. È la visione paranoica, che si basa sul fatto che tutto può essere letto come indizio, come ha insegnato ironicamente Gombrowicz soprattutto nel capolavoro Cosmo, l‘ormai onnipresente teoria del complotto, che però in Piglia non dà luogo a rimuginazioni ossessive e contorte, ma viene distribuita nei differenti punti di vista dei personaggi e sapientemente manovrata dall’autore. La costruzione dei suoi libri, come lo stile, è della più grande lucidità. Il discorso che risolve, che chiude in una verità ufficiale è quello del potere, mentre la letteratura tiene aperte molte strade, fissa dei punti che non sono mai fermi, ma si raddoppiano sempre per dar luogo ad altre visioni della realtà, a ipotesi controfattuali, a sentieri che si biforcano e non si sa dove portano.

 


Il cambiamento dei tempi è quindi anche un cambiamento del lettore. Oltre a quello esemplificato dalla figura dell’investigatore, anche il lettore “tradizionale” (lo studioso, il critico, il professore, Renzi) ha subito una mutazione: se il primo legge la rete per scoprire, l’altro scopre dalla lettura (sua) di una lettura (di Ida) di un romanzo del passato (L’agente segreto di Conrad) gli indizi per capire cosa è, o meglio: cosa può essere successo. Si legge un testo sempre già letto. Si leggono letture.

Capire è istituire dei nessi, ma per farlo, “è necessario raccontare un’altra storia.  O tornare a raccontare una storia, ma da un altro luogo e in un altro tempo. Questo è il segreto di ciò che c’è da leggere. E questo è quel che la letteratura, secondo Kafka, mostra senza spiegare” (L’ultimo lettore, p. 51).

 

Si tratta sempre, da lì, di costruire una trama, anche, ricordando sempre però che “la cosa più importante in una storia è ciò che non si racconta” (Introduzione all’edizione italiana di Respirazione artificiale, p. 8). La stessa trama che si ricostruisce a spezzoni e si racconta qui, con molte interruzioni, come su silenzi e interruzioni sono basati i romanzi di Piglia. “Solo nei film di Hollywood è sbagliato raccontare il soggetto; nei romanzi invece la trama è soltanto una guida, o meglio la mappa di un territorio che si va trasformando mano a mano che procediamo” (Ivi, p. 9).

Dei libri di Piglia si può, e forse si deve, raccontare la trama, perché una trama non c’è: non solo nel senso che non c’è trama al di fuori dall’atto di riassumerla e raccontarla (o che viceversa c’è sempre, perché non appena si mettono in fila due frasi una trama è già istituita, sia pure come storia possibile), ma nel senso che le storie da lui raccontate, oltre che spesso interrotte, si sovrappongono e si incrociano in vari modi e in punti diversi, e sono a loro volta oggetto di riflessioni e di ricostruzioni che variano da un personaggio all’altro e di cui nessun narratore esterno è in grado di tirare tutti i fili e chiudere il cerchio. Il famoso inizio di Respirazione artificiale diceva “C’è una storia?”, e continuava: “Se una storia c’è, inizia tre anni fa”. Ma una storia non c’è mai (come non c’è una vita: vedi l’inizio di Solo per Ida Brown: “In quel periodo vivevo varie vite, mi muovevo per sequenze autonome”), ce ne sono sempre tante quanti sono coloro che leggono  e raccontano: e quindi una storia c’è sempre: non ci sono altro che storie. Il che non significa che non ci possa essere verità, o realtà, o solo esperienza... 

 

Ma un cambiamento è intervenuto anche nello statuto dell’“eroe” centrale del romanzo, che, dice Piglia per voce di Nina, l’ottantenne esule russa vicina di casa amica di Renzi, se in passato è stato l’Avventuriero, e più tardi il Dandy, nel XXI secolo sarà il Terrorista, un uomo che “non uccide per interesse personale né per vendetta, [ma] per un’idea, come un filosofo platonico”, peraltro già preannunciato nel secolo precedente sia nel cinema che nel romanzo, a partire appunto dal citato L’agente segreto di Conrad, del 1907. 

 

Anche il terrorista, che incarna il secondo elemento che per Piglia assieme all’enigma è costitutivo del romanzo di investigazione: il mostro (l’altro assoluto: scimmione, folle, fuorilegge o solo straniero che sia), è un lettore e uno scrittore alla ricerca di lettori: “il terrorista come moderno scrittore, l’azione diretta come patto con il Diavolo” (p. 129). I suoi attentati possono essere visti come una strategia che può essere riassunta così: “Uccidere delle “persone” per procurarsi lettori” (p. 129). Come sanno tutti i movimenti terroristici, attirare l’attenzione è capitale. “Il terrorismo è propaganda armata, un mezzo di comunicazione come qualsiasi altro” (p. 108). Solo il terrore puro può fare a meno della comunicazione. L’unica comunicazione contenuta nella violenza senza comunicazione, cioè senza che vi sia un interesse che vada al di là della volontà o del piacere di esercitarla, è la violenza stessa; l’unico effetto è il terrore. L’attenzione invece, come ha ben illustrato il filosofo Yves Citton, è la merce più ambita della nostra era caratterizzata dall’ipercomunicazione: e per il singolo (cittadino, compratore, destinatario) spesso è anche l’unico capitale spendibile. La capacità di attenzione è ciò che lo definisce. L’individuo è il soggetto potenzialmente attento, e la strategia più efficace per ridestare e tenere viva questa capacità è eccitare le sue passioni, il desiderio, e più ancora quella più forte di tutte, la paura. (Da notare invece che nel secondo romanzo di E. Vila-Matas,  L’assassina letterata, si racconta il caso di un libro scritto apposta per uccidere il lettore a cui era destinato. Impresa meno ardua di quanto si potrebbe supporre tuttavia, dal momento che di fatto, pur senza volerlo, i libri che trionfalmente ci riescono sono la stragrande maggioranza.)

 

 

Il terrorista di Solo per Ida Brown, nominato Recycler da giornalisti e investigatori per il suo modo di agire e i messaggi che lancia, è modellato sulla figura di Theodore Kaczynski, noto come Unabomber, che tra i 1978 e il 1996 realizzò una ventina di attentati negli Stati Uniti, alcuni letali. Nel romanzo, quando viene identificato e arrestato, poco dopo la morte di Ida, si chiama Thomas Munk e come l’Unabomber reale è genio matematico e logico precoce, vincitore di premi prestigiosi e giovanissimo insegnante a Berkeley negli anni ‘60 dove appunto Renzi scoprirà che ha conosciuto Ida Brown. Come il suo corrispettivo reale, anche Munk si ritira dal mondo a vivere come un eremita autosufficiente al ritorno del fratello Peter dal Vietnam, che poi diventerà scrittore e sarà colui che lo riconoscerà come autore del “Manifesto” da lui inviato a editori e giornali come condizione per cessare gli attentati e lo tradirà. (Il tema del traditore, di ascendenza borgesiana, è costante – sia detto di passaggio – nei libri di Piglia, che lo declina in vari contesti e modi con estrema sottigliezza.) 

 

Il susseguirsi degli attentati senza rivendicazione reclamava una lettura offrendo però solo una debole chiave d’accesso (le buste esplosive, sigle enigmatiche e materiali usati...); ma più questa si rivelava debole, più cresceva, insieme alla necessità di trovarla, il desiderio di sapere, l’ansia della decifrazione: sventare altri attentati ma anche dare un nome, capire, rassicurarsi. Conoscere l’autore. (L’anonimato e la pseudonimia sono uno stimolo irresistibile per la curiosità del lettore, come si sa...) L’autore, e i suoi eventuali complici. Se ne aveva. Cosa molto probabile (e forse Ida era uno di essi, magari involontaria, non del tutto consapevole, senza contare che “in giro ci sono molti gruppi ecologisti che sarebbero stati dispostissimi ad aiutarlo”, p.  202), anche se dopo la cattura tutto sembra essere attribuito al solo Munk, con buona pace di tutti: perché, come afferma anche il funzionario dell’FBI che accredita questa versione, uno psicopatico isolato è un caso clinico; un gruppo, anche limitato, è invece un problema sociale e implicitamente, quindi, l’ammissione di un’imperfezione dell’organismo che per eccellenza si vuole perfetto e catafratto, lo Stato, con i suoi apparati. Si sa che il confine tra dissidenza e malattia mentale è sottile e tutti i poteri tendono a renderlo poroso, anche quando non lo cancellano completamente come fanno i regimi totalitari. Per opporsi al benefattore universale bisogna essere pazzi, o criminali, e quindi l’oppositore va soppresso, o quantomeno, per non smentire la propria umanità, rinchiuso nei luoghi dove possa essere neutralizzato o redento: lager o manicomi. 

 

L’assassino si nasconde, o confonde, con la massa degli invisibili, dalla quale pure si isola: come essa è composta di anonimi sconosciuti, così egli, nella società di massa e della sorveglianza totale, si rende anonimo, nasconde il suo segreto, che nel caso di Recycler viene poi strumentalizzato alla diffusione delle sue idee: il segreto regge non solo le sue azioni, ma lo Stato stesso contro cui egli si rivolta, uno stato doppio, che è basato insieme sulla proclamazione della libertà e sulla sorveglianza totale, sulla necessità di conoscere ogni segreto tenendo però celati i propri, e quindi sfidando chi non vuole esserne complice a cercare di rivelarli e a diffonderli in tutti i modi e con tutti i mezzi possibili: che poi – e sta qui la loro forza ma infine anche la loro sostanziale debolezza, cioè la radice della loro sconfitta –, sono gli stessi del suo avversario. E così tendono essi stessi a identificarsi. “Il potere politico è sempre criminale”, diceva un personaggio di La città assente (p. 79), come lo è chi lo contrasta. Ma questi ne incarna anche alcuni valori di fondo. Munk, il terrorista, il pericolo pubblico n. 1, è anche “un eroe americano nel vero senso del termine: l’individuo con un’educazione superiore, l’intellettuale di alto prestigio accademico, che sceglie di abbandonare ogni privilegio e si ritira a vivere in un bosco [...e] decide di mostrare che la ribellione è possibile, e che un uomo da solo può mettere in scacco l’FBI” (p. 212), e come tale hai i suoi fan e estimatori nei campus e nell’esercito dei “radicali”, emarginati e “ribelli” che fanno parte da sempre della società americana, e persino in prigione, dove gode della stima di tutti.

 

Come Munk, anche Ida, “interessata alla tradizione di quegli scrittori che si opponevano al capitalismo da una posizione arcaista e preindustriale. Populisti russi, beat generation, hippy e, oggi, gli ecologisti...” (p. 18), “era una star del mondo accademico” (p. 17), che a modo suo essa terrorizzava e combatteva, non facendo distinzione tra pensare e combattere, “due verbi [che] vanno a braccetto” (p. 18). Pur rimanendone all’interno e godendo dei benefici della notorietà, Ida, da marxista qual era, era consapevole che il mondo accademico non rappresenta il meglio della società, non la osserva e giudica olimpicamente dall’alto e se aspira a cambiarla e/o a guidarla, è solo perché ne incarna alcuni dei meccanismi più profondi: a partire dalla feroce competizione e dalla sottaciuta violenza dei rapporti, che non a caso Recycler, che da quello stesso mondo proviene, alla lettera fa esplodere. 

“Le università sono i nuovi ghetti, i luoghi di violenza psicologica della modernità. ... Pacifici ed eleganti, i campus sono concepiti per escludere esperienza e passioni ma, sotto la superficie, scorrono ondate di collera intestina: la violenza terribile degli uomini educati” (pp. 30-31). (Del resto nemmeno Piglia si risparmia la giusta dose di perfidia, minima, impercettibile a volte, quanto velenosa, sempre con l’accortezza però di farla enunciare da coloro stessi che ne sono i bersagli). Non è quindi sorprendente che questa violenza a volte si riversi anche fuori e che da fuori vi ritorni (basti vedere il gran numero di stragi nei campus delle high school o dei college, e il fatto che praticamente la totalità degli attentati dell’Unabomber reale, come di quello di Solo per Ida Brown, abbia avuto per vittime docenti o persone che lavoravano in campi tecnologici e culturali. 

 


Ma anche Ida, proprio perché personaggio pubblico, si riservava un territorio di segreto e separazione: “saremo amanti clandestini”, impone a Renzi appena inizia la loro avventura (p. 49). Come se, per vivere, una vita non bastasse, ma ce ne volesse almeno una seconda, o altre ancora. “La doppia vita fa parte della cultura di quel paese”, afferma Renzi (o Piglia?, p. 51). Come se, non solo nell’amore, fosse indispensabile il segreto, nascondersi, riservarsi uno spazio invisibile, anonimo, cifrato, forse proprio in virtù del fatto che la nostra, come ha scritto Riccardo Venturi, “è l’epoca dell’open secret, come l’ha definita Pamela Lee, di un’invisibilità visibile al cuore delle politiche d’informazione, di un segreto che annuncia la sua clandestinità mostrandosi in pubblico”. 

Da una parte quindi la clandestinità è impossibile, dall’altra è necessaria: “C’è un’unica via di scampo: restare da soli, in un luogo isolato... questa è l’era degli uomini soli, delle cospirazioni individuali, dell’azione solitaria. Possiamo resistere solo nascondendo i nostri pensieri, mantenendoli invisibili, confondendoli nella moltitudine” (pp. 222-3). Le idee, essendo invisibili, sono “l’ultimo rifugio della ribellione”. Il problema è però che, quanto più queste idee sono forti, tanto più forte è l’esigenza di diffonderle. E diffonderle comporta dei costi. Anche in vite umane. Dice Munk a Renzi che lo va a visitare in carcere: “Ma non deve credere che i morti mi siano indifferenti, proseguì. Sono miei pari, avrei potuto essere uno di loro. Grandi scienziati, mascalzoni fatti e finiti, uomini sensibili... Dimenticavano – o non volevano vedere – le conseguenze dei loro atti. Il male è questo: non farsi carico delle conseguenze dei propri atti. Le conseguenze, non i risultati” (p. 227). Ma non è detto che facendosi carico delle conseguenze il male sia evitato, o redento. 

 

Munk, che nelle sue ricerche si era occupato delle “condizioni necessarie per inferire la verità” (p. 150), non si preoccupa invece di quali saranno quelle relative alle tesi sulla logica distruttiva del capitalismo che lui intende divulgare come se i modi della loro diffusione fossero di nessun conto. Il contro-complotto con cui intende reagire al complotto su cui si basa la società obbedisce alla sua stessa logica. Scrive Piglia nella Postfazione all’edizione americana di La città assente: “Fiction della paranoia ... La politica entra nel romanzo contemporaneo attraverso il modello del complotto, attraverso la narrazione di un intrigo, anche se tale complotto è privo di qualsiasi esplicita connotazione politica. È sulla forma in sé che si fonda la politicizzazione del romanzo” (pp. 194-5). Nei romanzi di Piglia però la connotazione politica, anche se non sempre marcata, e quasi mai esplicitamente, è quasi sempre presente. In Solo per Ida Brown, tuttavia, lo è, con l’esplicitezza di temi che però non si fissano mai in una verità definita e definitiva.

 

Perché non solo si deve constatare, come diceva Maggi in Respirazione artificiale, che “un uomo solo fallisce sempre”, ma ciò che ci si deve chiedere è “a cosa serve o al servizio di cosa è questo scacco individuale”. Il romanzo è uno dei modi per farlo. Piglia, in questo libro come negli altri, usa eventi o figure derivati dalla storia e dalla cronaca e li mette alla prova della varietà dei punti di vista e delle possibilità immaginative (e formali) che solo la finzione, e la sua verità, offrono.

Anche quando si riferisce a figure, documenti (libri e giornali) o eventi reali, Piglia si prende sempre la libertà di inventare, a seconda di ciò che è funzionale a quanto sta scrivendo. Quando mette in scena figure storiche, non è per ancorare ciò che narra alla realtà, ma al contrario perché solo attraverso l’invenzione il reale, anche quello storico, diventa comprensibile, e forse addirittura viene prodotto: nel senso che se ne fa esperienza e solo l’esperienza rende percepibile e conoscibile, cioè reale, ciò che accade, il mondo.

 

Alla figura storica, senza contraddire quanto si sa di essa e di ciò che ha fatto e scritto, e spesso proprio utilizzandone alcuni elementi, vengono attribuite parole e azioni che avrebbero potuto benissimo dare o dire, se solo si fossero trovati nelle circostanze descritte  nel testo e/o la loro vita a un certo momento avesse scartato anche solo di un grado in altre direzioni o mondi possibili, non come ipotesi controfattuali, ma come segmento di una vita che peraltro sarebbe rimasta identica a quella che conosciamo, ma ricevendone una nuova luce e un di più di conoscenza. (Un esempio è la frase del diario di Kafka a partire dalla quale, in Respirazione Artificiale, l’esule polacco dice di aver scoperto un incontro dello scrittore in un caffè di Praga con un giovane esaltato che poi diventerà il Führer e che segnerà in modo decisivo la sua produzione successiva, il mondo che in essa prenderà forma e la Stimmung che la pervaderà...)

 

La verità della finzione è più importante della fedeltà alla realtà. La verità, semmai, si può pensare di perseguirla solo attraverso la fedeltà alle regole della finzione, a dove conducono le storie con le loro sospensioni, i loro buchi, segreti o semplicemente cose non dette, che ne costituiscono peraltro l’aspetto più importante. L’enigma non è solo quello che i personaggi cercano di rivelare, ma soprattutto quello che circola nelle storie tra i segmenti e le versioni che le costituiscono, e più ancora quello che, mai chiarificabile del tutto, e forse nemmeno definibile, le costituisce, e con loro la realtà che in esse prende forma, la conoscenza che ne abbiamo e l’esperienza che ne facciamo. Come viviamo, insomma.

 

Nota di lettura

 

I libri di Ricardo Piglia sono equamente suddivisi tra Feltrinelli (Soldi Bruciati, tr. it. Pino Cacucci, Guanda 2000, e ora Feltrinelli 2008; L’ultimo lettore, tr. it. Alessandro Giannetti, 2006; Bersaglio notturno, tr. it. Pino Cacucci, 2011; Solo per Ida Brown, tr. it. di Nicola Jacchia, 2017) e le edizioni Sur (Respirazione artificiale, tr. it. Gianni Guadalupi, 2012; La citta assente, tr. it. Enrico Leon, 2014; e i racconti, L’invasione, tr. it. Enrico Leon, 2015). Da segnalare anche l’importante saggio “Romanzo e complotto”, in Nuova prosa, N. 46, marzo 2007, Greco&Grecoeditori. Il sito di Sur è ricco di testi, testimonianze e interviste di e sull’autore argentino. Numerosi e di grande interesse sono i filmati di interviste e trasmissioni televisive reperibili su Youtube. Il “Manifesto” di “Unabomber” Theodore Kaczynski, La società industriale e il suo futuro, è stato tradotto per Stampa Alternativa ed è reperibile in rete qui. Per L’agente segreto di Conrad si veda la trad. di Richard Ambrosini, Mondadori, 2010, con un saggio di Virginia Woolf. Del capolavoro di Witold Gombrowicz, Cosmo, è appena uscita per Il Saggiatore una nuova traduzione di Vera Verdiani, a cura di Francesco Cataluccio. Dei testi di Yves Citton vedi soprattutto Pour une écologie de l’attention (Seuil, 2014). L’assassina letterata, di Enrique Vila-Matas, del 1977, è stato tradotto da. E. Pagani, Voland, 2004. La citazione di Pamela Lee è contenuta in un articolo comparso su Artforum, maggio 2011, citato da Riccardo Venturi in Il corpo di internet. L’arte di Trevor Paglen, di prossima uscita su doppiozero.

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Come diventiamo ciò che siamo

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“Le mie gambe sono sculture indossabili” – wearablesculptures– dichiara Aimee Mullins, modella e atleta paraolimpica che ha stabilito il record nei 100 e nei 200 metri piani e nel salto in lungo, amputata di entrambi gli arti sotto al ginocchio a un anno di vita a causa di una malattia, chiamata dall’artista inglese Matthew Barney a recitare la parte del leopardo nel terzo episodio di The cremaster cycle nel 2002. In una lezione TED del febbraio 2009 dal titolo It is not fair having twelve pairs of legs Mullins afferma che la prospettiva della società sugli amputati “ha profondamente cambiato di segno negli ultimi dieci anni. Non si discute più del superamento di un limite, ma delle sue potenzialità. Una protesi non rappresenta il bisogno di sostituire un arto mancante e simboleggia piuttosto il fatto che chi la indossa ha il potere di creare ciò che preferisce nello spazio del suo corpo. Le persone che una volta la società considerava disabili sono ora gli artefici della propria identità e possono continuare a cambiarla progettando i propri corpi nell’ottica di potenziarli.”

 

Aimee Mullins.


Le gambe di Mullins sarebbero dunque una forma di wearabletechnology al pari dei braccialetti intelligenti che monitorano il battito cardiaco durante la corsa, dei – falliti – Google Glass, e in generale di ogni forma di esoscheletro, da quello indossato da Sigourney Weaver in Aliens alla più antica stampella. Queste protesi non sono dei meri ausilii. Esse partecipano effettivamente alla creazione dell’identità di ciascuna persona, sfruttandone le specifiche diversità. Le chiamerei perciò dei media performativi che ci invitano a riflettere sul fatto che la nostra identità non è né stabile né univoca, bensì il risultato di processi di trasformazione che insistono sulla materia di ciascun corpo umano che interagisce in ambienti e contesti – sociali, affettivi, culturali – dai quali esso viene accolto e rifiutato, che lo plasmano e se ne fanno influenzare di rimando.

 

Malgrado l’ottimismo di Aimee Mullins, mi pare tuttavia dubbio che per il senso comune tutt’oggi prevalente la persona sia una sintesi dinamica di natura, cultura e artificio. Nei nostri comportamenti quotidiani per molti versi restiamo tutti assai più prossimi a quel passo del Deuteronomio che ci insegna che “la donna non si metterà un indumento da uomo né l’uomo indosserà una veste da donna; perché chiunque fa tali cose è in abominio al signore” (Deut. 22:5). Adottiamo cioè una concezione normativa della personalità umana che ci vuole coerenti, omogenei e fedeli ai nostri ruoli, nonostante l’esperienza ci insegni quanto e come una tale idea sia infedele all’esperienza viva e ripetuta che abbiamo di noi stessi e degli altri. Per quanto riteniamo più plausibile discendere dalla scimmia che essere fatti a immagine e somiglianza di dio, continuiamo a pensare il corpo come una contingenza necessaria, talvolta piacevole, in ogni caso responsabile della nostra mortalità, con buona pace dei corsi di yoga che frequentiamo e delle malattie psicosomatiche che siamo certi di avere. 

 

Che la corporeità qualifichi, e non limiti, i comportamenti dell’uomo che pensa, calcola, costruisce, ama e genera, la cui esistenza è mediata dagli artifici – dall’alfabeto alle scale fino allo smartphone – resta un’idea che circola al più tra gli studiosi nonostante i reperti fossili, le evidenze scientifiche, le conoscenze in ambito storico e naturale, gli argomenti teorici che la supportano, e malgrado i molti casi della vita che ci suggeriscono che è così, dall’inseminazione artificiale all’eutanasia. Molte sono le ragioni di questo imbarazzo del pensiero. A mio avviso, vale per tutte quella suggerita da John Dewey quasi un secolo fa, nel 1934, in Arte come esperienza: “Le opposizioni tra mente e corpo, anima e materia, spirito e carne hanno tutte origine fondamentalmente nella paura di ciò che la vita può produrre. Sono segni di contrazione e arretramento”, quasi che la possibilità universale di mettere al mondo un figlio sia al fondo più inquietante del sofisticato esercizio dell’immaginazione.

 

 

Dario Ghibaudo, Limite inconnue, Museo di Storia Innaturale, Sala XVII. Terra bianca lucidata a cera. © Alfredo Bernasconi.

 

Convinti che il timore intellettuale sia particolarmente nocivo in questo momento storico, il convegno internazionale Corpi e culture: come diveniamo noi stessi, promosso dal Dipartimento di Filosofia della Statale di Milano in collaborazione con il Comune di Milano, affronterà il 17 e il 18 maggio prossimi queste questioni al Museo di Storia Naturale e all’Università degli Studi di fronte a un pubblico composto da specialisti, ma prima ancora da quei cittadini che noi tutti siamo.

Ian Tattersall, Alva Noë e Christoph Wulf, studiosi di chiara fama di storia naturale, scienze cognitive e antropologia presenteranno ciascuno una lectio magistralis che sarà seguita da interventi di studiosi di rilievo internazionale a loro volta discussi da giovani ricercatori. Tre generazioni di pensatori ragioneranno su come siamo discesi da un antenato non linguistico e non simbolico e siamo arrivati a immaginare e poi a realizzare, segni e simboli, maschere e avatar; su quale sia la relazione tra processi cognitivi ed esperienza estetica; su quanto il nostro corpo dipenda dalla tecnologia e come la tecnologia condizioni le nostre relazioni; su cosa voglia dire che i nostri comportamenti sono complessi dal punto di vista cognitivo, esperienziale e ambientale, e in che modo questa complessità intervenga nei processi di produzione e trasmissione culturale.

 

Queste domande non sono nuove nel dibattito filosofico, ma acquistano oggi un’urgenza particolare date le conoscenze nell’ambito delle neuroscienze e le possibilità offerte dalla robotica e dall’intelligenza artificiale. Si tratta di comprendere tanto come il linguaggio e l’intelligenza simbolica sono risultati da un mosaico di elementi diversi e hanno portato all’esistenza di quell’animale speciale apparso sulla terra che è l’uomo, quanto come l’uomo è concretamente in grado di plasmare l’ambiente nel quale vive, a cominciare dal proprio corpo anatomico. Molto si parla di Antropocene, ma che l’ambiente terrestre sia fortemente condizionato su scala locale e globale dagli effetti dell’azione umana, prima che essere un problema ecologico chiama in causa la conoscenza di sé. È a partire dal rapporto mediato, conflittuale, di desiderio, abitudine e ripulsa che io ho con il mio corpo che immagino e realizzo il mio rapporto con i corpi esterni: gli altri, le cose, il mondo, secondo un movimento circolare che, lontano dall’essere prevedibile, mi rende oggetto di quegli altri, quelle cose, quel mondo, di cui io mi credo l’artefice esclusivo. 

 

Dire che la personalità di ciascuno di noi si costruisce attraverso un rapporto dialettico con il proprio corpo che produce l’esperienza dell’esistenza, e perseguire una prospettiva materialista dell’identità non significa in alcun modo avere una visione deterministica e teleologica quanto all’evoluzione degli esseri umani che li ridurrebbe a meri processi neurobiologici. Significa piuttosto passare da un’idea astratta e normativa di identità a una concezione plurale che enfatizza la dimensione sensibile, estetica della cultura. Noi non siamo persone, lo diveniamo, filo e ontogeneticamente. 

La storia riserva un ricco archivio di politiche del corpo, oppressive e liberatorie, rivolte a uomini e donne, vecchi e bambini che vanno in due direzioni antitetiche: liberare il corpo dall’uomo che lo vorrebbe dominare facendogli violenza, come pensa chi crede che si possa o debba essere una cosa sola con i propri stati emotivi, e liberare l’uomo dal corpo, come vorrebbero i sostenitori ad oltranza di love dolls giapponesi e robot internazionali che dovrebbero renderci un puro spirito il cui spettro di esigenze biologiche verrebbe soddisfatto da mezzi meccanici. Grazie a una varietà di interventi, Corpi e culture si chiede piuttosto se ciò che ha reso sapiens l’homo sapiens un tempo è ciò che rende intelligenti noi oggi.

 

Convegno internazionale Corpi e culture: come diveniamo noi stessi, 17 e 18 maggio 2017 (Museo di Storia Naturale – Comune di Milano; Sala Napoleonica – Università degli Studi di Milano).

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17-18 maggio 2017, Milano: Convegno internazionale «Corpi e culture»

Guida alla Biennale d’arte 2017

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Quattro, come i punti cardinali, sono le tematiche attorno alle quali ruota la Biennale, intitolata forse un po’ ottimisticamente (perché un senso di rovine e morte pervade molti dei lavori presentati), viva arte viva

– l’ozio; 

– i libri degli artisti;

– le trame e le tessiture;

– la magia.

Il percorso, proposto dalla curatrice francese Christine Macel, è diviso in 9 Padiglioni: i primi due sono nel Padiglione centrale dei Giardini e gli altri sette nelle Corderie dell’Arsenale.

   

Iniziando, come è bene sempre fare, dall’Arsenale (perché è lì che la persona chiamata a curare la Biennale ha più spazio per raccontare e svolgere abbondantemente la sua idea), si entra quindi nel terzo padiglione: Padiglione dello Spazio Comune. Lì si incontra subito il tema delle trame e delle tessiture, ma, sovente, anche quello dei libri. I fili come trame del mondo e connessione tra le persone e la storia. Qui anche le danze sono intese come intrecci che seguono fili invisibili che uniscono gli uomini in un rito antichissimo.

   

La sarda Maria Lai (1919-2013) ha tessuto miti e ricordi sepolti nella memoria collettiva. I suoi Telai sono assemblaggi di fili, scampoli di stoffa, legno e oggetti di uso comune. Un codice visivo di nodi e fiocchi che rappresenta le relazioni tra le famiglie, i racconti e le leggende raccontate in una rete di rapporti arcaici. Storia universale (1982) e Geografia (1992) mostrano un mondo interconnesso e aggrovigliato. Infine, i 17 libri impacchettati con la “carta musica”, Enciclopedia pane (2008), mostrano nella maculatura della pasta cotta, sotto le cordicelle infiocchettate, un senso del Tempo che si trattiene e non si perde, soltanto nelle tradizioni. 

