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Dentro il colore: Kandinskij

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«Per anni e anni ho cercato di ottenere che gli spettatori passeggiassero nei miei quadri; volevo costringerli a dimenticarsi, a sparire addirittura lì dentro». Queste le parole di Vasilij Kandinskij che hanno ispirato la mostra ora al Mudec di Milano: entrare dentro il quadro e ripercorrere il viaggio del pittore russo nella regione di Vologda alla ricerca delle tracce pagane dei Zyriane di Komi, una popolazione finnica orientale.

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Per una letteratura schizofrenica

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«Lungi dall'aver non si sa quale contatto con la vita, lo schizofrenico è più di tutti vicino al cuore pulsante della realtà, a un punto intenso che si confonde con la produzione del reale».

 

Sono parole di Deleuze e Guattari contenute in L’Anti-Edipo e potrebbero star bene in esergo a Medusa di Luca Bernardi, libro che prende il lettore e lo spinge in un gorgo – quello stesso gorgo che è la mente del protagonista/narratore. Bernardi ci fa entrare nella testa di uno schizofrenico e ci fa vedere il mondo con i suoi occhi e con la sua lingua. La trama è filtrata e confusa dalla mente dell’io che non riesce a ordinare gli eventi entro una narrazione coerente. È piuttosto il riproporsi di alcuni oggetti e situazioni a garantire la ricostruzione di una storia che si va componendo per riprese di temi: ci sono gli alieni, un Dizionario Semiologico Abissale («un antivocabolario in cui a ogni lemma corrispondesse non una serie denotativa bensì un grappolo, un groviglio»), uno stabilimento balneare, un gruppo di amici in vacanza, un trauma non superato, una (o più?) morti non ben spiegate. La narrazione rimane sospesa nell’ambiguità, nella contraddizione, lo spaziotempo è del tutto imploso su se stesso e ricreato all’interno della mente del protagonista, che non riesce mai a guadagnarsi la nostra fiducia: la sospensione dell’incredulità non è possibile, lo stesso narratore ci intima a non credere a tutto quello che dice perché non riesce (o non vuole) organizzare il discorso in strutture di significato ordinarie, quelle che permettono il quotidiano scambio comunicativo: persino sugli alieni rimane il dubbio che in realtà siano delle «allucinazioni», solamente il frutto della mente delirante del narratore («Non ho capito una roba, dice Loriz, ma ’sti alieni… Esistono?»).

 

 

Il mondo che ci viene presentato è quello dentro la mente di uno schizofrenico, con tanto di discorsi dell’io che parla con un altro sé in corsivo. Anche le parole degli altri personaggi ci sono riportate filtrate dal narratore per cui spesso non si riesce ad attribuire una voce a un’origine stabile. Nemmeno il mondo è risparmiato da questo processo di deformazione: quasi nulla è denotato col proprio nome e lalingua diventa mimetica del caos mentale del narratore. Lo stesso statuto dell’io rende ancora più ambigua la questione: l’io narrato di Medusa, sembra non possedere caratteristiche fisiche: il Novecento ci ha sufficientemente insegnato quanto l’identità sia strettamente legata al corpo, quanto la corporeità sia uno strumento di conoscenza, ma il narratore di Medusa sembra non avere un corpo, è pura voce. L’effetto creato è quello di profondo spaesamento per il lettore che non riesce a far ordine nella vita del protagonista.

 

Questo effetto di spaesamento, variamente creato e declinato, mi sembra una delle caratteristiche principali della narrativa degli anni zero, su una gamma che va dall’autofiction a un libro come Absolutely Nothing di Giorgio Vasta, strano e inclassificabile reportage di viaggio, per arrivare a opere come Medusa.

 

Non a caso, circa un anno fa, Alcide Pierantozzi su Studio parlava di “New Italian Weirdness” per alcuni romanzi italiani contemporanei non ben classificabili (Il grande animale di Gabriele di Fronzo, Dalle Rovine di Luciano Funetta, Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci) e citava, in particolare, la collana di narrativa di Tunué curata da Vanni Santoni. Lo stesso Santoni ha più volte dichiarato che non aveva intenzione ideare una collana con un’idea troppo ristretta e selettiva di letteratura, preferendo come criterio di selezione il solo valore letterario. Con il tempo, però, quasi naturalmente, la collana ha assunto una fisionomia ben precisa che si può riassumere nella formula di Santoni stesso «4/5 di realtà, uno di sconfinamento». Sembra stia emergendo, insomma, una corrente tellurica nella letteratura recente che non è più soddisfatta con le rappresentazioni e le convenzioni realistiche (di cui nel 2008 si salutava finalmente il ritorno) e la collana di narrativa di Tunué (così come quella del Saggiatore – ne parlo qui) e la stessa produzione di Santoni ne sono chiari esempi (così come il successo che stanno avendo in Italia autori come Volodine e Cărtărescu o Jeff Vandermeer).

 

La weirdness di cui parla Pierantozzi (che non è solo italiana) è più che una generica stranezza: spesso è l’effetto di una situazione straniante causata dall’irruzione dell’estraneità nella nostra vita ordinaria. Mark Fisher ha dedicato a questo tema The weird and the eerie, interessantissimo saggio in cui si indaga in che modo l’esterno, l’estraneo irrompe nella comune percezione delle cose, imponendoci di essere diversi o guardare al mondo con un altro occhio, strano e inquietato. Entrambe le categorie condividono una comune fascinazione per ciò che è oltre la percezione, cognizione e esperienza standard. Per Fisher il weird è una specie di perturbante, implicato con il senso dello sbagliato: un’entità o un oggetto weird è così strano da farci sembrare che non dovrebbe esistere, o comunque non dovrebbe stare qui. L’eerie, invece, riguarda la non conoscenza, lo sconosciuto, è un gap nel sapere e ci mostra tutta l’inintellegibilità e l’imperscrutabilità del Reale (l’Area X creata da Vandermeer ne è un esempio perfetto).

 

L’attrattiva per questi aspetti non è affatto cosa nuova, ma vi è probabilmente un rinnovato interesse negli ultimi anni che si può facilmente collegare al modo in cui vediamo e sentiamo la realtà oggi, qualcosa di assolutamente ingovernabile, mossa da forze invisibili e imprevedibili (il capitalismo, non a caso, è indicato da Fisher come un esempio di eerie). La realtà, come diceva David Foster Wallace a David Lipsky, non è più quella di Tolstoj, la vita è sempre più simile a una «luce stroboscopica, e che mi bombarda di input» e un certo tipo di narrazione realistica, per questo, a molti autori sembra sempre più falsa, perché la vita non è quella roba lì. Ed ecco allora quel quinto di sconfinamento di cui parla Santoni – che può essere di commistione e ibridazione dei generi (inserendo, per esempio, elementi fantascientifici o fantastici in una narrazione realistica), formale, o creando effetti di weird e eerie, appunto. La stessa produzione di Santoni ha fatto dell’ibridazione il suo punto di forza: sia Muro di casse che La stanza profonda sono oggetti narrativi non classificabili che stanno a metà tra romanzo, reportage, memoir e saggio.

 

Dell’ibridazione fra i generi nella narrativa contemporanea si è scritto e si scriverà moltissimo, ma c’è un aspetto – su cui già Pierantozzi invitava a riflettere – sul quale forse non si è prestata la dovuta attenzione. Mi riferisco a un rinnovato interesse, nella narrativa non prettamente di genere, per l’utilizzo di elementi strani, inquietanti, non completamente comprensibili, per arrivare alla riscoperta di nuove forme religiose e di misticismo, insomma una forma di sconfinamento non solo formale, ma anche immaginativo, potremmo dire ontologico.

 

Già Michel Houellebecq all’indomani della pubblicazione di Sottomissione dichiarava di percepire un grande ritorno delle religioni. Più di recente, Dean Kissick su Vice UK sottolineava che negli ultimi tempi sta emergendo una nuova controcultura magica, spiegando che la spiritualità e il paganesimo sono dei modi per capire il mondo intorno a noi e il nostro posto al suo interno. Tendenza non passata inosservata nemmeno fra le cattedre di filosofia: Quentin Meillassoux, grande esponente del realismo speculativo, mette bene in luce, in Dopo la finitudine, che il venire meno della metafisica apre a un ritorno alla magia e alle religioni, producendo un «fideismo relativo a una qualsiasi credenza».

 

 

Esiste una tendenza di una certa narrativa italiana e non che, forse inconsapevolmente, ha captato questa congerie culturale rispondendovi in modi spesso molto diversi, ma che possono essere tutti accumunati dal tentativo di porre ordine e orientarsi in una realtà sempre più complessa oppure dallo sforzo di ricreare l’effetto che fa stare al mondo oggi attraverso sguardi obliqui, esterni, strani, eerie, soprannaturali, ambigui, contradditori e paradossali che producono effetti di spaesamento nel lettore: 4/5 di realtà, uno di sconfinamento. Proprio Santoni, durante una presentazione a Tempo di Libri, ha dichiarato che in un mondo sempre più complicato e indistricabile «la posizione dell’outsider wilsoniano è forse l’unica che possa garantire uno sguardo», che è un altro modo per dire quanto ho sostenuto fin qui.E non è un caso che spesso si ricorraal fantastico: come già spiegava Todorov ne La letteratura fantastica, il fantastico stimola l’attività interpretativa del lettore, il quale deve porsi delle continue domande sull’effettiva realtà di quanto viene narrato, sulla veridicità del discorso e sull’affidabilità del narratore.

 

Se si scorre il catalogo dei Romanzi Tunué non si può che confermare l’intuizione: troviamo il protagonista di Dalle Rovine di Luciano Funetta impegnato in strane pratiche sessuali con dei serpenti, che perdono il loro comportamento naturale per diventare lo strumento perverso del piacere del protagonista e poi mezzo con il quale entrerà nell’industria degli snuff movie. Tutto il romanzo crea un’atmosfera in cui realtà e irrealtà si compenetrano, è lo stesso protagonista a dubitare degli eventi a cui assiste: «c’era qualcosa di reale negli avvenimenti della sera prima. Qualcosa di reale, ma non di assolutamente reale. Qualcosa in lui lo faceva pensare alla magia e alla sensazione di un uomo alla fine del mondo».Con la magia e il fantastico gioca, invece, esplicitamente e a piene mani A pietre rovesciate di Mauro Tetti; Lo Scuru di Orazio Labbate è puntellato di elementi fantastici, riti e funambolismi linguistici. Elementi strani che spesso non si sa bene come interpretare si trovano anche nella sua ultima raccolta di racconti Stelle ossee.

 

 

Non è da meno l’ultimo arrivato in casa Tunué, Francesco d’Isa con La stanza di Therese, testo ibrido che intreccia romanzo epistolare, saggio filosofico, collage, fotografie e disegni. La stanza di Therese è quello che più esplicitamente affronta di petto il tema del misticismo e della trascendenza: la protagonista, infatti, si rinchiude in una stanza, si isola dal mondo, alla ricerca intellettuale di un dio (con la minuscola), nella speranza di riuscire a cogliere la realtà «al di là della rete di cause» con cui siamo abituati a spiegare il mondo, un mondo sconcertante e vasto e Therese, nelle sue lettere alla sorella, mette in luce tutti i modi in cui tentiamo di difenderci e sopravvivere. Therese è una donna con un dilagante bisogno di comprendere e riconosce che è più facile orientarsi e accettare la realtà se la si sistema in un gioco illusorio di cause. Ma, questo, evidentemente è possibile solamente dal chiuso di una stanza in cui il consorzio umano e sociale è limitato se non annullato: «Dietro la porta della mia stanza ci sono i tormenti del mondo ed è più facile fuggire nel trascendente». È forte in Therese il bisogno di porre un ordine al mondo che percepisce solamente come caos e per questo la sua narrazione procede per argomentazioni rigorosamente logiche, salvo poi venir disturbata da una serie di elementi grafici e visuali che scompaginano completamente la normale lettura di un romanzo epistolare, inserendo una molteplicità di segni che agiscono come elemento straniante (sono disegni, foto, riproduzioni, simboli matematici, cancellature, note a margine, scansioni di citazioni altrui) in grado di ricreare nel lettore il senso di vivere in un mondo paradossale, impenetrabile dall’uomo, di fronte al quale l’unica risposta che Therese riesce a formulare è quella dell’assurdo, in cui tutto è sia sì che no. Paradossale è anche la propria identità, percepita come un limite, un modo per cercare di governare l’agire nel mondo e regolare il rapporto dell’io con gli altri, inevitabile anche nell’isolamento di una stanza chiusa e di cui si percepisce sempre l’irriducibilità.

 

 

Il rapporto dell’io con gli altri mi sembra anche la parte più interessante di Medusa, rapporto però vissuto con un forte senso traumatico. Il trauma è la principale causa (ed effetto) del weird e dell’eerie e sembra essere responsabile della disforia del narratore che non riesce a venire a patti con l’estraneità e la caoticità del mondo intorno a sé. L’origine di questo trauma è tanto personale, quanto metafisica: il guaio è essere un individuo, sarebbe tanto meglio essere uno scarafaggio, una medusa. L’uomo è costretto a essere «un concentrato di falsità dovuto a un contatto troppo esclusivo e prolungato con un altro essere ossia all’assenza troppo esclusiva e troppo prolungata di un altro essere». Uno dei problemi centrali per il narratore di Medusa è quello della definizione dell’io e del rapporto con gli altri. Come stabilire una vera connessione e condivisione?

 

Il gesto banale e ripetuto fino alla feticizzazione di offrire delle Vigorsol a tutti è il germe di un tentativo di condividere qualcosa insieme, di stabilire un contatto con gli altri. Allo stesso modo il gruppo di amici che segue il narratore anche in quelle che sembrerebbero le sue allucinazioni non è che lo sforzo di aprirsi all’altrononostante «il vuoto dietro lo straccio delle cose», nonostante «tutto era colmo del nulla che lascia sussistere i mondi solo per prendersene gioco nel batticarne delle reincarnazioni, vuoto non dietro, ma di sghimbescio rispetto alla faccia assennata dell’essere».