   

L’americana Anna Halprin (1920), testimonia di un rapporto stretto con la Natura nel video Danza planetaria (2017): la cerimonia di girotondi non casuali che seguono una trama simile alla danza delle api attorno ai fiori. 

   

Gli spagnoli Antoni Miranda (1942), Joan Rabascall (1935), Jaume Xifra (1934) e la francese Dorothée Selz (1946) hanno organizzato performance (delle quali vediamo i video) ad alto tasso simbolico: una cerimonia funebre in onore di tutti i defunti (Memorial, 2 novembre 1969) e un banchetto con cibi e bevande colorate (Rituale in quattro colori, 20 maggio 1971)

   

Il quarto padiglione (Padiglione della Terra) presenta uno dei video più belli di tutta la Biennale: il lavoro del giapponese Koki Tanaka (1975), Of Walking in Unknown (2017), che documenta un viaggio a piedi di quattro giorni da Kyoto alla centrale nucleare più vicina. Tanaka attraversa un paesaggio di rottami e scarti, ferraglie arrugginite e insetti morti. Raccoglie gli oggetti più significativi (cocci, pezzetti di metallo, cordicelle slabbrate) e una loro scelta è mostrata in una lunga bacheca al lato del grande schermo dove viene proiettato il video. Alle immagini del video si sovrappongono spesso altre immagini, più dettagliate, in formato piccolo che danno l’effetto di un microscopio o di un cannocchiale che mettono a fuoco avvicinandosi o allontanandosi.

   

Nel quinto padiglione (Padiglione delle Tradizioni) c’è ancora un artista sardo, Michele Ciacciofera (1969) che, con una magica e suggestiva istallazione, Janas Code (2016-2017), presenta su nove tavoli oggetti svariati: elementi naturali, forme di ceramica colorata, favi rivisitati, fossili di pesci e ammoniti chiusi in libri dipinti. Sulle pareti, libri composti da favi e arazzi semivuoti, sostenuti da strutture a quadri di metallo che rimandano alla tradizione popolare sarda e alla leggenda dell’origine delle “domus de janas” (strutture funerarie dell’epoca neolitica): un’ape venne trasformata in fata da una scintilla scappata dal dito di un dio…

   

Un misto di tradizioni antiche e linguaggi contemporanei è anche il lavoro della sudcoreana Yee Sookyung (1963) che, in Traslated Vase. Nine Dragons in Wonderland (2017) assembla sculture con frammenti di vasi di ceramica tradizionale coreana, dando nuova vita a una colonna bitorzoluta di cocci bianchi, azzurri e oro. 

   

Nel sesto padiglione (Padiglione degli Sciamani) si incontra il suggestivo lavoro del marocchino Younès Rahmoun (1975), 1. Taqiya-Nor (2016), composto da 77 berretti di lana che coprono altrettante lampade distibuite sul pavimento (77, cifra sempre ricorrente nelle sue opere, è il numero dei gradi della fede, secondo Maometto), e i film di due performance realizzate sulle due sponde dell’Oceano atlantico (in Brasile e nel Senegal) dal brasiliano Ayrson Heráclito (1968), O Sacudimento da Casa da Torre e O Sacudimento da Maison des Esclaves em Gorée (2015), sul tema della deportazione degli schiavi, incentrata sul medesimo rito magico della “scuotimento”, consistente nel colpire con fasci di foglie e rami ogni angolo delle abitazioni per scacciare gli spiriti degli antenati morti.

   

Ancora più interessante è il settimo padiglione (Padiglione Dionisiaco) dove sono esposte alcune opere dell’artista svizzero-tedesca Heidi Bucher (1926-1993) che immergeva indumenti intimi femminili in un’emulsione di plastica (un lavoro simile a quello fatto dalla stilista milanese Gentucca Bini): pannelli freddamente gommosi che lasciano traparire, in sottovuoto, mutande e sottovesti imprigionate e fermate nel tempo come insetti nell’ambra (Blaues Kleidchen, 1978 e Unterhose, 1978). Accanto ci sono le opere “erotiche” della libano-americana Huguette Caland (1931) e, in paricolare, il grande Christine (1995), con tre donne (come le Grazie) che traspaiono da una miriade di linee e macchie, come fili e tessuti, in una trama di molte tonalità di grigio.

   

Di grande effetto è la “stanza con corridoi” di uno dei maggiori artisti di oggi: il franco-algerino Kader Attia (1970), che rappresenta con efficacia e poesia l’incontro/scontro tra culture diverse. L’installazione ha per tema le “vibrazioni narrative”: nei corridoi sono esposti variopinte e attempate riviste, copertine di vecchi dischi, fotografie della tradizione musicale del Nordafrica e del Medioriente e un televisore che mostra un video sul suono e la questione transgender; nella sala centrale (l’“agorà”) membrane coperte da grani di cuscus, sotto cupole trasparenti, si muovono per le sollecitazioni di acuti canti e musiche stridenti, disegnando, ogni volta che torna la quiete, suggestivi mandala. 

   

Nel Padiglione dei Colori (l’ottavo) colpisce Brésil (2015): l’enorme (7 metri di lunghezza per 2,35 di altezza) e variopinto arazzo dell’artista del Mali, Abdoulaye Konaté (1953), che fa parte di un’istallazione comprendente vari oggetti del Brasile trasformati in “amuleti” (grigri): un pallone da calcio, una sedia disegnata dall’architetta Lina Bo Bardi, un diario di viaggio…

   

Questo trionfo di tessuti e stoffe è concluso da una parete sulla quale sono addossate balle di fibra colorate, una sorta di enormi cuscini: Scalata al di là dei terreni cromatici (2016-2017), dell’americana residente in Francia Sheila Hicks (1934) che definisce le sue opere “tessiture senza pregiudizi” nel senso che sono un po’ tutto: design, artigianato, architettura…

   

Il padiglione finale (Padiglione del Tempo e dell’Infinito) raggiunge il culmine con un’istallazione molto elaborata e ricca di spunti poeticamente teatrali: El hombre con el hacha y otras situaciones breves (2014; 2017) della newyorkese, di origine argentina, Liliana Porter (1941). Una figurina maschile armata di un’accetta sta all’origine (ma non è ben chiaro: potrebbe esser lì alla fine, quasi a dare il colpo di grazia) di una sequela caotica di oggetti rotti o frantumati, di tutte le dimensioni (da pezzi di ceramica, a sedie accatastate al muro, a un pianoforte sventrato). Un lavoro che ricorda i “plastici-istallazioni” dei fratelli britannici Jake e Dinos Chapman, ma con maggiore umanità e sensibilità filosofica e artistica. 

 

 

Tra i padiglioni nazionali successivi, vanno segnalati:

la Georgia, dove Vajiko Chachkhiani con Living Dog Among Dead Lions (2017) ha trasportato una vecchia dacia di legno nella quale, dal soffitto, piove dentro in continuazione sul pavimento e le suppellettili. Un’atmosfera molto tarkovskjiana che trasmette un senso di malinconia e umida rovina; 

la Nuova Zelanda, dove Lisa Reihana, presenta Emissaries (2016) proiettando su uno schermo che occupa per lungo tutta la parete di quattordici metri, un divertente e surreale video multicanale che prende in giro, dal punto di vista Maori, le imprese di James Cook;

la Repubblica popolare cinese dove si presenta l’interessante lavoro di un gruppo di artisti e artigiani – Wu Jian’an, Tang Nannan, Yao Huifen e Wang Tianwen – che hanno fondato una “Rete di creazione intertestuale e collettiva” il cui obiettivo è la creazione di una nuova pittura e video mediante il rinnovamento della calligrafia e della pittura a inchiostro. Particolarmente belle sono le foto in b/n del certamente più versatile Tang Nannan, Beach Series (2008-2012) e la parete dove una grande mappa (Map of Succession of Teachings) mostra le foto dei volti degli artisti e delle loro opere unite da fili colorati che disegnano una mappa sofisticata e intrecciata dei rapporti, delle influenze e dei debiti artistici.

 

 

Il padiglione italiano, curato da Cecilia Alemani, si intitola, riprendendo un’opera pubblicata nel 1948 dal grande antropologo Ernesto de Martino, Il mondo magico, e lodevolmente presenta le opere di soli tre artisti.

Si entra in una specie di grande e moderna officina per la fabbricazione di Cristi crocifissi: un gruppo di giovani armeggia attorno a un forno e un calderone che fonde e cola materiale organico in un unico stampo. Sotto cupole di plastica, che sembrano igloo, stanno a seccare i crocifissi e vengono rapidamente intaccati da parassiti e muffe che fanno iniziare un processo di decomposizione delle superfici delle statue. In fondo alla sala stanno ordinati e classificati pezzetti anatomici “sbagliati” e crocifissi venuti male. L’istallazione-performance del modenese Roberto Cuoghi (1973), Imitazione di Cristo (2017) è di grande impatto visivo e risulta assai stimolante per il fatto che tutto il processo è concepito per non ottenere mai lo stesso risultato, pur utilizzando sempre il medesimo stampo.

 

 

Meno riuscito il video della milanese residente a New York, Adelita Husni-Bey (1985), La seduta (2017) che mette in scena una conversazione tra un gruppo di giovani sui rapporti di potere economici e sociali dell’età contemporanea.

Infine, il veneziano Giorgio Andreotta Calò (1979), con Senza titolo. La fine del mondo (2017), che occupa tutto lo spazio dell’ultimo stanzone, propone una messa in scena molto suggestiva e misteriosa. Si entra in un ambiente semibuio, oppresso da un basso soffitto di tavole appoggiate, come un soppalco, su una struttura di tubi Innocenti, ad alcuni dei quali stanno attaccate sculture in bronzo bianco raffiguranti grandi conchiglie. Attraverso una scalinata metallica, appoggiata sul fondo, si sale al piano superiore dove si può ammirare il soffitto con le capriate lignee a vista che si riflette su una lunga superficie nera e liscia. Dopo un po’ ci si accorge che si tratta di un’enorme piscina piena d’acqua immobile, ma non si può fare a meno di perdere il senso complessivo dell’architettura confondendo l’alto con il basso. 

 

All’ingresso dei Giardini ci si imbatte subito in una novità: il padiglione lungo e stretto, commissionato anni fa da Electa e progettato da James Stirling (Padiglione Stirling, appunto), quest’anno si intitola La mia biblioteca e contiene i libri che ciascun artista presente alla mostra ha scelto tra i suoi preferiti. Il progetto si ispira al saggio di Walter Benjamin, Aprendo le casse della mia biblioteca. Discorso sul collezionismo (1931; trad. it. Henry Beyle, Milano 2012), ma si è dovuto scontrare con l’esigenza di avere, il più possibile, tutte le opere non nella lingua originale nella quale l’artista le ha lette, ma in inglese. Comunque la visita al padiglione è piuttosto interessante e, a volte sorprendente: per chi volesse avere l’elenco completo dei libri presenti lo trova nel Catalogo generale della Biennale.

 

 Il Padiglione Centrale, come dicevamo, presenta i primi due pezzi (1. Padiglione degli artisti e dei libri e 2.Padiglione delle Gioie e delle Paure) del discorso della Curatrice. Entrando, sulla sinistra, si trovano le variazioni sul tema della scrittura, opere di artisti che non scrivono libri nel senso letterale del termine: la tedesca residente a Milano Irma Blanc (1934); l’austriaco Franz West (1947-2012); i filippini Katherine Nuñez (1992)e Issay Rodriguez (1991), che riproducono manuali tecnici e libri d’arte originali rielaborati poi con tecnologie digitali per creare i motivi di un ricamo; l’inglese originario dello Zambia John Latham (1921-2006) che dà fuoco ai libri; il cinese Liu Ye (1964) che ridipinge le copertine dei libri che ama; l’arabo Abdullah Al Saardi (1967) che dopo aver tenuto per anni un diario ha preso recentemente a scrivere su rotoli che conserva in scatole metalliche raccolte quotidianamente; il cinese Liu Ye (1964), che ha dipinto elegantemente le copertine di Lolita di Nabokov. 

  

Ci sono poi gli artisti che oziano (Cristine Macel: “l’idea di creatività legata a quel momento di inoperosità e di disponibilità, di inerzia laboriosa e di lavoro dello spirito, di tranquillità e azione in cui appunto nasce l’opera d’arte”) con una carrellata di persone che schiacciano pisolini (Mladen Stilinovič, Yelena Vorobyeva e Victor Vorobyev, Frances Stak): curiosi ma assai meno interessanti.

   

Nel Padiglione delle Gioie e delle Paure (sulla destra rispetto all’entrata) ci sono invece artisti che presentano lavori più “tradizionali” (dipinti, film e foto), a volte sorprendenti. I surreali “scarabocchi” che rappresentano mani colorate del primo ministro albanese Edi Rama (1964); il film documentario, Sensitization to Colour (2009), della polacca residente a Berlino Agnieszka Polska (1985) su una mitica mostra a Poznań, nel 1968, del pittore Włodzimierz Borowski; il siriano, che risiedeva a Berlino, Marwan (1934-2016) ha saputo essere un pittore “figurativo” con una forza quasi tridimensionale: dipingeva ritratti dove si legge bene “il tema del dualismo vita morte, assenza presenza, amore odio”; il poeta e performer magiaro Tibor Hajas (1946-1980), con sorprendenti tableaux fotografici di grande qualità tecnica, come Surface Torture (19/12/1978), mostra il suo corpo in una sequenza sulfurea di gesti che evocano associazioni tragiche; sempre sul corpo lavora l’assai interessante artista ceco Luboš Plný (1961), disegnando complicate mappe anatomiche su collage di immagini che ricordano le mappe dell’agopuntura cinese; assai noto e apprezzato è il lavoro dell’americana Kiki Smith (1954), soprattutto le sculture, ma davvero belli sono questi disegni che rappresentano, su sottile e traslucida carta nepalese, un universo femminile fragile e autobiografico; infine la vera sorpresa di questa sezione è la cinese di Hong Kong, Firenze Lai (1984): le sue figure, apparentemente ingenue, sono simbolicamente sproporzionate e rimangono spesso in parte tagliate fuori dai quadri: “I suoi dipinti e disegni sono delle finestre sui momenti fugaci che esistono tra essere e non essere, quando la mente e il corpo mutano, nel tentativo di adattarsi alla vita frenetica del mondo esterno. (…) Vanno considerati come specchi della nostra stessa identità, piene di ambiguità, ma ci colpiscono per la loro intensità emotiva”.

 

 

Meno interessanti delle ultime edizioni sono quest’anno i padiglioni nazionali. Bellissimo è quello degli Stati Uniti, che costringe i visitatori ad entrare e uscire dalle porte laterali, di servizio perché il piazzale antistante a l’ingresso principale è pieno di detriti e rifiuti. Mark Bradford con Tomorrow Is Another Day tenta di fare il racconto del periodo di incertezza, dissesto e violenza nel mondo nel quale viviamo, ma mostrare anche le azioni e le opportunità che ci sono: una testimonianza, come scrive lui, “della fiducia nella capacità dell’arte di coinvolgere tutti in un dialogo profondo e anche in una pratica positiva”. Bradford ha stravolto completamente il neoclassico padiglione americano, riempiendolo di masse bulbose con la superficie butterata (ottenuta colpendo con una pompa a pressione strati sovrapposti di carta prestampata) e modificando le pareti e la cupola centrale con grovigli di nastri verde-gialli, dello stesso materiale, che paiono le spire di una piovra. Al centro incombe una Medusa che sembra un orrendo gomitolo. Sulle pareti libere sono esposte alcune opere pittoriche astratte di grandi dimensioni, e di notevole bellezza. In alcuni di essi Bradford utilizza le cartine per permanente nero violacee, cangianti, in ricordo del salone di bellezza dove lavorò con sua madre. Prima di uscire si viene bloccati da un grande schermo dove si proietta il video Niagara (2005) che mostra un suo vicino di casa che si allontana ancheggiando come Marilyn Monroe nell’omonimo film. 

 

 

Interessante è il padiglione dell’Austria per le opere di Erwin Wurm che espone fuori un camion a testa in giù, come piovuto dal cielo, quasi un palazzo visitabile entrandovi con la scala dalla pancia (Stand quiet and look out over the Mediterranean Sea, 2016-2017). All’interno, un vecchio camper con vari fori e le istruzioni dell’artista su come infilarci dentro la testa o un braccio, o come sedersi su un pezzo della carrozzeria portato fuori: l’opera d’arte diventa quindi il modo in cui il fruitore la usa e si adatta alle istruzioni immaginate dell’artista.

 

 

Il padiglione della Grecia è stato trasformato in una sorta di teatro antico-contemporaneo con una videoinstallazione narrativa ispirata alle Supplici di Eschilo (che hanno come protagoniste un gruppo di persone perseguitate in cerca di asilo). George Drivas mette in piedi un vero e proprio Laboratorio dei dilemmi: un gruppo di attori (tra i quali la sempre affascinante Charlotte Rampling) dibattono delle implicazioni morali e scientifiche di un controverso esperimento di biologia.

   

Il grande artista-fotografo Dirk Braeckman è il protagonista del padiglione del Belgio: lavorando con la fotografia analogica mette in discussione le convenzioni fotografiche. Il flash della sua macchina fotografica rimbalza sulla superficie del soggetto, sulla texture di pareti, tendaggi, tappeti e poster creando un effetto metallo grigio ghiacciato che spersonalizza le figure, oscurandone l’immagine.

  

Il bel padiglione della Svizzera, progettato dall’architetto Bruno Giacometti fratello di Alberto Giacometti, non ebbe mai la possibilità di esporre le opere del grande scultore (per tutta la vita Giacometti rifiutò di presentarle in quella sede). Il curatore Philipp Kaiser ha voluto “riempire” questa assenza con una serie di sculture create appositamente e un’istallazione filmica di grande suggestione: Flore (2017) di Teresa Hubbard e Alexander Birchler . Il film (che dura 50 minuti, ma vale assolutamente la pena di impiegarli a guardarlo) è la storia di un americano che ha scoperto di essere il figlio naturale di Giacometti. La madre (Flora Mayo), figlia di una famiglia agiata americana, era stata fatta sposare giovanissima con un matrimonio combinato. Caduta quasi subito in depressione, e decisa a separarsi, per evitare lo scandalo i genitori la mandarono a studiare arte a Parigi. Là, negli anni Venti, conobbe il già sposato Giacometti. Nacque un amore che portò anche a uno scambio di ritratti scultorei: lei, nel 1927, scolpì il busto di lui (andato distrutto, ma è visibile una copia in mostra) e Giacometti fece altrettanto, sempre nello stesso anno (Ritratto di donna. Flora Mayo). Poi lei tornò improvvisamente negli Stati Uniti, perché aspettava un bambino. I genitori le tagliarono gli alimenti e Flora fu costretta a vivere di stenti, senza mai rivelare, nemmeno al figlio, chi fosse suo padre. L’ultima scena del film è di quelle che non si dimenticano facilmente: si vede l’anziano signore, che ha narrato la storia mostrando foto e lettere e commuovendosi spesso, arrivare con passo incerto nella Galleria di Zurigo e, fermandosi difronte alla statua di Giacometti, esclamare “È la mia mamma!”

 

 

Avendo scritto una guida che seleziona soltanto le opere e gli artisti che, a mio sindacalissimo parere, sono notevoli, non vorrei contraddirmi in conclusione criticando due padiglioni, ma sento la necessità di far notare un paio di criticità stridenti con lo spirito stesso dell’esposizione. Anzitutto il Padiglione della Germania (che ha vinto il Premio della Giuria della Biennale). Anne Imhof ha stravolto la struttura del padiglione, circondandolo di una rete metallica e creando un corridoio trasparente sotto il pavimento dove corrono su e giù dei cani doberman. Sulla rete tentano di arrampicarsi, come migranti in fuga, attori che poi ricadono tra cani. L’intento del messaggio dell’artista può anche essere lodevole, ma la realizzazione risulta assai banale e forse persino offensiva verso coloro che scappano e cercano di superare muri e barriere, e nemmeno giusto per i cani, costretti a correre in un recinto scomodo sotto gli occhi degli spettatori.

   

Poco più in là il padiglione della Russia, sotto il titolo di Theatrum Orbis, presenta i lavori irrilevanti del Recycle Group (Blocked Content), sul Nono Girone della Divina Commedia, e di Sasha Pigorova (Garden), sulla forza dell’oscurità, e dedica il posto centrale a Cambio di scena di Grisha Bruskin che mostra la sua visione messianico-pessimistica della situazione odierna, dove dominano la violenza, il terrore e le strategie di controllo e repressione. Questo quadro abbastanza semplicistico del momento attuale, spiegato in una sorta di manifesto appeso alla parete, viene rappresentata con decine di figure bianche, tutte uguali, masse senza volto inquadrate compatte in falangi di cortei senza meta, circondate da altre figure più alte con fattezze extraterrestri e sormontate da strani uccelli predatori e vecchi aeroplani (che sembrano usciti dai manifesti di propaganda degli anni Trenta). Ma il senso della “denuncia” viene sintetizzato in un grande compasso (come quello del simbolo della massoneria) che controlla le masse…

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Viva arte viva

Perturbare l'ordine stabilito

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Il nuovo libro di Rossella Fabbrichesi è scritto “per tutti e per nessuno” e così anche chi non ha dedicato la propria vita alla vocazione filosofica può rintracciarvi alcuni elementi decisivi per la propria pratica. La filosofia viene infatti presentata come un sapere vivente che trova la propria specificità nel suo farsi, nel suo prendere corpo in una serie di pratiche che trasformano il sapere in opera viva. Il taglio pragmatico che viene dato al sapere consente di ripercorrere la storia della filosofia recuperandone la valenza politica. La filosofia è un esercizio da praticare in una relazione e può trasmettersi solo attraverso le vie della testimonianza. E nella testimonianza ciò che viene insegnato può essere appreso solo se diventa sapere incarnato: “un maestro ci guida, ma poi dobbiamo riuscire a progredire da soli, senza il suo aiuto, avendo incorporato le verità apprese”.

 

In tal modo possiamo subito comprendere come la tendenza ad archiviare il sapere filosofico negli scaffali impolverati di biblioteche ormai scarsamente frequentate rispecchi la tentazione umana di cristallizzare e ipostatizzare il movimento attivato da un sapere che punta invece a scombinare e rimettere in discussione ogni accumulo di conoscenze. Perché il cuore dell’esercizio filosofico consiste nel modo di esplorare e dare forma al sapere, il fine non è produrre certi contenuti utili per il raggiungimento di determinati obiettivi, ma esprimere in figure flessibili l’evento dell’accadere. L’attività del pensiero e le navigazioni nel mondo delle conoscenze vanno intese non come la manipolazione pratica di contenuti filosoficamente rilevanti perché il pensiero non è un oggetto che possediamo: “forse non dovremmo dire che il pensiero è in noi, ma che noi siamo nel pensiero, così come diciamo che siamo in movimento”.

 

In Cosa si fa quando si fa filosofia? l’autrice riprende l’immagine deleuziana dell’uomo che sta sotto un ombrello: guardando in alto trova una costellazione di conoscenze che lo proteggono, ebbene l’atto filosofico consiste nell’incidere con un taglio quell’ombrello per far passare attraverso uno squarcio ciò da cui ci stavamo proteggendo con le nostre conoscenze. L’esercizio filosofico si nutre quindi del coraggio e del desiderio di entrare in relazione con quel qualcosa da cui ci proteggiamo con quelle forme di sapere che sono già stabilite. La filosofia introduce una perturbazione nell’ordine prestabilito cercando di mettere in luce quel lato tenebroso dell’esistenza da cui ci teniamo al riparo. Nella parete troppo levigata della nostra realtà l’agire filosofico mira a far riemergere le crepe di un reale scabroso che scompagina le certezze acquisite. Il gesto filosofico è quanto di più lontano possiamo immaginare da ogni forma di catalogazione del sapere, è semmai un “atto di coraggio con cui si lacera l’ombrello protettivo e ci si espone alla caduta libera degli eventi”.

 

Se ci facciamo appassionare dal fare filosofia saremo piuttosto condotti attraverso le maglie del sapere cercando di indagare i punti e i momenti di snodo in cui il sapere sta per prendere forma, quel momento in cui il vivente non è ancora vissuto, in cui lo scriversi non si è ancora scritto. Si tratta in pratica di deviare dai tracciati già saputi imparando a scandagliare profondità non ancora espresse. La pratica filosofica è allora esercizio di una “ragione flessibile” che vuole sondare il punto di insorgenza e le strategie di sviluppo di modi d’essere e stili di pensiero.

Il lavoro filosofico è animato da un ethos politico e mette in secondo piano ogni episteme enciclopedica: l’amore per il sapere non può chiudersi nel recinto del logos ma deve piuttosto tradursi in una prassi che abbia rilevanza sugli affari della polis: “nell’operare di ogni grande pensatore non assistiamo che a variazioni metamorfiche dell’incedere socratico per le vie di Atene”.

 

Ph Kenro Izu.


Se seguiamo questa prospettiva riconosceremo l’impegno filosofico nella scelta di subordinare “l’indagine sulle diverse modalità epistemiche del divenir-vero di un concetto” all’interrogazione dei modi in cui il pensiero interviene nel reale producendo effetti di verità. “Interrogarsi sulle pratiche produttive di verità è evidentemente diverso dal chiedersi come il pensiero si adegui al reale. […] Benché risulti faticoso per noi pensarlo, in tale prospettiva il vero non si risolve in un gioco interno al logos, che lo contrappone al falso e rimanda a un piano di corrispondenze empiriche, ma si trasferisce sul piano dell’azione e della produzione di conseguenze veridiche, che significa in primo luogo conseguenze pragmatiche non vane”.

La valenza principale dell’esercizio filosofico non è dunque di “ordine gnoseologico”, ma “etico-pragmatico”.

 

L’amore per il sapere non si traduce né in una contemplazione astratta delle idee né in un’adeguazione del pensiero alle cose del mondo, ma si esprime semmai nell’interrogare e trasformare tutte quelle pratiche discorsive che operando sul “reale” cercano di renderlo sempre più “vero”. Il fare filosofia si svolge nella polis e trova il suo perno principale nell’interpellare gli altri nell’azione del produrre il vero, nell’intreccio di prassi quotidiane e posture etiche che danno corpo al sapere producendo effetti di verità. La pratica filosofica consiste nel dissodare quel terreno fatto di saperi, discorsi e assolute verità da cui ogni sapere trae la propria sicurezza e legittimità tanto da apparire istintivo. “Verità che non si producono dunque come risultati di processi logici e inferenziali, ma come pratiche in atto, indissolubilmente legate alle abitudini più inveterate che frequentiamo”. Ecco perché l’esercizio filosofico – sulla scia di Wittgenstein – si presenta innanzitutto come una battaglia “contro l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio”. La dimensione pragmatica diventerà così l’ambito privilegiato su cui potremo esercitare la ragione flessibile cercando di cogliere “un nuovo aspetto fecondo” che ci permetterà di transitare al di là delle nostre credenze. La pratica interpretativa della filosofia è destinata non solo a comprendere ma innanzitutto a prendere posizione. Comprendere per prendere posizione perché la posta in gioco della filosofia non è la fedeltà a una teoria, ma “un modo di frequentare la vita e, anzitutto, la vita della conoscenza”.

 

L’esortazione del lavoro filosofico si esplica in una trasformazione dei propri punti di approdo correndo il rischio di uno smembramento e di una disintegrazione soggettiva. Il rischio reale della filosofia si traduce così nella possibilità di trasformare “ciò che è accaduto, con la sua sorda e greve necessità, in qualcosa di fortemente voluto e alfine conquistato”. Si tratta di un percorso di soggettivazione che può realizzarsi solo assaporando la forza erotica del sapere filosofico. Per Rossella Fabbrichesi e per gli autori che ha chiamato a simposio, “ogni significato e ogni credenza devono essere interpretati nell’ambito dei principi guida dell’inferenza, ma tale disposizione dovrà non solo rispondere a un meccanismo logico-analitico, ma rivelarsi una potenza del gusto”. Affinché l’amore per il sapere non si risolva in una sterile trattazione disciplinare deve risvegliare la passione desiderante di ciascun soggetto. È questo il fondamento etico (erotico e sociale) di ogni esercizio logico che miri alla trasformazione soggettiva. Su questa strada però si incontrerà una roccia, un aspetto impermeabile a ogni ragione che tuttavia fonda ogni credenza. È il punto da cui prende le mosse e su cui si stringe ogni pratica filosofica.

 

La ricerca filosofica si accosta in primo luogo non ai logoi ma ai pragmata, ai fatti della vita che danno sostanza a un modo d’agire infondato. “Il dubbio interviene, a ben vedere, sempre dopo la credenza, e questa credenza fondante e, insieme, infondata non si instaura in virtù di una decisione razionale, non si reperisce in seguito a un atto di introspezione psicologica. Essa sfugge al circolo delle argomentazioni: non è né razionale, né irrazionale, né vera, né falsa. Semplicemente, nota Wittgenstein, comportando una serie di azioni pratiche, si identifica con la forma quotidiana in cui la vita trova espressione, con il suo carico di gesti immediati e di sicurezze tranquille”.