 

E allora la stessa volontà di scrivere un dizionario di una nuova lingua può essere visto come il tentativo di superare i modi normali di rappresentazione e scambio fra gli esseri umani: se con il vecchio linguaggio non ci siamo riusciti, mandiamolo al diavolo e inventiamone uno nuovo che mandi in «salamoia la realtà» e squarci il muro del reale. Ma alla fine lo scontro con la realtà è troppo duro e non rimane che la scoperta di una verità troppo difficile per essere accettata e detta e non si scopre altro che un nuovo trauma (collegato a una morte, forse a un omicidio), «un esempio di come le cose a volte non». Per questo il dizionario che voleva contenere una lingua aliena e nuova non vedrà mai la pubblicazione e a rimanere sarà soltanto la lingua di uno schizofrenico di fronte al caos del mondo, un mondo sempre più complicato, che funziona in maniera autonoma rispetto all’uomo e resta sempre incoglibile e impenetrabile.

 

I Romanzi Tunué non sono gli unici esempi di questo tipo di narrativa, ma sono solamente una gamma di uno spettro ampio e variegato: ho citato prima la narrativa italiana del Saggiatore che in vari modi ricerca effetti di perturbante e di nomi potrebbero farsene molti altri ancora. Se ho iniziato e concluso con Medusa è perché mi sembra riassuma bene molte delle caratteristiche che ho cercato di delineare in questo articolo: l’elemento soprannaturale o irrealistico, una inclinazione ironica non fine a se stessa, un certo rapporto con la mistica che si declina attraverso uno sguardo schizofrenico sulla realtà in grado di cogliere molti dei nodi che passano inosservati nel nostro sopravvivere quotidiano, l’inabilità di ordinare l’esperienza attraverso una catena logica di cause-effetti, la costruzione dell’identità in relazione agli altri, e soprattutto: il disorientamento rispetto al testo e rispetto al mondo. 

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Un ritorno alla magia

Raccontare un mondo senza "io"

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Di Amitav Ghosh, forse il maggiore scrittore indiano vivente, sono noti in italiano sia i romanzi di ambientazione storica che altri, bellissimi e fuori genere, come Il cromosoma Calcutta, Lo schiavo del manoscritto, Il paese delle maree. I suoi reportage narrativi, di forte valenza politica, sono stati raccolti nel volume Circostanze incendiarie.

  

Il suo ultimo libro, non meno appassionante, si chiama The Great Derangement (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, tradotto da Anna Nadotti e Norman Gobetti, edito come tutti gli altri da Neri Pozza). È una riflessione ricca di digressioni narrative sui rapporti che intercorrono tra le cosiddette catastrofi ambientali e il nostro concetto di realtà, passando per le relazioni tra la geologia e la letteratura. Vi si pone tra l’altro la domanda non secondaria su come sia stato tracciato il confine tra la fantascienza e la letteratura tradizionale, che ha accentuato la separazione già abissale tra Natura e Cultura. Si addita infine, ed è la parte più affascinante del libro, la responsabilità della distruttività umana nella nostra incapacità di raccontare il mondo al di là dell’ombra gettata dall’umano, dunque la nostra incapacità di raccontare un mondo senza “io”, che sia sacro, animico, animale o tutto questo insieme.

  

In breve, il filo del discorso di Ghosh è il seguente (ed è sorprendentemente convergente con l’analisi del nostro Gianni Celati nel saggio Finzioni occidentali): è proprio “con la fiducia borghese nella regolarità del mondo” – che ha inaugurato e nutrito il genere del novel, consacrando il gusto moderno per la letteratura realista – che “abbiamo raggiunto un livello di assoluta cecità”. L’ironia del romanzo realista è che “le strategie mediante le quali evoca la realtà sono quelle stesse che occultano il reale”. Il concetto di realtà garantito dalla narrativa realista e la visione occidentale del mondo sono tutt’uno, e sono una prigione delle cui crepe sempre più vistose continuiamo a stupirci quando accade qualcosa di inconsueto – un terremoto, un tornado, una crisi economica. Amitav Ghosh, sia chiaro, in questo libro si sofferma solo sulle catastrofi ambientali. 

  

Per esempio: gli insediamenti urbani di Malacca, una delle isole Nicobare, furono devastati dallo tsunami dell’inverno 2004 perché costruiti sulla costa, secondo lo stile occidentale, invece che nell’entroterra, secondo la cultura del luogo. In Italia si potrebbe parlare delle tante esondazioni di fiumi che accadono quasi a ogni pioggia. O, quasi due secoli dopo la Ginestra di Leopardi, delle villette, se non dei condomini, costruiti sulle pendici del Vesuvio, vulcano notoriamente attivo ma considerato come un eterno dormiente.

   

“Ci stiamo schierando sull’orlo di una nuova era in cui gran parte delle nostre abitudini passate, nel pensiero come nella pratica, sono diventate fonte di cecità, e sono un ostacolo nel farci percepire le realtà della nostra situazione attuale. Scrittori, artisti e pensatori stanno ancora lottando in tutto il mondo per trovare i concetti e le idee che consentiranno di impegnarci ad affrontare gli eventi senza precedenti di questa nuova era. Ma scoprire nuovi modi di impegnarsi richiede tempo, che è esattamente ciò che non abbiamo”, mi dice Amitav Ghosh. Si trova per qualche giorno in Italia, e ci siamo incontrati poco prima che andasse al Salone del Libro di Torino.

  

Forse la percezione divenuta famosa alcuni anni fa di una “fine della Storia”, copriva in realtà quella di una “fine delle storie”, la fine della capacità di raccontare ciò che sta fuori dalla sfera dell’umano. Espungendo il fantastico nel romance, il romanzo della realtà (novel) ha espunto dall’orizzonte degli eventi proprio la natura e relegato nell’improbabilità tutti gli eventi che minano la sicurezza e la consuetudine umane. Come i terremoti, i tornado, le esondazioni. 

Dice Ghosh: “Il cambiamento climatico (o quello che alcuni chiamano la nuova epoca geologica dell’antropocene) sfida tutti i nostri presupposti prevalenti – non solo quelli che si riferiscono al funzionamento del mondo che ci circonda, ma anche i nostri modi di pensare la storia e la società. L’Illuminismo europeo ha dato vita ad un’idea di “storia” come movimento in avanti, una progressione continua in direzione della libertà.

  

“Questa concezione teleologica è stata fortemente contraria alle idee pre-moderne di Storia, generalmente di natura ciclica… Il cambiamento climatico pone una sfida molto potente e forse anzi una refutazione delle teleologie moderne e post-illuministe. Penso che l’idea illuminista della storia sia molto difficile da abbandonare – basti considerare per esempio il numero di volte in cui il presidente Obama ha usato la frase “il lato giusto (the right side) della storia”, pur essendo perfettamente chiaro che gli avvenimenti attuali non stessero andando verso nessuna direzione promettente”.

 

Il realismo occidentale iniziò dunque l’occultamento della realtà, fino all’attuale derangement o cecità che ci impedisce di vedere che la terra è inumana. La terra senza più la magia del romance non è più la Terra, e se non sappiamo nemmeno leggerla, figuriamoci raccontarla. Non siamo più capaci di dire e dirci la verità. Ghosh è tra i pochissimi autori contemporanei (un altro, penso, è Murakami) i cui libri sanno conciliare il romance con il novel, il fantastico con la realtà, il probabile con l’improbabile. Il paese delle maree esemplificava queste problematiche: il conflitto tra l’abitare umano e la natura, le foreste di mangrovie abitate dalle tigri, l’acqua dell’oceano che si mescola alle acque dolci della foce del Gange, il comunismo dei poveri, i profughi ambientali e la pianificazione dei governi, la Storia e il soprannaturale, il marxismo e le occupazioni della terra destinate alla sconfitta, in luoghi destinati a scomparire e riapparire. Infine, quell’esperienza non intellettuale, forse addirittura mistica, prossima all’illuminazione, che è il “riconoscimento” – che sia vedere il tornado in azione o “guardare una tigre negli occhi” in una foresta fangosa.

  

 

In La grande cecità Ghosh sembra ritenere davvero che l’unica speranza per rifondare la nostra civiltà e re-indirizzare il nostro destino è immaginare nuovi racconti, nuovi modi di raccontare la vita e il mondo. Che sia questo il senso dell’espressione “raccontar(se)la giusta”? 

Gli chiedo se la perdita del senso della realtà, ingessata nella routine del probabile e del normale corso degli eventi (oggi più che mai smentito dalle cosiddette “catastrofi” naturali), sia anche e soprattutto la perdita di un senso narrativo dell’esistenza.

“La perdita del senso della realtà vissuta ha molto a che fare secondo me con la nostra incapacità di affrontare le forze non-umane, specialmente nella letteratura e nelle arti. La centralità dell’umano della letteratura contemporanea è secondo me non una causa ma un sintomo di un più ampio spostamento culturale. L’umano-centrismo è in gran parte un effetto della ‘modernità’. Per esempio, Moby Dick di Melville non era esclusivamente umano-centrico, come sono invece i romanzi più contemporanei. Ancora oggi le persone che dipendono per la loro vita dall’agricoltura, dalla caccia e dalla pesca devono necessariamente partecipare agli aspetti non umani del loro ambiente, in modo molto più vicino degli abitanti delle città. In altre parole, i processi che alimentano le emissioni di gas a effetto serra nell’atmosfera sembrano renderci ciechi alle conseguenze proprio facendoci focalizzare sempre di più l’attenzione sull’uomo”.

 

Forse, gli chiedo, “la visione coloniale del mondo” cancella la realtà anche creando da anni un eterno presente, un’assenza di futuro (che non sia il futuro di questo presente, cioè una ripetizione), sul modello di una televisione che non viene mai spenta, dove ogni istante cancella l’istante precedente senza conservare nulla?

“È interessante che tu tocchi questo tema. Ieri sera ho avuto il grande piacere e il privilegio di incontrare Giorgio Agamben, di cui ammiro molto il lavoro. Abbiamo avuto una conversazione molto interessante sul “presentismo” dell’attuale momento, e su quanto sia difficile comunicare ai giovani il senso di continuità con il passato. Ha anche fatto un’osservazione che mi ha colpito molto: le visioni del futuro sono sempre proiezioni di potere. Penso che abbia ragione”.

   

L’edizione italiana del libro di Ghosh mostra la parte superiore della grande statua blu del Signore Shiva, Maestro venerabile, semisommersa dalle acque del Gange dopo l’impetuosa travolgente piena della primavera del 2013: la riconosco perché l’ho vista, ero lì, uno dei luoghi sulla terra dove il sacro e la natura, diciamo pure il Divino, si fanno maggiormente sentire. Non posso non chiedere a Ghosh se la visione indiana del mondo (ammesso ve ne sia ancora una che si possa chiamare così) possa offrire all’umanità e alla Terra un’alternativa all’infelicità e alienazioni definitive, nel mondo autodistruttivo e cieco, letteralmente punk (“no future”) dell’Occidente…

  

“Penso che molte civiltà, tra cui la cosiddetta “occidentale”, avessero altre potenzialità, proprio come l’India. Ma l’“Occidente” è stato forse il primo a perdere o sopprimere queste potenzialità, e il resto del mondo lo ha seguito. Oggi c’è poca differenza tra l’India, la Cina e l’Occidente, almeno in materie come il consumismo e la vita materiale in generale. Considera però il romanticismo anche dell’automobile, che è da tempo una caratteristica della vita Americana, connessa col mito del viaggio, della frontiera, della libertà. E che oggi è una caratteristica anche della vita indiana e cinese. Quando ero bambino, l’India guardava al debito e l’indebitamento con orrore, come a una strada verso la rovina definitiva. Oggi in India, come negli Stati Uniti e in Cina, le banche competono tra loro per creare cicli di indebitamento. La vera tragedia dei nostri tempi è che i modelli di desiderio e le idee su ciò che fa una buona vita sono condivise in gran parte del mondo. In questo momento è inutile guardare l’India, la Cina o il Giappone per fornirci modi alternativi di pensiero”.

  

“Mentre ti rispondo – continua Amitav Ghosh – sono seduto in un treno ad alta velocità che sta attraversando una delle parti più industrializzate dell’Italia settentrionale. Attraverso la finestra vedo una superstrada bloccata dal traffico: sto osservando un paesaggio emblematico dell’accelerazione dell’era del combustibile fossile. Sono in viaggio verso una città, Torino, che incarna l’accelerazione dell’Italia del XX secolo: è qui che Fiat ha creato quelle macchine succhia-carbonio che sono divenute il fondamento dell’economia italiana. Quando arriverò a Torino starò in un hotel che si trova effettivamente all’interno dell’antica fabbrica Fiat – e dove si tiene anche la fiera del libro di Torino… L’ironia fiorisce nell’ironia”.

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Conversazione con Amitav Ghosh

Manchester. Chi sono gli estremisti?

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Ancor una volta una strage. Manchester, ancora una volta il radicalismo colpisce nel nome di un dio distruttore, il volto coperto, la voce quasi soffocata. Un fatto politico, un fatto storico, un evento clinico: come pensa quel volto nascosto dal velo? Perché la clinica si occupa del radicalismo? Come si permettono gli psicoterapeuti, che dovrebbero stare chiusi nel mondo della patologia del soggetto, di occuparsi del sociale? Con quale diritto? Con quale competenza? Spesso gli stessi clinici, nonostante le riflessioni di Freud a partire dalla Grande Guerra, hanno sottovalutato le patologie individuali che portano ai disastri sociali, come accadde al Processo di Norimberga (1945-1946). 

Gustav Gilbert (1911-1977) e Douglas Kelley (1912-1958) ricevettero l’incarico di valutare le condizioni psicopatologiche di alcuni tra i più importanti gerarchi nazisti, tra costoro Hermann Goering. Usarono alcuni test diagnostici, in particolare il test delle macchie di Rorschach e il Test di Appercezione Tematica (TAT) di Murray. 