 

La nostra esperienza quotidiana è quindi intessuta di una rete di azioni molteplici e disposizioni ad agire che tracciano rigidamente il solco delle nostre convinzioni. Evidenze e certezze infondate sul piano logico ma che trovano ancoraggio nel flusso immediato della vita. Ecco la dimensione operativa e vissuta da cui traggono spunto molte riflessioni e categorie concettuali che in alcuni casi difendiamo strenuamente. Ne osserviamo rigidamente i dettami senza avere a volte il coraggio di interrogarne il fondamento logicamente infondato. Sono però le nostre certezze di base, fedeli compagne di viaggio e stabili punti di approdo: “verità che emergono dalle prassi e che il sapere fatica a conquistare e piegare al proprio metodo epistemico”. In questo corpo a corpo con le nostre credenze infondate si gioca la sfida racchiusa nel motto “diventa ciò che sei”, una sfida dove vita e conoscenza sono inestricabili e al contempo correlativamente opposte. È il nucleo rigido e granitico che ogni attività simbolica sogna di rendere flessibile.  

 

Ecco sinteticamente l’approccio conoscitivo che la pratica filosofica consegna a ogni attività che non può fare a meno della ragione flessibile. L’esercizio filosofico può infatti ricordare a tante pratiche terapeutiche costruite attorno alla funzione della parola che il gesto decisivo per sostenere la trasformazione soggettiva non è assorbire le credenze infondate che si insinuano come crepe nel nostro sapere e nella nostra esistenza, l’obiettivo di una terapia non è stuccare con la conoscenza ciò che si presenta come frattura insensata e punto di inciampo di ogni conoscenza. Se aspiriamo alla flessibilità potremo semmai prenderci cura delle nostre crepe senza più considerarle come ferite inferte alla rigidità delle nostre conoscenze, perché esse non sono lo strappo del tessuto con cui ci proteggiamo ma il punto privilegiato da cui poter accedere a quella luce o quelle tenebre che ci avevano spinto a costruire il nostro ombrello. Forse è per questa via (filosofica) che possiamo intendere quello che lo psicoanalista Aldo Carotenuto in Una lettera ad un apprendista stregone indicava come il fine di una cura psicoanalitica: trasformare le proprie ferite in feritoie.

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La filosofia come esercizio

Tash Aw, Stranieri su un molo

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Sempre più il termine identità è entrato nel linguaggio comune in un'accezione rigida ed ideologica, che ignorando l'elaborazione scientifica del tema e delle sue molte declinazioni, finisce al centro dell'agone politico e della giustificazione di conflitti e di “scontri di civiltà”.

Infatti, per quanto l'antropologia contemporanea abbia messo in discussione la concezione essenzialista dell’identità e abbia prodotto la smobilitazione del carattere fisso e deterministico delle culture, il dibattito pubblico ne è ossessionato, in particolare per quanto riguarda l'uso fattone dalle retoriche sovraniste e conservatrici, quelle dei nuovi nazionalismi “identitari”. Ma alla richiesta di identità non è estraneo nessun soggetto politico: tutti paiono concentrati sul bisogno di consolidare o sostituire forme di soggettivazione buone per l’agire politico. È quasi banale osservare che, sistematicamente a partire dagli anni Novanta, siamo letteralmente assediati da un'ampia costellazione di fenomeni in cui l’identità, con annesse mitologie, viene usata come grimaldello o, più spesso, brandita come una clava per servire interessi politici del presente. Secondo Danilo Zoletto nella sfera della comunicazione mediatica prendono vita «retoriche e rappresentazioni delle società culturali» basate sul duplice errore che un individuo sia «sovradeterminato da una cultura» e che le società in generale siano «monoculturali prima dell'arrivo dei migranti».

 

Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che l'identità non esiste in sé. La parola fa collassare in un termine almeno tre differenti elementi, come la soggettività personale, l’appartenenza sociale e la condivisione di una memoria culturale, a loro volta plurali e irriducibili in modo semplicistico a una “sostanza” di qualche tipo. «Immagine che un gruppo costruisce di sé e in cui i suoi membri si identificano», lungi da essere un dato fisico o naturale, le identità sono sempre il risultato della compresenza e sovrapposizione di più elementi e devono essere considerate come fenomeni cognitivi, «un’appartenenza sociale divenuta riflessiva» (Jan Assmann).

 

Le molte forme di identità in cui un soggetto si può riconoscere sono il prodotto di processi di scambio, negoziazione, trasformazione e sono costantemente e socialmente costruite – “inventate” – nel corso della storia. Le culture infatti non sono realtà “super-organiche” definite: sono dinamiche, fluide, mutevoli in virtù dei rapporti che i diversi soggetti intrattengono all'interno delle cornici culturali. Sociologi e antropologi sottolineano infatti il carattere di processo delle forme culturali adottate da individui e gruppi nel tempo, che, secondo la felice immagine di Clifford Geertz, somigliano a «reti di significati che gli uomini tessono e in cui poi rimangono impigliati». È dunque una retorica dell'identità, dell'autenticità, delle origini, che suppone esista qualcosa come la cultura, che abbia una forma fissa espressa nei costumi, nel carattere e nella geografia umana, tale da sostituire il concetto di “razza” nelle politiche dell’inegueglianza e dell’esclusione. Perché quale che sia l’identità e quali che siano i bisogni a cui risponde, se questa è un processo multidimensionale, privata del suo carattere mobile diventa una «nozione escludente e stigmatizzante» (Bernard Debarbieux).

 

Come sintetizza Marco Aime: «Chi ha mai visto due culture, incontrarsi o scontrarsi? Si tratta di espedienti retorici e analitici, di astrazioni formulate dagli studiosi per indicare a posteriori processi storici, ma utilizzare tali categorie per leggere la nostra realtà quotidiana può risultare fuorviante. In questa realtà noi vediamo donne, uomini e bambini conoscersi, convivere lottare e combattere». In questa battaglia culturale contro l'identità, il racconto delle storie personali e la messa in luca della soggettività irriducibile attraverso le narrazioni assumono grande importanza. All'incrocio con un'altra dimensione decisiva per il contemporaneo come le migrazioni si innerva il folgorante saggio Stranieri su un molo, Add 2017, di Tash Aw, scrittore nato a Taiwan da genitori malesi di origine cinese, cresciuto a Kuala Lumpur, ora residente a Londra. Questa breve sintesi biografica è già il tracciato del suo felicemente riuscito quanto dolente racconto, capace di disintegrare la rappresentazione semplificata di chi crede che le culture siano un quid tale da materializzarsi in individui, che ne sarebbero semplici portatori; il suo discorso è un moltiplicatore di sguardi complessi su un fenomeno coestensivo alla storia come le migrazioni.

 

«La mia faccia si mimetizza nel paesaggio culturale dell’Asia», scrive Tash Aw, che snoda le radici hokkien, hainanese, cantonese, hakka, teochew, le diverse provenienze dell’immigrazione cinese nel Sudest asiatico da cui è intrecciata la storia della sua famiglia. È il caso di sottolineare come il titolo del libro sia proprio The Face. Strangers on a Pier. Se il volto, come argomentava filosoficamente Lévinas, è la rivelazione dell'alterità irriducibile dell'altro uomo, nel tratto asiatico che la faccia dell’autore mostra al mondo egli vede il mistero dell’inoggettivabilità dell’identità e la traccia del «nostro desiderio che tutti ci somiglino. Vogliamo che lo straniero sia uno di noi, qualcuno che possiamo capire».

 

Molte le lingue dell'autore: malese, mandarino, inglese, cinese, cantonese e, a seconda dei contesti, forme miste di queste; molte le sue culture, quelle dei nonni “cinesi”, dei genitori figli di immigrati a Taiwan e quella, in cui lui è cresciuto, della Kuala Lumpur degli anni Ottanta, «multiculturale e in via di rapida urbanizzazione e rapido sviluppo di un sistema di classi basati sulla ricchezza», i cui sobborghi in rapida crescita ospitano mall segnati da Mc Donald’s e Nike Air e le cui scuole, attraversate da adolescenze inquiete, somigliano a quelle dell’intero mondo globalizzato e delle nuove geometrie di classe che in esse si definiscono.

 

 

Il suo racconto sbriciola le certezze di ogni europeo mediamente colto e rivela l'ignoranza celata dall’illusione di capire cosa sia la Cina, che da sola presenta una complessità maggiore dal punto di vista etnico e linguistico di quanto faccia l’Europa; Stranieri su un molo, dai tratti lievi ma taglienti di un racconto di famiglia su tre generazioni, apre uno squarcio su come l’Asia di oggi e in particolare la Cina han (quella maggioritaria nella Repubblica popolare) sia al centro di una grande narrazione di sé, volta a cancellare la vergogna e lo strazio del passato, della povertà, delle sue rivoluzioni e dei suoi conflitti. Con semplicità il libro ci mette di fronte la reinvenzione di una storia di successo che rimuove un dolore infinito, di lavori e separazioni, di perdizione e fallimento e di vittorie che chiedono il silenzio, perché dietro a ogni successo sta l'ombra nel passato recente di una povertà estrema e vergognosa. Sostituita dall'evocazione di una storia pubblica gloriosa tanto remota da essere innocua e dalla celebrazione di un presente che è già futuro dominio, di grattacieli e treni superveloci.

 

La storia raccontata da Tash Aw è la storia di tutte le migrazioni, grandi e piccole, in cui ognuno potrà trovare analogie e somiglianze. All'inizio ci sono i nonni di due rami diversi, in fuga da una Cina di «vertiginosa ed estraniante diversità», che si sottraggono alla povertà, alla violenza e alla mancanza di tutto, per cercare fortuna nell’area del Nanyang, l’Oceano meridionale, i cui snodi principali sono Singapore e Malacca, crocevia di flussi dell’impero coloniale britannico.

«Stranieri smarriti su un molo» sono prima di tutti i nonni, giovanissimi e inconsapevoli prima di essere i nonni, figure paradigmatiche di una condizione universale, che con un nome e un indirizzo scritti su un foglio di carta si muovono incerti alla ricerca dello “zio” che avrebbe dischiuso le porte del nuovo clan e del nuovo mondo, all’interno di una rete di solidarietà elementare, non priva di conflitti, dai tratti indefiniti di una galassia in espansione.

La voce dello scrittore è quella del nipote, sensibile, colto e istruito, frutto di una mobilità sociale intergenerazionale oggi impensabile, fatta di dura selezione, borse di studio e studi all’estero, per ottenere «i privilegi di quell’istruzione e di quelle opportunità che ci allontanavano dal resto della famiglia». Il suo è uno dei tanti drammi del mondo post-coloniale: l'avercela fatta – per qualcuno – rappresenta la realizzazione del sogno dei progenitori migranti e allo stesso tempo significa l'impossibilità radicale di avere il loro «stesso sguardo sul mondo». Il dolore sordo del cambiamento delle generazioni, che la migrazione rende più estremo.

 

«In qualsiasi luogo del Sudest asiatico posso spacciarmi per chiunque». «Spesso, quando mi accorgo che spiegare da dove vengo e chi sono risulterebbe troppo complicato, rinuncio. A volte fingo semplicemente di essere ciò che gli altri credono, qualunque cosa sia». Forse la finzione (fictio) dell’identità serve per nascondersi il fatto che ognuno diventa straniero per la sua famiglia e, in definitiva, a se stesso.

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Soggetti in movimento

La Fame di Rossini

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La famiglia abita due stanzette che devono essere state modestissime anche nella Pesaro papalina dell’epoca. Il padre musicista nella banda cittadina e fervente rivoluzionario, la madre cantante: sono già presagi sufficienti di una vita che è preceduta dalla sua ombra. Restano queste due stanze spoglie, per pavimento una specie di selciato. Sono contornate da altre, ben organizzate e ricche di materiali, che raccontano del successo del piccolo Gioacchino.

Immagini: 

Diavolo mietitore o extraterrestre?

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Tra la realtà e la fiction si insidiano immagini, storie e ricordi, che inducono interpretazioni e credenze, o sospetti e vacillamenti della credulità. Oggi si tende a pensare che il diavolo sia molto abile a usare Photoshop e postproduzione, e che agendo direttamente dentro la vita si insinui nella percezione dei mortali, così che le persone confondano spesso la finzione o l’inganno con la verità. Come dentro a un racconto borgesiano: accadono fatti, avvengono incontri, e si è talmente portati dalla narrazione seducente che alla fine non si è più sicuri di cosa sia più vero e convincente, se l’immedesimazione nel racconto o il quotidiano vissuto giorno per giorno. Il documento fotografico o video testimonia veramente un fatto accaduto? È più vera la realtà o ciò che si è immaginato come vero e poi riprodotto? Forse dipende da quanto una e l’altro influiscono nelle scelte di ogni individuo. 

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Nel frontespizio di The moving devil, un pamphlet del 1678, il demonio è descritto mentre realizza due ovali concentrici in un campo, adagiando a terra le spighe mietute, che paiono ardere come fiamme. I patiti dei cerchi nei campi di grano e i movimenti filoextraterrestri considerano questa immagine e questa storia come un precedente storico e una testimonianza indiretta legati a un incontro ravvicinato del terzo tipo. Così il diavolo, ovvero un essere celeste caduto sulla Terra, viene interpretato come fosse un alieno. Qui la storia viene considerata una rappresentazione simbolica di un evento non ancora dimostrabile, consegnata alla credulità o alla critica dei lettori. Molti ancora oggi credono alle leggende. La storia inventata, una volta che qualcuno la crede vera, può modificare in parte la realtà?

 

The moving devil or strange news out of Hartford-fhire woodcut, 1678, Folger Shakespeare library.


A giudicare dalla fortuna delle religioni in ogni periodo storico si è indotti a pensare che la finzione possa modificare in grandi percentuali la vita degli umani, influenzando le loro azioni. Qualcuno insinua che la fortuna delle religioni sia sottilmente voluta dal diavolo stesso. Nel pamphlet seicentesco viene narrata la storia di un ricco proprietario terriero che respinge la richiesta di aumento di ricompensa del bracciante nel periodo della mietitura. Il contadino, deluso e arrabbiato, si licenzia dal padrone nominandogli la figura ultraterrena: “Che lo mieta il diavolo, allora!” […] Accadde così che proprio quella notte il campo di avena iniziò a splendere come se fosse in fiamme, ma il mattino dopo si presentò mietuto alla perfezione […] Non si sa se mietuto dal diavolo o da un altro demone: di certo non da un essere umano.

 

Quando il padrone si avvicinò alle balle d’avena, non aveva più la forza né per sollevarle, né per portarle via”. Questa leggenda nasce quando in Inghilterra i padroni cominciano a recintare i campi, a introdurre nuove tecniche e colture, che modificano il paesaggio agrario. All’accorpamento delle proprietà frammentate e alla privatizzazione delle terre comuni consegue un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini poveri, che non hanno più diritti di pascolo, di spigolatura e di caccia, da secoli alla base della loro sopravvivenza. 

 

Mosaico raffigurante un serpente cornuto avvolto in spirale, XII secolo San Demetrio corone, Cosenza, chiesa di Sant'Adriano.


Moira Ricci parte da questa leggenda per modificare qualcosa della storia che appartiene a lei, alla sua famiglia e ai suoi conterranei, ma che si può allargare all’universale. Dove il cielo è più vicinoè un progetto iniziato nel 2014 e ora esposto a Reggio Emilia, nel chiostro di san Domenico, nell’ambito di Fotografia Europea. In un video girato con un drone, la visione dal cielo inquadra un ampio campo con due cerchi di fuoco concentrici, evocando la leggenda del diavolo mietitore, tramandata oralmente dai contadini.  

 

L’artista, come una figliola prodiga, ritorna alla sua terra d’origine, alla Maremma e al suolo che segna il confine dell’universo, e medita sul rapporto tra le sue radici e il cielo, nel luogo dove la sua famiglia è dedita al rispetto delle fatiche delle generazioni precedenti. È un ritorno a una terra in crisi, sempre meno coltivata dai contadini, spesso abbandonata: “Io ho fatto questo lavoro con uno stato d’animo molto confuso e contraddittorio. Come molti della mia generazione, ho abbandonato il podere uscendo così dalla tradizione famigliare. Adesso che sono spesso a casa, mi accorgo di non essere capace di mantenere un terreno fertile e dunque di tenere vivo un podere. Ormai ce ne sono rimasti pochi di contadini che sanno coltivare la terra, i poderi sono stati venduti a persone che ci vengono solo in vacanza. Con il mio lavoro non voglio polemizzare, non posso proprio io che me ne sono andata, ma piuttosto ritraggo una situazione che conosco bene e reagisco con quello che so fare”.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Dove il cielo è più vicinoè allo stesso tempo una tensione, una preghiera, un tentativo di fuga, una reazione ai controllori celesti, una presa di coscienza: chi vuole elevarsi verso il suo cielo interiore deve prima nutrire e curare la terra da cui parte. Con i due cerchi di fuoco Moira Ricci rievoca la poetica di Joan Jonas, si connette con i segni geometrici e astratti incisi sulle rocce dai popoli del neolitico, e cerca di ristabilire una dimensione magica e sacrale. Si affida ai mezzi e ai linguaggi dell’arte primitiva, a due semplici cerchi concentrici, per avvicinarsi alla dimensione che si trova a una certa distanza dalla realtà in cui vive l’uomo. Questi cerchi infiammati nel paesaggio non sono legati al solo luogo, ma sono da intendere come riflessioni e segni rivolti verso un’altra dimensione, vera o solo immaginata non importa, perché si tratta di reiterare gesti che giungono da tempi remoti: tracce come cuciture tra due realtà, quella presente e quella proiettata nel futuro, nella dimensione più lontana del cielo, anche verso quel maligno che sta da un’altra parte. Sono messaggi rilasciati dagli adepti rurali per il cielo, tracce di un avvicinamento o di un collegamento extraterrestre, o testimonianze certe della presenza del diavolo mietitore?

 

O qua su o qua giù, particolare della morta con Lucifero e i diavoli.


Moira Ricci lascia che le risposte stiano in sospensione nel tempo, così che ogni singolo spettatore possa essere portato a vedere dall’alto, in volo sulle terre come in un viaggio onirico. I due cerchi concentrici sui campi e sulle colline vengono trasfigurati in simboli luminosi, che collegano la preistoria al presente.

Sempre in riferimento a questa tensione poetica, un secondo video documenta le fasi di lavorazione per costruire – con l’aiuto di famigliari e amici – un’astronave, partendo da una trebbiatrice. L’ingenuo progetto, pur essendo un tentativo destinato al fallimento, considera superflua la riuscita finale del decollo e rimarca invece uno spazio per darsi da fare, qui e ora, con quello che c’è a disposizione. Un lavoro, quindi, che determina la volontà di andare oltre, di ridefinire la realtà per affrontare il futuro, una sorta di viatico alla non rassegnazione: “Per la trebbia-astronave ho scelto di fare il video, che in realtà è un time-lapse e dunque si tratta di foto, perché per me era importante far vedere innanzitutto la trasformazione dalla trebbia all’astronave con tutto quello che succedeva in mezzo.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


In che altro modo potevo fare per non perdermi quei momenti d’interazione spontanea tra le persone che hanno collaborato alla costruzione? Sono partita senza sapere cosa sarebbe successo e se sarei riuscita a ottenere qualcosa alla fine. Ho proposto a mio padre di fare un’astronave, lui ha disegnato su una lavagna in modo elementare come la voleva e da lì l’abbiamo costruita a braccio in 37 giorni. In questo caso quello che mi sono costretta a imparare è stato molto; una tecnica tra le tante è stata la saldatura”.

La metamorfosi da una forma a un’altra, resa nel video con l’effetto del time-lapse, testimonia che la trebbia diviene una navicella spaziale nell’avvicendarsi del giorno e della notte, attraverso la fatica e la partecipazione delle persone coinvolte, aprendo anche alla possibilità che si possa elevare verso una prospettiva ultraterrena. Foto di grandi dimensioni mostrano poi coloro che hanno costruito un mezzo, utile per trasformare l’impossibile in un viaggio: rivolgono lo sguardo e le loro aspettative verso l’alto, in direzione del cielo, con il sorriso dei contadini cosmonauti, con la speranza che si apra una via di collegamento con l’universo. E questo è un primo passo, forse, per far evolvere finalmente la specie umana.

 

Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Il diavolo mietitore, 2014, courtesy Laveronica contemporary art gallery.


Moira Ricci, Dove il cielo è più vicino, Fotografia Europea, 

Chiostri di San Domenico, via Dante Alighieri, 11 - 42121 Reggio Emilia

dal 5 maggio al 12 luglio

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Moira Ricci a Fotografia Europea

La persona è online

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Ogni volta mi chiedo: ma cosa fanno? Stanno rispondendo a un messaggio, a una richiesta di incontro, stanno controllando l’email, le previsioni del tempo, prenotano il cinema, guardano foto, caricano un video, stanno dando la caccia a un Pokemon, stanno lavorando… Lo schermo è sempre tra noi, perfetti sconosciuti che comunicano con i loro dispositivi, a loro affidano gusti e interessi, vizi e virtù. Abituati a essere sempre connessi alla rete delle reti, sviluppiamo e troviamo nuove forme di adattamento, modalità originali di muoverci nel mondo reale e in quello virtuale. Mentre la cronaca propone ogni giorno episodi che interrogano, chiedono di riformulare, anche giuridicamente, il confine tra pubblico e privato, pongono quesiti etici legati alle potenzialità esponenziali del mezzo. 

 

Quali sono gli effetti sul comportamento umano di questa nuova galassia? La nuova edizione italiana (a cura di Paolo Ferri e Stefano Moriggi) di La psicologia di Internet (Raffaello Cortina Editore, 2017) cerca di fare il punto sulla mutazione epocale della nostra soggettività. L’autrice, Patricia Wallace, che si occupa di psicologia delle relazioni e dell’apprendimento e ha insegnato alla Graduate School del Maryland University College, considera la convivenza con questa “protesi” un’estensione, un accrescimento del Sé di quella che definisce persona online. E, pur conoscendo in modo approfondito gli usi “eccessivi” e perversi che la rete rende accessibili a tutti, dichiara fin da subito le sue conclusioni: i vantaggi sono superiori alle criticità, e per le correzioni meglio aspettare e invocare un po’ di … vecchio buon senso. 

Il pregio del suo testo, quasi 500 pagine dal taglio un po’ manualistico, 

è l’immensa raccolta di esperimenti che mettono a confronto il comportamento, in situazioni della vita reale, spesso con la tecnica della simulazione, con quanto avviene quando la persona è online. Come cambia l’esperienza navigare nel cyberspazio, poter proiettare la nostra personalità, modellarla e moltiplicarla? 

 

Patricia Wallace enumera ricerche che riguardano l’affettività e la sessualità, la dinamica di gruppo e quella del gioco, lo sviluppo infantile e adolescenziale, le attività lavorative e di socializzazione, la possibilità di acquisire informazioni in un database infinito. Il risultato è una sociologia descrittiva, un po’ impressionistica, secondo un mainstream ormai anche accademico, la cui linea guida, la separazione tra Vita reale e tutto ciò che avviene online, rischia di fornire risposte teoricamente troppo semplificate. O meglio, che possono apparire tali a un lettore europeo, avvezzo ad altri mondi culturali. A fare la differenza non è solo la diversa diffusione di internet nei differenti contesti – qui l’uso privato delle tecnologie è vicino a quello degli Stati Uniti (le usa l’87% degli adulti con una distribuzione uguale tra i due generi), ai paesi del Nord Europa, Germania, Gran Bretagna, Corea, Giappone, e ora la Cina, ma nell’ambiente professionale e istituzionale italiano la diffusione è inferiore agli standard internazionali. 

Difficile, mi pare, mettere a confronto pattern comportamentali che saltano dalla Corea alla Finlandia, dalla Svezia al Giappone, dall’Egitto alla Slovenia. Perché, solo per fare un esempio, le forme della socializzazione sono talmente diverse da rappresentare già una precondizione da studiare. 

 

Illustrazione di Marco Melgrati.


Alcuni temi ricorrono e alcune delle questioni analizzate sono decisamente significative. Seppure le loro implicazioni teoriche siano più postulate che affrontate. A partire dalla rivoluzione del linguaggio che internet ha provocato. L’accumulo di abbreviazioni, sigle, contrazioni, acronimi, l’uso di hashtag per facilitare la ricerca con parole chiave: tutto si svolge in inglese. Ma dato che l’inglese usa comunemente la scrittura fonetica questo influenza, e come, le altre lingue? 

 

Rilevanti, si sa, sono i cambiamenti che il mezzo provoca nello scambio interpersonale. Conversare via skype o chattare via WhatsApp, dunque senza impressioni olfattive, senza o ridotto “contatto visivo”, riduce i messaggi corporei, induce la necessità di una maggiore verbalizzazione. Paradossale: le parole si contraggono mentre aumentano. Da questo punto di vista il colloquio psicologico potrebbe fornire materiale stimolante sul rapporto tra dimensione verbale e non verbale. Sono infatti sempre più numerosi i terapeuti che conducono sedute online, con compagni d’analisi che conoscono da tempo, ma anche con persone mai incontrate prima – per esempio un italiano all’estero.

 

Nello scambio scritto accade qualcosa di simile, si avverte il bisogno di compensare la mancanza della voce, dunque l’assenza di tono e di ritmo, con un accompagnamento di emoticon per essere certi di aver trasmesso l’umore o l’ironia. Quando si passa alle sfumature però il malinteso è in agguato, a quel punto bisogna parlarsi di nuovo a viva voce.

Un altro tema dalle implicazioni importanti è quello del tempo, che la rete rende asincrono. Una particolarità non da poco: da un lato ci sono 3,6 miliardi di persone al mondo in connessione, dall’altro il mezzo permette a ognuno di avere un proprio tempo. Fatti ed eventi non coincidono, a un messaggio ricevuto in questo istante posso rispondere subito o tra una settimana. E a questo proposito, ma più in generale per quanto riguarda il rapporto tra reale e virtuale, verrebbe da rovesciare l’assunto: è internet che cambia il nostro vissuto del tempo, oppure è internet che riflette il cambiamento di un tempo dove ogni singolo – pensiamo solo a quanto conti per una coppia trovare un proprio ritmo – vive un suo tempo. Certo, siamo multitasking, internet permette di ordinare la spesa, avere un incontro sessuale, partecipare a un’attività sociale, chiedere un consiglio medico, ma… quando io ho tempo.

 

Dunque, appare ormai superata l’annosa questione se internet isoli o amplifichi le possibilità di relazione, in un momento storico in cui la relazione avviene spesso online. E ci fa scoprire ribaltamenti di Freddo e Caldo; a volte, chi parla poco scrive molto, chi è secco nella comunicazione diventa enfatico nel testo email. L’analisi dei dati di migliaia di profili dei siti di dating conferma che, quando costruiamo il nostro profilo, scegliamo di far vedere il meglio. L’aspetto fisico risulta la caratteristica più importante, a cui segue una lista di “mi piace” dove si procede per similitudini di gusti e valori: si è convinti che la familiarità fa nascere l’amore. La self-disclosure via internet (negli Stati Uniti uno su dieci, il 38% tra i single, usa il mezzo per trovare l’anima gemella) fa sentire però clienti più che utenti, produce una “mentalità da shopping”. La collezione dei dati, che sullo schermo si incastra in modo ideale, si scombina per l’imprevedibilità dell’incontro in carne e ossa.

 

La ricerca di una dimensione familiare si riscontra anche nelle azioni di solidarietà (fundraising e crowdfunding), nei gruppi di sostegno a tema (dalla tossicodipendenza, al disturbo alimentare, alla scelta sessuale). In un mondo impersonale chiediamo alla rete comprensione e sostegno.

L’anonimato, la distanza fisica, l’amplificazione del messaggio, le diverse opzioni informatiche sono un dato che può produrre empatia allargata, ma anche una “disinibizione tossica” che aumenta l’aggressività e riduce il senso di responsabilità. Il collettivo online polarizza, accresce il conformismo e l’estremismo, le stereotipie, e le “scorciatoie cognitive”. Difficile trovare mediazioni. 

Insomma, dalle dipendenze alle modificazioni cerebrali, all’influenza sui bambini e sull’apprendimento, numerosi sono ancora i campi di ricerca. Disconnetterci è ormai impossibile: internet è già diventata la nostra memoria, il modo della nostra permanenza e del nostro oblio.

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La mutazione epocale della nostra soggettività

Cinquant’anni dopo: il Nuovo Teatro

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Sono passati già cinquant'anni da quei giorni di giugno del 1967 in cui nella cittadina piemontese di Ivrea si riunì, segnando un punto di non ritorno senza precedenti, il Nuovo Teatro italiano. Sullo stimolo di un documento pubblicato pochi mesi prima sulla rivista “Sipario” promosso dai critici Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo, Edoardo Fadini, Franco Quadri e firmato da figure eminenti della nuova cultura italiana – non solo teatrale –, si ritrovarono lì a discutere e confrontarsi con artisti come Carmelo Bene, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis, Giuliano Scabia. Percorsi e figure radicalmente diversi fra loro che però nell'insieme negli anni sessanta stavano scuotendo alla base l'idea e la pratica delle arti performative in Italia – creando appunto un teatro nuovo. Il Convegno di Ivrea arriva a riepilogare, certificare e rilanciare queste pulsioni, con l'intenzione di discutere i modi e gli orizzonti del rinnovamento da innumerevoli punti di vista: artistici ed estetici, ma anche politici ed etici, teorici, organizzativi, pratici. E di intervenire in concreto a sostegno delle nuove tendenze.

 

Quale sia stato il valore fattuale e culturale di quell'evento, quali le sue ricadute, le sue conquiste e anche le potenzialità non completamente espresse; cosa sia successo dopo, fra le diverse ondate del Nuovo Teatro italiano, come siano cambiati o meno gli scenari, le posizioni, le tendenze; come sia la situazione oggi nella ricerca emergente nel campo delle arti performative, sono alcune delle domande alla base del convegno Ivrea Cinquanta, svoltosi a Palazzo Ducale di Genova con l'organizzazione di Teatro Akropolis, l'ideazione e la cura di Marco De Marinis, la consulenza scientifica di Silvia Mei e la collaborazione di un Comitato scientifico-organizzativo di cui fanno parte inoltre Fabio Acca, Roberto Cuppone e chi scrive.

 

Diviso in cinque sessioni di lavoro distribuite su tre giorni (5, 6, 7 maggio), Ivrea Cinquanta ha visto la partecipazione di studiosi, critici, operatori, artisti di diversa provenienza, età, linguaggio ai tavoli di discussione, ciascuno introdotto da due keynote speech e ognuno dedicato a un aspetto diverso del Nuovo Teatro: Avanguardia / Nuovo Teatro: le parole e la storia; Dall’attore all’artista, dalla compagnia al progetto; Post-Novecento, nuove ondate, terza avanguardia: un’altra storia?; Nuovo Teatro e Nuova Critica: un bilancio; Dalle cooperative ai centri: vicissitudini di un’alternativa. Completano il programma l'intervento di alcuni testimoni d'eccezione, Giuliano Scabia, Pippo Delbono, Carlo Quartucci (intervistati rispettivamente da Marco De Marinis, Roberto Cuppone, Lorenzo Mango) e due momenti performativi affidati a Lorenzo Gleijeses e a Andrea Cosentino.

Impossibile ripercorrere qui in ordine, in profondità e in dettaglio lo svolgersi di tutte le relazioni e discussioni, lo svilupparsi del dibattito. Ma, dopo la densità di quelle giornate, è doveroso quantomeno rintracciare – tramite un punto di vista interno, partecipe all'iniziativa – alcune linee emergenti del discorso che sembrano a chi scrive significative per rappresentare la riflessione intorno a Ivrea in quanto opportunità critica di ragionamento sul Nuovo Teatro del nostro paese dagli anni sessanta a oggi.

 

Andrea Cosentino.

 

Mettere in storia il Nuovo: fra studiosi e artisti

Un primo tema che ha scandito diversi fra gli interventi in programma a Ivrea Cinquantaè stato quello della storia del Nuovo Teatro, anzi delle modalità di ricostruirne la vicenda e della possibilità stessa di farne storia – una questione che, con la distanza, è diventato negli ultimi tempi assolutamente indispensabile cominciare ad affrontare. Gli interventi su questi fronti si sono raccolti soprattutto nella prima sessione del convegno, specificamente dedicata al tema con il coordinamento di De Marinis. A partire dalle introduzioni di carattere trasversale di Lorenzo Mango – che in anni recenti si è dedicato proprio alla storicizzazione del Nuovo Teatro, guidando un'équipe di giovani ricercatori del cui lavoro ha dato prova un'altra relatrice della sessione, Mimma Valentino – e di Antonio Attisani, in una relazione-intervista che è stata letta, in assenza, da Franco Perrelli. Si possono inquadrare gli interventi raccolti su questi temi seguendo l'indicazione di metodo intorno a cui ha ruotato l'intervento di Mango: la possibilità – più che di “fare” – di mettere in storia il Nuovo, cioè di rompere l'isolamento che a volte l'ha definito come eccezione e di ricalarne le vicende all'interno dei contesti concreti in cui si sono innescate e sviluppate. I diversi contributi che sono seguiti si possono senza troppe forzature collocare su questa prospettiva, fra il Convegno del '67 e i suoi successivi riverberi sull'ambiente teatrale italiano. Il potere della critica, il sostegno pubblico agli artisti, la contestazione dello statuto stesso del teatro; la natura sociale, inclusiva – oltre che innovativa – di quelle esperienze; la nascita e la permanenza della cultura giovanile; la critica alle istituzioni e le successive dinamiche di istituzionalizzazione stessa del Nuovo sono alcuni dei temi emersi e discussi in questo campo da Attisani, Stefano Casi, Gerardo Guccini, Mimma Valentino.

 

Ma la “messa in storia” del Nuovo Teatro che si è potuta saggiare a Ivrea Cinquanta non ha toccato soltanto il senso di quell'evento fondativo o di quelle prime stagioni di sperimentazione, fuoriuscendo ad attraversare tutto il secondo Novecento e le ondate più recenti della ricerca. Per esempio nella seconda sessione dedicata alle mutazioni genetiche della figura dell'attore e della forma-gruppo, con interventi introduttivi di Laura Mariani e Paolo Puppa, che a lungo si sono occupati del tema da diversi punti di vista; e naturalmente nella terza sessione centrata sulle ultimissime espressioni della scena contemporanea, aperta da due relazioni di ampio respiro sugli ultimi quindici anni, l'una di Fabio Acca sulla danza e l'altra di Silvia Mei, che si è interrogata proprio sulle peculiarità di storicizzazione di questa fase.

 

La “messa in storia” del Nuovo Teatro non è stata affidata esclusivamente a critici e studiosi, ma anche alla testimonianza diretta di due protagonisti del Convegno di Ivrea, delle stagioni successive della ricerca e della scena contemporanea: Giuliano Scabia e Carlo Quartucci. La loro testimonianza ha trasmesso nei fatti, a viva voce quali pulsioni avessero scosso il teatro italiano fra anni Sessanta e Settanta e come queste si siano andate poi a sviluppare nel tempo, rivelandosi in alcuni casi fino a oggi al centro delle tendenze del sistema e della cultura teatrale del nostro Paese.

Così, si è mostrata nei fatti un'altra possibilità di fare storia, in prima persona. Che è tornata con forza anche nelle diverse sessioni del convegno a cui hanno preso parte differenti artisti: Valter Malosti, Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco nella seconda (oltre agli studiosi Armando Petrini e Dario Tomasello); Simone Derai, Clemente Tafuri e David Beronio nella terza (insieme a Rossella Mazzaglia e Laura Gemini, anch'esse studiose); Fabrizio Arcuri e Gabriele Vacis nell'ultima dedicata al tema delle politiche culturali.

 

Questo conduce a un fondamentale tratto condiviso fra il convegno del 1967 e quello del 2017: il confronto fra prospettive diverse, in cui la presenza di studiosi, critici, operatori qui e lì si è intrecciata profondamente a quella degli artisti – come ricordato più volte nei giorni genovesi, uno degli elementi distintivi e essenziali della “tradizione del nuovo” nel sistema teatrale italiano fin dai tempi di Ivrea.

 

Giuliano Scabia e Carlo Quartucci.

 

La critica nel Nuovo Teatro fra passato e futuro

Altro punto chiave di Ivrea, fra il 1967 e il 2017 si è rivelato essere la critica. O, meglio, il rinnovamento possibile della critica in relazione alla differente impostazione immaginata e sperimentata per la scena da parte degli artisti del Nuovo: una vicenda che si innesca proprio intorno al Convegno di Ivrea provocando un progressivo ampliamento della funzione critica che arriva secondo diverse vie e varie declinazioni fino ai giorni nostri. Perché nel secondo Novecento in Italia, oltre che tante ondate di ricerca artistica, si sono verificate – più o meno inaspettatamente – anche diverse, vivaci stagioni nel campo della critica teatrale: ogni volta una “nuova critica”, come si cominciava a chiamarla proprio al tempo d'Ivrea, per un Nuovo Teatro. Gli interventi introduttivi alla quarta sessione – di chi scrive e di Oliviero Ponte di Pino – insieme al contributo dei relatori della tavola rotonda hanno descritto da punti di vista diversi la qualità, la natura e il senso di questi rapporti, così come si sono riformulati fra gli anni Sessanta e il presente: dall'intervento storico di Salvatore Margiotta alle prospettive sul nuovo teatro sociale d'arte – e sul modo in cui guardarlo – di Andrea Porcheddu, dalla testimonianza di Adele Cacciagrano su quell'evento-chiave degli ultimi anni che fu la Biennale Teatro diretta da Romeo Castellucci e il suo laboratorio di pensiero e scrittura, alle criticità sul contemporaneo sollevate per un verso da Paolo Ruffini e per l'altro da Lorenzo Donati – il primo rispetto alla grande libertà oggi a disposizione, dopo l'esaurimento dei punti di riferimento e delle tendenze operanti in precedenza, l'altro nei confronti di quelli che risultano a suo avviso i due elementi-chiave della critica attuale, la moltiplicazione delle voci “nella rete”, anche grazie al web, e la qualità relazionale delle tante attività che i critici si trovano a coltivare, anche a rischio di perdere la propria riconoscibilità professionale.

 

Molte sono state – e sono – le sperimentazioni di lessico, formato, linguaggio in quel processo di “adeguamento” – così era definito nel Manifesto apparso su “Sipario” nel '66 – degli strumenti, di ampliamento delle funzioni innescatosi fra anni Sessanta e Settanta in campo critico. Ma in effetti forse una delle eredità più importanti e tuttora incandescenti dei tempi di Ivrea sta proprio nella possibilità di ripensamento della critica anche oltre le pratiche di analisi, racconto, scrittura della scena contemporanea: negli anni l'hanno chiamata militanza, sporcarsi le mani, fiancheggiamento, ecc., facendo riferimento a tutte quelle attività che i “nuovi critici” di oggi e di allora hanno intrapreso a sostegno del nuovo, fra la direzione di riviste, l'impegno editoriale e l'organizzazione di rassegne e festival.

 

Dialogo tra Roberto Cuppone e Pippo Delbono.

 

Biodiversità estetica: una prospettiva politica

Per concludere questo percorso all'interno di Ivrea Cinquanta e dei suoi rapporti con il precedente del 1967 (e con tutto quello che è intercorso nel frattempo), va detto che elementi comuni fra le diverse ondate della ricerca non sembra ne siano rimasti poi molti, almeno a quanto è emerso dagli interventi al convegno: dal racconto dell'allestimento di Zip (1965, testo di Scabia e regia di Quartucci); dalle incursioni delle avanguardie internazionali come il Living o l'Odin fino ai punti di rottura dei primi anni Ottanta; ai Teatri 90 e all'effervescenza degli anni Zero – per citare solo alcune delle tendenze discusse nei giorni di Genova. Tutta un'altra storia. Ogni volta. Fra l'altro in un'epoca, quella contemporanea, in cui la diversità sembra venire accolta come un valore: se è vero che – come tanti critici e studiosi hanno testimoniato negli ultimi quindici anni – l'autentico dato condiviso nel teatro delle ultime ondate pare essere proprio quello di non avere assolutamente niente in comune: né dal punto di vista dei linguaggi e delle estetiche; né in senso geografico, com'era stato fino a qualche tempo prima con la Romagna Felix o i siciliani; né rispetto ai riferimenti, alla tradizione teatrale (della scena ufficiale e del Nuovo); e nemmeno – com'è sembrato all'inizio – a livello generazionale, etichetta a cui i gruppi delle ultime stagioni della ricerca sembrano sfuggire con fermezza (sul tema si rimanda al numero 24 di "Culture Teatrali" sulla Terza Avanguardia curato da Silvia Mei).

 

Molti sono tornati a riflettere su questo punto, sia analizzando alcuni aspetti sia valutandone le motivazioni o le conseguenze. Ma per chiudere si sceglie qui di ricordare l'intervento di Fabrizio Arcuri, che ha concluso la quinta e ultima sessione dedicata alle politiche culturali (che ha visto intervenire, dopo gli interventi introduttivi di Piergiorgio Giacchè e Roberto Cuppone, inoltre Lucio Argano, Edoardo Donatini, Angelo Pastore, Amedeo Romeo, Gabriele Vacis). Guardando l'avvicendarsi di queste “generazioni che affiorano e rompono col passato”, il regista ha valutato come questa tabula rasa che si presenta di volta in volta, di ondata in ondata in realtà sia viva e vera soprattutto se si guarda alla storia del Nuovo da un punto di vista estetico; da una prospettiva invece reale, umana, etica, politica anche, a suo avviso si avverte una enorme continuità, che nel suo caso riconosce per esempio rispetto agli esordi di Accademia degli Artefatti – convocata insieme ad altri esponenti di quelli che sarebbero poi stati i Teatri 90 dalla Socìetas Raffaello Sanzio a Cesena nel 1993-'94 in coincidenza all'annullamento del contributo ministeriale alla compagnia – e dall'altro lato nei confronti del proprio impegno – insieme ad altri – rispetto alle generazioni più giovani, per esempio all'interno del Premio Scenario e del festival Short Theatre.

 

Lorenzo Gleijeses.

 

Diversi elementi tornano, fra oggi e il 1967, se si pensa fra l'altro che alcuni “nuovi critici” degli anni Duemila (Graziano Graziani, Silvia Mei, Andrea Nanni, Rodolfo Sacchettini, ma anche Renato Palazzi o Attilio Scarpellini, solo per citarne alcuni), dopo un iniziale e sintomatico spiazzamento di fronte alla cangiante biodiversità dei teatri del nostro tempo, hanno avanzato l'ipotesi – riassumendo al massimo – che questa si potesse leggere nell'insieme, fra le sue innumerevoli manifestazioni, come una precisa scelta di carattere politico: per esempio, interpretando il fenomeno di un nuovo, strano “realismo” pop espresso dai nuovi gruppi allo scopo di decostruire, smontare, mostrare in scena il funzionamento dei meccanismi teatrali e non; o anche interrogandosi sulla necessità della sperimentazione di un diverso rapporto con l'altro, sia esso lo spettatore – sempre più spesso coinvolto in senso stretto o lato nello spettacolo – o le figure dell'ambiente interno del teatro; ma anche allo scopo di instaurare una irriducibile “irriconoscibilità” come atto di resistenza per sfuggire ai tentativi di omologazione e sfruttamento da parte del sistema. O più ampiamente – come sostengono altri – con l'obiettivo di creare un teatro sempre Nuovo, in uno stato di rifondazione permanente, nel senso di capace di unire esigenze etiche ed estetiche; di adattarsi e ridefinirsi, progetto per progetto, secondo le necessità degli artisti, degli spettatori e del mondo che li circonda. Oggi come cinquant'anni fa, quasi un'eredità – passata per vie traverse, ma reali e concrete, umane, come ci ricorda la testimonianza degli artisti – da un'ondata all'altra del Nuovo Teatro italiano.

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Convegno di Ivrea 1967/2017

Contemporary African Art: A question of label?

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Italian Version

 

When I was asked to work with a new contemporary art gallery focusing specifically on African artists, my first reaction was, of course, one of joy and excitement, not only because this was the kind of job I had always longed for, but also because the word “African,” associated with contemporary art, triggered a number of ideas, thoughts and impressions on which I had been reflectingfor a while. First of all, why do we talk about“African” art? This is not a merely geographical designation, as this label is also used to indicate works by artists of African descent born and/or based in other countries, as a consequence of the so-called “diaspora.” Besides, North African art is usually regarded as a category of its own, due to its “Arab” and “Islamic” influences. Therefore, “African” art is neither a geographical label nor a category in itself, as there are no stylistic, thematic or technical features that can univocally be attributed to it.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi – Kimathi Donkor - Mary Sibande - Robert Pruitt , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Yet, most of the 2017 spring cultural events in Paris were about “contemporary African art” –from Art Paris Art Fair, which had Africa as a guest of honor,to a number of exhibitions and conferences spread across the city. The 2016 Armory Show in New York also put the spotlight on Africa, and so did many other institutions and exhibitions around the world. Based on this, one would assume that “contemporary African art” must be something quite specific, but how can we define such specificity? When describing Africa, the West has never been able to get rid of its long-standing imperial gaze. The Magiciens de la Terre exhibition, for example, had the merit of bringing a number of artists from all over the world to the attention of large audiences, but it was not able to go beyond the mere reproduction of power relations between French culture and minorities. Thus, it failed to give equal dignity to the exhibited works and artists, perhaps because the audience was not ready for it; and this inevitably gave way to exoticism, with foreign cultures presented as variations from the norm, which was obviously identified with Western culture. Things do not seem to have changed much since then.While this current focus on contemporary African art has certainly given visibility to artists affected by a center-periphery hierarchical perspective, this glorification of minority as such is indeed counter-productive.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi - Joel Mpah Dooh - Coby Kennedy , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

By labeling contemporary art as “African,” we mark it as different from non-African contemporary art and fall into aninclusion/exclusion trap, creating a perception of difference where there was none to begin with. Suffice it to say that most contemporary African works of art cost less than their non-African counterparts, although being created by equally talented artists. So why is this distinction still made? I have been asking myself this question for months; the answer would probably open up a number of other issues that would be difficult for me to sort out. I wonder if I’m not too permeated with my own Western culture to see that an African specificity does exist. What if my tools are actually too limited to approach these matters? What if the otherness of “contemporary African art” is actually a form of resistance to the Western art system and its delirious market, a form of self-defense and self-differentiation that we create to make clear that the Western system is not the only one, but there is also a parallel and different African system with which it is possible to interact without merging. I have difficulty believing that this is the case; or rather, I don’t think this can be a winning and lasting approach in a globalized world where market embraces everything in order to survive.

 

C-Gallery.

 

As far as I can see, another danger exists: the danger of turning this“African art” label into a market trend, into a speculative bubble that pushes up sales as long as it is necessary, until a new trend comes out and replaces it. If this were the case, then “contemporary African art” would only be a moment in history, rather than history itself. In the end, I ask myself how I can contribute, as a curator and gallery manager, to avoiding these traps, and encourage others to follow suit. This is my challenge, but it is also the challenge of our present time. Perhaps, we need a great cultural revolution that will eventually make all these issues pointless. What I know is that history will certainly find its way, and I hope this time it will be a history written by many, by all.

 

Traduzione di Laura Giacalone.

 

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Arte Contemporanea Africana, questione di etichetta?

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English Version

 

Quando mi è stato chiesto di lavorare per una nuova galleria d’arte contemporanea che avrebbe trattato in prevalenza artisti africani, la mia prima reazione è stata ovviamente di grande gioia, non solo perché il lavoro era molto vicino a ciò che avevo da sempre desiderato, ma anche perché quell’aggettivo “africana” accostato all’universo arte contemporanea per me evocava una serie di idee, riflessioni, sensazioni che proprio in quel periodo andavo concependo. Intanto perché si parla di arte “africana”? Non si tratta di un aggettivo prettamente geografico in quanto viene in genere associato anche alle opere realizzate da artisti di origine africana, ma nati e/o residenti in altri Paesi in tutto il mondo, frutto della cosiddetta Diaspora. Inoltre si tende, per esempio, a far categoria a parte dell’arte Nordafricana con le sue influenze “arabe” e “islamiche” spesso più marcate. Dunque non è una questione geografica, ma non si tratta nemmeno di una vera e propria categoria perché non esistono cifre stilistiche o tematiche o tecniche proprie solo dell’arte africana.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi – Kimathi Donkor - Mary Sibande - Robert Pruitt , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Eppure. Le manifestazioni culturali della primavera parigina 2017 sono state interamente dedicate all’Arte Contemporanea Africana, a partire da Art Paris che annunciava l’Africa come ospite d’onore della fiera, per arrivare alle molteplici mostre e conferenze che hanno animato tutta la città. L’edizione 2016 di Armory Show a New York aveva come focus l’Africa e così via per tutta una serie di altre istituzioni e iniziative in tutto il mondo. Ne deduco che l’Arte Contemporanea Africana sia dunque qualcosa di specifico, ma come definire questa specificità? Ogni volta che l’Occidente ha provato a descrivere l’Africa non ha saputo liberarsi di quello sguardo imperialista in cui si trova imprigionato da centinaia di anni. Ricordo per esempio una mostra simbolica come “Magiciens de la Terre” che se da un lato aveva avuto il merito di portare all’attenzione del grande pubblico artisti provenienti da tutto il mondo, dall’altro non era riuscita ad andare oltre una riproposizione delle strutture di potere, raccontando il dialogo tra la cultura francese e le minoranze. La mostra non riusciva a trasmettere una pari dignità ai lavori e agli artisti esposti, forse perché l’audience non era preparata a recepirla in questo modo, inevitabilmente si cadeva nel fascino dell’esotismo trattando le culture estere come scarti della norma dove la norma era ovviamente la cultura occidentale. Non sono sicura che oggi sia diverso. Credo che questa tendenza odierna di presentare grandi rassegne dedicate all’arte contemporanea africana abbia il merito di presentare artisti che senza dubbio sono penalizzati all’interno di un sistema che ragiona ancora in termini di centro e periferia, ma proprio questo atteggiamento di esaltazione della minoranza in quanto tale si rivela controproducente.

 

C-Gallery, Room 1, Maimouna Guerresi - Joel Mpah Dooh - Coby Kennedy , courtesy of C-Gallery and the artists.

 

Etichettando l’arte contemporanea come africana la distinguiamo inevitabilmente dall’arte contemporanea che africana non è, cadendo nella trappola dell’inclusione/esclusione, facendo percepire come diverso qualcosa che diverso non è. Basti notare che la maggior parte delle opere di arte contemporanea africana costa meno di quelle non africane, pur a parità di curriculum. Ma allora perché portare avanti questa distinzione? Questa è la domanda che mi trascino da mesi, e forse la risposta apre ad altre considerazioni che non so se sono in grado di sbrogliare. Mi chiedo se non sono io ad essere troppo permeata dalla mia cultura occidentale da non comprendere che una peculiarità africana esiste, mi chiedo se non siano i miei strumenti ad essere troppo limitati per approcciarmi a questi argomenti. Mi chiedo se la volontà di distinguere l’Arte Contemporanea Africana non sia una forma di resistenza al Sistema dell’Arte Occidentale e al suo delirante mercato, una forma di autodifesa e autodifferenziazione per dire che il Sistema Occidentale non è l’unico, ma esiste anche un Sistema Africano parallelo e diverso con cui si può dialogare senza però fondersi. Fatico però a credere che sia così, più che altro fatico a credere che una tale posizione possa essere vincente e duratura in un mondo globalizzato in cui il mercato ingloba tutto ciò di cui necessita per autoalimentarsi.

 

C-Gallery.

 

Dunque mi sovviene un altro “pericolo” per l’Arte Africana, il pericolo che questa etichetta possa fare di essa una moda al servizio del Mercato, una bolla speculativa che alimenti le vendite per il periodo necessario, fino all’esplosione di una nuova tendenza che soppianterà la precedente. E allora l’Arte Contemporanea Africana diventerebbe solo un momento nella storia e non la storia stessa. In ultima analisi mi chiedo quindi come posso io, in quanto curatrice, in quanto gallerista, fare in modo di uscire da questi trabocchetti riuscendo inoltre a portare con me quella parte di pubblico che avrà voglia di seguirmi. Questa è la mia sfida, ma forse si tratta proprio della sfida del nostro tempo, forse serve una rivoluzione culturale talmente grande da rendere privi di senso tutti questi ragionamenti. Quello che so è che la storia in qualche modo ne verrà a capo, quello che spero è che al tavolo dei narratori, questa volta, si siederanno in tanti, tutti. 

 

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Magda Szabó, la narrativa del passato vivente

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Novecento, realtà, infanzia, quotidiano, Storia, parola, passato, identità, scrittrice, sono le parole per scrivere di Magda Szabó, dischiudono la sua opera.

 

Magda Szabó vive lungo tutto il Novecento affacciandosi nel Duemila già ottantenne, nasce in Ungheria negli strascichi della Prima Guerra Mondiale, cresce nel Seconda Guerra Mondiale ed è costretta, successivamente, al silenzio dal regime comunista. In questo anno, 2017, ne cade il centenario della nascita.

 

Nella lunga vita e nella vasta produzione letteraria di Magda Szabó vi è un posto di rilievo dedicato alla realtà. Nella storia della rappresentazione della realtà in letteratura, le scelte definibili come “realistiche” comprendono molteplici forme. Szabó si racconta e racconta, la scrittura è una forma espressiva per tenere compatto il senso della propria vita, della propria realtà: l’indagine sottile e discretissima che fa del privato è la sua scelta per raccontare l’essenziale e al contempo il tutto. Il rapporto di Szabó con se stessa e l’immediata concretezza dei rapporti personali è la molla di ogni sua narrazione autobiografica e non.

 

Foto per gentile concessione dell'erede di Magda Szabó, Géza Tasi.

 

Molti dei suoi romanzi prendono avvio con il personaggio principale nell’età dell’infanzia che si avvia verso l’adolescenza. L’altra Eszter, uscito in Ungheria nel 1959 e in Italia nel 2009 per Einaudi, narra di una giovane e affermata cantante lirica che in un unico e lunghissimo monologo interiore parla a un tu, rivedendo tutte le vicende del presente alla luce di un'infanzia e un'adolescenza, le proprie, particolarmente significative. In Abigail, uscito in Ungheria nel 1970 e in Italia nel 2007 per la Casa Editrice Anfora, la narrazione è focalizzata su Georgina Vitay nei suoi anni dell’infanzia e adolescenza. In Per Elisa lo dice la madre di Magda stessa: “[…] ma sapeva pure che i sentimenti di una ragazza adolescente erano sciocchezze da prendere sul serio: il centauro umano è un essere a metà tra la bambina piccola e la donna adulta”. Ma sono solo alcuni esempi.

Si possono così leggere i suoi romanzi come romanzi di formazione, in cui la gioventù racchiude in sé il senso della vita, vi è un'esplorazione dello spazio sociale e lo spazio dato a un'interiorità irrequieta è più ampio. In Abigailè palese l’evidenziazione continua del peso di una gioventù che deve finire, che sta finendo, subordinata all’idea di maturità. In Abigail le vicende che accadono a Georgina spesso la pongono oltre il confine dell’adolescenza che comunque le spetterebbe per ragioni anagrafiche, ma l’entrata della guerra nella sua sfera privata, e così lo stravolgere le sue priorità quotidiane, la pongono spesso al di là della sua giovane età e lei lo percepisce nettamente, tanto da accorgersi di guardare alle cose e alla compagne di istituto come già dall’altra parte della barricata.

 

La sfera della vita quotidiana in Magda Szabó è un mondo malleabile e dilatabile all’occorrenza: i particolari, i dettagli del quotidiano sono allungati, espansi, rimpinguati, anche quelli riferiti alle relazioni sociali, al fine di rendere la complessità individuale. Questo è un procedimento palese in Abigail, così come lo è l’ingresso della Storia nella narrazione.

 

Foto per gentile concessione dell'erede di Magda Szabó, Géza Tasi.

 

La Storia, le due guerre mondiali, si affaccia in tutte le sue opere, mantenendosi entro i confini dell’esistenza individuale dei suoi personaggi, senza cioè assumere valore nazionale o collettivo. La Storia sta dentro la cultura della vita quotidiana, circoscritta e comune. In Abigail la guerra inizia a esistere quando tocca, attraverso le vicende segrete del padre, la protagonista, così come la lotta politica e civile iniziano ad avere un significato per lei ma solo limitatamente alla sua sfera privata. L’occhio sulla Storia Magda Szabó lo avrà guardandosi indietro, laddove la narrazione procede per flashback in una visione più globale degli eventi. La narrazione della storia nella Storia, in tutti i suoi romanzi, ricorda l’affermazione di Karen Blixen dove dice: “tutti i dolori sono sopportabili se li si inserisce in una storia o si racconta una storia su di essi”. Ciò avviene maggiormente in Abigail dove la storia personale e la Storia con la s maiuscola rischiano di schiacciare a ogni capitolo la piccola protagonista. Durante tutta la lettura il lettore si domanda “Ce la farà a sostenere tanto dolore?”, sarà solo alla fine, quando la stessa protagonista si volterà indietro a guardare la sua storia, che anche il lettore sa che ce la farà.

 

Quanto scrivere, per Magda Szabó, sia trasporre in parole, una sorta di congedo dalla realtà attraverso le parole, lo si intende con Per Elisa, suo ultimo libro scritto nel 2002 e uscito in Italia nel 2010. Per Elisaè un'autobiografia romanzata, che nelle intenzioni dell’autrice avrebbe dovuto far parte di un dittico autobiografico, rimasto però incompiuto: Per Elisa apre uno squarcio importantissimo sulla scrittura.

L’autobiografia di Szabó assolve oltre alle tre unità costitutive intrinseche – l’interesse individuale (auto), l’interesse come documentario della vita (bio) e la valorizzazione della componente della scrittura (grafia) – assolve anche una funzione diegetica sulla scrittura di tutti i suoi romanzi.

L’operazione fatta dall’autrice con questo ultimo volume parrebbe non solo il tentativo di ricostruirsi nel testo, affidando all’atto della narrazione il senso della propria esistenza, raccogliendo un'identità che Cavarero definisce “frantumata e insostanziale, multipla ed eccentrica”, ma fornisce anche al lettore l’officina dei suoi romanzi, ovvero la vita propria da cui ha tratto personaggi e temi della sua narrazione.