 

I risultati di queste somministrazioni negavano la presenza di psicopatologia in termini legali. Tuttavia Gilbert, al contrario di Kelley, concluse che molti dei processati avevano disordini di personalità sociopatica di tipo paranoide e narcisista, ma non si trattava, a quel tempo, di patologie legalmente definite.

Qual è la differenza tra costoro e quel volto coperto dal velo? Oppure si tratta di un fenomeno che, benché non identico, è in grande misura equivalente? A partire da fine secolo, e nei primi vent'anni di questo nuovo millennio, assistiamo a un risorgere massiccio di patologie collettive, che non trovano risposte valide nel campo della psicopatologia classica – tutta presa da categorie diagnostiche standardizzate, neurotrasmettitori e comportamenti individuali – e mostrano forme complesse, che neppure le categorie del politico, troppo riduttive per altre ragioni, sono in grado di gestire e analizzare a fondo. Non che la lettura politologica non serva, ma la politologia si ferma al paradigma dell’attore razionale, non ha strumenti per comprendere l’inconscio, che non si limita ad agire sul piano dell’individuo patologico, ma ha le sue manifestazioni più importanti in campo sociale e relazionale. L’inconscio si osserva solo “a posteriori”, a partire dagli effetti prodotti nel sociale, dai suoi disastri.

 

Per questa ragione si tratta di analizzare sistemi psicotici che emergono da esperienze relazionali che, a loro volta, producono psicopatologie invisibili all’occhio del clinico che dissocia l’individuo dall’ambiente.

Di recente ho partecipato a un seminario internazionale sul radicalismo tenutosi a Milano. I relatori, Micol Ascoli – psicoanalista e psichiatra al Refugee Therapy Centre di Londra – e Felipe Galvez – psicoterapeuta sistemico e docente presso l’Università di Santiago del Cile – hanno presentato casi clinici e interventi di gruppo in relazione a una forma particolare di radicalismo: i terroristi animalisti. 

Nell’era della globalizzazione, il clinico si domanda se, al di là delle differenze specifiche, ci sia un genus che accomuna il “discorso radicale” e le sue pratiche. Hanno qualcosa in comune islamisti, antiabortisti, neo-nazisti, animalisti antagonisti, fondamentalisti d’ogni tipo? Condividono una posizione sul mondo?

La risposta emersa dal seminario è sì; il radicalismo condivide un pattern essenziale di antagonismo che si fonda su principi assoluti e certezze apodittiche (che significa dimostrate senza bisogno di prove empiriche).

 

 

In questo senso – questo il paradosso dei sistemi psicotici – il radicalismo è universalista e globalizzato, non ammette differenze, anche se, in quasi tutti testi antagonisti, una delle finalità coscienti è la lotta dura “contro la globalizzazione”. Anzi, e qui entra in campo il fenomeno dell’inconscio sociale, il radicalismo non vede i particolari, oppure li considera pericolose espressioni del nemico, inclinazioni perverse. 

Al convegno di Milano, abbiamo discusso la valutazione clinica di militanti animalisti radicali, incarcerati per avere compiuto attentati terroristici contro i laboratori di sperimentazione sugli animali. Azioni che accomunano quei gesti a quelli degli antiabortisti nord-americani, che mettono bombe nelle cliniche dove si pratica l’interruzione di gravidanza.

Ciò che rende “speciali” questi soggetti è l’assenza di soggettivazione rilevata dalle interviste cliniche. Sono soggetti “privi di sé”, hanno sacrificato la soggettività alla causa. Nelle parole di Galvez, sono de-soggettivati. 

 

Durante l’intervista clinica, uno può apparire un bonario signore pacato, l’altro un giovane impetuoso, il terzo ostile e mutacico. Ciò che li accomuna è che loro, dentro l’intervista clinica, non ci sono, al più, come nel caso del signore bonario, c’è la rappresentazione di un falso sé nella maschera di un middle class man inglese. 

Ognuno di loro appare, dalle interviste cliniche, come appendice della causa. La causa è la dimora della loro essenza, fortezza inespugnabile, loro sono solo un principio attivo, così come la miccia è ciò che innesca l’esplosivo.

Di questi argomenti si sono occupati recentemente Gérard Haddad, Hamid Salmi e Åsne Seierstad; quest’ultima ha scritto la biografia del neo-nazista, Anders Breivik; i primi due hanno fatto riflessioni sul fondamentalismo islamista. Di loro ho scritto in doppiozero negli ultimi tempi. 

La più recente ricerca in questo campo è contenuta nel libro di Fethi Benslama: Un furioso desiderio di sacrificio, che conia un neologismo per identificare la forma islamista di questo radicalismo: “supermusulmano”. Haddad, Salmi, Benslama sono clinici, Seierstad è una biografa, ma il suo testo è illuminante per la clinica del radicalismo.

 

Benslama dichiara “di proporre una lettura dell'invenzione dell'islamismo” diversa da quella politologica “attualmente in voga”. Secondo Benslama, l'obiettivo fondamentale dell'islamismo “consiste nella creazione di una potenza ultrareligiosa che si riallacci al sacro arcaico e al dispendio sacrificale, pur avvalendosi della tecnologia moderna”; secondo quanto emerso dal seminario di Milano sul radicalismo, potremmo estendere questa considerazione anche alle altre forme. 

 

Il radicale ha la sensazione di vivere la realtà come un mondo falso, privo di verità. Un mondo in cui ogni fonte d’informazione è imbroglio, senza alcuna fessura o porosità, nello stesso tempo crea continuamente fonti d’informazione ideologica al fine di influenzare gli altri alla propria ideologia. 

La società radicale, alla quale si richiama il militante fondamentalista, sembra un insieme di mondi richiusi su se stessi, ontologicamente separati, zone di conforto più o meno tribali, ma dotate di prodotti globalizzati ad alta tecnologia, pronte a combattersi se entrano in collisione. Un noto militante radicale animalista proclama che un mondo sostenibile non dovrebbe avere più di 50 milioni di esseri umani. Che si dovrebbe fare degli altri oltre 6 miliardi? Che tipo di “soluzione finale” prospetta? Oggi, con i mezzi tecnici che conosciamo, costui non dovrebbe avere i problemi che ebbero Heyrdich e Eichmann a Wannsee. 

 

Invece, secondo il neo-nazista Breivik, il programma dovrebbe deportare tutti gli islamici dall’Europa e sterminare tutti gli europei da lui chiamati “marxisti culturali”. Alcuni militanti antagonisti, a loro volta, pensano che le dichiarazioni di Breivik non siano altro che programmi nascosti dei governi europei ai quali dare battaglia, un po’ come Don Chisciotte dava battaglia ai mulini a vento. Il supermusulmano è prima di tutto contro i suoi fratelli islamici che non praticano la religione in maniera rigorosa. Spesso i fondamentalisti religiosi sono convertiti di recente, ma non credono che il testo sacro possa essere letto in un contesto storico diverso da quello dell’epoca in cui fu scritto, come se il tempo fosse fermo.

Si tratta di modelli deliranti, che derivano dall’esigenza di una coerenza apodittica. La realtà là fuori non esiste, il mondo, per migliorare, deve andare sempre peggio, regredire. Dopo un lungo processo di civilizzazione, di intenerimento dell'animo umano, assistiamo a una regressione e a una fissazione sulla crudeltà, che diventa crudeltà mediatica, senza più traccia di tenerezza, né di rimorso. L'esempio della strage dei bambini ebrei presso la scuola Ozar-Hatorah, perpetrata da Mohammed Merah e da lui filmata con una telecamera fissata alla testa è paradigmatico del connubio tra nuove tecnologie e regressione psicotica. Tuttavia nel pronunciare il suo nome nuovamente, Mohammed Merah, noi lo identifichiamo, lo riconosciamo come soggetto responsabile, produciamo un rimorso, ricordiamo.

 

Il termine “dispendio sacrificale” usato da Benslama fa venire in mente Georges Bataille. Secondo Bataille, il sacrificio umano, presso alcuni mondi, è onore riservato alle dinastie reali, che sono anche divine. Bataille parla dei sacrifici aztechi. La società azteca è il paradossale opposto del moderno soggetto occidentale. 

Difficile da comprendere per noi, perché si tratta di qualcosa di “sovrumano”: nel sacrificio non c'è invidia, né vergogna, il suicidio è potenzialmente inesistente, non c'è neppure quel risentimento che conduce l'uomo all'assassinio, la coscienza è ordine collettivo e la morte rituale pubblico: il sacrificio del re, che è entità divina, è onore

 

Il capro, che viene sacrificato al posto dell’uomo, per salvare l’uomo dalla potenza distruttiva degli dei è astuzia (metis) che salva l’uomo e sacrifica l’animale. Questo scambio dell’uomo con l’animale, per il radicale, è la menzogna contro cui si batte. Come scrissero Max Horkheimer (1895-1973) e Theodor Adorno (1903-1969) nella Dialettica dell’illuminismo, Ulisse, che si sottrae alla potenza degli dei, salva il “sé”, sottraendolo alla distruzione. In quel momento nasce il soggetto: per sottrazione.

 

I nuovi radicali denunciano questa astuzia, questa sottrazione del sé, intendono entrare nel tutto indistinto. Non c'è più la “mia” coscienza, non c'è più un “io” responsabile davanti alla comunità, a dio, alla società. C'è solo l'ordine collettivo al quale l'individuo è agglutinato, l'individuo, sulla Terra, è mero esemplare del collettivo, il sacrificio è l'unico tratto di distinzione, l'io diventa tale solo nell'altro mondo.

Se così fosse, saremmo di fronte a una “regressione” essenziale: il post-umano come equivalente tecnologico del pre-umano, la fine di quell'era, la più rapida di tutte, l'ultima, definita antropocene, l’era dell’ultimo uomo, che mai verrà sostituito con il superuomo, perché questo pagliaccio umano, saltando sul cavo, produrrà la sua caduta. Forse la poesia di Charlie Chaplin alla fine del Grande dittatore ci salverà.

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Perché la clinica si occupa di radicalismo

Duchamp fotografico

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Marcel Duchamp (1887-1968) è una figura con cui ogni storico dell’arte contemporanea attivo in Europa o in America deve prima o poi confrontarsi. Cinquant’anni dopo la sua morte (il 2 ottobre 2018 per la precisione), non abbiamo finito di misurarci col lascito – visivo e concettuale – dell’opus duchampiano. Il mercato editoriale si è mostrato all’altezza della sfida. Per tenersi alle mostre più innovative degli ultimi anni, penso a Inventing Marcel Duchamp. The Dynamics of Portraiture (National Portrait Gallery, Washington 2009), Marcel Duchamp: Etant donnés (Philadelphia Museum of Art, 2009), La peinture, même 1910-1923 (Centre Pompidou, Parigi2014), nonché l’imminente Dalí/Duchamp, che aprirà i battenti a ottobre alla Royal Academy of Arts di Londra. Riguardo alle pubblicazioni, penso alla documentatissima biografia di Bernard Marcadé, Marcel Duchamp. La vie à crédit (2007, tradotta nel 2009 da Johan & Levi), allo studio di Thierry Davila sull’inframince (De l’inframince. Brève histoire de l’imperceptible de Marcel Duchamp, Beau Livre 2010), fino a The Apparently Marginal Activities of Marcel Duchamp (MIT Press 2016) di Elena Filipovic, che si concentra sull’attività curatoriale, facendo di Duchamp un antesignano dell’institutional critique.

 

L’Italia non è rimasta a guardare, come conferma l’effervescenza delle pubblicazioni recenti, la cui eterogeneità metodologica è l’ennesima testimonianza dell’inesauribilità del soggetto. Penso, in particolare, all’antologia curata da Stefano Chiodi (Marcel Duchamp. Critica, biografia, mito, Electa 2009) in cui sono tradotti per la prima volta contributi di autori francesi e americani, oltre alla riproposizione di alcuni scritti di Duchamp e di critici italiani sparsi in riviste e cataloghi. Oppure alle analisi che spaziano dagli studi di genere (Giovanna Zapperi, L’artista è una donna. La modernità di Marcel Duchamp, ombre corte 2014), a un approccio politico sul secondo Duchamp che, dopo aver realizzato il dipinto Tu m’ (1919), abbandona la pittura e, pubblicamente, ogni attività artistica (Maurizio Lazzarato, Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro, edizione temporale, 2014), fino alla ricostruzione della fortuna concettuale di Tonsure (1919) (Michele Dantini, Macchina e stella, Johan & Levi 2014).

 

A Marcel Duchamp Elio Grazioli ha rivolto sempre un’attenzione particolare, dal florilegio duchampiano per la collana “Riga” (Marcos y Marcos 1993) a La polvere nell’arte (Bruno Mondadori 2004), ispirato dall’allevamento di polvere di Duchamp e Man Ray – matrice e motore, tra l’altro, della straordinaria mostra curata da David Campany, Dust. Histoires de poussière d’après Man Ray et Marcel Duchamp (Le Bal, Parigi 2015). Con Duchamp oltre la fotografia. Strategie dell’infrasottile (Johan & Levi 2017), Grazioli si rivolge ora a un tema nelle corde del critico quanto dell’artista: la produzione fotografica.

 

 

Alla fotografia Jean Clair ha dedicato uno studio precursore nel 1977, Duchamp et la photographie. Essai d’analyse d’un primat technique sur le développement d’une oeuvre (Editions du Chêne), ormai introvabile ma ripreso in Sur Marcel Duchamp et la fin de l’art (Gallimard 2000). Quest’incursione nella fotografia era concomitante con la mostra di Duchamp nell’appena inaugurato Centre Pompidou. Al suo interno era ospitata una hall in stile normanno che illustrava la vita dell’artista francese. Precisamente qui prendeva avvio il recupero nazionale di un artista allora demonizzato in patria, come dimostra Vivre et laisser mourir ou la Fin tragique de Marcel Duchamp (1965), polittico di otto quadri di Gilles Aillaud, Eduardo Arroyo e Antonio Recalcati e sorta di manifesto della figurazione narrativa. Del resto Duchamp si era trasferito negli Stati Uniti, un paese, non dimentichiamolo, che all’epoca della mostra del Pompidou gli aveva già dedicato importanti retrospettive: Pasadena nel 1963, Filadelfia nel 1973, New York nel 1974.