 

Per Elisa diviene la chiave di lettura di molti dei suoi romanzi, se non tutti, in quanto questi comprendono il punto di vista dell’infanzia. In Per Elisa si possono ritrovare, non senza sorpresa per la maestria letteraria nella narrazione, molti personaggi e situazioni che compaiono nelle sue opere, è l’autrice stessa che ci porta per mano e ci rivela le persone reali che per lei sono state fonte di ispirazione letteraria: non solo l’istituto scolastico che si trova in Abigail, ma troviamo che la poco amata rivale sui banchi di scuola sarà la detestata compagna di scuola e poi rivale in amore in L’altra Eszter, la villa di Ludwigh diverrà quella dei Vitay in Abigail, zia Piroska è la zia Mimò in Abigail e zia Irma in Estzer. I riferimenti e i rimandi sono moltissimi con tutti i suoi romanzi: l’officina della sua narrativa è stata la vita quotidiana sin dai primi anni di vita.

L’infanzia qui è proprio quel bisogno legato alla parola e alla madre, ovvero della madre figura donatrice della parola. La parola, e ancor più la questione della lingua, viene svelata in Per Elisa di grande importanza: Magda cresce con l’ungherese e il latino e padroneggia la lingua dei classici e la sua in ugual misura, per poi approdare allo studio di altre lingue. La lingua, come rivelerà l’esperienza della sorella adottiva, è il proprio mondo segreto ma è anche un ponte verso mondi altri: esporsi agli altri, parlare, è uno strappo: “Esporsi è uno strappo inevitabile, in quanto mostra che ciascuno di noi sia costitutivamente una sostanza non autosufficiente”, George Bataille.

E questa autobiografia è intrisa di amore verso la madre e verso la lingua, una incessante espressione di bisogno che si autoalimenta. In questo testo Magda Szabó riattiva “il punto di vista dell’infanzia senza regredire”, come scrive Luisa Muraro sulla scrittura autobiografica.

 

Foto per gentile concessione dell'erede di Magda Szabó, Géza Tasi. Magda Szabó a Parigi. 

 

La lingua, al contempo colloquiale e ricercata nei suoi testi, si fa più quotidiana in Per Elisa, perché è una lingua che contiene oramai una identità tutta: contiene un io passato e un io presente in una costante relazione di continuità. In tutti i suoi romanzi, come pure nell’autobiografia, vi è una pluralità di voci molto marcate e distinguibili, nei toni e nel lessico di ogni voce e di ogni personaggio a cui appartiene, ma tutto ciò viene reso dalla scrittrice in quasi totale assenza di discorsi diretti, ma quasi esclusivamente tramite discorsi indiretti. L’arte di creare un personaggio e la sua parola senza la sua voce diretta nasce probabilmente dalla sua attenzione al punto di vista dilatato nel quotidiano, intento a cogliere e riportare sfumature e dettagli.

 

Per Szabo vi è sempre un'esigenza costante del passato, resa più potente dalla reazione alla guerra che ha distrutto il suo e il passato di molti. Quando l’io presente guarda all’io passato, nell’autobiografia come nei romanzi, vede solo macerie, macerie di genti e luoghi, speranze e affetti. Per la narratrice il passato è da ricreare dalle ceneri e non solo dai ricordi, il passato è una scelta etica come sostiene Simone Weil: “l’esigenza del passato, la più vitale, fra tutte le esigenze dell’anima umana”. In questa direzione si possono intravedere le “gocce del passato vivente” di cui parla la Weil.

 

L’identità è la parola che a tutte le altre sottende: la storia e il passato di Szabó, le guerre e il destino dell’Ungheria, la lingua e le lingue della sua vastissima educazione, il suo ragionare già da piccolissima sul suo futuro (attrice scrittrice o docente?), la riflessione sul suo essere adulta che fa guardandosi indietro nella introduzione ad Abigail, tutto questo e molto altro conduce a una riflessione sull’identità nelle scrittrici europee donne del Novecento. L’identità è ciò di cui scrive sempre Szabó, in quanto la riflessione sul suo essere donna nel Novecento e nella Storia sono pensieri per lei pungenti. Àgnes Heller, sua connazionale, ha sintetizzato perfettamente così la questione: “Sono donna, ungherese, ebrea, americana, filosofa: sono oberata da troppe identità”.

 

Il passato e l’autobiografia come officina sono una caratteristica di molte scrittrici del Novecento: se pensiamo a Lettera aperta di Goliarda Sapienza del 1967, come Il filo di mezzogiorno nel 1968 e la loro importanza per ritrovare in loro i fili della costruzione narrativa di L’arte della gioia, scritto tra il ’69 e il ’78 ma uscito postumo nel ’98; o a Giù in piazza non c’è nessuno l’autobiografia letteraria uscita nell’80 di Dolores Prato; la scrittura intrisa di quotidiano di Natalia Ginzburg con Tutti i nostri ieri del ’53 e Lessico famigliare del ’63; La penombra che abbiamo attraversato di Lalla Romano del ’64. L’autobiografia, il quotidiano e il passato, l’infanzia, la guerra e la difficoltà civile, sono tutti temi che attraversano queste scrittrici italiane del 900, pensiamo anche solo a Menzogna e sortilegio della Morante del ’48. Uscendo dall’Italia incontriamo, tra le molte altre, le Memorie di una ragazza per bene della Beauvoir del ’58, Immagini del passato di Virginia Woolf del 39-40, le Trame dell’infanzia di Christa Wolf del ’76.

 

Il mondo di Magda Szabó è il mondo della sua invenzione letteraria, invenzione a cui si è affidata totalmente mettendole a disposizione la sua vita e la sua vocazione artistica. Szabó ha affidato la vita alla letteratura e la letteratura alla vita.

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1917-2017

Legge o valori?

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La sentenza della Cassazione riguardo al ricorso del cittadino sikh è molto interessante per due aspetti. Il primo è il linguaggio e il secondo il cambiamento generale di mentalità che riflette.

Il linguaggio giuridico risente del balbettio generale su questi argomenti. Si parla di “valori” della nostra società, contrapposti ai valori di altre culture e poi si aggiunge qualcosa sull’obbligo delle etnie diverse che abitano in Italia di conformarsi ai valori del paese ospitante. Ora, a chi conosca un po’ le religioni del subcontinente indiano viene difficile chiamare i sikh una etnia. Sono invece una religione ben precisa, fondata storicamente da un individuo che ha cercato di elaborare una sintesi tra induismo e islam. È una religione praticata in buona parte dell’India (l’ex primo ministro del partito di Sonia Gandhi era un sikh) e ha una notevole diaspora in tutto il mondo. C’è una differenza notevole tra un’etnia ed una religione. I protestanti, i calvinisti, i valdesi non sono un’etnia, sono un movimento religioso che non ha nulla a che fare con un’origine geografica, con una “indigenità”, con una appartenenza a un territorio.

 

Un’etnia è invece in genere una comunanza di lingua, costumi, tradizioni, cosmologie. Può corrispondere a una religione, ma anche no. I quechua delle Ande sono un’etnia ma hanno diverse pratiche religiose. I Naga del Nord Est dell’India e del Nord Ovest della Birmania sono un’etnia, ma sono di religione cristiana. Per essere più chiari. I cristiani non sono un’etnia. Non so se gli italiani si possano definire tali, ma mi sembra che quando si parla di società complesse l’idea dell’etnia non sia la più appropriata. Nella sentenza si parla di “valori”, di valori contrapposti. Un sikh non può andare in giro con una coltello rituale di 10 centimetri perché è contro i valori della società italiana. No, qui c’è qualcosa che non quadra. Il sikh non infrange i valori italiani, ma una legge che concerne la sicurezza dei cittadini italiani tutti, immigrati compresi.  Come una donna in burkha o con un velo che le copre il viso, al pari di un manifestante che non si leva il casco o il passamontagna infrange una legge che vuole che i cittadini siano tutti ugualmente identificabili quando sono in luoghi pubblici. La legge è una cosa, i valori un’altra. Se uccidi qualcuno perché te lo ordina la tua religione infrangi una legge, non dei valori.

 

Cosa sono i valori? Sono un complesso di significati, un insieme di visioni della vita, della felicità, del senso della convivenza e dei legami che ogni società sviluppa secondo la sua storia e la sua geografia. Essi, combinati con i “costumi”, cioè con il modo con cui una comunità mette in pratica questi valori sono l’ispirazione delle leggi di un paese. In un testo elaborato qualche anno fa con Piero Zanini “Una morale per la vita quotidiana” (Eleuthera, 2011), avevamo messo l’accento sulla capacità di ogni società di elaborare una morale quotidiana e sulla grande elasticità di questo elaborare che fa più somigliare la morale quotidiana a delle regole di convivenza e di galateo che auna vera e propria morale. Ma tra questa pratica auto-poietica e la legge c’è una grandissima differenza. I valori sono un termine piuttosto imbarazzante e soprattutto vago, ma diamo atto alla Cassazione che almeno ha avuto il coraggio di pronunciarsi usando una terminologia in divenire e per alcuni versi non pertinente. 

 

 

Il secondo punto interessante è che la sentenza riflette un cambiamento di mentalità.  Oggi per la maggioranza degli italiani è evidente che di fronte all’immigrazione non vale più la contrapposizione buonismo/razzismo che è quello che la becera politica italiana di destra e di sinistra continua a utilizzare. La Cassazione affronta un tema che la politica non è in grado di affrontare. A destra abbiamo il tono trucido e le speculazioni elettorali di Salvini o dei Cinque Stelle, a sinistra il bisbiglio ed il pigolio veltroniano o post veltroniano  raccolto da Renzi con una totale incapacità di definire una politica dell’integrazione. Il paese è andato più avanti. Gli immigrati non sono buoni per definizione e non sono buonisolo perché rischiano la pelle e ce la lasciano per venire nel nostro paese. Sicuramente bisogna impedire che perdano la vita e bisogna soccorrerli in mare e dopo. Ma è il dopo che è il vero problema. Che tipo di integrazione vogliamo offrire loro? E soprattutto a che condizioni?  Non perché tra di loro ci siano dei malintenzionati ( una risicata minoranza), ma perché effettivamente essi vengono da un mondo che non da per scontati i “valori” che noi attribuiamo alla convivenza. Che in soldoni, sono il diritto dell’individuo a non essere sottoposto a “valori” comunitari, la separazione netta tra religione e vita civile, la sessualità come un’espressione della libertà individuale.

 

Ci sono molte altre componenti, ovviamente,  tra cui la natura dei legami che prescindono dall’appartenenza etnica, clanica, familiare. La nostra è una società in cui i legami non sono dati, ma sono scelti e revocabili. Che la nostra società sia “strana” per chi viene dal di fuori è un dato di fatto sempre più inconfutabile. Per moltissimi paesi al mondo queste non sono le priorità. L’Europa, di cui l’Italia fa parte è una “eccezione” culturale dovuta ad una storia ben precisa, costituita solo in parte dal fatto di avere dominato e colonizzato il resto del mondo. Anzi il colonialismo e neocolonialismo europeo dimostrano il fallimento del progetto di estensione dell’eccezione occidentale. Una buona parte del mondo non la pensa e non la sente come noi. Allora, e qui interviene il cambiamento di mentalità, lo straniero che arriva da noi è benvenuto, ma deve accettare le regole del posto in cui arriva, prima di tutto deveessere sottoposto alle sue leggi. Appunto perché proprio come lo straniero di Simmel, rimane straniero fin quando non diventa uno di noi e questo è tutt’altro che scontato.

 

Il punto è che per accettare le nostre regole con quello che hanno dietro (“i valori”?) bisogna che essi vengano dichiarati, bisogna che dal balbettio si passi alla assunzione cosciente di questi valori. Siamo in un momento di passaggio in cui forse finalmente l’Europa sta prendendo coscienzadella sua unicità e della sua missione. In Italia molto meno, e però nella mentalità più che nella politica. Il problema è, come ho cercato di raccontare in “Elogio dell’Occidente” che una parte degli immigrati vengono in Europa proprio perché vogliono quei valori che sono diversi da quelli praticati nei loro paesi. Il libro, scritto in Georgia e in Tunisia è proprio la testimonianza di desiderio dell’Europa che c’è ai nostri confini per ragioni che sono solo in parte quelle del benessere, ma dentro ci sono i diritti delle donne, i diritti dei giovani e i diritti individuali e lo scontro aspro che in molti di quei paesi si ha con la religione come fonte della legge. Ecco la Cassazione non lo dice, ma la sentenza lo suggerisce. Da noi la legge non è dedotta dalla religione, ma dalle ragioni della convivenza civile.

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Ancora sulla sentenza della Cassazione

Non si deve studiare la Ferrante all’Università

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Il 7 aprile 2017 si è tenuta all’Università di Napoli Federico II una giornata di studio dedicata a Elena Ferrante, dal titolo «“di Napoli non ci si libera facilmente”: per Elena Ferrante». È stata la prima celebrazione della Ferrante nell’Università della città in cui sono ambientati i suoi romanzi, in particolare la tetralogia dell’Amica geniale che le ha dato un successo planetario. La giornata napoletana ha fatto seguito alla pubblicazione di un’inchiesta della rivista «Allegoria», sempre attentissima alle dinamiche del contemporaneo, sulla stessa Ferrante. L’Università inglese era arrivata prima, come spesso in questi casi, con panels dedicati alla Ferrante ai convegni della Society for Italian Studies a Oxford nel 2015 e a Dublino nel 2016, più seminari, conferenze e tavole rotonde a Londra, Durham, Leeds, Brighton e altrove. È anche appena uscito un interessante volume in inglese: The Works of Elena Ferrante: Reconfiguring the Margins, edited by Grace Russo Bullaro and Stephanie Love, Palgrave Macmillan, 2016.

 

 

Va tutto benissimo, perché la Ferrante è un caso commerciale, che merita discussione e approfondimento; perché il suo nome è femminile e fa gioco alla promozione dei gender e women studies; perché i suoi romanzi hanno anche uno spessore letterario oltre a essere un prodotto da supermercato. Dov’è lo scandalo, allora? Nel fatto che l’Università si occupi del contemporaneo? O che si occupi di una scrittrice/scrittore di successo? O che insegua le classifiche e le mode? Sono tutti argomenti vecchi, questi, si sa: dai tempi di Croce, che negava dignità al contemporaneo in quanto privo di quella distanza che sola consente di valutare criticamente l’oggetto, tante cose sono cambiate, a cominciare dai quei cultural studies che negli anni Settanta hanno rifiutato la pregiudiziale estetica del canone e promosso l’indagine dei fenomeni culturali nella loro ampiezza, fino ad arrivare a più recenti aperture, spesso purtroppo autopromozionali, verso tutto ciò che respira.

 

Datemi cose vive, chiedeva Francesco De Sanctis a proposito della critica letteraria; datemi cose che respirano, potrebbe essere il motto di tanta critica accademica che lavora oggi col cuscino sulla faccia del proprio oggetto. Mi scuso per la metafora, ma la situazione di gran parte della critica è proprio questa: non conta il partner (l’oggetto del mio studio), ma la performance e il suo risultato (la mia ostentazione e il mio successo). Sono meccanismi notissimi della società di massa, che Guy Debord analizzava benissimo esattamente cinquant’anni fa. Né c’è bisogno del genio di Claudio Pavone, che dieci anni fa rivendicava in un bellissimo libro la legittimità della storia contemporanea, per accettare che si parli di Ferrante all’Università oggi.

 

 

Eppure qualcuno ancora storce il naso, resta perplesso, polemizza su Facebook. Non ti piace la Ferrante?, gli chiedono, accusandolo di lesa maestà. Ma no, è un passatista, che ritiene che l’universitario debba essere una vestale del canone, suggeriscono altri, più open minded, con sufficienza. Ed ecco che si fa strada l’attacco più insidioso, infamante: è invidioso del suo successo. Beato Croce, verrebbe da dire, che almeno aveva a disposizione delle categorie molto chiare per ribattere. Si può sostenere oggi, nel 2017, che studiare la Ferrante (e il contemporaneo in generale) sia facile, primo, e superficiale, secondo, perché sui suoi scritti non c’è quel deposito d’interpretazioni, di sforzi critici e d’impegno intellettuale, che hanno caratterizzato, per esempio, la critica dantesca o manzoniana? Si può dire che per studiare la Ferrante non si deve andare in biblioteca e in archivio, fare ricerca, confrontare testi ed elaborare riflessioni? Si può dire che la Ferrante va bene come argomento da salotto o giornalistico, ma non per le aule universitarie, con un’opposizione tra superficialità pettegola del giornalismo e cultura alta dell’Università? Si può dire, soprattutto, che ciò che si colloca in un periodo ancora aperto riguarda la polemica anziché la critica, essendo di pertinenza più del politico che dello storico?

 

No, non si può. Però viene fuori proprio così la domanda clou su cosa debba fare l’Università oggi, che è questione ormai ineludibile. Per Croce la risposta sarebbe stata facile: elaborare gli strumenti del pensiero attraverso la ricerca storica per formare persone intelligenti, dotate di patrimonio culturale e senso critico, cui spettano le funzioni direttive nella società grazie alla loro capacità di discernimento anziché per le loro conoscenze tecniche. Per noi le cose sono molto più complesse, per fortuna. Però ricorrere a qualche discrimine potrebbe non essere così perverso: quello tra descrivere e interpretare, per esempio. L’Università tende sempre di più, in tutto il mondo, a descrivere l’esistente: l’oggetto è interessante semplicemente perché è fatto così e io te lo descrivo. L’universitario sta diventando un anatomista, dotato della capacità di fare l’autopsia di quei fenomeni e testi che tratta come cadaveri da sezionare (un po’ come il partner col cuscino sulla faccia).

 

Che significati ci siano in quell’oggetto, quali problemi porti con sé, che senso abbia per la nostra intelligenza di noi stessi e del mondo, sembrano approcci confinati in un iperuranio che l’Università student-friendly, capace di mostrarci che gli intellettuali non sono diversi dall’uomo comune, ma uguali a lui, solo un po’ più intelligenti, poco poco, non può che vedere con terrore. Che accadrebbe se gli studenti cominciassero a ragionare in termini di simbolico, di discorso, di costruzione e decostruzione e ricostruzione, di rete della cultura e critica del potere? Magari ci mettono in difficoltà, ci contestano, ci spiazzano, ne sanno più di noi. Meglio evitare, allora, così lo sforzo del pensiero non tocca più a nessuno.

 

Perché è l’intellettuale il grande nemico della società mediatica e capitalistica, che è riuscita ad affidare questo ruolo ai giornalisti televisivi, agli sportivi e al mito della gente, nel tentativo di sottrarlo a chi potrebbe svolgerlo diversamente da una chiave emotiva e impressionistica. Il professore-filosofo, che è l’unico vero professore possibile, perché insinua il dubbio, promuove la curiosità, invita ad andare oltre e stimola la conoscenza, è la figura più stigmatizzata dall’Università burocratica e aziendalista che da decenni si è imposta in tutto il mondo.

 

Che c’entra tutto questo con la Ferrante? C’entra, perché la Ferrante (come un corso sulla Juventus o su Fedez o le lauree honoris causa a Vasco Rossi e Roberto Saviano) serve solo a dire che l’Università parla di noi, del mondo che ci circonda, dei vincenti nel sistema mediatico e capitalista di cui si parlava più su: si tratta anche di te. Perché Elena Ferrante all’Università anziché Giovanna Marmo, Maurizio Braucci o Ferdinando Tricarico, scrittori napoletani di oggi, probabilmente altrettanto o più bravi, ma certo meno conosciuti di lei/lui? Eh, ma perché lei è più interessante, visto che è emersa, mentre questi ultimi non sono ancora consacrati dal successo… Allora successo=interesse, con un’equazione che fa orrore a chiunque abbia un minimo sentore di coscienza politica e ambizione estetica (l’alternativa alla Ferrante non essendo comunque loro tre, ma tutta la letteratura, da Omero ai giorni nostri). I romanzi della Ferrante potranno pure essere letterariamente bellissimi, ma l’Università avrebbe il dovere di lavorare su oggetti di più largo respiro per porre problemi culturali che potranno servire alle future generazioni come strumenti per riflettere sul presente e pensare le alternative.

 

 

Appiattirsi sull’esistente, senza più uno slancio verso qualcosa che è ancora a venire, è la tristezza dell’Università di oggi (la “bassa manovalanza” o “bassa cucina”, come amano dire gli universitari stessi, senza troppa ironia e con una metafora che serve a farli sentire meno intellettuali). Lo statuto critico del sapere accademico nella cultura occidentale– su una linea di lunga durata che va da von Humboldt, Fichte e Ortega y Gasset fino a Martha Nussbaum, per citare solo alcuni punti di riferimento imprescindibili sulla funzione dell’Università come istituzione politica – non si deve al gusto di criticare sempre e comunque, per partito preso, ma all’obiettivo di pensare un’alternativa al mondo in cui viviamo, perché non si ripeta sempre e solo il già detto, il già noto e il già affermato: se anche fosse vero che il romanzo della Ferrante può essere uno strumento di critica al capitalismo, come sostiene qualcuno, lo farebbe comunque ormai da icona del capitalismo e una critica che brandisce i feticci del proprio avversario come strumenti antagonistici rischia davvero di ripiegarsi su se stessa e confermare ciò che dice di contestare.

 

Il rischio è insomma quello di ribadire ciò che abbiamo davanti gli occhi, per imbrigliarlo, classificarlo, inserirlo in gabbie e bacheche, perché non ci sfugga più, non sia vivo, lo possiamo padroneggiare e soprattutto spiegare: l’universitario sarà vicino al suo pubblico-utente, ma sempre un po’ più intelligente di lui. Favoriti dall’intrigante giallo della sua identità misteriosa, ordinatori implacabili dello spirito e delle sue caducità terrestri, classificatori da manuale instancabili nell’applicare logore griglie, rivenditori del reale a fette e bracconieri dell’anima genuina si fiondano, provvisti di buone intenzioni e pensieri sublimi, a sezionare, distinguere, schedare e catalogare la Ferrante e i suoi romanzi. L’essere contemporaneo, però, diceva Agamben qualche anno fa in un aureo libretto, Che cos’è il contemporaneo?, non sta nella com-presenza al proprio tempo, che è puro dato storico, ma nella capacità di smontare il proprio tempo, tagliarlo con altri tempi, renderlo inattuale e problematico: «il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere».

 

Più recentemente, in un libro che è tutt’altro che accademico per spirito e scrittura, Lettori selvaggi, Giuseppe Montesano ha sostenuto che la lettura è l’unico antidoto al chiacchiericcio mediatico del presente che ci circonda:«La lettura deve evadere dall’obbligo dell’attualità che è solo la decrepitudine che la nube mediatica vuole vendere come new: leggere è una delle poche armi rimaste a chi non voglia soccombere all’onnipresente sistema della menzogna che cambia persino il senso delle parole». Si potrà anche leggere la Ferrante, allora, pure all’Università, ma solo se l’intento è quello di liberarsi di lei (e di Napoli): facendola reagire e interagire con l’alterità, individuandone crepe, lacune e omissioni, sporcandola di fango e di sangue. Perché ogni mitografia abbia la sua decostruzione anziché inutili conferme e prevedibili consensi: la Ferrante all’Università va benissimo, allora, ma forse è l’Università che non è pronta ad accoglierla.

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Il Complesso Artico

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Il futuro del Nord

 

Fine aprile 2017, sala Roosevelt della White House. Trump firma un provvedimento legislativo che, in rottura con la precedente amministrazione, riapre di fatto la possibilità di compiere trivellazioni petrolifere nelle acque dell’Artico e dell’Atlantico. È un regalo all’industria delle energie fossili e alle compagnie petrolifere come Conoco e Shell, i cui interessi sono ben rappresentati nell’attuale governo. Un gesto retorico per produrre “energia americana”. Per l’occasione Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska e presidente del comitato del Senato per l’energia e le risorse naturali, esorta Trump a condividere il motto del suo stato: “North to the future”. Che il mito dell’Alaska come ultima frontiera americana o, meglio, come “ultima roccaforte terrestre della grande fauna nordamericana del Pleistocene” (Paul Matthiessen) sia ormai infranto?

 

L’Alaska è una risorsa naturale: lo è nel senso della sua biodiversità ecologica ma anche nel senso della più grande riserva di petrolio del mondo che resta da sfruttare. A causa di questi interessi economici, l’Artico è già segnato dalla concentrazione di diossido di carbonio nell’atmosfera, dallo scioglimento dei ghiacci nella zona polare, dalla combustione del carbone fossile, dall’aumento delle temperature, dalla perdita di permafrost, dalla scomparsa della neve sostituita da piogge glaciali, dall’aumento del livello del mare nelle zone costiere (come riassume T.J. Demos, Decolonizing nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, 2016). Il suo ecosistema, le risorse naturali e la catena alimentare, che in questa zona si sono mantenute stabili per millenni, sono ormai turbati, al punto che le popolazioni autoctone sono obbligate a trasferirsi altrove.

 

Le acque dell’Oceano Artico e la costa nordest dell’Alaska sono troppo fragili per diventare una zona industriale. Nell’eventualità di una perdita di petrolio, ad esempio, la situazione andrebbe fuori controllo, a causa della mancanza d’infrastrutture: la guardia costiera più vicina è a 1000 miglia, come ricorda Kristen Miller, direttore esecutivo ad interim dell’Alaska Wilderness League. In quest’area remota ogni emergenza rischia di trasformarsi in una catastrofe. Senza contare le condizioni estreme di lavoro, l’incertezza sulle questioni di sicurezza, l’impatto ambientale sulla vita costiera e sul cambiamento climatico.

 

Ph: Subhankar Banerjee. 

 

Del resto già nel 2015 la compagnia anglo-olandese Shell ha fallito clamorosamente, dopo sette anni di trivellazioni e un investimento colossale di sette miliardi di dollari per installare pozzi petroliferi. Quel potenziale di idrocarburi vagheggiato dalla compagnia non si è mai materializzato, in compenso sono falliti i test sull’inquinamento atmosferico e si sono moltiplicati i problemi con l’impianto di trivellazione, gli incendi e le violazioni degli impianti. Se la politica ambientale di Obama non è stata esemplare, è perlomeno riuscita a proteggere questa riserva naturale, preziosa per gli Stati Uniti e per la Terra. In fondo già due presidenti, Jimmy Carter e Dwight D. Eisenhower, si erano battuti in questo senso. Pochi, tuttavia, conoscono questa zona meglio del fotografo Subhankar Banerjee.

 

Dai Tropici all’Artico

 

Cosa spinge Subhankar Banerjee, nato nel 1967 a Calcutta (Kolkata), a spingersi nel nordest dell’Alaska? E a trascorrerci quattordici mesi nell’arco di due anni, sette mesi nel 2001, sette nel 2002? Ufficialmente il fatto che esistono poche immagini dell’Arctic National Wildlife Refuge, per lo più stereotipate, fatte solo di ghiaccio e neve. Studiata da biologi e botanici, la riserva resta tuttavia invisibile agli occhi del mondo. L’impulso documentario spinge l’artista indiano a documentare il trascorrere delle stagioni e i suoi abitanti, la sfera ecologica e quella antropologica, l’eco-sistema, le tribù autoctone, gli animali e la struttura geologica. Non si tratta di un mero reportage: è lì in quanto esploratore, “un po’ allo stesso modo in cui Henry David Thoreau ha studiato il ciclo delle stagioni nel Walden Pond, in un’immersione e una contemplazione totali”.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Dal tropico all’artico, dal tepore della terra nativa (35 gradi a maggio) al gelo di una terra ignota dove la temperatura può scendere sotto i 50 gradi, da una zona densamente popolata a una delle più desertiche sulla terra. Un’attrazione eccessiva per gli opposti quella di Banerjee. Cresciuto nel Bengala Occidentale, esposto alla pittura sin da giovane, così come al cinema, alla poesia e alla letteratura, Banerjee studia ingegneria elettronica prima di trasferirsi a Las Cruces in Nuovo Messico per laurearsi in fisica teorica e computer science – una formazione che gli tornerà utile nelle sue esplorazioni fotografiche. Nel frattempo frequenta associazioni ambientaliste come il Sierra Club, club amatoriali di foto e di alpinisti, e compie escursioni nel sudovest del Pacifico quando si trasferisce a Seattle.

Ottobre 2000, Churchill, Manitoba, Canada. Armato della sua attrezzatura fotografica, Banerjee si trova in un luogo conosciuto dai turisti per immortalare gli orsi polari: “Vedevo un orso e poi improvvisamente otto veicoli di grandi dimensioni che convergevano sull’animale”. In quel momento gli fu chiara una cosa: che voleva andare là dove gli orsi vivevano in santa pace, in un ambiente trasformato il meno possibile dalla mano e dagli interessi umani. La sua attenzione cadde presto sul nordest dell’Alaska.

 

19 marzo 2001, Banerjee arriva nel villaggio di Kaktovik. Malgrado i preparativi e l’esperienza alpina, e malgrado sia il primo giorno di primavera, l’impatto è brutale: il termometro segna 40 gradi sotto zero, il vento soffia a 80 km all’ora. Come correre in moto dentro un congelatore senza confini. Banerjee lo ricorda come un incubo, persino come un inferno, se l’immagine delle fiamme sotterranee non fosse qui così inappropriata se non celestiale. In preda alla disperazione, si chiede cosa sia venuto a fare in un luogo così alieno rispetto alla sua terra nativa, dove l’inverno dura fino a maggio, così remoto che molte cime, valli e laghi non hanno nome. Si chiede perché ha abbandonato un lavoro sicuro alla Boeing di Seattle per imbarcarsi in quest’esperienza folle. Folle anche per la mancanza di fondi, perché il progetto, estremamente costoso, è per ora autofinanziato.