 

Mostra di Duchamp, Centre Pompidou, 1977.

 

Alla lettura di Jean Clair, Grazioli preferisce quella di Rosalind Krauss e Jean-François Lyotard – rispettivamente Teoria e storia della fotografia (1990) e I transformatori Duchamp (1992), entrambi tradotti in italiano dallo stesso Grazioli –, così come quella più aggiornata di Herbert Molderings (Marcel Duchamp at the Age of 85. An Incunabulum of Conceptual Photography, Walther König 2013), un autore distintosi per uno studio quasi maniacale di una sola opera di Duchamp, Trois stoppages étalons (1913).

 

Ma il nume tutelare di Grazioli sembra essere, in realtà, un testimone d’eccezione quale Ugo Mulas. Come fotografare un artista la cui pratica è fondata sul non-fare, si chiedeva? Si tratta di una questione estetica complessa: come rappresentare la negazione, come cogliere visivamente ciò che nega l’azione, come realizzare un’immagine del non, come negare un’immagine? Ma si tratta anche di una questione prettamente fotografica, come osserva Grazioli: “Il non fare come atto e non come astensione dal fare, come rinuncia, omissione: impossibilité du fer. Paradosso anche dell’atto fotografico”.

Mulas escogita diverse soluzioni: fa posare Duchamp – “posare era l’atteggiamento più vicino al non fare, perché qualsiasi altra cosa Duchamp avesse fatto sarebbe stato qualcosa in più e qualcosa di troppo” –; lo riprende mentre passeggia, ad esempio a Washington Square a New York: “il camminare [è] l’atteggiamento del vivere più elementare, e fotograficamente più significativo, un fare sganciato dal produrre, l’atteggiamento più evidente del vivere e basta”; lo rappresenta assorto davanti a una scacchiera preso a non giocare.

 

A quest’estetica del non fare, di cui Duchamp fu maestro, non sfugge neanche la fotografia. L’artista francese infatti non ha mai scattato alcuna fotografia. Anche gli scatti in cui le marche autobiografiche sono più evidenti sono basati su una forma di assenza dell’artista. Basti pensare alle immagini che ne hanno costruito la figura pubblica, e che spaziano dalla moltiplicazione della sua immagine (Ritratto multiplo di Marcel Duchamp, 1917) alle messinscene en travesti che anticipano la Body Art (da Rrose Sélavy a Tonsure, 1921), fino all’inversione del rapporto tra positivo e negativo, luce e ombra, figura e fondo della maturità (Autoritratto di profilo, 1958). Giochi di specchi in cui la moltiplicazione caleidoscopica dell’identità ha prodotto una pioggia acida di letture postmoderniste da cui non abbiamo ancora preso le necessarie distanze.

 

Man Ray, Rrose Sélavy alias Marcel Duchamp, 1921.

 

Che Duchamp non sia l’autore delle sue foto è un sintomo del suo rapporto eretico se non eversivo con la fotografia, come evidente nelle sue opere quanto nelle note raccolte nella Scatola verde. La fotografia viene interrogata non solo come macchina (celibe o meno) che produce immagini riproducibili, ma, più generalmente, come medium, come operatore. È lo snodo del libro, che Grazioli riprende da Rosalind Krauss, ovvero il passaggio decisivo dalla fotografia al fotografico, “alla fotografia non come tecnica ma come ‘oggetto teorico’”, perlomeno sin dal Grande vetro (1915-1923).

 

Tenendosi a questa lettura, della fotografia vengono isolati e sviluppati alcuni elementi specifici, a partire dalla capacità di cogliere il movimento e la velocità – l’“esposizione ultrarapida” come la chiamava Duchamp – e che risale alla cronofotografia di Etienne-Jules Marey. Incidentalmente, quest’indagine della quarta dimensione entrava in risonanza con gli interessi scientifici dell’epoca: geometria non euclidea, radioattività, teoria atomica, termodinamica. Approcci che avevano come oggetto il mondo invisibile degli elettroni, dei raggi X, la fluidità delle onde elettromagnetiche. A Duchamp interessava meno la teoria scientifica in sé che l’immaginario scientifico, la capacità immaginaria se non visionaria dell’epistemologia. Una mossa per spazzolare contropelo il modernismo centrato sul formalismo, come ha magistralmente dimostrato Linda Dalrymple Henderson in The Fourth Dimension and Non-Euclidean Geometry in Modern Art (MIT 1983, nuova edizione 2013) e Duchamp in Context: Science and Technology in the “Large Glass” and Related Works (Princeton University Press 2005).

 

Al di là della quarta dimensione, nel corso del libro di Grazioli, la nozione di fotografico si espande, e tocca, sinteticamente: il caso, elemento cruciale del processo creativo al di là della forma predefinita e conchiusa; l’indifferenza, propria al readymade come all’occhio fotografico che sembra limitarsi a catturare quella porzione di reale ritagliata dall’inquadratura; la polvere: “Al limite della materia, a toccarla essa si dissolve o cambia di consistenza, per cui solo la fotografia riesce a fissarla, a catturarla in maniera stabile”; il readymade che, non diversamente dal cliché fotografico, è un prelievo da un contesto spaziale quanto temporale; fino al gioco degli scacchi, per la natura anti-mimetica della scacchiera.

 

In quanto “strategia per sfuggire all’iconico”, ovvero al retinico, l’atto fotografico “è proiezione, ombra, impronta, prelievo, gesto, a sua volta readymade; non una riproduzione ma un’appropriazione della realtà in immagine, una cattura dell’immagine come oggetto, per quanto immateriale o ‘infrasottile’ essa sembri”. Più che trasformare la realtà in immagine, la fotografia mette insomma in questione lo stesso statuto del reale.

 

Al riguardo, la declinazione più intrigante del fotografico è senza dubbio l’idea di inframince o infrasottile: “Pellicola senza spessore, velo immateriale, incorporeo, presenza puramente visiva, [la fotografia] è più dell’ordine del virtuale, del riflesso speculare, del ‘simulacro’ […] e degli spettri, dei fantasmi, dell’aura”. Inframince: concetto sfuggevole, nei quarantasei appunti sparsi lasciati dall’artista non solo manca qualsiasi definizione, ma si legge anche che l’inframince non è un sostantivo ma un aggettivo. Duchamp ne fornisce tuttavia alcuni esempi: lo spazio tra il fronte e il verso di un foglio di carta, il calore di una sedia appena abbandonata, le persone che passano all’ultimo momento nei portelli della metro, il sibilo provocato dallo sfregarsi di due gambe in movimento, il fumo del tabacco quando sa anche della bocca da cui esala, l’intervallo tra la detonazione di un fucile e la pallottola sul bersaglio, i raggi X e gli odori, i riflessi di luce sulle superfici e sugli specchi. L’inframince segna una separazione impercettibile, insufficiente per distinguere il maschile dal femminile, uno scarto minimo tra due oggetti realizzati in serie dallo stesso modello, tanto più questi appaiono identici, una pittura su vetro vista dal lato non dipinto.

 

Partito dal Grande Vetro, il percorso tracciato da Duchamp oltre la fotografia non poteva che concludersi con Dati: 1) la caduta d’acqua, 2) il gas d’illuminazione (1946-1966), l’opera esposta postuma da osservare dal buco di una serratura, non diversamente da un obiettivo fotografico. A distanza di cinquant’anni, il Grande Vetro e Dati tessono una rete di richiami che attraversa tutta l’opera di Duchamp. Come isolare, del resto, una parte della produzione di un artista che ha realizzato una valigia piena di riproduzioni in miniatura delle sue opere, o un dipinto come Tu m’ (1918), sorta d’inventario di quanto compiuto fino allora nel campo della pittura e del readymade? Che il Grande Vetro e Dati siano esposti nella stessa sala del museo di Filadelfia, a pochi metri una dall’altra e dalla impeccabile installazione delle sculture di Brancusi concepita da Duchamp stesso è, c’è da scommetterci, l’ennesimo caso di inframince.

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Baliani e Binasco: la sfida del coro

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“Abbiamo provato in tutte le maniere: le abbiamo messe sul palco e sembravano ospiti non invitati, arrivati per caso da un ballo in costume. Le abbiamo nascoste dietro una tenda di velo, e parevano le scene di un film di Walt Disney. Ho visto altri tentativi: le ho viste far segni dal fondo del giardino, o irrompere sulla scena come una squadra di calcio, e non vanno mai bene”.

 

È Thomas S. Eliot a descrivere, con una sequenza di immagini volutamente grottesche, la difficoltà di portare sulla scena il coro greco lontano dal suo contesto originario: il rischio – mette in guardia Eliot già nel 1951 – è quello di provocare nel pubblico un effetto di comicità involontaria (per un riuscito esempio di parodia volontaria su tuniche o coturni, invece,vale la pena riguardare Mighty Aphrodite di Woody Allen, 1995).

 

Woody Allen, La dea dell’amore.

 

La rassegna organizzata dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico nel Teatro Greco di Siracusa rappresenta un campo di indagine privilegiato, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione sulle possibilità di rappresentazione del coro. Le opportunità registiche, in quel contesto, risultano amplificate: l’ampia orchestra lascia lo spazio necessario agli eventuali movimenti scenici o coreografici; i cast delle produzioni siracusane vantano più di quindici attori solo per il coro; l’Inda mette a disposizione interi laboratori di sartoria per i costumi.

 

Con le opportunità, come sempre accade, crescono anche i pericoli. Ed ecco le cadute più frequenti viste negli scorsi anni di festival: la ricerca dell’effetto fine a se stesso; sequenze di movimenti che appaiono non decodificabili o scarsamente giustificate; la riproposizione di un immaginario rodato, che pare voler replicare con illusoria filologia le scarse nozioni che abbiamo sul coro antico.

Tra i tentativi più riusciti, nelle più recenti edizioni, vale la pena citare almeno le Supplici di Moni Ovadia, dove il corposo coro eschileo è stato interamente riscritto in chiave di cunto siciliano (2015), e l’intervento coreutico della Martha Graham Dance Company sulle Baccanti di Antonio Calenda (2012).

La cinquantatreesima edizione della rassegna ha visto impegnati due registi al loro primo ingresso sul palco siracusano: Marco Baliani e Valerio Binasco. Al primo è stata affidata Sette contro Tebe di Eschilo, al secondo le Fenicie di Euripide: drammi che raccontano il medesimo episodio mitico (cioè lo scontro fatale tra i fratelli Eteocle e Polinice) e che consentono dunque un gioco di specchi tra i differenti linguaggi teatrali dei due tragediografi.

 

L’edizione, che segna un cambio di rotta al timone dell’Istituto (da quest’anno il direttore artistico è Roberto Andò), si contraddistingue per un’estetica sobria, lontana da certi “colossal teatrali”a cui ci ha talvolta abituato il festival: Carlo Sala, che firma la scena di entrambi gli allestimenti, marca lo spazio con un solo albero, a evocare simbolicamente le radici e i resti di una polis che distrugge se stessa conuna guerra fratricida.

 

Fenicie, ph. Gianmaria Martini.

 

Ma come affrontano i due registi la sfida del coro? Il testo eschileo costringe Marco Baliani a un serrato confronto con il nodo gordiano: gli interventi delle donne tebane, scosse da paura e da presagi per la guerra imminente, hanno enorme spazio nella drammaturgia eschilea (qui tradotta da Giorgio Ieranò). Baliani, spinto forse dalla necessità di affiancare agli allievi dell’Accademia dell’Inda un solido professionista, rende la figura di Antigone (la valida Anna Della Rosa) un perno dell’azione, e le attribuisce diverse battute del coro. L’operazione – che ha da un lato il merito di conferire centralità a una figura mitica fondamentale della saga, e ben nota al pubblico – non è tuttavia senza conseguenze: la ragazza che si aggira per il palco presa dal panico (“sono senza forze: è il terrore che trascina la mia lingua”) ha ben poco a che spartire con l’eroina che sarà in grado di affrontare a testa alta il regnante della città, l’inflessibile Creonte. Nello sviluppo dell’azione, non mancano intuizioni felici: Baliani dà vita a una delle raffigurazioni di Tiresia più suggestive degli ultimi tempi (una sorta di inquietante totem tribale) e riesce a evocare efficacemente sulla scena i guerrieri che minacciano la città e che il messaggero sgomento descrive al pubblico (un danzatore si sospende in posizioni ferine su una griglia lignea).

 

Sette contro Tebe, ph. Franca Centaro.

 

Non di rado, tuttavia, si ha l’impressione che il coro si limiti a eseguire una partitura appresa a memoria, senza aver avuto il tempo di metabolizzarla e di riproporla con consapevolezza; e i frammenti di battuta distribuiti tra gli attori e pronunciati uno dopo l’altro, così come i movimenti di attacco e difesa che si susseguono nello spettacolo, paiono quasi un esercizio accademico.

 

La soluzione scelta da Valerio Binasco si colloca sul versante opposto. Nelle Fenicie Euripide decide di dar voce a un gruppo di straniere, provenienti dal mare di Tiro (l’odierno Libano): le donne si trovano a Tebe per caso, e divengono osservatrici esterne ma loro malgrado coinvolte nel conflitto. Binasco crea, in sinergia con Carlo Sala, un’immagine di straordinaria bellezza: un gruppo quasi kantoriano di figure sedute, mascherate, coperte di foulard e cappotti scuri. I loro volti parlano di un’alterità di provenienza senza marcarla, e la loro presenza immobile sul palco costituisce un costante piano d’ascolto ai fatti tragici, come una rappresentanza degli spettatori sul palco.