 

Malgrado il freddo, Robert Thompson, un attivista e cacciatore Inuit che lo guida nella sua spedizione, suggerisce: “Andiamo a fare un giro”. Quando la temperatura diventa insopportabile, a incoraggiarlo ci pensa Thompson, che se ne esce con una di quelle frasi che getterebbero nello sconforto l’animo più ottimista: “Non ti preoccupare. Le cose andranno di male in peggio ma tu sopravviverai”. Entrambi i pronostici si avverarono. La temperatura scese, il vento aumentò, e Banerjee, a colpi di caffè caldo e altri accorgimenti locali, sopravvisse, percorrendo lunghe distanze con ogni mezzo disponibile: a piedi, in zattera, in kayak, in motoslitta, in aereo.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Il freddo artico ha un impatto anche sull’attrezzatura tecnica di Banerjee, limitata a fotocamere medio formato o 35mm, senza batterie o altro materiale, inutilizzabile a temperature così rigide: “Dovevo usare vecchie macchine fotografiche meccaniche con poche o nessuna parte elettronica”. La pellicola diventa così fragile che si spezza facilmente e bisogna prestare attenzione a caricarla e avvolgerla. “Le mie macchine fotografiche sono del tutto meccaniche; non c’è nemmeno un esposimetro”, che tiene nella giacca a vento. In fase di sviluppo, infine, la stampa digitale gli permetterà di aggiustare i contrasti, i punti luce e le ombre.

 

Se le immagini che associamo istintivamente all’Artico sono in bianco e nero, Banerjee usa il colore: “Mi sembrava che molti considerassero l’Artico come un luogo incolore di neve e ghiaccio, ma quello che mi ha sorpreso è scoprire la ricchezza del colore e della vita in questa terra, anche quando era completamente coperta di neve. Il colore era l’unico mezzo attraverso cui potevo esprimere i miei sentimenti su questo paesaggio nordico, fragile ma ricco”. E le foto, prese da terra o dall’alto con un gusto pittorico per il paesaggio e un penchant per il sublime, mostrano bene lo spettro cromatico dell’Artico.

 

Non sorprende che il lavoro di Banerjee si nutra della pittura di Jean-François Millet, Brueghel, John Constable, oltre che della tradizione della fotografia di paesaggio. Al riguardo, vengono spesso evocati i paesaggi scultorei in bianco e nero di Anselm Adams, o quelli a colori di Eliot Porter, con le sue scene intime e spesso nuvolose, adatte a cogliere i dettagli più minuti. Banerjee ricorda anche Robert Adams e persino Nan Goldin, la cui comunità LGBT di New York, colpita dall’arrivo dell’AIDS, non potrebbe essere più lontana dall’estetica rarefatta dell’artista indiano. Ma entrambi i fotografi condividono il coinvolgimento totale col soggetto ritratto, lontano da ogni forma di oggettività documentaria o neutralità dell’osservazione.

 

Il complesso artico

Col passare del tempo, Banerjee si ambienta, grazie anche all’aiuto e all’ospitalità delle famiglie autoctone Inuit o Gwich’in. Scopre “un luogo in cui l’esistenza della vita, inclusa la flora e la fauna e le culture native, è modesta e fragile. Utilizzando delle composizioni semplici, in gran parte la luce smorzata dei giorni nuvolosi e un processo meditativo di osservazione, volevo ritrarre la dualità della grandezza e della semplicità”. L’esperienza artica lo convince che non si trova ai margini del mondo ma, al contrario, nel “luogo più connesso sulla terra. Ho cominciato a definire questa connettività globale e la connettività locale e regionale in rapporto alle specie che migrano qui da tutto il mondo”, ovvero caribù, balene, balenottere, oltre 160 specie di uccelli e così via.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Più radicalmente, l’Artico si rivela essere il luogo stesso che gli insegna a vedere. E quello che vede assume un ruolo politico inatteso: “In seguito ho realizzato una connessione tossica: come gli uccelli migrano, così migrano le tossine che finiscono nell’ecologia artica. In questo modo i popoli e gli animali artici sono diventati estremamente inquinati, soprattutto in Groenlandia e a nord dell’Artico canadese, sebbene il fenomeno si stia diffondendo ovunque. È una connessione tragica”. Mercurio, PCB, DDT: la liste di sostanze tossiche che hanno un impatto su uomini, animali e piante è lungo. Le fotografie e le didascalie raccolte nel libro Arctic National Wildlife Refuge: Seasons of Life and Land, pubblicato dalla casa editrice no profit Mountaineers Books, sono una testimonianza preziosa del complesso artico. Ma la storia non finisce qui.

 

L’affaire dello Smithsonian

Seattle, 19 marzo 2003. Banerjee è in giro quando riceve una telefonata: “Accendi la TV”, dice in preda alla smania la direttrice esecutiva dell’Alaska Wilderness League, l’associazione con base a Washington con cui ha già collaborato. La senatrice democratica Barbara Boxer sta mostrando una delle sue foto al Congresso degli Stati Uniti che discute del futuro dell’Arctic National Wildlife Refuge. G.W. Bush infatti vuole aprire circa 6.000 km2 della costa alle trivellazioni petrolifere, con l’appoggio dei Repubblicani dell’Alaska, pronti a speculare sul loro territorio. Lo descrivono come una distesa brulla, gelida e inanimata per dieci mesi all’anno, “a flat white nothingness” e un “frozen wasteland of snow and ice”, secondo l’allora Segretaria degli Interni Gale Norton. Il senatore dell’Alaska Frank Murkowski, brandendo un cartoncino bianco, esclama che si tratta di un’immagine accurata dell’estremo nord. Al di là dell’inconsapevole rimando all’arte astratta, l’intento è chiaro: dimostrare che non è in gioco alcun rischio ambientale.

 

Già, se non fosse che le fotografie di Banerjee dimostrano che il cartoncino bianco è una fake news: nell’Artico la vita pullula lungo l’arco delle quattro stagioni. Le sue immagini diventano così un documento probatorio impugnato dalla senatrice: come lasciare che un habitat con una biodiversità così ricca si trasformi in una terra industriale? La proposta repubblicana viene rigettata. Una vittoria per la difesa dell’ambiente e per il potere delle immagini.

 

Ph: Subhankar Banerjee.

 

Un nuovo colpo di scena doveva turbare i sonni di Banerjee. La senatrice Barbara Boxer invita gli eco-scettici a visitare l’imminente mostra di Banerjee al Museo di storia naturale dello Smithsonian a Washington. Un’istituzione federale, in quanto tale, non dimentichiamolo, soggetta alle pressioni politiche del governo in carica. A quel punto lo Smithsonian comincia a smarcarsi dalla mostra: prevista nei pressi della grande rotonda, viene spostata in una sala defilata dietro la caffetteria; all’ingresso del museo viene bandita qualsiasi informazione; le didascalie delle foto, veri e propri testi che le distinguono da un’estetica da National Geographic, spariscono, malgrado fossero state già approvate. Spariscono anche le citazioni dello scrittore e naturalista americano Peter Matthiessen, quelle del poeta e saggista Terry Tempest Williams e persino una dichiarazione del presidente Jimmy Carter: “Sarà un grande trionfo per l’America se possiamo conservare il Rifugio Artico nel suo stato puro e incondizionato”. Ciliegina sulla torta, poco dopo lo Smithsonian contatta la casa editrice del libro chiedendo che il logo del museo sia rimosso.

 

Insomma, quello dello Smithsonian non fu un semplice gesto curatoriale come si tentò di farlo passare, ma un vero e proprio atto di censura che rispondeva a una precisa agenda politica. E sembra che le cose siano andate dopotutto a buon fine, perché il primo ordine era stato di cancellare la mostra.

Fortuna che la stampa reagì. Che delle foto di paesaggi naturali per quanto esotici facciano così paura non è un pessimo segno della salute della democrazia e della perversità degli interessi economici che la sostengono? Il 20 maggio 2003, in un’interrogazione parlamentare, il senatore democratico Richard Durbin chiede ragione del comportamento dello Smithsonian, che si trincera dietro la neutralità dell’istituzione scientifica e l’equidistanza verso le controversie politiche. A quel punto non si contano più le istituzioni artistiche americane che vogliono esporre le foto di Banerjee, il cui intrinseco valore politico è ormai palese. Seasons of Life and Land, ancora sconosciuto in Italia, è insomma un “resoconto post-antropocentrico della biodiversità” quanto uno “sguardo critico degli effetti sempre più distruttivi delle attività societarie e industriali sulle forme di vita non umana e le loro vicinanze” (T.J. Demos, Decolonizing nature).

 

Costruire il reale

Banerjee torna in Alaska tre mesi nel 2006 e un mese nel 2007, in parte in compagnia di Peter Matthiessen che, lo stesso anno, lo accompagna anche a Bruxelles, dove intervengono a una conferenza dell’UNEP (United Nations Environment Programme) sul cambiamento climatico nell’Artico. Poi parte un mese in Siberia con l’ormai amico Thompson – la sua guida artica –, a stretto contatto con due comunità indigene (Yukaghir e Even), la cui vita quotidiana è documentata in un articolo uscito su “Vanity Fair”. Pare sia il primo articolo in occidente sul cambiamento climatico in Russia. Nel 2010 fonda il sito ClimateStoryTellers.org sul global warming, impegnato a far conoscere una zona sperduta ma non per questo, come ci vogliono far credere, desolata e disponibile – come un cartoncino bianco – a qualsiasi intervento umano. Quel cartoncino bianco è stato già scarabocchiato da troppe mani. Il lavoro di Banerjee dimostra che l’arte ha ancora il potere di nominare, pensare e immaginare il reale.

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Subhankar Banerjee verso Nord

Il collezionista di giocattoli

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Innumerevoli sono i giochi e di vario tipo: giochi di società, di destrezza, d’azzardo, giochi all’aperto, giochi di pazienza, giochi di costruzione, ecc. Nonostante la quasi infinita varietà e con costanza davvero notevole, la parola gioco richiama sempre i concetti di svago, di rischio o di destrezza. E, soprattutto, implica immancabilmente un'atmosfera di distensione o di divertimento. Il gioco riposa e diverte. Evoca un’attività non soggetta a costrizioni, ma anche priva di conseguenze sulla vita reale. Anzi, si contrappone alla serietà di questa e viene perciò qualificato frivolo. Si contrappone al lavoro come il tempo perso al tempo bene impiegato. Il gioco infatti non produce alcunché: né beni, né opere. (…) Questa fondamentale gratuità del gioco è appunto l’aspetto che maggiormente lo discredita.”

 

Questo l'incipit de: I giochi e gli uomini di Roger Caillois,pubblicato in Francia nel 1958,che rappresenta ancora oggi il testo di riferimento per chi voglia avvicinarsi allo studio del gioco.

 

Sopra: Veduta della mostra allestita nel refettorio di san Domenico Maggiore. Sotto: La vetrina con la collezione di Barbie; la vetrina con i personaggi di Eugenio Tavolara; la “maschietta” della Lenci.

 

A Napoli, nel solenne spazio dell’antico Refettorio del Convento di San Domenico Maggiore è stata ospitata la rassegna Storie di giocattoli, dal Settecento a Barbie. Tra i 1500 pezzi esposti, si potevano ammirare moltissime bambole, tra cui quella tedesca degli anni’30 acquistata da Benedetto Croce per la figlia Silvia, oltre a quelle in cartapesta della Rella, e a quelle della Furgae della Lenci, inclusa la “maschietta”, ovvero la bambola ispirata alla figura di Edda Ciano, con tanto di sigaretta pendula tra le labbra e con indosso i pantaloni, in assoluta controtendenza con i dettami dell'allora vigente Regime. C’era anche una raccolta completa della Barbie, la bambola per eccellenza del Novecento, il cui nome per intero è Barbara Millicent Roberts, compresa la mitica numero uno del 1959. E poi vi erano esposti gli automi di Seraphin Ferdinand Martin (1849-1919), il genio della meccanica che, tra il 1880 e il 1930, inondò il mercato con i suoi piccoli robot. E ancora i clown e le auto della Günthermann, l'azienda fondata a Norimberga nel 1826 che produceva giocattoli di stagno con i colori serigrafati sopra, e i bei pezzi della nostra Ingap (Industria Nazionale Giocattoli Automatici Padova), attiva dal 1919 al 1972, e poi i giochi di legno e di latta e quelli da tavolo, con un Gioco dell’Oca del Settecento, stampato a Milano dalla Tipografia Tamburini, fino ai primi Risiko e ai primi Monopoli. Non potevano mancare, proprio a Napoli, varie versioni della Tombola tra le quali ne spiccava una “didattica” con figure (un incrocio fra la tombola tradizionale, il puzzle e il nàibi), stampata a Monza nel 1928. Insieme alle carte da gioco e ai tarocchi, era esposto anche un rarissimo esemplare di Carte napoletane del 1840 con ancora impresso il timbro borbonico sopra il Tre di denari.

 

Tra i numerosi Pinocchi, in legno e in latta, di ogni foggia e dimensione, si distingueva quello realizzato dal futurista Eugenio Tavolara, il cui viso dai tratti rudi, tipici di questo artista, parevano tagliati con l’accetta rivelandone l’anima espressionista. Accanto a rarissimi esemplari di orso-balocco si trovavano altri pezzi singolari, come il bambolotto Balilla con tanto di fez, e Bob, primo bambolotto gay e ancorai pupazzi tratti dalle strisce del Corriere dei Piccoli, da Fortunello a Ciccio e Checca, da Bonaventura di Sto (Sergio Tofano) al Sor Pampurio di Carlo Bisi. Tra i mezzi di trasporto in miniatura spiccavano naturalmente i trenini di Georges Carette (1861-1954), che nel 1893 fu il primo a costruire un tram elettrico, ma soprattutto faceva bella mostra di sé la macchina dei Beatles, un altro pezzo d'eccezione del 1962, in gomma e latta litografata, prodotto dalla ditta spagnola Rico, attiva dal 1910 al 1984. Non potevano mancare, naturalmente, i pupazzi di Pulcinella, nelle sue varie declinazioni, dalla più conosciuta versione povera, stile pezzente napoletano, agli antichi Punch inglesi, fino ai Polichinelles francesi. Curiosi anche i pupazzi della trasmissione televisiva Lascia o Raddoppia e incomparabili quelli della famiglia Disney, con i primi Topolino e Paperino datati addirittura agli anni ‘30. E ancora case, casette, teatrini, marionette, burattini di ogni misura, produzione e provenienza, giostre, robot, soldatini e secchielli, per non parlare delle tanagre romane e degli astragali ellenistici, che a guardarli bene veniva da pensare che c’è davvero poca distanza tra i giochi dei bambini di quei tempi remoti e quelli di oggi, tecnologia a parte, beninteso.

 

La mostra, promossa dall'Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli e dall'Università Suor Orsola Benincasa, è stata curata da Vincenzo Capuano, proprietario della collezione, con il patrocinio dell'Arcigay di Napoli.

 

In alto:Gatto e topi, Issmayer, 1905 ca; Orchestrina, Günthermann, 1900. Al centro: Auto Beatles, Rico, 1962. In basso: Pinocchio, Lenci, 1920; Pinocchio, SEVI, 1920 ca; Valentino, Lenci, 1926 Fortunellocon tamburo, SEVI, 1930 ca. A destra: Il nuovo Gioco dell’Oca, Tipografia Tamburini, Milano, 1770 ca.

 

MLG. Come è nata la prima idea della tua collezione? E perché proprio una raccolta di giocattoli?

V.C. L’idea della collezione è nata quando ero bambino. A tre anni, a Natale del 1965, mio padre mi regalò un pupazzo americano, che non si vedeva in Italia. Ma a Napoli c’erano le basi Nato e arrivava molta roba di contrabbando. Quello è stato il mio numero uno, come il primo dollaro di Zio Paperone. Si chiamava Captain Action, era una specie di Big Jim con sembianze più realistiche e maschili. Aveva i costumi da supereroe. Mi ricordo di aver pensato: me lo deve conservare per ritrovarmelo. Ora ce l’ho in collezione. Inoltre ero un appassionato ricercatore di oggetti antichi, nei cassetti, negli armadi, soprattutto a casa dei miei nonni. C’era in me fin da allora un amore per la ricerca, una vocazione, diciamo, un po’ archeologica. Ho sempre pensato di essere diventato un collezionista appassionato perché sono in realtà un artista fallito. Non ho gli strumenti e le tecniche per esprimermi artisticamente, ma ho cercato comunque qualcosa che mi permettesse di raccontare quello che sento. E quindi ho amato gli oggetti che sentivo più aderenti a questa forma personale di narrazione.

 

MLG. Si può quindi affermare che la scelta è ricaduta sui giocattoli perché tu riconoscevi nel collezionarli una valenza diversa da quella della mera raccolta di oggetti, quali potrebbero essere ad esempio le tabacchiere, oppure il collezionismo di quadri. Mi dicevi poco fa che per te il giocattolo ha una carica in più, di carattere sociale, di carattere umano, oltre che storico ed artistico.

V.C. Sì. Ma questo lo scoprii dopo. Io, ad esempio, ho ereditato anche una collezione di francobolli.

 

MLG. Allora il collezionismo è nel DNA di famiglia.

V.C. Forse sì. I francobolli li collezionava mio padre e quando ho scoperto che anche a me piaceva raccogliere e collezionare, ho capito che non mi importava nulla dei francobolli. Era un collezionismo troppo noioso e quando ho incontrato i giocattoli, passando attraverso varie forme di collezionismo, ho intuitivamente sentito che ero arrivato finalmente alla meta. Quando poi i giocattoli sono diventati tanti e – anche lì un po’ ragionandoci, un po’ istintivamente –la raccolta è andata crescendo, attraverso la ricerca di vari materiali, di tutti i tipi di meccanismi, delle marche più importanti, quando è diventata qualcosa di molto organico, ho capito che non era più solo una cosa che riguardava me, ma era divenuta un paradigma di interpretazione della condizione umana nella storia, un punto di vista privilegiato grazie alla collocazione naturale del giocattolo in quel momento strategico della vita dell'uomo che è l’infanzia.

 

MLG. Certo. Tu stesso hai dichiarato che di frequente ti è capitato di imbatterti in giocattoli che erano “firmati”, realizzati cioè da operatori artistici che militavano anche nelle fila della pittura o della cartellonistica.

V.C. Mi è capitato di incontrarli parecchie volte, perché il giocattolo è spesso realizzato dal grande artigianato, specialmente il giocattolo antico, o addirittura, in qualche caso è frutto di vera e propria espressione artistica. Abbiamo avuto grandi disegnatori, grandi cartellonisti delle prima metà del Novecento, come Marcello Dudovich (1878-962), Gigi Chessa (1898-1935), Mario Sturani (1906-1978), che hanno disegnato le bambole per la ditta Lenci, ma anche Eugenio Tavolara (1901-1963), che insieme all’amico Fortunato Depero (1892-1960) aderì al Futurismo e realizzò le sue bambole regionali sarde e i suoi Pinocchi con quel taglio così netto e originale. Naturalmente più andiamo indietro nel tempo e ci avviciniamo all’antichità, più le firme si perdono e ci troviamo di fronte a qualcosa che ha bisogno di essere collocata sia sul piano del significato, che su quello della storia e delle tendenze artistiche. Per esempio, dal Settecento, soprattutto in Italia, la realizzazione delle bambole, sia da punto di vista iconografico che nell'uso dei materiali e delle tecniche di fabbricazione, fu influenzata dai modelli dei grandi artisti che lavorarono al Presepe Napoletano, come Giuseppe Sanmartino (1720-1793), Salvatore di Franco (attivo dal 1770 al 1815), Francesco Celebrano (1729-1814).

 

MLG. Attualmente la tua collezione di quanti pezzi si compone all’incirca?

V.C. Al momento sono circa duemila pezzi. Naturalmente sono pezzi che fanno capo a diverse tipologie.

 

MLG. Quali, ad esempio?

V.C. C’è una classificazione piuttosto generica, di tipo collezionistico, esiste l’area della bambola, quella del giocattolo di latta, del giocattolo di legno, del gioco da tavolo, del gioco militare, dei pupazzi e dei peluches. Sono aree non omogenee, perché alcune fanno capo al tipo di giocattolo, per esempio le bambole, mentre altre si riferiscono al tipo di materiale utilizzato: il legno, la latta, eccetera. Da questa prima classificazione si diparte un'infinita varietà di ramificazioni e di sovrapposizioni.

 

MLG. Quindi non è possibile applicare una tassonomia schematica, per dire, alla Diderot? Anche tra i giocattoli ci sono territori di confine.

V.C. Sì. Esistono territori di confine, dove però il confine è molto sottile e quindi invade campi che sono i più svariati. Il giocattolo, come dicevo prima, è paradigmatico e la sua storia è l’insieme di tante storie: è storia del costume, storia dell’artigianato, storia dei generi, quindi del maschile e del femminile, storia della moda, storia politica, storia economica, antropologia, pedagogia. Ci sono svariate discipline che trovano proprio nel giocattolo spunti di riflessione e ricerca.

 

MLG. Tu insegni proprio Storia del giocattolo alla Facoltà di Scienze della Formazione di Suor Orsola Benincasa, a Napoli. Che tipo di studenti frequentano il tuo corso? Con quale interesse? E come si rapportano con questo tuo amore per il collezionismo?

V.C. Il mio è un corso complementare, quindi a scelta volontaria da parte degli studenti, ma devo dire che è uno dei corsi più affollati. Seguo una classe di circa un centinaio di ragazzi ogni anno. L’interesse è sempre molto forte, perché è molta la curiosità. Intanto sono tutti un po’ stupiti all’idea che possa esistere una “Storia del Giocattolo”. E soprattutto che possa essere oggetto di studi universitari. In realtà si rendono ben presto conto, seguendo il corso, dell’importanza che ha il giocattolo, non solo dal punto di vista pedagogico, ma anche dal punto di vista antropologico e dello sviluppo della Storia del Pensiero. Io dico spesso che la Storia del giocattolo è una delle più etiche tra le materie di insegnamento, perché da una lato, specialmente se parliamo dei giocattoli antichi, il giocattolo tende a restituirci un sentimento nostalgico e romantico di ciò che è stato, ma dall’altro lato è vero che nelle varie epoche i giocattoli hanno rappresentato soprattutto l’utopiae cioè la volontà da parte degli adulti di dare forma a un mondo ideale, dotando i propri figli degli strumenti necessari a realizzarlo. C’è quindi una scala di valori che emerge dai singoli giocattoli nelle varie epoche storiche. È un tema molto sentito dagli studenti, che offre opportunitàdi riflessione critica anche sul presente.

 

MLG. A proposito di presente, si è da poco conclusa nel Chiostro di San Domenico Maggiore, qui a Napoli, la mostra: “Storie di giocattoli, dal Settecento a Barbie”, dove tu hai esposto una parte della tua collezione. Uno dei temi trasversali è quello del Gender, che la mostra ha saputo toccare con grande grazia e leggerezza ma in mondo niente affatto superficiale. Ce ne vorresti parlare?

V.C. Una delle prime cose che ci sentiamo domandare dal commesso se andiamo a comprare un giocattolo è se è destinato a un maschietto o a una femminuccia. Nel mondo del giocattolo questa separazione è ancora molto netta. Nelle epoche passate è stata ancora più importante. Però nella storia del giocattolo troviamo a volte dei motivi molto forti di trasgressione degli stereotipi di genere. Delle piccole rivoluzioni culturali. Ricordiamo ad esempio che negli Anni Venti una delle bambole più apprezzate della Lenci, la grande casa torinese di giocattoli, fu la “Maschietta”, cioè la bambola da boudoir vestita con i pantaloni e che aveva la sigaretta in bocca. Era lontanissima dal modello di femminilità fascista, che si rifaceva all’immagine della madre di famiglia tradizionale. Fu, da parte dei due grandi giocattolai fondatori della Lenci, Elena König ed Enrico Scavini, l’interpretazione di quella che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento fu la donna nuova. Una definitiva rottura con i modelli femminili dominanti, interpretata nel mondo del cinema da attrici come Marlene Dietrich, ma ancora prima rappresentata da figure rivoluzionarie di scrittori e poeti, come Oscar Wilde e George Sand.

Ma abbiamo tante altre storie di questo genere. Ad esempio lo stesso orso-balocco nasce dalla piccola rivoluzione messa in atto agli inizi del Novecento da Margarete Steiff (1847-1909), una signora paraplegica che in Germania, per arrotondare la sua magra pensione, aveva deciso di costruire dei pupazzi di stoffa imbottita. Margarete aveva capito che anche i maschietti volevano giocare con le bambole, così li dotò di un giocattolo con cui potessero divertirsi come con una bambola senza contravvenire alle convenzioni sociali, il cui aspetto più feroce non contraddicesse il loro ruolo di genere. Allo stesso modo il Pinocchio agli inizi del Novecento fu amato soprattutto dalle bambine: il maschietto monello rompeva quella gabbia ideologica rigidissima offerta dalla bambola francese dell’Ottocento, che aveva imposto alle bambine della ricca borghesia un modello assoluto e perfetto di bellezza, di eleganza e di femminilità.

 

MLG. E quindi il giocattolo come emblema della libertà e della gratuità assolute insite nel gioco medesimo, come ci ha suggerito Roger Caillois.

V.C. In napoletano giocare si dice “pazziare”, che rimanda etimologicamente alla pazzia, non come assenza di senso, ma come capovolgimento di esso. Noi abbiamo anche nella cultura napoletana esempi di arte popolare che proprio su questo tema sfiora il sublime. Pensiamo alla destrutturazione del linguaggio operata dal grande Totò. Ecco, Totò incarna in sé l’uomo pazziella, così come alcuni suoi grandi progenitori, come il Signor Bonaventura e lo stesso Pulcinella. Sono figure popolari, ma rivoluzionarie, che poi spesso trovano delle interpretazioni ludiche nei pupazzi, nelle marionette, nei personaggi del teatro dei burattini. E non è un caso.

 

MLG. Parlando della tradizione napoletana tu hai ricordato poco fa le analogie che esistono tra il gioco e la costruzione dei presepi, questi capolavori dell’artigianato partenopeo. In che cosa è individuabile l’analogia?

V.C. In realtà la vicinanza è molto forte. In Italia non c’è stata una solida cultura del giocattolo e non ci sono state grandi fabbriche, perché l’artigianato ha avuto soprattutto una connotazione religiosa, legata alla realizzazione di figure sacre. L’area di costruzione della bambola è stata un’altra, soprattutto quella della Germania, dell’Inghilterra e della Francia. È anche vero che però, dal punto di vista dell’uso dei materiali, soprattutto del legno, della cartapesta, della creta, ma anche nell’utilizzo delle immagini, nella struttura dei corpi e nel modellato dei volti, il giocattolo risente in tutta Europa del lavoro artigianale proprio del Presepe Napoletano, che era, a sua volta, una sorta di gioco per adulti, un divertissement per nobili e ricchi.

 

MLG. Come ci insegna Natale in casa Cupiello, ad esempio.

V.C. Esatto. Si costruivano enormi installazioni, un plastico di paesaggio in miniatura con case di bambole che contenevano tutti i personaggi e le scene di vita dell’epoca e i nobili facevano a gara a chi realizzava il presepe più bello. La connotazione sacra veniva dunque meno lasciando prevalere quelle sociale e artistica, che alla fine dominavano in questa forma di collezionismo.

 

MLG. Ora che la mostra di San Domenico si è conclusa, ci sono prospettive per la ricostituzione di un museo del giocattolo a Napoli, che ha già una piccola storia alle sue spalle.

V.C. È quello che spero. Esistono già molti contatti, oltre a quello con Suor Orsola Benincasa, che fino ad ora ha conservato la mia collezione di giocattoli all’interno dei suoi spazi. Il problema della destinazione della collezione è quello di una collocazione definitiva, che permetta la realizzazione di un museo che si configuri come luogo di crescita e di formazione, di comunicazione e di relazione, che abbia insomma al proprio centro l’incontro sì con degli oggetti del passato che diventino però uno stimolo per la riflessione e per la ricerca. Un’interazione che oggi diventa necessaria, perché oggi i musei non sono più soltanto i luoghi della conservazione, luoghi che spesso finiscono per diventare dei depositi dimenticati, sono e dovrebbero sempre di più essere luoghi dove la presenza di oggetti d’arte offra lo spunto per riflettere anche sulla nostra condizione presente, su come siamo arrivati fin qui, su chi siamo e dove andiamo. L’offerta di spazi mi è giunta da molte parti. Sarà necessario vagliare le opportunità, affinché il luogo scelto diventi veramente il Museo del Giocattolo di Napoli.

 

MLG. Ho notato che le reazioni del pubblico sono state sempre molto lusinghiere: dai bambini agli adulti, dalla gente comune agli intellettuali tutti, di fronte alle vetrine della mostra di San Domenico, avevano espressioni attente, emotivamente coivolte, spesso divertite, altre pensose. Comunque nessuno rimaneva indifferente.

V.C. È il giocattolo che fa questo effetto. Proprio perché ha la sua naturale collocazione nell’infanzia, quindi in una dimensione un po’ mitica, che non abbandoniamo mai definitivamente, che tende a ridurre immediatamente gli spazi emotivi e relazionali tra le persone. Sono convinto che se incontrassi davanti a una vetrina di bambole la regina d’Inghilterra potremmo darci tranquillamente del tu, senza formalità, perché il giocattolo fa crollare tutte le barriere, riportando immediatamente le persone in un territorio in cui non ci sono riserve, né remore nei confronti dell’altro, il territorio del gioco dei bambini. Il mio scopo nel mostrare al pubblico la collezione è anche quello di proporre un punto di vista diverso sul mondo dell’infanzia e del gioco e quindi sulla nostra condizione umana.