 

Fenicie, ph. Franca Centaro.

 

Il ruolo del coro nella drammaturgia euripidea, orientata com’è a dare spazio ai campi di forza e alle reti relazionali tra i personaggi, è ben più ridotto che in Eschilo; e la regia di Binasco si è visibilmente concentrata sullo statuto umanissimo e anti-eroico dei protagonisti, e sulle vertiginose alternanze di registro della drammaturgia euripidea (raggiungendo, su questi due aspetti, ottimi risultati). È difficile, però, non considerare la costante staticità del coro in un’ora e trenta di spettacolo un’occasione mancata, sia essa esito di una scelta o di necessità. Le immobili Fenicie paiono quasi rispondere a distanza alle tormentate riflessioni di Eliot sulla difficoltà di un compromesso tra due prassi teatrali così distanti.

 

Letture consigliate per i fanatici del coro:

D. Del Corno, Erinni e boy-scouts. Il coro nelle riscritture moderne della tragedia greca, in L. De Finis (a cura di), Scena e spettacolo dell’antichità, Leo S. Olschki Editore, Firenze 1989, pp. 79-88.

M.Treu, Coro per voce sola. La coralità antica sulla scena contemporanea, in “Dioniso”VI (2006), pp. 2-27.

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Dramma antico a Siracusa

Un atlante delle emozioni

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La vaporosa malinconia lasciata dalla partenza di un ospite gradito. La commozione nel veder trionfare chi parte svantaggiato. La nostalgia per un luogo in cui non si è mai stati. Ognuno e ognuna di noi probabilmente ha provato almeno una volta uno di questi stati d’animo. E magari ha fatto fatica a descriverli e a nominarli, ha pensato che non fossero condivisibili, ha tentato di scuotersi di dosso queste strane sensazioni. Non sapendo che invece queste emozioni esistono: sono culturalmente riconosciute, hanno dei nomi, una storia e una geografia. La tribù baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea chiama awumbuk la malinconia lasciata dalla partenza di un amico che si è ospitato, e dispone ciotole d’acqua negli angoli della casa per assorbire la foschia che l’ospite lascia dietro di sé. L’empatia verso un outsider, l’eccitazione per la vittoria di chi è destinato alla sconfitta, in Giappone si chiama ijirashi. Il finlandese definisce kaukokaipuu il desiderio di essere in un luogo lontano, diverso da quello in cui siamo e in cui forse non saremo mai.

 

L’esistenza di queste parole testimonia che in alcuni luoghi, per effetto di particolari configurazioni sociali, la materia impalpabile e le sfumature impercettibili di cui sono fatte le emozioni si sono condensate in modo da dare luogo a dei concetti, a delle realtà interiori riconoscibili, che hanno richiesto la legittimazione di un nome. A guidarci in queste e in molte altre scoperte di geografia emotiva è l’Atlante delle emozioni umane compilato da Tiffani Watt Smith, recentemente pubblicato da Utet nella traduzione di Violetta Bellocchio. Sottotitolo: 156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai.

 

 

Un atlante delle emozioni potrebbe sembrare un libro quasi inevitabile oggi, coerente con l’epoca forse più emotivamente satura della storia, e necessario alla sua decifrazione. Enormi correnti emotive attraversano la vita pubblica e politica, reazioni emoticoniche determinano le interazioni sociali, un costante overload emotivo alimenta, quasi come una droga, l’immaginario mediatico, dalle sceneggiature dei talent show a quelle di Hollywood, dalle emozioni forti della narrativa seriale a quelle pruriginose del gossip. Perfino il discorso scientifico, per tacere delle pseudoscienze, ha scoperto le emozioni: lo studio del cervello ha permesso di situare i processi biologici che sottendono alle emozioni, e di mostrare che la vita emotiva è fortemente connessa ai processi cognitivi “superiori”, che la razionalità è venata di emotività, che il cuore ha delle ragioni che la ragione spesso sta ad ascoltare.

 

E mentre il diluvio emotivo sembra forzare le strutture stesse del pensiero e la sua agibilità sociale, travolgendo con drammatiche accelerazioni il tempo lento della logica e dell’argomentazione, c’è chi tenta di organizzare una resistenza, segnalando la necessità di arginare la prossimità emotiva rispetto ai fenomeni, per ristabilire la distanza critica necessaria alla comprensione. Paul Bloom, ricercatore a Yale, ha scritto un libro intitolato Against Empathy, contro l’empatia, tentando di decostruire il mito della più “positiva” delle emozioni. L’empatia, come molti altri eccessi emotivi, può innescare pericolosi stati di coinvolgimento e iperreattività, che deformano l’analisi della realtà, e condizionano in senso anti-razionale i processi decisionali, con conseguenze nefaste, alcune delle quali molto visibili oggi, soprattutto per la vita pubblica e per l’agire politico.

 

La sfera emotiva rappresenta dunque un campo di negoziazione dei significati del presente, intorno al quale si sono aperte vaste prospettive interdisciplinari di ricerca: già da diversi anni si parla di emotional turn tanto in antropologia, quanto nelle scienze sociali e nella ricerca storica. E se è vero che di queste “svolte” disciplinari, spesso più apparenti che sostanziali, è costellata la storia recente delle humanities, è innegabile che il tentativo di fare delle emozioni un oggetto di studio, definibile culturalmente e storicamente, può abilitare una nuova comprensione dei fenomeni del passato, e un’indagine genealogica sull’attuale assetto psichico ed emotivo della società. Di questa svolta, di questa apertura di prospettive, partecipa senza dubbio l’Atlante di Watt Smith, che ha il merito principale di portare all’attenzione di un pubblico di non specialisti il fatto apparentemente contro-intuitivo che le emozioni possano avere una storia, un’esistenza culturale stratificata e variabile. Il concetto stesso di emozione è storicamente tracciabile, ha un’origine precisa, e non è sempre esistito come noi lo conosciamo: secondo Thomas Dixon (From Passions to Emotions. The Creation of a Secular Psychological Category, 2003) è il frutto di una laicizzazione, avvenuta all’inizio dell’Ottocento, del discorso sulle passioni sviluppato nel corso dei secoli in ambito teologico. Mostrare le radici storiche e l’evoluzione semantica delle emozioni è un modo di interrogare l’alluvione emotiva del presente, di ancorarla a una riflessione, di dare una solo apparentemente paradossale profondità agli aspetti superficialmente emotivi dell’esistenza contemporanea.

 

Il lavoro archeologico dell’Atlante delle emozioni umane non si contrappone soltanto alla coazione al consumo di emozioni effimere, ma anche a una diffidenza radicata in ambito accademico e scientifico, dove le emozioni sono state a lungo percepite come parte di quel complesso di dati immediati, di fatti della vita che cadono al di fuori dei fenomeni interrogabili con gli strumenti della cultura e della scienza. Il movimento di storiografia delle emozioni entro il quale si inscrive l’Atlante tuttavia è interessante proprio nel suo tentativo di dare conto dell’esistenza delle emozioni reali, di creare una connessione tra le rappresentazioni e le concettualizzazioni delle emozioni, culturalmente variabili, e la loro profondità antropologica, la loro esistenza trans-culturale e metastorica, la loro persistenza e immutabilità percepite.

 

La storiografia delle emozioni, sviluppata da oltre un decennio in ambito anglosassone e solo marginalmente penetrata nel dibattito italiano, pone il problema a suo modo scandaloso dell’esistenza concreta delle emozioni, si interroga su ciò che le persone realmente provano, e lo confronta con ciò che è ipotizzabile abbiano realmente provato in passato. A partire dallo studio delle mediazioni e delle rappresentazioni culturali delle emozioni, si tenta di andare oltre le mediazioni, per capire a quale nucleo esperienziale le rappresentazioni danno forma. Questo movimento è perfettamente visibile nell’Atlante pubblicato da Utet, che nel dare conto della storia culturale delle emozioni segnala sempre il filo che le lega all’esistenza quotidiana, alla situazione contemporanea, accostando anche alle emozioni fondamentali alcune condizioni nuove, inconcepibili in altre epoche, come il tecnostress o la cybercondria (la compulsione alla ricerca in rete). Ogni emozione è introdotta dalla descrizione di una situazione possibile, da uno spunto narrativo, che suggerisce anche come ogni stato emotivo contenga in sé l’embrione di una storia.

 

Ph: Alamy. 

 

In questo suo registro stilistico colloquiale il libro scherza anche con il linguaggio del manuale di autoaiuto o della guida alla vita emotiva, introducendo un aspetto che potrebbe far sollevare qualche sopracciglio. Ma nell’esibire familiarità con la vita emotiva corrente il libro viola, io credo con consapevolezza polemica, un autentico tabù degli studi storico-culturali, nei quali le teorie decostruzioniste e post-strutturaliste hanno agito in profondità (ma non solo queste: si tratta di un processo di ipostatizzazione del linguaggio e di astrazione delle pratiche simboliche che risale alle origini stesse della modernità), e hanno sedimentato l’idea che nelle interazioni umane tutto è cultura, rappresentazione, linguaggio, codice. Una diffidenza e un pudore profondamente radicati (e per molti aspetti giustificati), sorgono ogni volta che si devono maneggiare le nozioni di realtà, esistenza, vita, natura.

 

Al contrario, lo scarto introdotto dalla storiografia delle emozioni è il tentativo di partire dalle rappresentazioni, dalle articolazioni e variazioni culturali che interessano le emozioni, per bucarle, per arrivare a toccare qualcosa che fa parte delle nostre interazioni di base con l’ambiente, della nostra esistenza biologica. Non a caso, l’Atlante delle emozioni umane, così come gran parte delle ricerche affini, individua nel libro di Charles Darwin The Expression of the Emotions in Men and Animals, del 1872, lo sfondo antropologico sul quale si innesta  la storia culturale delle emozioni. Darwin compila una sorta di catalogo di fossili emotivi, di espressioni delle emozioni primordiali, che costituiscono il sostrato animale della vita emotiva, al quale si applicano le trasposizioni e le traduzioni culturali (e stupisce che manchi del tutto, in Watt Smith come nella maggior parte degli studi dello stesso tipo, un riferimento a Warburg, il grande rabdomante delle “forme emotive” cristallizzate nell’arte, che pensava di organizzare proprio in un atlante figurativo le immagini che hanno stilizzato nel movimento delle figure, esperienze psichiche ed emotive antropologicamente radicate).

 

Il concetto di traduzione è centrale nelle teorie delle emozioni che sono comparse in ambito storico. William Reddy, nel suo libro The Navigation of Feeling, ha descritto le rappresentazioni culturali degli stati emotivi come traduzioni del nucleo duro, persistente, trans-culturale dell’esperienza emotiva, e come atti linguistici che nel dire le emozioni necessariamente le plasmano, le informano. Esistono degli oggetti, le emozioni, che hanno a che fare con la vita biologica dell’individuo e che i linguaggi umani traducono. Le emozioni prendono la forma del discorso e dei gesti che le rappresentano: sono performance verbo-motorie che riattivano secondo modalità culturalmente definite esperienze antropologiche profonde, stati psichici antichissimi.

 

Una teoria delle emozioni fondata sul concetto di traduzione e di performance consente di superare tanto il dualismo psicologico tra realtà oggettiva e soggetto che la conosce, quanto la pandiscorsività del post-strutturalismo che nega l’esistenza di una realtà esterna al linguaggio. Le emozioni sono esattamente questa realtà esterna al linguaggio, che la mente cerca di catturare, concettualizzandola e formalizzandola. Nel farlo, mette in contatto processi biologico-cognitivi e strumenti culturali, elaborazioni interiori e forme sociali: le indagini neuroscientifiche sull’elaborazione cerebrale delle emozioni vengono integrate in questa prospettiva di studio, ma con un approccio critico che segnala come non bastano le reazioni chimiche del cervello a determinare un’emozione, mentre servono sempre un corpo e una mente che la agiscono in un contesto culturale. Eppure è proprio contro questo sfondo di reazioni corporee e di legami chimici che si ritagliano le emozioni culturalmente conoscibili.

 

Elisabeth-Louise Vigée Le Brun, Autoritratto, 1787.

 

La storia delle emozioni si intreccia alla storia della scienza e della medicina: serve una nuova concezione e una nuova cura del volto e in particolare della bocca perché possa affiorare, nella Parigi della metà del Settecento, la smile revolution indagata in un libro di Colin Jones (The Smile Revolution in Eighteenth-Century Paris). In un’increspatura emotiva, in una smorfia si manifesta il vasto complesso di trasformazioni sociali e culturali che preparano la prima grande rivoluzione politica della storia. Ed è a partire dalla storia della fisiologia umana, e della sua culturalizzazione, che si possono indagare le manifestazioni del pianto nella società inglese, mostrando come la mitologia dello “stiff upper lip”, della assoluta continenza emotiva del popolo inglese, sia non solo il frutto di una costruzione culturale, ma anche di precise politiche delle emozioni (è ciò che ha fatto Thomas Dixon nel suo Weeping Britannia. Portrait of a Nation in Tears).

 

Pensare alla nostra esperienza delle emozioni come al frutto di una traduzione ci riporta all’Atlante delle emozioni, la cui edizione italiana ha dovuto affrontare problemi traduttologici molto significativi. Non solo perché si è trovata di fronte a emozioni intraducibili, come quelle che abbiamo citato all’inizio, ma anche perché ha dovuto dare conto delle diverse storie etimologiche relative ai nomi di alcune emozioni, che nell’adozione di radici diverse rivelano diverse sfumature di significato. La pesantezza che si nasconde nella tristezza è più evidente nell’inglese sadness, etimologicamente legato al concetto di sazietà (e al latino satis), così come alla presenza di un peso rimanda più visibilmente boredoom, la parola inglese per “noia”. Ed è più facile vedere lo splendore che illumina la contentezza nell’inglese gladsomeness, sostantivo che rimanda al campo semantico della luce.

 

Questi affascinanti percorsi semantici e lessicali dimostrano ulteriormente che le emozioni hanno una storia e una geografia, e che la loro nebulosità può condensarsi in modo diverso a seconda dei climi culturali e sociali: è l’autrice stessa a utilizzare nella sua introduzione la metafora della catalogazione della forma delle nuvole per alludere al lavoro di classificazione delle emozioni. Della natura sfuggente e refrattaria alle definizioni univoche delle emozioni è specchio anche la struttura del libro: organizzato come un dizionario, funziona attraverso una rete di rimandi interni che lo rendono un ipertesto, e che servono a segnalare la contiguità e la sovrapponibilità delle diverse situazioni emotive, le sfumature che le fanno scivolare una nell’altra, l’instabilità molecolare dei campi emozionali. Tanto che diventa difficile smettere di seguire le catene analogiche, difficile circoscrivere la definizione di un’idea emotiva a una sola voce, difficile rinunciare a percorrere la selva di incroci e rimandi reciproci per seguire una lettura lineare. Come si fa, del resto, a segnare con esattezza il confine tra frustrazione ed esasperazione? Provare per capire. 

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Storia e geografia di realtà interiori

La letteratura: se iniziassimo davvero a studiarla?

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Sappiamo tutti che cos’è la letteratura: più o meno, naturalmente. Lo sappiamo nel senso che siamo in grado di riconoscere un’opera letteraria distinguendola da opere che appartengono alla filosofia, alla storia, alle scienze naturali. Anche se negli ultimi decenni alcuni studiosi (come Derrida) hanno enfatizzato una certa labilità dei confini, nella stragrande maggioranza dei casi non abbiamo dubbi: e persino nei casi più ambigui, tendiamo a risolverli considerando il Simposio di Platone o lo Zarathustra di Nietzsche come opere filosofiche, e Il dialogo dei massimi sistemi come un’opera scientifica benché gli autori che sto menzionando siano, indiscutibilmente, anche grandi scrittori.

 

Ogni lettore ha incontrato sin dalla sua adolescenza qualche testo con cui ha stabilito immediatamente una forte sintonia: ci sono studenti che nel resto della loro vita non leggeranno quasi nessuno dei classici, ma che hanno vissuto un’esperienza estetica – e lo riconoscerebbero senza esitazioni – grazie ad alcune poesie di Leopardi o al Ritratto di Dorian Gray. Dunque la letteratura è accessibile a tutti?

Apparentemente sì. Ma riflettiamo meglio: per la maggioranza delle persone, anche colte, la letteratura è una porta stretta (o una stanza quasi vuota). Chi si è entusiasmato per Leopardi o per Wilde rinuncia disinvoltamente a leggere Proust e Musil, Rilke e Valéry. Per ogni testo che ha rappresentato un incontro felice ce ne sono dieci che si presentano irti di ostacoli: il lessico, la diversa visione del mondo, e soprattutto una complessità con cui i lettori non riescono a fare i conti. Ne derivano frustrazione, noia, abbandono. Com’è noto, alcuni classici della nostra lingua sono stati “tradotti” nell’italiano contemporaneo; ciò non è sufficiente però a renderli davvero contemporanei, nel senso di offrire un’esperienza emotiva e intellettuale attraente.

 

Siamo dunque di fronte a un paradosso: la letteratura è facile e difficile, accessibile in linea di principio a tutti, ma di fatto quasi inaccessibile per quanto riguarda molti testi. Concretamente: quanti studenti universitari sono in grado di leggere, provando piacere, il Tristram Shandy o Jacques le fataliste, l’Ulisse o La montagna incantata? È già improbabile che si entusiasmino realmente per Il rosso e il nero o per Moby Dick. Queste difficoltà ingigantiscono quando i classici vengono proposti a un pubblico più ampio, e meno “preparato”.

 

Vengo al secondo punto della mia riflessione: l’educazione alla lettura. Ancora una volta, non si tratta per nulla di qualcosa di semplice. I testi letterari sono oggetti multilaterali e difficili da afferrare: occorrono diverse prospettive per ciascuno di essi. Si può insegnare matematica, chimica: ma si può “insegnare letteratura”? Questa espressione appare bizzarra, se la si esamina con po’ di attenzione. Ciò che un insegnante di lettere può fare è creare le condizioni perché sia possibile un’esperienza estetica. Non la può imporre, ma la può favorire. In che modo?

Anzitutto, non producendo nuovi ostacoli! Non allontanando i suoi studenti da quella che è l’unica realtà della letteratura, e cioè i testi. Sto dicendo delle ovvietà? Temo di no, purtroppo. La letteratura è fatta di testi, e non di contesti: su quest’affermazione si potrà concordare. Perché, allora, gli studi letterari, in ambito universitario come nell’insegnamento scolastico, privilegiano i contesti? È accaduto così nel passato, quando si cercava il significato di un’opera nella vita dell’autore, nelle sue intenzioni dichiarate, nei rapporti di classe e nella politica; ed è così negli ultimi decenni, con il diffondersi dei cultural studies, quando si è cercato il significato dell’opera anche sul versante sessuale e razziale, e quando nell’intentio auctoris si sono voluti scorgere i pregiudizi ideologici.

 

Gli esiti più ignobili a cui è giunta la critica militante di impostazione “culturale” sono abbastanza noti: mi limito a ricordare le accuse di complicità con l’imperialismo rivolte a Conrad per Cuore di tenebra. Come è stato possibile che queste degenerazioni trovassero spazio? Solamente per i sensi di colpi dell’Occidente o per un' arretratezza teorica permanente, ostinata?

 

Veniamo alla domanda più difficile, ma non aggirabile. Ho detto che la letteratura è fatta di testi; ma che cos’è un testo? Lo sappiamo veramente? Ci sono stati veri progressi nella conoscenze di “come funziona” un testo letterario?

 

Mila Posthumus, The Reader, oil on stretched canvas,  2015. Private Collection.

 

Ritengo di poter rispondere in maniera non enfatica, ma sufficientemente decisa e sicura. La letteratura (così come l’arte in generale) è un’attività di cui abbiamo una comprensione parziale, e di cui probabilmente non chiariremo mai tutti misteri (soprattutto per ciò che concerne la creatività). Ma nel corso del XX secolo abbiamo compiuto alcuni progressi irrinunciabili. Abbiamo compreso che un testo non è una grandezza statica, bensì una grandezza dinamica: nasce dalla combinazione tra un artefatto e un oggetto virtuale. L’artefatto è l’opera così com’è (come la conosciamo attraverso la determinazione filologica): per esempio nessuno mette in discussione che la Commedia inizi con “Nel mezzo del cammin di nostra vita”; con oggetto virtuale si intende l’insieme delle possibili interpretazioni, che espandono il testo, gli permettono di non restare imprigionato nel contesto di origine, e lo fanno entrare in quello che Bachtin ha chiamato “il tempo grande”.

 

I testi letterari sono paragonabili a macchine che viaggiano attraverso le epoche, e che aumentano la loro forza e la loro complessità tramite questo viaggio. Attenzione, però: parliamo di virtualità anche perché non è mai scontato che un testo possa venir attualizzato (ancor prima di essere interpretato). Ogni nuova generazione deve riaccendere il motore che nella transizione epocale si è spento o rischia di spegnersi.

 

Questa è la responsabilità dell’istituzione universitaria e più in generale della scuola.

L’Università è all’altezza di questo compito? No, se non in misura assai limitata. L’Università ha sempre preferito i contesti ai testi: vale a dire che ha trattato quelle grandezze dinamiche che sono le opere letterarie come se fossero grandezze statiche, e ha favorito il dominio di una distorsione punitiva nei confronti della letteratura che possiamo chiamare contestualismo.

 

Vorrei prevenire gli equivoci. Non sto affermando che sia inutile occuparsi del contesto: non sto dimenticando che un’opera è anzitutto un artefatto, e ovviamente non nego che per la comprensione dell’artefatto sia necessario il contributo dei filologi, degli storici della lingua, ecc. L’errore devastante del contestualismo consiste nel voler ridurre un testo all’artefatto, negando la sua dimensione virtuale, la sua capacità di espandersi dinamicamente. Il contestualismo è una concezione pseudo-esplicativa e sostanzialmente punitiva nei confronti della letteratura. Dovremmo esprimerci in termini più forti: il contestualismo uccide la letteratura.

 

Questa è la mia diagnosi per quanto riguarda la decadenza degli studi letterari: sia chiaro che si tratta di una diagnosi “interna” all’istituzione universitaria, e che non considera altri fattori. Non perché non siano importanti, ma perché rischiano di costituire un alibi per le lacune e le devastazioni prodotte nel nostro campo di studi da chi crede di occuparsi di letteratura, e sembra non rendersi conto di quanto misera sia la prospettiva storico-culturale (vecchia e nuova) in quanto vorrebbe negare quella teorica e interpretativa. Eppure, se la nostra visione della letteratura è cambiata da un secolo a questa parte, lo si deve alla teoria della letteratura oltre che a quella dell’interpretazione.

 

Certamente, la teoria ha una storia che in questo momento non posso neanche tentare di riassumere. Ma c’è almeno un punto di grande importanza che va chiarito. La teoria è nata con alcune ambizioni “positivistiche”, come progetto di una scienza della letteratura: e la scienza è ricerca di leggi. Quasi sicuramente non esistono leggi nella letteratura, dunque quest’ipotesi va abbandonata. Non va abbandonata però l’attenzione al linguaggio letterario, creata dai teorici: se l’Occidente si è finalmente accorto, a metà del ventesimo secolo, che i testi letterari sono “oggetti-di-linguaggio”, e che tale linguaggio è incredibilmente complesso e fascinoso, ciò è avvenuto a partire da una rivoluzione iniziata con i Formalisti russi e proseguita con lo strutturalismo. Questa nuova attenzione al linguaggio produsse per un po’ di tempo una sorta di effetto paralizzante; ipnotizzati da un linguaggio che nessuno aveva mai studiato seriamente prima (con l’eccezione troppo parziale della stilistica, Spitzer, Auerbach, ecc.), quegli studiosi proposero un’estetica inadeguata: sostennero che la letteratura è un linguaggio intransitivo, cioè chiuso in se stesso e ammirevole per la sua costruzione, non per i rinvii ad alcuna situazione storica o sociale. 

Un critico, peraltro raffinatissimo, come Stefano Agosti esaltò i giochi del significante nella poesia sino a suggerire che la bellezza di una celebre poesia di Leopardi dipendeva da rapporti anagrammatici come quello tra “Silvia” e “salivi”. Su ciò non possiamo essere d’accordo. L’estetica intransitiva è cosa del passato. Oggi la letteratura è tornata a essere, per molti di noi, una forma di conoscenza.

 

“April is the cruellest month” (The Waste Land) è una proposizione vera? Ma se lo è, se aspira ad esserlo (Eliot non dice “secondo me, aprile è il più crudele dei mesi”), non lo è nel medesimo senso in cui possiamo attribuire verità a proposizioni come “la neve è bianca” o “il gatto è sul tappeto”. Quali sono dunque le verità della letteratura? È uno dei grandi problemi di cui si occupa la teoria, insieme alla filosofia, e a cui contribuiscono le intuizioni dei grandi scrittori così come quelle della critica letteraria più creativa (che esiste e continuerà a esistere).

 

La letteratura offre conoscenze sull’humaine condition (Montaigne) e dunque sul cuore umano. Ma non si evochino le emozioni contro l’intelligenza, quasi che delle emozioni si possa parlare solo emotivamente – molto peggio! tramite stereotipi emotivi. Al tradizionalismo dell’anti-teoria, che sovente accusa l’intelligenza di essere arida (penso all’articolo di Berardinelli su “Il sole 24 ore” di qualche settimana fa), e vorrebbe un approccio “spontaneo” all’opera letteraria, possiamo opporre l’obiezione che troviamo in Manzoni, nella scena dei Promessi sposi in cui fra Cristoforo sta per accomiatarsi da Agnese, Renzo e Lucia. Queste le sue parole: “Il cuor mi dice che ci rivedremo presto”. Commenta l’autore: “Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che accadrà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto”. Ascoltiamo il cuore, ma con prudenza (che sa il cuore? Appena un poco), lasciamoci guidare dalle emozioni, purché non siano usate per nascondere idee invecchiate, forme di critica desueta, abitudini intellettuali e pregiudizi che, a ben vedere, ci impediscono di accedere anche alla dimensione passionale dei testi.

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Testi letterari

Sculpture as place (of memory)

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“It starts with firing"

Entrando alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, il percorso espositivo concepito da Elisabetta Benassi accoglie lo spettatore con una stiratrice industriale dal titolo Prosperity. Con la sua concretezza metallica, l’oggetto ha un fascino retro-futuristico, reperto di un’antica civiltà aliena ormai inesorabilmente estinta, precipitato nell’atmosfera dopo un lungo viaggio siderale. Nella solitudine della sala espositiva sembra di sentire il respiro pesante del mastodonte meccanico, ingombrante e quasi commovente nella sua coazione a ripetere all’infinito lo stesso movimento.