 

MLG. Da ultimo ti vorrei chiedere come mai hai deciso di dedicare sia il catalogo del Museo di Suor Orsola Benincasa che la mostra di San Domenico Maggiore al ricordo di Ernst Lossa, il bambino zingaro ucciso nel 1944 dalla ferocia nazista.

V.C. Ho sentito per la prima volta il nome di Ernst Lossa (1929-1944) una notte, in una quarta, quinta serata televisiva di La Sette. Veniva trasmesso uno spettacolo del grande drammaturgo Paolini, che raccontava le storie delle persone uccise in più di settantamila nella campagna di eugenetica nazista. Quella di Ernst è la storia di una vittima, ma è anche la storia di un eroe. Questo bimbo muore dodicenne, dopo aver tentato la fuga dall’ospedale in cui era rinchiuso. Aveva rubato le mele per sfamare se stesso e anche gli altri bambini reclusi come lui. La dedica è motivata dal fatto che i giocattoli, soprattutto questo tipo di giocattoli, rimandano a un’infanzia ricca e felice, che non manca di nulla. Perché non fosse solo una parata di begli oggetti, avevo bisogno di coltivare il sentimento del contrario, ovvero ricordare che esiste un’infanzia negata e deprivata, che è la prima vittima della guerra, della fame, della povertà e della paura del diverso. La bestia tremenda che nella storia rappresenta la contraddizione a tanta bellezza, a tanta gioia e ricchezza. Per ricordare che dobbiamo continuare a lavorare affinché tanto orrore non accada mai più. Abbiamo invece testimonianza del fatto che l’orrore continua, nei paesi dove infuria la guerra, nella fuga di tanta gente dalla fame, ma anche nei quartieri degradati di certe nostre periferie, dove i piccoli vengono sfruttati e violentati. Mentre i nostri sguardi di gente per bene sorvolano distratti e l'indignazione evapora in reazioni troppo tiepide.

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Conversazione con Vincenzo Capuano

Serie mondo

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In modo sempre più decisivo la serialità televisiva sta condizionando lo sviluppo, la storia e le prospettive del mondo audiovisivo, tanto sotto il profilo industriale quanto sotto quello artistico. Nell’acceso dibattito sul tema della serialità, continuamente si sente parlare di un presunto superamento della sperequazione tra televisione e cinema, nel solco di un incrocio tra le grammatiche specifiche di ciascun linguaggio. Ciò da un lato condurrebbe la televisione, classicamente votata a una sintassi semplice e rassicurante, a sperimentare modalità di racconto nuove e più complesse; dall’altro il cinema a raccogliere le istanze del miglior racconto seriale (la coralità o l’arco di trasformazione dei protagonisti, per dirne alcune). Impossibile escludere questa comunicazione tra i due linguaggi, tant’è che uno dei più forti segnali che il cinema recente sembra aver recepito dalla televisione, in Italia almeno, è stato il “recupero” dei generi.

 

Tuttavia, per interrogarsi sullo specifico seriale contemporaneo, appare necessario sganciarsi dall’onnipresente paragone con il cinema.

Ecco perché una possibile direzione di indagine per cogliere lo spazio verso cui si muovono i racconti seriali di oggi potrebbe essere presa in prestito non dagli studi sul cinema, ma dalla teoria letteraria. Prendendo in carico la nozione di opera mondo, proveremo a cartografare il territorio seriale per scoprire in che senso, nonostante l’eco “spaziale” che risuona nel concetto di opera mondo, la chiave di volta delle serie tv stia nel rapporto che esse intrattengono con il tempo.

 

Cosmogonie

In un testo classico degli studi di letteratura comparatistica, Opere mondo (Einaudi, Torino 1994), Franco Moretti faceva il punto su una serie di opere che occupano un posto speciale nella storia della letteratura e condividono alcune caratteristiche che le riconducono a quella che lo studioso definisce “epica moderna”: sono opere totali, frammentarie, interminabili, solcate da digressioni, stratificate, plurali, universali. Più recentemente, Stefano Ercolino ha ripreso alcuni spunti di questa riflessione per definire un certo tipo di oggetto letterario che chiama “romanzo massimalista” (Il romanzo massimalista, Bompiani, Milano 2015): libri ipertrofici, lunghi, corali, dissonanti, olistici che sono comparsi nella seconda metà del Novecento e hanno cambiato la letteratura contemporanea, da David Foster Wallace a Thomas Pynchon, da Roberto Bolaño a Don De Lillo. Al netto delle differenze tra queste due teorie, resta il fatto che entrambe individuino un filone di opere la cui specificità è l’incontenibilità, l’intertestualità, la forza pletorica con la quale dispiegano mondi.

 

Ma in che modo tale caratteristica può rivelarsi calzante rispetto alla struttura del formato seriale?

Le serie tv contemporanee sembrano essere costitutivamente disposte alla costruzione non già di racconti, quanto piuttosto di interi universi narrativi: la serie istituisce un mondo che è come un orizzonte di senso, una materia viva ma indistinta dalla quale, di volta in volta, prendono forma le varie storie che vediamo sullo schermo.

 

Ogni storia seriale ha infatti il suo doppio, la sua ombra, il suo complemento, in quelle che simultaneamente non vengono raccontate. Esse, però, questo sembra dirci la serialità, possono essere raccontate. La coralità è un artificio che ha le sue misure, simmetrica in Game of Thrones, in cui si stenta a riconoscere i diversi pesi narrativi; frustrante in certi tratti di The Walking Dead, in cui ci si dilunga su vicende secondarie, mentre altrove, fuoricampo, ci sono chiari portatori della storia a cui lo spettatore attende di potersi rivolgere (e a volte l’attesa dura intere settimane). Quel fuoricampo non è però messo a tacere durante la visione, anzi per le regole del gioco della fruizione vive, lontano, silenzioso, ma lo spettatore sa che vive, sa che nel frattempo, altrove, gli altri attori della storia stanno affrontando la loro avventura.

 

Tuttavia, per quanto il dispositivo seriale ci illuda di funzionare indipendentemente dal nostro ruolo di spettatori, esso ci convoca continuamente a metterci in gioco. La tensione paradossale di cui si alimenta il seriale è questa spinta con la quale dichiara insieme un ordine del discorso che non è per noi (la serie si “limita” a generare mondi) e che tuttavia non può che funzionare attraverso di noi (il mondo seriale chiede di essere abitato).

Come ci si orienta dentro l’orizzonte di senso del mondo seriale?

 

Ph: Olivier Culmann, Watching Tv series, 2004-2007.  

 

Spazio

La più acclamata e seguita serialità televisiva contemporanea si articola in uno spazio di racconto che gli addetti ai lavori definiscono arena-driven (per intenderci: Game of Thrones, Westworld, Lost, Twin Peaks, Broadchurch, Fortitudee così via). Significa che l’azione e il procedere del racconto sono guidati dall’arena, cioè dal contesto raccontato, più che dalle storie di un singolo personaggio (in tal caso parliamo di character-driven: The Young Pope, Breaking Bad, Dr. House, True Detective, Dexter). Ovviamente esistono diverse classificazioni ed etichette, molto flessibili e difficilmente univoche: una serie originale è un testo audiovisivo stratificato, plurale, difficile da ricondurre a una singola tipologia. Tuttavia porre l’accento sull’arena ci aiuta a mettere a fuoco un punto essenziale relativo alla “spazialità” delle serie tv. Nelle serie-mondo, lo spazio è così specifico perché istituisce un ambiente che lo spettatore è invitato ad occupare. Stanziarsi nello spazio seriale è un lavoro che coinvolge lo spettatore a un grado profondo,perché significa sganciarsi dal flusso del tempo diegetico per imparare a saltare da un angolo all’altro del mondo raccontato. Naturalmente lo spettatore non è messo in condizione di agire interattivamente scegliendo davvero il suo percorso di lettura (non ancora almeno). La serie però è congegnata in modo tale da simulare questo effetto. Quando scopriamo, attoniti, che la casa in cui Desmond si sveglia di buon mattino è dentro alla botola dell’isola di Lost,è come se la serie ci stesse suggerendo che stiamo scoprendo gli spazi, le pieghe, gli anfratti del suo universo: l’esperienza della fruizione si svolge come se stessimo saltando da un capo all’altro di quel mondo, come se avessimo, avrebbe detto Wolfgang Iser a proposito dei romanzi, “un punto di vista errante” che attua il racconto attraverso l’atto della fruizione.

 

Ma l’ambiente dispiegato dalla serie chiede di essere abitato dallo spettatore e contemporaneamente pone ostacoli alla sua abitabilità. Mentre il fruitore lotta per sentirsi a casa sua in mezzo alle molteplici storie che gli scorrono davanti, infatti, viene continuamente trascinato nel disagio di perturbanti rovesciamenti di trama o di relazione tra personaggi. La tensione drammaturgica si misura in questo continuo movimento, invito ad entrare nel mondo e straniamento da esso. Stranger Things ha fatto di questa doppiezza la sua cifra, combinando la condizione domestica per eccellenza, l’infanzia (il ricordo degli anni ’80 e lo sguardo incantato dei giovanissimi protagonisti) con l’inospitale per definizione, il mondo “sottosopra”.

 

Qual è allora lo spazio di ciascuna delle storie che convivono nel mondo seriale? Solitamente possiamo parlare di racconti principali o secondari, perché un autore imprime ad essi una forma chiara e dei rapporti gerarchici. Però nelle serie-mondo, questi lavori “olistici, ipertrofici, solcati da digressioni”, le cose sembrano andare diversamente. La serie è un racconto, e dunque contiene la promessa del suo stesso senso nel gesto di esser letta, ma al contempo ci fornisce la perpetua sensazione di girare a vuoto, senza puntare verso il suo compimento, come un mondo che esiste incurante di noi.

La presenza di un ordinatore degli eventi tende,infatti, a nascondersi tra le righe del testo. Lo spettatore sente di dover esplorare il mondo perché anche se questo è stato preordinato per lui, l’apparente assenza di un narratore che distribuisca gli spazi nella storia rende necessario padroneggiarli tutti per capirci qualcosa. Da qualche parte, questa è la confusa promessa delle serie, di quel mondo è nascosto il senso. Ma dove? Occultare il punto di arrivo è forse una delle più eclatanti operazioni narrative svolte da Westworld, una serie in cui la scrittura sembra tanto confusa da riuscire a restituire allo spettatore il senso di un mondo a tutti gli effetti, un mondo che semplicemente vive. In Westworld gli obiettivi non sono chiari, la statura dei personaggi è vaga, i conflitti ambigui: ogni volta che premiamo play è come se stessimo collegandoci in diretta streaming con una realtà che procede indipendentemente da noi.

 

Lo spettatore girovaga nelle selve del racconto imboccando percorsi tortuosi e apparentemente svincolati gli uni dagli altri, fidandosi del fatto che prima o poi un elemento consentirà di leggere retrospettivamente tutta la storia. Una fiducia che serve per andare avanti nella visione e che è alimentata da percorsi drammaturgici più o meno soddisfacenti, ma che di fatto è ingiustificata. La struttura seriale, infatti, è priva di telos. Non c’è, nel dispositivo produttore di storie che è la serie tv, un fine che non sia la sua stessa riproduzione. Come una stampante 3d, una serie vive per rigenerarsi all’infinito.

Ecco perché, se ci armiamo di pazienza e ci mettiamo a setacciare gli spazi del mondo seriale, dopo qualche giro a vuoto arriviamo a capire dove vada cercato il senso. Nel tempo.

 

Tempo

In un libro importante per le teorie della narrazione (The Sense of an Ending, Oxford University Press, 1967), lo studioso americano Frank Kermode si è chiesto quale sia il ruolo della fine all’interno dei racconti e in che modo essa influenzi il rapporto che abbiamo con lo scorrere degli eventi. Che cos’è la fine? A cosa serve? Paradigma cosmico che imprime un senso allo starsene lì del mondo e della vita, la fine è un principio ordinatore che fornisce all’esperienza del tempo una direzione. L’esperienza temporale della fine è – sostiene Kermode – l’attesa del procedere delle cose verso il proprio compimento: un vissuto che non esiste nella vita (perché il tempo della vita non ha inizio e non ha fine, è sempre in medias res) ma solo nei racconti. Attraverso le narrazioni impariamo a relazionarci al fluire del tempo per mezzo di categorie cognitive come inizio, svolgimento e fine: ecco perché il tempo ha, per noi, la forma di una freccia. Eppure, se da un lato impariamo il “senso di una fine” grazie alla narrazione di finzione, e dunque proiettiamo questa struttura così intuitiva di ordinamento delle cose anche nell’esperienza che facciamo della storia e della vita, dall’altro la nostra esperienza della storia e della vita è per forza di cose sospesa, perché nel tempo personale, autobiografico, non ci sono inizi, svolgimenti e conclusioni. Così attendiamo la venuta di una fine che non arriva mai e che dunque da imminente si fa immanente– questo è il principio del tempo cristiano, un tempo messianico, di attesa.

Alla struttura lineare dei racconti di finzione e storiografici che ad avviso di Kermode offrono agli uomini la consolazione della fine, le serie rispondono con un altro ordine del discorso.

 

 

Lo spazio-tempo seriale infatti, si finge privo di direzione, spalancando un’esperienza temporale che simula quella del vissuto biografico: il procedere della storia, a tratti desultorio e apparentemente sganciato dalle intenzioni dell’autore, risultando privo di un orientamento teleologico, si articola in configurazioni cicliche che gli consentono di tornare su sé stesso. Lost, ancora una volta, ce lo mostra con impareggiabile potenza quando lo spettatore scopre che il grido strozzato del protagonista Jack, fuori da un aeroporto statunitense («We have to go back, Kate»), non sta avvenendo nel passato, come si è creduto per tutto l’episodio, ma nel futuro – non si tratta di un flashback, ma di un flash forward.

Nelle serie la fine è esclusa dal racconto perché il rapporto tra le parti e il tutto è articolato in modo tale che la somma degli episodi ecceda sempre l’insieme, sforando la totalità. Ecco perché di una serie non vogliamo sapere come va a finire, ma cosa succede dopo.

 

Ciclico, ricorsivo, casuale, il tempo seriale è il tempo parcellizzato e incompleto della vita che si finge storiografico, cioè ordinato, orientato. Occultata dietro le ricorsive trovate della drammaturgia televisiva, dimora una struttura temporale che sta più dalle parti della vita che da quelle della finzione: di una serie non abbiamo mai un’esperienza complessiva, proprio come non l’abbiamo del vissuto autobiografico (è ciò che il finale dei Soprano ha mostrato con irripetibile forza). Nelle serie tv facciamo esperienza di mondi che vivono liberi dall’attesa della fine.

 

Fuori dallo schermo, nel luogo in cui il tempo e il mondo seriali si incontrano con quelli umani, vive lo spettatore. Cosa se ne fanno gli umani di questo spazio-tempo pletorico e inafferrabile che è dispiegato dalle serie-mondo?

 

Deve esistere un qualche nesso diretto, oltre a quello analogico, tra il tempo della vita individuale e quello dello schermo. La struttura potenziale del dispositivo seriale offre al fruitore un antidoto contro l’horror vacui: forse per questo i peggiori binge-watching si scatenano in solitudine, e si prolungano furiosamente fino a tarda notte, il tempo potenziale per definizione, il tempo fuori orario. L’attività di fruizione del seriale è un’attività che si svolge da soli (o con il proprio/la propria convivente – colui o colei con cui si condivide il tempo della vita), come la lettura, perché il tempo dello spettatore e quello del racconto intrecciano una silenziosa alleanza, svuotandosi l’un l’altro in una lotta feroce.

L’episodicità delle serie si dipana nella quotidianità della vita, creando un tempo di riserva, sospendendo il flusso degli eventi in virtù di un gioco del come se che simula che lo scorrere delle cose ricominci continuamente da sé stesso. La fine è trattenuta, sacrificata dal racconto che la esclude, facendola esorbitare dai propri confini. Espulsa dal mondo del testo e rinviata al mondo dello spettatore, la conclusione non ci offre la consolazione di un ordine fittizio ma al contrario la filigrana del tempo umano. Come insegna Shahrazād, finché il fuoco del racconto brucia, la fine resta lontana.

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Sconfiggere l'horror vacui

Verso una filosofia della natura

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Ph Kenro Izu.

Il 1889 si può considerare l’anno di una biforcazione fondamentale nello sviluppo del pensiero filosofico del Novecento. Esce il Saggio sui dati immediatidella coscienza di Henri Bergson, ruotante sulla distinzione tra materia e spirito, spazio e durata, che alla fine il filosofo francese salderà nella cornice monistica del vivente e della sua evoluzione creatrice, e, a Messkirch, nasce colui che porterà al successo il movimento fenomenologico del maestro Husserl, scatenando in Francia la rivolta dei giovani, come Sartre, proprio contro l’egemonia bergsoniana: Martin Heidegger.

 

La linea del primo è quella di una filosofia dell’immanenza assoluta, di una realtà naturale concepita come un’infinita memoria vivente, di cui l’io, l’intelligenza umana diventano una provincia. Filosofia che si pone come il “prolungamento” metafisico della scienza della natura e con la stessa dignità di quest’ultima. È la linea che nel volgere di un paio di decenni soccomberà al cospetto della linea maggiore del Novecento, della quale Heidegger consacrerà i due caratteri principali. Da un lato, l’antropologia, fondata sull’eccezione umana rispetto agli altri enti di natura, in quanto l’uomo è aperto alla possibilità e al senso, nell’orizzonte del quale solo s’incontrano il mondo e i suoi oggetti, ovvero è l’unico destinatario dell’appello dell’Essere, e, dall’altro lato, la dismissione della filosofia, cioè l’articolazione di un discorso filosofico paradossalmente autofago, che verte sull’impossibilità della filosofia stessa e delle sue pretese conoscitive, diventando così ermeneutica, filosofia analitica, decostruzione o genealogia. Il primato antropologico ha avuto, infatti, come risvolto il primato del linguaggio umano, col risultato che la filosofia non solo ha abdicato a se stessa, ma ha dimenticato e messo tra parentesi il mondo, imprigionandosi nei testi e nelle parole, come lamentava quarant’anni fa Michel Serres, che invocava un nuovo Rinascimento con il ritorno ad una filosofia della natura, consapevole del fatto che “il mondo così com’è non è un prodotto della mia rappresentazione, bensì il mio sapere è un prodotto del mondo che si autoforma (della natura naturante)” (Hermès IV. La distribution, 1977).

 

Rocco Ronchi sembra raccogliere l’appello di Serres in questo corposo libro che ripercorre e mappa in modo inedito la filosofia del Novecento, appena pubblicato dalla Feltrinelli col titolo: Il canone minore. Verso una filosofia della natura, dove si indicano anche nuove possibili direzioni di marcia per la filosofia del XXI secolo, che ne ridisegnino statuto e validità e ne giustifichino la necessità nel contesto di quei saperi scientifici in continua trasformazione (innanzitutto, le neuroscienze), che sembrerebbero metterla ancor più sotto scacco. Con l’acribia di un archeologo del sapere filosofico, Ronchi ci suggerisce che il passaggio da Bergson ad Heidegger, non è tanto il passaggio dal “momento filosofico” dello spirito a quello dell’esistenza, su cui indulge solitamente la storiografia filosofica, ma è il passaggio da un canone ad un altro, da un paradigma ad un altro, con l’annesso sottosuolo e costellazione di concetti, categorie, stili di pensiero. Il libro di Ronchi è un’accurata rassegna dei dispositivi fondamentali del canone maggiore del pensiero, puntualmente decostruiti alla luce delle proposte alternative del canone minore, che l’autore propone di rilanciare, attingendolo in filosofi come Bergson, Gentile, James, Whitehead, Deleuze e meno noti come Gilbert Simondon e Raymond Ruyer. 

 

Due simboli, sovente richiamati dal testo, possono aiutarci a rinvenire l’opposizione principale tra i due canoni: l’albero di Sartre e la rosa di Bergson. In un noto saggio brevissimo ma letterariamente eccelso, scritto nel gennaio 1939 (Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità), Sartre spiega il punto di forza della proposta fenomenologica di Husserl rispetto all’“idealismo” di Brunschvicg e al “realismo” di Bergson e, cioè, la “correlazione” data nello stesso momento di coscienza e mondo: l’albero non è qualcosa che, misteriosamente ingurgitato come un alimento, diventa la mia rappresentazione, un contenuto della mia coscienza, esso resta fuori di me; ma nemmeno è un assoluto che entrerà poi in comunicazione con me, dice Sartre. L’albero appare in me perché la coscienza è sempre fuori se stessa, esplode verso l’esterno, è coscienza di qualche cosa, e quindi è sempre fuori presso l’albero, accanto al suo lembo di terra screpolata.

 

Ph Kenro Izu.

Ph Kenro Izu.


Per il Bergson di Materia e memoria e in genere per i filosofi del canone minore, invece, questa coscienza non è là fuori l’albero o la terra, perché è l’albero, è la terra. Il tutto, la natura, è una coscienza in sé prima che venga catturata e ritagliata dalla coscienza intenzionale dell’uomo. Nel caso della rosa – fatto in verità da un critico di Bergson, Maurice Prandines, nel suo Traité de psychologie générale. Les fonctions élémentaires del 1943 –, si può dire che il profumo di una rosa non esiste nel momento in cui odora per noi ovvero noi ci poniamo nell’atto di odorarla. La rosa odora innanzitutto per se stessa, anzi il suo odorare coincide col suo essere, vivere, percepire e anche col nostro godimento. Insomma, l’albero di Sartre è il fenomeno, l’apparire relativo al soggetto umano; la rosa di Bergson è l’apparire stesso dell’apparire, il puro apparire. 

 

In definitiva, i filosofi dell’immanenza assoluta concepiscono la realtà come unitaria. Ma è un Uno che si complica e si moltiplica in sé, è l’evento del suo continuo differenziarsi e indefinito comunicarsi. Quindi, è processo, cambiamento, esperienza pura, da considerarsi come assoluto. Cosa significa questo? Significa che non bisogna pensare in primis l’esperienza come l’esperienza di qualcosa e di qualcuno, cioè a partire da un fondamento che la renderebbe possibile e che si troverebbe miracolosamente fuori dall’esperienza stessa. Questa è l’esperienza come è stata vista dalla filosofia del canone maggiore, vale a dire sempre relativizzata in riferimento all’uomo. Bergson, sempre in quel testo che Ronchi sembra ritenere il più audace della linea minore, Materia e memoria del 1896, descrive l’esperienza pura come un “piano di immagini” che non sono immagini di qualcosa o per qualcuno, ma immagini in sé. Per comprendere una tesi alle prime ingenua e bizzarra, può essere utile il paragone con un film o una pellicola cinematografica prima che un qualsivoglia spettatore la visioni, che fa Deleuze, anche sulla scorta della semiologia del cinema di Pasolini. Non c’è solo la percezione soggettiva dell’uomo.

 

Ogni elemento della natura percepisce, il tutto è cosciente anche se non è una coscienza intenzionale, che del primo è una piega derivata, riflessa. Anzi, all’origine dell’esperienza pura non c’è un soggetto, l’Io penso di Kant o il Dasein di Heidegger, bensì un’intuizione cieca della natura, che “non è esperienza di niente e di nessuno, ma una singolare auto-affezione traumatica che gli empiristi radicali sono soliti metaforizzare con l’ossimoro di uno spettacolo senza spettatore”, scrive Ronchi. Per fare un esempio di questa intuizione cieca, Ronchi richiama l’aneddoto raccontato nell’XI Seminario da Jacques Lacan, lo psicanalista collocato nel guado tra canone maggiore e minore. Un pescatore invita Lacan, a bordo della sua barca, ad osservare una scatoletta di sardine galleggiante e gli fa notare come egli possa vedere la scatoletta, mentre la scatoletta non può fare lo stesso nei suoi confronti. Involontariamente, il pescatore induce, invece, Lacan a pensare alla possibilità che la scatoletta lo guardi senza “vedere”, che faccia comunque esperienza di lui, della barca e del pescatore. 

 

Ecco che ad essere sconvolta è la nostra Weltanschauung, il nostro senso comune, da tempo colonizzato dal canone maggiore, che ci ha abituato a pensare l’esperienza come contingenza, come un’oscillazione tra possibile e reale, tra il non poter essere e l’essere, ma la contingenza non appare mai in verità, non “vediamo” mai come qualcosa sarebbe potuto non accadere o accadere diversamente e l’esperienza pura, sempre in atto, non ne sa nulla del nulla. Anche il pensiero va ricontestualizzato nel flusso superindividuale dell’esperienza e quindi non considerato come l’attività di una sostanza pensante, dell’ego, come se questo fosse l’origine del pensare. Semmai l’ego è il compimento, il risultato, il supergetto del pensare. Inoltre, la filosofia del canone minore, che per Ronchi è la filosofia speculativa ovvero la filosofia tout court, impone di restaurare l’ipotesi di una causalità immanente e di un infinito attuale, laddove il paradigma antropologico e relativista del canone maggiore ha visto nella finitezza umana non un limite, bensì la condizione di possibilità della conoscenza, del sapere.

 

Le parole e le cose di Michel Foucault offrono la prima e la migliore delucidazione di questa svolta “antropologica” nella cultura europea moderna, secondo Ronchi, proprio perché ne fa emergere la struttura epistemica sottostante, quella che opera anche alla base del (neo)kantismo, della fenomenologia e dell’analitica esistenziale, principali correnti demolitrici del canone minore. In altri termini, nell’episteme moderna l’uomo si pone come un duplicato empirico-trascendentale, come quell’essere che acquisisce in se stesso la conoscenza delle condizioni che rendono possibile ogni conoscenza, che eleva, cioè, la sua finitudine a fondamento del sapere e dei suoi limiti di validità. Così, la vita, il lavoro, il linguaggio fanno parte dell’empiricità, della storicità dell’uomo, perché derivano dal corpo, dal bisogno, dall’attività parlante, ma nello stesso tempo diventano la fonte trascendentale del suo sapere. Dal punto di vista del canone minore, che reintegra l’uomo nella natura e nella sua processualità, per converso, il sapere, la conoscenza, la tecnica, diventano una funzione e un atto del vivente: la stessa “scienza della natura è un modo, per la natura, di esistere”, scrive Ronchi, e, citando la splendida definizione di Canguilhem, tra i maggiori epistemologi del secolo scorso, “la tecnica è l’esperienza irriflessa inconsciamente orientata verso la creazione”. 

 

Ma quali promesse contiene la riabilitazione della filosofia speculativa? Come può l’eliminazione dell’eccezione umana e la piena integrazione dell’uomo nella natura modificare la nostra prospettiva rispetto alla complessità del presente? Come può porsi, più in generale, il canone minore del pensiero all’altezza dei nostri tempi? Alcuni cenni importanti vengono fatti dal libro in questo senso, che si pongono come tracce per future ricerche o inducono interrogazioni cruciali. Per esempio, se la filosofia non è solo ideologia o mitologia dell’Occidente, per giunta al servizio del suo progetto imperialistico, come recita uno degli approdi più rilevanti della dismissione della filosofia operata dal canone maggiore, ma diventa filosofia speculativa della natura e dell’assoluto, non può al contrario porsi come ingrediente di una cultura comune della convivenza planetaria?

 

E se siamo parte integrante della natura, questo non ci permette di guardare in modo meno inquieto di quanto facciano le apprensioni o le demonizzazioni della tecnica espresse dal canone maggiore, rispetto al fatto che l’evoluzione creatrice ha prodotto con l’uomo un possibile creatore di evoluzione, considerato le conoscenze raggiunte nelle biotecnologie e nell’ingegneria genetica? Come comprendere questa “eccezionalità” di un uomo che comunque non è un’eccezione rispetto al resto della natura? Pertanto, giunti nell’era dell’Antropocene e posti di fronte alla sfida di recuperare gli equilibri vitali con la biosfera, non abbiamo bisogno di restaurare i concetti e lo stile di pensiero del canone minore? Certo, questi appaiono ingenui o “dissennati” ma, come scrive provocatoriamente Ronchi, “la filosofia non è saggia e ne si tocca con mano la dissennatezza da quanto osa affermare”. E, forse, per fare il controcanto al più grande filosofo del canone maggiore, solo la dissennatezza ci può salvare. 

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La rosa e l'albero

Teresa Margolles. Sobre la sangre

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Quando hanno sollevato il telo di plastica/che nascondeva/il contorno osseo della sua testa/all’obitorio/ho cercato di distogliere lo sguardo” (Juárez da I monologhi della vagina, Eve Ensler, 1998). Quello sguardo che troppo spesso le autorità distolgono e che, al contrario, Teresa Margolles tiene fermo e deciso, sempre. Per non soccombere. Per sensibilizzare. Per far conoscere. Per smuovere le coscienze assopite di politici, amministratori, funzionari, giudici, poliziotti, uomini d’affari, investitori, speculatori, in sintesi della società civile.

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Frazada (La Sombra), 2016 -- Posizionamento nello spazio pubblico di una coperta montata su una struttura metallica, simile a quelle utilizzate dalle bancarelle per strada. Il tessuto che proietta l’ombra, recuperato dall’obitorio di La Paz, è stato utilizzato per avvolgere il corpo di una donna assassinata. L’ombra che viene a crearsi evoca il problema della violenza di genere. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, nel 2016, l’87% delle donne ha subito violenza. La Paz, Bolivia. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Lo sguardo puntato sulle donne vittime di violenza e uccise senza nessuna compassione, nella piena impunità e nella totale indifferenza delle istituzioni, che dovrebbero invece salvaguardarle e proteggerle. Quella violenza di genere che da decenni si perpetra in maniera sempre più efferata in ogni angolo del globo (Italia compresa, con la ben triste media di una donna uccisa ogni tre giorni e con le oltre 8 milioni quelle che nel 2016 hanno subito una qualche forma di violenza) e, nello specifico, sulla pelle delle donne nella città di confine di Juárez, “la città del male”, “una delle più violente al mondo” (Guido Olimpo, Corriere della sera, 16 febbraio 2017). 