 

Elisabetta Benassi, Prosperity, 2017. Macchina da stiro automatizzata, vapore / automate ironing machine, vapour, 157 x 100 x 120 cm. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Il lavoro analogico, la sua presenza materiale, aleggia nel progetto site specific It starts with the firing, nuovo tassello della ricerca di Elisabetta Benassi. Una ricerca che è una riflessione in divenire sulla memoria, l’utopia, l’archivio come dispositivo artistico. Una macchina dagli echi duchampiani che, nel progetto pensato per la Collezione Maramotti, mette in relazione la storia industriale del gruppo Max Mara con una vicenda che vide protagonista lo scultore Carl Andre nel 1972. Fu infatti in quell’anno che la Tate Modern di Londra acquistò per parecchie migliaia di sterline l’opera Equivalent VIII, composta da 120 mattoni. L’acquisizione scatenò le polemiche dell’opinione pubblica e dei giornali, che ridicolizzarono la scelta con articoli dai toni sarcastici. Gli stessi articoli furono raccolti da Andre che, in seguito, li donò alla Tate. In occasione della mostra, Benassi è andata a recuperare quei materiali, selezionandone alcuni stralci per farne manifesti, esposti in mostra e affissi per le strade di Reggio Emilia. Un’operazione che dilata lo spazio espositivo al di fuori dei luoghi specifici della Collezione, creando una forma-virus che intacca la memoria cittadina in maniera parassitaria, facendo collidere storie lontane nel tempo.

 

Courtesy Elisabetta Benassi.

 

Il rapporto tra scultura e scrittura, già centrale nell’esperienza concettuale, ritorna qui come uno dei percorsi d’indagine che l’artista propone allo spettatore. Le neoavanguardie hanno proposto un linguaggio spogliato dal suo significato, ridotto alla sola presenza visiva, con l’intento di utilizzarne gli elementi costituenti manipolandoli come un elemento plastico: parole come mattoni, singole unità costruttive. Lo stesso Andre ha lungamente esplorato l’utilizzo della parola, portando avanti per decenni una ricerca analoga a quella sulla forma. Rifiutando la prosa e concentrandosi sugli elementi costituenti del linguaggio, ha lavorato per aggregazione dando vita a quella che Riccardo Venturi definisce una “scrittura tabulare”.

 

Nel caso di Benassi invece la parola è prima di tutto prelievo, agente della memoria: il significato non viene eliminato per lasciare spazio alla pura evidenza grammaticale del segno, bensì viene estrapolato dal contesto e liberato, per innescare un processo di significazione svincolato dall’intenzione originale. Si può dire che assuma quindi una funzione di traccia, di indizio.

 

Elisabetta Benassi. Appunti per una mostra 02 / [Notes for a show 02], 2017. Courtesy Elisabetta Benassi.

 

Intervenendo contemporaneamente sull’archivio della Tate Modern e sulla storia lavorativa del gruppo Max Mara, Benassi mette in atto quella peculiare riscrittura della storia che è cifra della sua ricerca artistica. Un’alterazione spazio-temporale, nella quale il ritmo lineare del tempo viene arrestato per innescare una deviazione narrativa, che non disambigua ma anzi problematizza lo statuto delle cose, moltiplicando le possibilità interpretative. Il tempo desueto della produzione e quello contemporaneo dell’iper-informazione entrano in stallo. L’oggetto tecnologico perde la sua funzione e assume la forma di un ready made non citazionista: ecco quindi la stiratrice industriale, i tappeti che si “arrampicano” su un muro, i brandelli di tessuto che attraversano il tempo e si risvegliano a nuova vita, di nuovo i mattoni. C’è un tentativo di contrastare un processo di perdita di “corpo” dell’immagine, riavvolgendo il nastro dal punto in cui si è trasformata in simulacro e si è riprodotta neoplasticamente. È

un’utopia, ma con la pervicacia di un ultimo soldato che non ha udito il messaggio di resa e difende la trincea, Benassi mette in atto una resistenza contro lo svuotamento di significato dell’immagine stessa.

 

Revenant.

Affrontando il corpus delle sue opere spesso si è scomodata la categoria degli spettri, ma bisognerebbe forse chiamare in causa la figura del revenant, con tutta la sua forza archetipica. La ri-messa in scena di elementi cristallizzati in una forma e in un significato assodati nel tempo pone lo spettatore di fronte a quella condizione di spaesamento che assomiglia molto a quel perturbante che si insinua in colui che accoglie il ritorno a casa del “ritornante”: un senso di angoscia legata alla certezza del conosciuto che si sgretola, la paura di affrontare una estraneità in ciò che è più familiare, il timore della sostituzione dell’oggetto affettivo con un feticcio maligno. Non ultima, la paura del ritorno da una zona d’ombra –  la morte come paradigma di stasi a cui solo la memoria ha diritto di accesso –  e il timore della trasfigurazione di un oggetto (o soggetto) in un agente estraneo e incontrollabile.

 

Elisabetta Benassi. Zeitnot, 2017. Cinquemila mattoni refrattari inglesi / five thousand English firebricks, 175 x 500 x 380 cm. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Ecco, questo timore atavico smuove lo spettatore e lo invita a entrare in relazione con le opere accettando la disfatta delle proprie certezze, facendosi carico della responsabilità di costruire in autonomia un nuovo senso da assegnare alle cose, abbandonando la condizione rassicurante del passato per partecipare all’evento che non può che essere qui e ora. Un presente che è la condizione del lavoro di Benassi, teorizzato da Walter Benjamin nella sua accezione di rifiuto del tempo continuo di produzione capitalista e condizione necessaria al balenare dell’immagine d’arte – e oggi drammaticamente attuale, tramutato in un flusso continuo di lavoro astratto, de-corporeizzato, parcellizzato – e come momento di sacralità laica in cui il tempo diviene accadimento liberato. Una forzatura temporale che aveva inchiodato al muro come un Cristo alla croce il libro di Antonio Gramsci edito nel ‘51, nell’opera Passato e presente (2013), o che aveva fatto deflagrare il singolo istante in Arreter le jour (2014), performance in cui l’artista  sparava letteralmente a degli orologi. Un presente espanso e in cui la non-linearità interpretativa obbliga lo spettatore a fare i conti con la complessità del reale.

 

Intervistata durante la Biennale 2011, l’artista disse “Ognuno compone la sua storia, fatta di fatti veri, di fatti contraddetti.” A partire da questo assunto è più facile capire l’interesse espresso per l’idea dell’archivio e della documentazione come pratica immaginaria – esplorata ad esempio in Memorie di un cieco, (2010) – temi che si innestano nell’edizione di Fotografia Europea 2017, intitolata  Mappe del tempo. Memoria, archivi, futuro., cornice del progetto della Collezione. Un lavoro interpretativo che chiama ogni spettatore ad assumere un nuovo punto di vista, a porsi delle domande e a mettersi in moto, rinunciando a una condizione statica per passare a un equilibrio dinamico, seguendo un percorso che si delinea durante il cammino, di domanda in domanda, e che non garantisce l’approdo ad alcuna certezza.

 

Il lavoro o ciò che ne resta,

Una colonna di mattoni sghembi con impressa la parola “Empire”, sulla cui sommità sono incastrati un paio di guanti da lavoro e, zeppe di legno a contrastare la pericolosa inclinazione che preannuncia un disastroso crollo: è Infinity, l’opera che richiama La Colonna senza fine di Costantin Brancusi, padre putativo del minimalismo, ma anche e soprattutto Manifest Destiny (1986) di Carl Andre.

 

Elisabetta Benassi, Infinity, 2017. Bronzo, cunei in legno, guanti/ bronze, wood wedges, gloves, 310 x 40 x 47 cm, particolare / detail. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Tra le sale aleggia una presenza le cui spoglie sono proprio quegli stessi mattoni, quei luoghi e quelle macchine ormai destinate a usi ben diversi da ciò che era la loro funzione originale. È  il fantasma del lavoro, la scomparsa dell’industria e il conseguente vuoto –  sociale, politico, culturale  – che questo lutto lascia dietro di sé. Non a caso il titolo dell’esposizione gioca sul doppio piano dell’elaborazione artistica e sulla parola “firing” che indica il licenziamento, richiama il collasso del mondo operaio, il tramonto dell’era industriale e delle “magnifiche sorti e progressive” che ha segnato il Novecento. La ricerca della Benassi come una seduta spiritica, in cui vengono evocati e predisposti all’incontro con il presente gli spettri del terrorismo, del marxismo, del femminismo, del fascismo, della rivoluzione, del minimalismo, di Walter Benjamin, Marx, M’Fumu, Pasolini, Gramsci, Aby Warburg, Lyotard, Angela Davis, Derrida, Mario Merz, Buckminster Fuller e di quel “Quarto Stato” ormai feticizzato, con le masse di operai che marciano solo nei fotogrammi dei documentari d’epoca. Quella classe operaia che non è andata in paradiso e oggi stenta a trovare le coordinate di un mondo post-industriale.

 

Elisabetta Benassi, It starts with the firing, 2017. Cinque elementi metallici, manifesti, traccia audio / five metal elements, posters,audio track, dimensioni variabili / variable dimension. Courtesy Collezione Maramotti © Elisabetta Benassi. Ph. Andrea Rossetti.

 

Gli enigmi che l’artista pone allo spettatore, ricollocando oggetti di uso quotidiano, sovvertendone l’uso, rimescolando le carte che compongono la memoria sembrano suggerire con disincanto la necessità di un approccio critico verso la realtà storica, che abbia la forza di coglierne le incongruenze e il relativismo. Il pensiero forte è ormai un ricordo lontano e anche il pensiero debole è già alle nostre spalle. Ideologie e sistemi filosofici si sono susseguiti per poi crollare sotto la spinta del tempo. La consapevolezza che i mattoni più solidi che compongono l’architettura della nostra civiltà non siano assoluti ma possano un giorno assumere improvvisamente un valore che neghi o contraddica il significato originario attribuitogli, è qualcosa di innegabilmente malinconico. Al contempo, tale consapevolezza ci dona il distacco necessario a cercare con costanza un senso nella realtà, nell’accadere, ponendoci in una posizione di presenza attiva nel mondo. Mettere in atto una forma di iconoclastia dolce, cancellando le immagini per renderle di nuovo visibili. Togliere significato alle parole, per farlo riaffiorare, come fecero i poeti visivi. Rimettere in discussione il paradigma della forma, ancora e ancora, per costituire un linguaggio installativo/performativo che rinunci alla narrazione storica, assodata e consensuale, dando spazio ad altre possibilità di senso, attraverso la riscrittura dell’esperienza. Un’eresia poetica, carica di forza politica.

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Elisabetta Benassi alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia

Capitale 2.0

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150 anni fa, alla fine del 1867, Karl Marx ha dato alle stampe in Germania il primo volume della prima edizione di un’opera destinata a diventare centrale nella cultura occidentale: Il Capitale. Quest’opera, com’è noto, ha avuto un enorme impatto, al punto che da essa sono nati partiti politici, movimenti sociali e anche moti rivoluzionari. Ma il capitale a cui guardava Marx era quello che veniva prodotto dalle grandi fabbriche ottocentesche. Ben diverso da quello che si può chiamare il “capitale 2.0”, cioè quello che esce dai numerosi “clic” e dalle centinaia di parole che ogni persona produce quotidianamente sulle sue tastiere. È il capitale che le aziende del settore digitale sfruttano oggi in maniera elevata. E tra queste aziende Google rappresenta un caso particolarmente interessante, perché può essere considerato esemplare. Si spiega così perché è già stato analizzato da una vasta letteratura internazionale e ora ci prova anche un gruppo di studiosi italiani di orientamento semiotico nel volume curato da Vincenza Del Marco e Isabella Pezzini e intitolato Nella rete di Google (FrancoAngeli). 

 

Un volume che cerca di mettere a fuoco i principali aspetti di Google, ma deve fare i conti con il fatto che le aziende del digitale presentano un’elevata complessità. È faticoso perciò fornirne un’unica chiave interpretativa e non ci riesce neanche questo libro. Permette però di capire perché i programmi informatici siano diventati da diversi anni un elemento strutturale del sistema economico delle società avanzate. A partire dagli anni Settanta, infatti, tali programmi si sono velocemente diffusi grazie al crescente impiego del personal computer e allo sviluppo delle reti. Negli ultimi decenni però essi, nati all’interno del mondo digitale, sono progressivamente usciti da tale mondo e hanno sempre più prodotto degli effetti anche nel contesto culturale e sociale in cui operano, configurandosi perciò come un potente agente di trasformazione. Si può sostenere cioè che siamo di fronte al passaggio a un «capitalismo del software», ma è possibile anche parlare dell’instaurarsi di una vera e propria «società del software». 

Se ciò avviene, è perché i programmi informatici contengono delle sequenze d’istruzioni che fanno funzionare tutti i principali ambiti della vita contemporanea.

 

 

Il software, infatti, si presenta come la «matrice» protagonista della trilogia di film Matrix diretta dai fratelli Wachowski: un elemento che non si vede, anche se è quello che fa funzionare l’intero mondo economico e sociale. Infatti, una delle sue principali caratteristiche è quella di operare in spazi nascosti alla vista, di solito collocati all’interno degli strumenti che vengono utilizzati dagli esseri umani. Del software però non possiamo fare a meno. Anzi, esso, come ha scritto Lev Manovich in Software culture (Olivares), «ricopre oggi la stessa importanza che avevano l’elettricità e il motore a scoppio nel Ventesimo secolo» (p. 10). A differenza di questi, però, il suo carburante è costituito prevalentemente dai dati e dalle informazioni. Certo, ha bisogno anche di sfruttare le tradizionali fonti di energia, ma basa la sua produzione di valore economico sulla raccolta e sul trattamento dei dati. E i dati, rispetto ad esempio al petrolio, hanno la qualità di non esaurirsi mai. È necessario solamente che vengano fatti circolare, che “zampillino” in continuazione da “oleodotti digitali” come Google. Ci penserà poi il software a “raffinarli”, a trasformarli cioè in valore economico. 

 

Ne deriva che il software, pur essendo scarsamente visibile, è dotato di una sua materialità. Si può anche dire che ha una natura materiale articolata, la quale va dalla necessità di disporre di strumenti per la sua produzione alle conseguenze concrete che produce su ambienti e processi. Per funzionare però ha bisogno soprattutto di raccogliere dati e informazioni e questi sono relativi di solito alla vita privata delle persone. Spesso vengono forniti consapevolmente, ma va anche considerato che lo spazio sociale si sta riempiendo di sensori di vario genere collocati in oggetti che sorvegliano e registrano tutto quello che le persone fanno quotidianamente. Si raccolgono così enormi quantità d’informazioni sugli individui, che vengono identificati con sempre maggior accuratezza sia per quanto riguarda le loro caratteristiche biologiche e comportamentali, che per quello che è relativo al loro stato emotivo. 