 

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Wila Patjharu / Sobre la Sangre, 2017 -- Tela ricamata, impregnata del sangue di dieci donne assassinate a La Paz, Bolivia. Un gruppo di sette artigiane e artigiani dell’etnia Aymara, specializzati nella confezione di vestiti tradizionali Caporal e Morenada, hanno ricevuto la tela dall’artista per essere ricamata. Il disegno e il titolo dell’opera sono stati decisi dalle artigiane, senza l’intervento dell’artista. La tela evoca il problema della violenza di genere contro le donne. Secondo l’Istituto Nazionale di Statistica boliviano, nel 2016, l’87% delle donne ha subito violenza. La Paz, Bolivia. Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo -- Ricamo: Irene Mamani Lobo con Graciela Flores, Silverio Nina, Nancy Warawara Flores, Yasmani Quispe Mamani, Juan Daniel Quispe Mamani e Marcelo Quispe Mamani.


Nata a Culiacán (Messico, 1963), Teresa Margolles per alcuni anni ha vissuto in quella città e conosce, per questo, in maniera diretta quanto accade che in prima persona, per un decennio col collettivo SEMEFO (Servicio Médico Forense), ha denunciato tale stato di cose.

Parlare di Teresa Margolles implica, quindi, trattare di Ciudad Juárez e del femminicidio. Sì, proprio femminicidio, anche se alcuni storcono ancora il naso davanti a questo termine. Anche la giurisprudenza ne ha preso atto, con la storica sentenza del Campo Algodonero (dicembre 2009). Emessa dalla Corte Interamericana de Derechos Humanos, condanna il Messico per aver violato il diritto alla vita e per non avere adeguatamente indagato sulle tre vittime di femminicidio ritrovate in quel terreno. Una sentenza che ha, quindi, conferito una certa identità giuridica a questa forma di crimine. Perché, come ben sappiamo, la verbalizzazione è il primo passo per la consapevolezza, e la consapevolezza comporta un’ampia riflessione, principio di partenza per uno scarto culturale, fondamentale per il contenimento di questa brutalità.

 

I dati impressionanti su Ciudad Juárez sembrano trasformarsi in una sorta di mantra ripetuto fino allo scoramento per impressionare, ma che sembra piuttosto anestetizzare contro questa silenziosa e feroce strage di donne. I numeri sono spaventosi, così tanto che appaiono come scolpiti a grandi caratteri su tabule fittili, come lo è anche la durata del fenomeno (Silvia Giletti Benso e Laura Silvestri, Ciudad Juárez. La violenza sulle donne in America Latina, l’impunità, la resistenza delle Madri, 2011 – Marc Fernandez e Jean Christophe Rampal, La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juárez, 2007). 

Le prime denunce di donne vittime di rapimenti, stupri, torture e uccisioni, risalgono al 1993, allorquando fu rinvenuto il cadavere di Alva Chavira Farel, la prima vittima "ufficiale", ritrovato percosso, stuprato e strangolato. Il 1993 è preso come anno di partenza perché, da allora, le associazioni iniziarono a raccogliere i dati (Esther Chávez Cano è colei che ha cominciato a sistemare i fatti), a denunciare le scomparse, molte delle quali messe in relazione con l’entrata in vigore del NAFTA (North American Free Trade Agreement, un accordo per il libero scambio, che ha determinato notevoli ripercussioni sociali e economiche, come lo spostamento di massa di migliaia di persone dalle campagne alla città, l’impianto di centinaia di maquiladoras, fabbriche di assemblaggio a capitale solitamente straniero non soggette a pagamento delle imposte, dove qualsiasi tutela dei lavoratori è completamente elusa e che vedono soprattutto l’impiego di ragazze giovani, senza famiglia, con mani piccole e veloci, molto sottopagate) e con il relativo aumento del narcotraffico, che si è avvantaggiato dell’assenza di controlli approfonditi al confine (per questo denominata anche “porta del paradiso” dagli immigrati che aspirano a recarsi negli States).

 

Infatti, solo a Juárez, sono state censite poco meno di mille pandillas (bande armate) che hanno fatto del traffico di droghe una potente organizzazione criminale (spicca fra tutte il Cartello di Juárez).

Negli anni successivi al 1993, altri omicidi si sono aggiunti alla lista, fino a raggiungere, nel 2005, la somma spaventosa di 4.456 donne scomparse. E tutte sono accumunate da caratteri ben precisi: ragazze giovani, di età tra gli 11 e i 27 anni, pelle scura, capelli neri, fisico snello, provenienti dalle periferie più povere, impiegate nelle maquiladoras o come cameriere, o studentesse. Ragazze rapite, stuprate, torturate, mutilate (amputazione del seno destro e del capezzolo sinistro strappato a morsi), seviziate. 

Diverse commissioni si sono recate nella città e redatto rapporti raccapriccianti, dalle cui inchieste è risultato che numerosi gradi governativi si erano resi colpevoli di negligenza. 

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Il Testimone, 2017 Karla “La Borrada” (Hilario Reyes Gallegos, 1948-2015) -- Installazione composta da tre testi audio e dall’immagine di Karla, transessuale che lavorava come prostituta, brutalmente assassinata a Ciudad Juárez nel 2015. Gli audio sono testimonianze di Karla e delle amiche Ivon e La Martina, e narrano la sua vita e i momenti successivi al suo omicidio. -- Fotografia Teresa Margolles Luglio 2015 Ciudad Juárez, Chihuahua, Messico Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Le madri delle vittime, da molti paragonate alle Madres de Plaza de Mayo, contestano la lista ufficiale dello Stato messicano sostenendo che la connivenza delle autorità ha escluso molti omicidi, altrettanti non indagati perché ritenuti opera di un serial killer. L’ipotesi dell’assassino seriale è stata, però, ben presto scartata di fronte ai numeri: un solo uomo difficilmente avrebbe potuto portare a termine centinaia di omicidi. Si è in realtà appurato che sono omicidi che attentano all’integrità della donna, alla sua libertà. Sono delitti compiuti da persone conosciute o sconosciute, violenti, violentatori, assassini individuali o di gruppo, occasionali e professionali, che conducono sempre alla morte della vittima. Tra queste uccisioni ci sono anche quelle realizzate per gli snuff mouvies e, come definiti da Robert K. Ressler, quelle compiute dagli spree murders, dagli “assassini per divertimento”. Infine, ma non meno importante, la tesi della tratta delle donne per il mercato del sesso. 

In tutto questo non bisogna dimenticare un altro agghiacciante risvolto: sono almeno diecimila i minorenni orfani, su una popolazione di 1,5 milioni di abitanti. Inoltre, essendo del tutto assente una reale politica sociale, i bambini crescono nelle strade, a sei anni fanno uso di droghe, sniffano colla o solventi e a dieci entrano a far parte delle pandillas. L’enorme offerta fa sì che una dose di eroina costi solo 25 pesos (meno di 2 dollari) e la cocaina costa meno della marijuana. E i sicari sono a buon mercato: costano meno di 60 euro per un’esecuzione.

 

Le autorità solo di fronte a atti estremi sono state costrette a non archiviare un’uccisione semplicisticamente come omicidio: è il caso dell’assassinio della commissaria Berenice Garcia Corral, 32 anni, responsabile della Sezione Reati sessuali della polizia, vittima di un agguato in piena regola, portato a segno senza alcuna difficoltà. Gli aggressori, armati di fucili AK-47, hanno bloccato la donna mentre si trovava nel garage, sparandole ripetutamente. A conferma che la violenza sulle donne non conosce limiti e non si ferma davanti a niente. Perché a Juárez, come recitano dei motti popolari, “solo i morti sono al sicuro”, perché “il Messico è lontano da Dio ma vicino agli Stati Uniti”.

Siccome è altrettanto noto che sovente i simboli acquistano una valenza immensa, capaci di smuovere gli animi, i familiari di queste donne uccise o scomparse hanno disseminato la città di croci rosa e tappezzato muri e pali di volantini con le fotografie delle ragazze di cui non hanno più traccia, uscendo così dalla dimensione privata e coinvolgendo la responsabilità collettiva. 

È grazie anche alle attiviste femministe sudamericane (come Marisela Ortiz Rivera, donna simbolo della lotta al femminicidio a Juárez, che vive in esilio negli USA, o l’avvocata Luz Estela Castro, che da anni si batte per la verità e denuncia le autorità), che hanno dato voce a questa protesta, alcune pure a discapito della propria vita, che si è alzato il velo di silenzio su questa strage.

 

"Ni una menos, ni una muerta más"è la frase originale pronunciata dalla poetessa e attivista Susana Chávez Castillo, che ha dato vita allo slogan Ni una más, utilizzato perfino dall’omonimo movimento internazionale a difesa delle donne. Per tale motivo è stata brutalmente uccisa nel 2011 all’età di 36 anni: uscita con delle amiche, è stata ritrovata cinque giorni dopo, in mezzo alla strada, seminuda, con la mano sinistra mozzata (quella utilizzata per scrivere) e la testa avvolta in un sacco di plastica nero (per soffocare completamente la sua parola). 

È talmente elevato il livello di corruzione delle diverse istituzioni e tale l’infiltrazione degli appartenenti alle pendillas fra le autorità, che molti familiari delle vittime rinunciano addirittura a denunciare le scomparse e a identificare i cadaveri rinvenuti. Così, poco fuori Juárez, si trova Panteon Municipal San Rafael, una fossa comune dove sono sepolti all'incirca 5.000 corpi rimasti senza nome. Il Laboratòrio de Ciencias Forenses che, seppure ha siffatta denominazione, altro non è che l’obitorio, il deposito dei morti ammazzati, è attrezzato con quattro frigoriferi, ciascuno con centoventi corpi, e vi lavorano ben centoventi persone con una équipe di dodici medici forensi.

 

Teresa Margolles Sobre la sangre a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia Il Testimone, 2017 Oisiris “La Gata” (Luis Humberto Garcia Robledo, 1984-2016) -- Installazione composta da tre testi audio e dall’immagine di La Gata, transessuale che lavorava come prostituta, brutalmente assassinata a Ciudad Juárez nel 2016. Gli audio sono testimonianze di La Gata e delle amiche Gaby e Berta, e narrano la sua vita e i momenti successivi al suo omicidio. -- Fotografia Teresa Margolles Luglio 2015 Ciudad Juárez, Chihuahua, Messico Courtesy l’artista. Foto Rafael Burillo.

 

Nella ferma convinzione che l’arte abbia la capacità di modificare il pensiero e ispirare le persone ad agire, col “potere insito nell’esprimere l’indicibile” (Prefazione di Gloria Steinem, Dialoghi, cit.), perché è “una pratica capace di immaginare mondi migliori, un’azione di cambiamento e di trasformazione dello status quo, un mezzo per riparare alle ingiustizie del mondo” (Francesca Guerisoli, Ni una más. Arte e attivismo contro il femminicidio, 2016), Lorena Wolffer, Ema Villanueva, Francys Alÿs, Alejandro Luperca Morales, Olga Guerra, Ana Mendieta, Regina José Galindo, Elina Chauvet (nota in Italia per il progetto di arte pubblica a Juárez Zapatos Rojos, 2009, portato a Milano nel 2012 dalla curatrice Francesca Guerisoli: una marcia silenziosa di scarpe rosse femminili), sono alcuni degli artisti che, come Teresa Margolles, con la loro arte denunciano tale violenza di genere e cercano di dar voce al dolore. 

Nata come artista, per meglio capire e meglio conoscere i livelli di violenza, è diventata medico forense e per molti anni ha prestato la sua attività presso il Laboratòrio de Ciencias Forenses, che le ha permesso di entrare in stretta relazione anche con i familiari delle vittime, conoscere le loro storie e toccare da vicino la loro sofferenza. Quella sofferenza che Margolles in tutte le sue installazioni declina in formalizzazioni sempre diverse. Nei suoi lavori, non si vedono mai corpi straziati o cadaveri. Anzi, realizza sempre dei lavori esteticamente rassicuranti, accattivanti. Ed è allora che scatta la trappola per il visitatore. Ignaro si avvicina, osserva, legge. Leggendo viene a conoscenza del dramma, della tragedia. È a quel punto che il visitatore è chiamato a elaborare, a ricostruire, a sistemare, attraverso un suo diretto e inconvertibile processo di totale coinvolgimento emotivo, cognitivo e sensoriale.

Attraverso delle tracce concrete, l’artista formalizza dei monumenti del dolore, dà forma alla sofferenza, alla disperazione dei familiari, alla violenza, a un’assenza, e, da una dimensione personale, mostra il tormento di una collettività che diviene responsabilità della società intera, oramai giunta a una certa assuefazione alle immagini violente, ché la morte è divenuta un fenomeno comune. L’artista non mira a rappresentare una sua idea o opinione, bensì a mostrare lo stato delle cose, dei fatti incontestabili, di descrivere cioè il vuoto lasciato da quei morti. 

Così è stato alla Strozzina di Firenze (Aire/Aria, 2008: una stanza vuota in cui erano posizionati due climatizzatori con la didascalia: “climatizzatore e acqua vaporizzata”, l’acqua è quella proveniente dai laboratori degli obitori pubblici di Città del Messico con la quale sono stati lavati i cadaveri di persone non ancora identificate, preparate per l’autopsia). 

 

È stato nel Padiglione del Messico della 53a Biennale di Venezia (¿De qué otra cosa podríamos hablar?/Di cos’altro potremmo parlare?, 2009 che le valse il Leone d’Oro), che l'artista issò la bandiera del Messico insanguinata, cosparse il pavimento con acqua utilizzata per la pulizia dei corpi e affisse alle pareti agrandi tele impregnate con il sangue di vittime di omicidi nel Paese. Per l’installazione al Museion di Bolzano (Frontera, 2011), Margolles ha realizzato un lavoro dedicato a Ciudad Juárez e alle vittime della città più violenta del mondo: due muri ad altezza uomo letteralmente prelevati da Juárez e da Culiacán e lì ricostruiti, sui quali sono evidenti i fori di proiettili, quelle pallottole sparate per le esecuzioni di due poliziotti (muro di Culiacán) e di quattro giovani tra i 15 e i 25 anni (Juárez), attraverso i quali denuncia anche la violenza reiterata dei narcotrafficanti in questa città; lavoro che ha destato parecchie critiche a conferma che i suoi lavori toccano punti precisi. 

Per la Biennale Donna di Ferrara (Pesquisas/Ricerca, 2016, installazione costruita con le fotografie dei cartelli con i quali le famiglie delle ragazze scomparse ricercano le proprie figlie, e che il tempo ha logorato, a evidenziare una rinnovata perdita legata al dimenticare). 

Questi sono stati i più immediati precedenti espositivi in Italia, prima di approdare alla Tenuta dello Scompiglio. 

 

Sobre la sangreè il titolo della personale allestita fino al 25 giugno 2017 presso lo SPE – Spazio Performatico e Espositivo, curata da Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia. Dall’esterno i visitatori sono accolti dall’installazione itinerante Frazada/La Sombra (2016), una sorta di ombrellone composto da una coperta montata su una struttura metallica: la coperta è stata recuperata dall’obitorio di La Paz ed è stata utilizzata per avvolgere il corpo di una donna vittima di femminicidio: l’ombra sotto cui ci si protegge dal sole è quella che cala sulle donne vittime di violenza. Un’atmosfera calda e accogliente è quella che aleggia all’interno dello spazio espositivo, al buio illuminato dalla flebile luce soffusa emanata dal lungo bancone su cui è disposta un’estesa tela, nucleo e denominante l’intera mostra. Wila Pajharu/Sobre la sangre (2017) si compone invece delle stoffe che hanno avvolto i corpi di dieci donne vittime di femminicidio nell’obitorio di La Paz. Tessuti su cui sono ancora presenti le macchie di sangue di queste donne, intorno alle quali, con cura e con amore, sette artigiane dell’etnia Aymara (cui si deve il titolo dell’opera e quindi della mostra), hanno ricamato i motivi floreali tipici delle decorazioni degli abiti di danza popolare boliviana. Letteralmente quindi il ricamo ma anche il visitatore sono “sopra” il sangue. Perché la postura chinata per ricamare come quella per osservare, fa piegare i corpi sopra questo tessuto di 25 metri, come dei chirurghi intenti a osservare i violenti indizi di una lunga sequela di stragi. L’occhio attento e vigile coglie, quindi, tra paillettes, perline e fili, quelle tracce di violenza che si fondono e si compenetrano, come uno sgargiante tao: come nel brutto c’è una traccia di bellezza, così nella bellezza c’è una traccia di male e di dolore. Alla fine del bancone si è di fronte a un bivio: a sinistra si conoscerà Karla, a destra La Gata. Due prostitute transessuali di Juárez, uccise a 67 anni nel 2015 la prima, a 32 nel 2016 la seconda. In questo percorso come all’interno dell’organo femminile (così la stessa Margolles lo ha avvertito), si attua una sorta di cammino verso la procreazione e verso ciò che determina la stessa condanna a morte delle donne: il suo essere donne.

 

Colpita alla testa con un blocco di cemento, il cadavere ritrovato dopo una settimana in una casa abbandonata a pochi metri dalla sua abitazione, nessuno ha cercato l’assassino di Karla, perché lei era una transessuale e quindi nessuno ha avuto la solerzia di indagare. La Gata, invece descritta come bellissima, è stata una transessuale contesa per la sua bellezza, con parecchi clienti anche americani che l’hanno resa ricca, ma che ha fatto il grosso errore di cadere nella dipendenza delle droghe, che ha prosciugato tutte le sue finanze. Entrambe raccontate da tracce audio disposte lungo i rispettivi corridoi, solo avvicinandosi ai loro ritratti in bianco e nero montati in lightbox si viene a conoscenza dei loro sogni e delle loro aspettative, si arriva a conoscerle fino in fondo, nel loro intimo.

Perché “a Juárez la vita di una donna povera vale meno di un chilo di patate” (Ni una más da Ferite a morte, Serena Dandini, 2013) ed è alla stessa stregua di qualsiasi altra mercanzia di scarso valore, senza alcuna tutela e diritti.

 

SANGRE NUESTRA

 

Sangre mía,

de alba,

de luna partida,

del silencio. 
de roca muerta,

de mujer en cama,

saltando al vacío, 

Abierta a la locura. 

Sangre clara y definida, 

fértil y semilla, 

Sangre incomprensible gira, 

Sangre liberación de sí misma, 

Sangre río de mis cantos, 

Mar de mis abismos. 

Sangre instante donde nazco adolorida, 

Nutrida de mi última presencia. 

 

SPE – Spazio Performativo ed Espositivo della Tenuta dello Scompiglio
25 marzo – 25 giugno 2017

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L'artista messicana e i femminicidi

La nuova didattica: muoversi verso un'idea

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A0, A1, A2, A3, A4, A5, A6, A7, A8, A9, A10. Sono i formati dei fogli sui quali scriviamo e disegniamo. Tagliando a metà un formato nel senso della larghezza si ottiene quello successivo, in modo tale che il rapporto tra il lato maggiore e il lato minore del primo sia uguale al rapporto tra lato maggiore e il lato minore del secondo. In termini matematici, se consideriamo “a” il lato maggiore e “b” quello minore,  si ottiene la proporzione: a:b = b:a/2. La gabbia o griglia compositiva usata per impaginare gli elementi grafici e/o testuali su un foglio da disegno come su una pagina tipografica discende da questa proporzione, che si può tradire ma non ignorare.

 

Tra il 29 novembre 2012 e il 13 gennaio 2013 fu allestita a Milano (Palazzo Reale) la mostra Giulio Einaudi. L’arte di pubblicare dedicata alla collana I Coralli. La mostra si focalizzava sul legame tra Giulio Einaudi e le arti visive. Tra i materiali esposti si potevano ammirare i nove Coralli della Serie Bianca progettati dall’artista Giulio Paolini e stampati tra il 1976 e il 1978. I volumi non erano rifilati e perciò il lettore doveva tagliare le pagine con un tagliacarte ottenendo un contrasto tra il ruvido-sfrangiato del taglio delle pagine (davanti, testa e piede) e la copertina liscia e lucida.La prima versione deI Coralli fu stampata su formato cartaceo 130x195 mm nella proporzione 2:3 diapente e impaginata secondo uno schema derivato dal “Canone segreto” impiegato nei manoscritti tardo medioevali: due angoli dell’area di testo giacciono sulle diagonali della doppia pagina e un terzo angolo sulla diagonale della pagina singola, in modo tale che le aree di testo abbiano le stesse proporzioni delle pagine del libro. La quarta e ultima versione de I Coralli fu stampata nel formato 120x192 mm con un rapporto 5:8. Sono queste le proporzioni dei nove progettati da Paolini. Sovrapponendoli si ottiene un parallelepipedo che trasporta le proporzioni grafiche nella terza dimensione della scultura. Il parallelepipedo può infatti essere considerato una scultura minimalista o anche un’istallazione.

 

A sinistra i formati della serie A; a destra e in alto le proporzioni della prima versione de I Coralli; a destra e in basso le proporzioni della quarta versione.

 

Nell’opera di Giulio Paolini, così come nella didattica del comporre sulla superficie di un foglio, la proporzione del formato dalla quale discende la modularità e la simmetria della griglia compositiva (il termine “simmetria” è qui inteso nell’accezione antica, greca e poi latina, come rispondenza di proporzioni tra le singole parti e l’intera figura) fornisce il contesto metrico nel quale si sviluppano le relazioni tra i diversi elementi ivi inseriti. Modificando la posizione, l’orientamento, la grandezza delle immagini o dei blocchi di testo in base alle necessità del comporre possiamo ristrutturare il senso di ciò che vediamo e leggiamo. In altri termini, l’accordo metrico e quindi proporzionale tra gli elementi grafici e/o testuali inseriti nella griglia compositiva orienta il senso della loro lettura e interpretazione, insieme a vari fattori percettivi e all’ordine crono-logico della scrittura alfabetica che lo compenetra. La logica lineare della riga s’innesta così in quella metrica del comporre.

 

Dettaglio della mostra "Giulio Einaudi. L'arte di pubblicare".

 

In conclusione, sulla superficie di un foglio, sia esso quello delle diverse versioni de I Coralli o quello della tavola grafica nel formato B2 500×707 millimetri (la serie B dei formati è definita in rapporto alla serie A) sulla quale lo studente di una scuola d’arte sviluppa le sue idee, scrittura e arti visive dialogano tra loro usando il linguaggio matematico della proporzione, per dar luogo a strategia di pensiero che è insieme anche visione.

 

Sono questioni di una certa rilevanza per l’istruzione artistica italiana alle prese con il problema del rapporto tra discipline artistiche, umanistiche e scientifiche. La rete scolastica Progetto Licei Artistici 2016/2017 ha promosso un confronto tra docenti articolato in nove incontri (dal 03 marzo al 19 maggio 2017) per mettere a punto una proposta di curriculo delle discipline d’indirizzo artistico omogeneo a livello nazionale.

Nel corso dei lavori svolti dalla commissione di studio Arti Figurative si è discusso anche sul fatto che una didattica pluridisciplinare basata sui processi percettivi e cognitivi messi in atto dallo studente nel corso del processo di apprendimento può avere più successo di una didattica basata sui“prodotti”. Le UdA (Unità di Apprendimento) pluridisciplinari, che costituiscono lo strumento didattico privilegiato della recente riforma scolastica, sono focalizzate sulla realizzazione di un prodotto o compito di realtà da portare a termine in un determinato contesto operativo. Si è notato che portando l’attenzione dello studente sul processo che conduce alla realizzazione del prodotto, piuttosto che sulla realizzazione del prodotto stesso, si stimola un approccio critico altrimenti inibito dalle esigenze procedurali del compito.

 

Tavolo di lavoro di uno studente.

 

A questo riguardo sono stati portati ad esempio dei percorsi didattici effettuati nel corso del corrente anno scolastico, tra i quali dei metodi impiegati dagli studenti per la ricerca delle idee in una fase della progettazione. Uno di questi consiste nell’impiegare la griglia compositiva come ordine e misura delle associazioni visive e semantiche generate dallo studente mentre si muove con il pensiero alla ricerca di un’idea. Nella griglia compositiva gli elementi grafici e testuali si combinano tra loro sulla base di una  rispondenza di proporzioni tra le singole parti e l’intera figura e, al tempo stesso, secondo la necessità crono-logica del raccontare e del ragionare. L’idea si evolve dalla fase di schizzi, che ha carattere narrativo, alla successiva fase di studi dove il narrare trascorre progressivamente in un ragionamento che ha i caratteri di quello ipotetico. Nella metrica del comporre fluisce quindi crono-logicamente anche una narrazione e procede un ragionamento.

 

Guidata dalla griglia compositiva, la fase narrativa degli schizziè caratterizzata da una concatenazione analogica di immagini, parole e concetti. Proporzione e analogia si trovano qui strettamente allacciate tra loro. Il termine “analogia”, dal greco antico “ἀναλογία”, è dotato di due significati. Il primo è riferito ai nessi e alle similitudini che possiamo scorgere tra cose, situazioni ed eventi diversi tra loro; il secondo richiama la sua origine matematica, ossia il rapporto che lega i termini in una proporzione.

L’analogia è una strategia di pensiero dotata di un’intrinseca razionalità. Secondo alcuni studi neo-piagetiani di psicologia applicata sembra anche avere effetti positivi sull’abilità di ragionare e quindi sulla formazione delle strutture logiche. Analogia e logica sono due strategie di pensiero complementari e ugualmente razionali se pur fondate su principi diversi.

 

 

Nel suo libro La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia (Quodlibet, 2004) considerato da Giorgio Agamben uno dei più importanti saggi della filosofia del Novecento, Enzo Melandri porta l'attenzione sull'analogia come forma di conoscenza razionale. Il filosofo sostiene che lo sviluppo del pensiero matematico è stato compromesso dal fatto che il logos della proporzione ha dovuto soccombere a quello della dialettica, che “la matematica è stata sacrificata alla logica”. Secondo Melandri l’analogia è un aspetto della razionalità complementare alla logica: “L’analogia [scrive l’autore] ha le sue proprie tautologie che, pur essendo come tali altrettanto razionali che quelle in senso stretto logiche, possono tuttavia costituirsi in sistemi alternativi rispetto a queste ultime”. “Alternativi” nel senso che uno è complementare rispetto all’altro, non che lo sostituisce.

Nello stesso saggio Melandri cita anche Ernst Hermann Hänssler a proposito di una sua tesi, secondo la quale la struttura dell’analogia è originariamente connessa a quella di simmetria.

 

Inoltre, se gli schemi percettivi sono regolati dagli stessi principi della fisica e della biologia come sostenuto da Wolfgang Köhler con la teoria dell’isomorfismo (La Psicologia della Gestalt, Feltrinelli, 1961) possiamo considerare la simmetria di Hänssler (riferita anche all’anatomia e alla fisiologia della mente umana) non solo connessa all’analogia ma anche ai meccanismi della percezione visiva. Gli studi condotti da Rudolf Arnheim (Il pensiero visivo. La percezione visiva come attività conoscitiva, Einaudi, 1974) hanno messo in luce come la percezione visiva possa costituire in sé una forma di pensiero e per quanto riguarda la simmetria nella quale l’analogia affonda le sue radici, la principale legge della Psicologia della Gestalt detta della pregnanza si basa appunto sui principi di simmetria ed equilibrio.

 

Riassumendo: scrittura e arti visive dialogano tra loro sulla superficie di una pagina o di un foglio usando il linguaggio matematico della proporzione e quindi della simmetria, secondo Hänssler, Melandri e altri studiosi, forma originaria dell’analogia.

 

Studenti impegnati nella copia della Venere di Cirene, calco in gesso tratto dall'originale del IV secolo a.C. conservato presso il Museo Archeologico di Tripoli.

 

Alla luce di quanto si è detto, tornando alle riflessioni sulla metrica del comporre che sviluppa competenze trasversali oltre che d’indirizzo, è auspicabile che lo scambio tra l’area artistica, umanistica e scientifica nella didattica dei licei artistici italiani non si concretizzi in un collage di discipline incollate tra loro da un prodotto, ma in un’esplorazione critica dei processi percettivi e insieme cognitivi messi in atto dallo studente nel suo muoversi verso un’idea. Tutto ciò allo scopo di favorire lo sviluppo delle competenze trasversali o soft skills richieste dal nuovo sistema d’istruzione e dal mondo del lavoro, tra le quali quella logico-matematica, il problem solving, l’approccio critico, la creatività e la flessibilità mentale, alle quali è indispensabile aggiungere anche quella di cogliere il rapporto tra le singole parti e l’intera figura, la capacità di cogliere una simmetria innestando così la razionalità metrica in quella logica.

 

L’iconografia popolare dell’artista con il braccio teso in avanti mentre ritrae il modello vivente o la copia in gesso di una scultura antica racchiude l’archetipo di questa razionalità metrica. Così facendo l’artista prende le misure e calcola rapporti, che poi trascrive secondo proporzione su un foglio di carta da spolvero o su un piano di creta.

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Prendere le misure e calcolare i rapporti
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