 

La promessa che viene fatta è sempre quella ed è irresistibile: poter migliorare qualcosa della propria situazione: la salute, la longevità, la sicurezza, le relazioni sociali, le prestazioni professionali, ecc. Pertanto, le persone partecipano attivamente a questi processi fornendo i propri dati. In maniera estrema, come nel cosiddetto movimento del «quantified self», i cui appartenenti rivendicano con forza la volontà di misurare attraverso gli strumenti digitali tutto quello che fanno nella loro esistenza. Ma anche, più in generale, accettando che, in cambio di qualche vantaggio, vengano portate avanti dalle imprese digitali delle politiche di misurazione sistematica di tutto ciò che riguarda la loro vita. Le persone, così, vengono puntualmente registrate e analizzate attraverso, ad esempio, i circa due milioni di parole che ogni minuto scrivono sul motore di ricerca di Google, impiegato in Europa il 90% delle volte. Oppure attraverso dispositivi indossabili o portabili come smartphone, bracciali e orologi. Il corpo umano viene misurato con precisione per quanto riguarda i segnali di tipo chimico, elettrico, meccanico o termico che emette. E anche grazie ai suoi gesti e movimenti nello spazio. La complessità della dimensione umana viene ridotta alla semplicità di quella corporea. Non è importante cioè quello che il cervello pensa ed esprime, ma quello che il corpo emette.

 

A patto naturalmente che possa essere misurato. Ci penseranno le nuove tecnologie sensoriali, con il loro software, a raccoglierlo e interpretarlo. Come ha scritto Cosimo Accoto nel recente Il mondo dato (Egea), «L’intervento e la partecipazione dell’uomo in questi nuovi contesti tecnologici di sensing non sono necessari: c’è produzione di sensorialità e di esperienza a prescindere dalla presenza e dall’attività umana diretta. Sistemi di intelligenza e analisi dei dati vengono attivati in automatico e in maniera artificiale per produrre senso e azione dai dati raccolti» (p. 52). L’essere umano vede così indebolirsi l’importanza della sua presenza e l’intero suo corpo viene progressivamente trasformato in input per il sistema economico e sociale. Il quale progressivamente migliora la sua capacità di analisi e comprensione. Al punto che alcuni oggi teorizzano che le macchine arrivino a comprenderci meglio di quanto noi stessi ci conosciamo. 

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Società del software

Touch

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Se si cerca sui dizionari oggi in commercio la parola “aptico”, non la si trova, o almeno non in tutti. Eppure il termine indica qualcosa di fondamentale nell’azione del toccare. L’etimo della parola è “tocco”; Haptikos il termine greco da cui deriva. Indica la capacità di “venire in contatto con qualcosa”. Il termine inglese equivalente è “Touch”, anche se non ha la medesima origine etimologica, termine che certamente tutti conoscono facendo uso di quel “tocco” ogni giorno, più volte al giorno, manipolando i dispositivi elettronici: smartphone e tablet.

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Il gran teatro delle illusioni

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Brian Friel (1929-2015) è stato uno dei più grandi drammaturghi di lingua inglese, le cui opere sono state regolarmente rappresentate nei maggiori teatri del mondo, quasi sempre partendo dall’Abbey Theatre di Dublino, per poi approdare al London’s West End e a Broadway. Dopo i primi successi in Irlanda, il pieno riconoscimento internazionale arriva con Philadelphia Here I Come (1964), a cui seguono, tra le altre, Lovers (1967), The Freedom of the City (1973), Faith Healer (1979) e Translations (1980). Dal suo Dancing at Lughnasa, del 1990, vincitore di tre Tony Awards tra cui miglior opera, il regista Pat O’Connor ha tratto il celebre film omonimo, con Meryl Streep. Friel è stato il fondatore, insieme all’attore Stephen Rea (vi aderirà poi anche Seamus Heaney), della Field Day Theatre Company, una compagnia di teatro itinerante che si proponeva di creare uno spazio di unità per gli irlandesi, in risposta alle lotte intestine tra cattolici e protestanti, repubblicani e unionisti che hanno insanguinato l’isola fino ad anni recenti.

 

È uscita ora per Marcos y Marcos la raccolta di racconti Tutto in ordine e al suo posto, traduzione e cura di Daniele Benati, autore anche di una ricca postfazione, a cui rimando. Il libro unisce dieci storie brevi uscite sul New Yorker e sul Saturday Evening Post a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, poi pubblicate da Friel prima con il titolo di Selected Stories (1979) e poi con quello di The Diviner (1983), di cui quest’edizione ha anche il merito di conservare il rapporto con l’immagine di copertina, entrambe dell’artista irlandese Martin Gale. I racconti di Tutto in ordine e al suo posto dunque precedono e preparano il successo di Friel come drammaturgo. Leggendoli risulterà chiaro, ma sempre sorprendente, perché a un autore irlandese ancora sconosciuto fosse concesso di scrivere sul New Yorker, in un’epoca in cui ci scrivevano, fra gli altri, Philip Roth e John Updike. Tanto più sorprendente se si pensa che Friel adotta una forma tradizionale di short story, facendo un passo indietro rispetto allo sperimentalismo di Samuel Beckett e Flann O’Brien, ispirandosi invece ai grandi scrittori russi dell’Ottocento, come Čechov e Turgenev, che rappresenterà anche a teatro.

 

 

Quelli raccolti in Tutto in ordine e al suo posto sono racconti magistrali per la facilità che Friel ha nel far entrare immediatamente il lettore dentro la storia nelle primissime righe di ogni racconto, come se si accendesse una luce sul palcoscenico. I personaggi si rivelano via via con piccoli tocchi, che finiscono col creare in chi legge l’impressione di conoscerne per intero le vite – come avviene solitamente in un romanzo, mentre qui Friel lo fa nella forma breve del racconto. Friel disvela a poco a poco i personaggi attraverso brevi cenni, che richiedono estrema attenzione: tutto conta in questi racconti, nessun particolare è casuale o superfluo. Friel infatti non spiega, preferisce rappresentare i suoi personaggi lasciandoli muovere sulla scena che la sua scrittura ricrea con grande sapienza: è dai loro gesti, dai loro atteggiamenti, dalle frasi ripetute e dai pensieri rivelati che chi legge capisce dove si andrà a parare e che cosa Friel ci sta dicendo.

 

Friel lavora soprattutto per immagini e la resa psicologica sta proprio nei dettagli descrittivi: è tramite i dettagli esteriori che si aprono squarci sull’interiorità dei personaggi, ponendo il lettore di fronte a situazioni che sono certamente familiari a ciascuno, ma che raramente si tende a riconoscere: l’affettuosa riconnessione con un luogo del passato, il tentativo di salvare le apparenze, l’invidia per l’altrui condizione, il desiderio di primeggiare per rimediare ad altre mancanze, l’immaturità sentimentale o emotiva. Leggendo si riconosce con chiarezza l’Irlanda povera e rurale degli anni ’40: la pesca illegale di salmoni, i bambini raccoglitori di patate, le comunità chiuse e bigotte (il vociare di paese è reso splendidamente da Friel nel suo autogenerarsi, gonfiarsi, diffondersi rapidamente e scoppiare nel nulla), smascherate da figure di marginali, ciarlatani, maghi o rabdomanti. Si sentono i suoni del gaelico, si riconoscono i paesaggi irlandesi tra le colline e l’Atlantico, le torbiere, le valli delle allodole e le varie contee, città e villaggi, da Tyrone al Donegal, da Omagh a Killarney, da Dublino a Cork. Eppure queste storie mettono in scena una varietà di temi e situazioni di tale umanità che potrebbero essere capitate ovunque, a chiunque e in qualunque epoca.

 

Sono racconti che parlano del rapporto col tempo che passa, coi ricordi, del rapporto con gli altri e con noi stessi, ma soprattutto dell’immenso e contraddittorio potere dell’immaginazione che plasma la memoria, che può creare maschere, finzioni e malelingue, alimentare fissazioni e manie, ma anche dare vita a giochi e magie, generare fantasie e progetti futuri, proteggere dall’asprezza del vivere, rassicurare dalle paure, persino far vedere un possibile superamento della morte, nel ripetersi della vita in chi viene dopo di noi.

 

È ciò che accade ad esempio in Fra le rovine, dove il rapporto col tempo si dipana in tutti i suoi aspetti: partendo dal ritorno del protagonista Peter alla casa dove aveva trascorso l’infanzia, si passa prima attraverso l’immersione completa nel passato immaginato (con tanto di imbambolamento nei pensieri e risa tra sé, come se Peter rivivesse ciò che è stato), si piomba poi nella delusione causata dalla privazione del passato idealizzato di fronte alla verità del luogo nel presente e si scopre infine il passato ritrovato, cioè il senso del passato come continuità, come ripetersi della vita, resa dall’immagine del figlio che gioca nel luogo dove Peter giocava da piccolo. Sono temi anticipati già in Foundry House, dove però il protagonista Joe Brennan, tornato a vivere nella casa della sua infanzia, sceglie di non affrontare il dolore del tempo che passa, trincerandosi dietro l’illusione di un’assenza della dimensione temporale, di una fissità del tempo e delle persone: così negherà l’evidenza degli effetti del tempo sul vicino di casa signor Bernard, ormai vecchio e malato e quasi incapace di parlare.

 

Le illusioni, come prodotto dell’immaginazione, sono ovunque nel libro: dall’illusione di potersi ricreare una onorabilità di Nelly Devenny in Il rabdomante, al racconto Gli illusionisti, dove i trucchi del mago nomade M L’Estrange incantano gli alunni della scuola elementare del piccolo paese di Beannafreaghan e generano nel bambino narratore la voglia a sua volta illusoria di seguire il prestigiatore nei suoi pellegrinaggi. Qui si vede anche la straordinaria sapienza narrativa con cui Friel restituisce l’incomunicabilità tra il padre del bambino e il prestigiatore, con la trovata tragicomica (e già teatrale) del passaggio dal dialogo ai monologhi simultanei e paralleli con cui i due espongono i rispettivi presunti meriti, senza ascoltare quello che dice l’altro.

 

Walter Frederick Osborne, Near Saint Patrick's close Dublin, late 1890s.

 

Le illusioni tornano altrove sotto forma di ambizione, brama di possesso o di vittorie, ad esempio nei “racconti di animali”, l’illusione di vincere una gara di colombi con metodi innovativi in Il sistema della vedovanza, o di allevare il gallo più forte d’Irlanda in Ginger l’Eroe, o ancora la brama di succedere all’anziana suocera come proprietario di una ricca fattoria nel racconto, che dà il titolo al libro e chiude la raccolta, Tutto in ordine e al suo posto. Episodi che mascherano i misteri interiori dei protagonisti. E ancora illusioni che alleviano le pesantezze, come nei pescatori di L’oro in fondo al mare, che credono al racconto del vecchio Con di una barca naufragata piena di lingotti, convinzione/illusione che è bene non spezzare, perché gli permette di sopportare le fatiche del loro mestiere.

 

Gli uomini dei racconti di Friel sono del resto spesso ambiziosi e un po’ sperduti, inseguono idee balzane e poco concrete, mentre le donne incarnano la praticità, pur nell’estrema varietà delle figure femminili che appaiono in questi racconti: la solo apparente spensieratezza di Annie e la concretezza della sorella Min, la cura dei propri affetti e insieme la forza di Margo in Fra le rovine, la follia della signora MacMenamin, l’attesa e la delusione di Nelly Devenny, la calma e la risata di Judith Costigan, le maniere spicce di Rita in Foundry House.

 

La traduzione di Benati permette di notare tutto questo, facendo apprezzare al lettore italiano la precisione della lingua di Friel. Non poteva essere altrimenti, sia per la conoscenza che Benati ha dell’Irlanda, dove ha insegnato e vissuto, sia per la sua lunga attività di traduttore: Benati ha lavorato nel tempo sull’opera di molti autori di lingua inglese, da Mark Twain a Jack London, da Delmore Schwartz a Flannery O’Connor, con particolare predilezione proprio per gli irlandesi, da James Joyce a Flann O’Brien. Eppure questa è forse la sua traduzione più bella, perché qui Benati mostra tutta la sua sensibilità nel restituire con grazia e delicatezza il testo originale in un italiano vivo, non artificiale, e al contempo efficace per il lettore italiano e rispettoso dello stile adottato dall’autore.

 

La passione di Benati per la lingua, che emerge con evidenza nella sua attività di scrittore, lo mette al riparo dal pericolo di soverchiare l’autore che si mette a tradurre. All’abbellimento, al discorsivo, Benati preferisce una maggiore aderenza all’originale, persino nella struttura sintattica, per dare più concretezza alla lingua e potenza alle immagini. Allora Benati muove le frasi solo quando necessario, per esempio per rendere scorrevole un brano, ma preferisce di solito rimanere più vicino all’originale, ricorrendo agli incisi. È così che, nella traduzione da poco uscita, si mantiene splendidamente l’andamento tipico di questi racconti di Friel, gli incipit fulminanti e il tono pacato e non giudicante che segue senza forzature lo scorrere dell’esistenza. 

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Brian Friel tradotto da Daniele Benati

Oltre il museo e la funzione autore

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Il museo dopo il museo.
Il museo è il figlio prediletto della modernità. Più esattamente di quella particolare concezione del tempo che si è andata strutturando come secolarizzazione dell’escatologia ebraico-cristiana dandosi come proiezione «futurologica» nella doppia versione progressista e rivoluzionaria. «Domani accadrà», ripete la canzone moderna, e a quel domani ci arriveremo, progressivamente appunto, poco a poco, o con un salto rivoluzionario che scardina il continuum della storia, ma comunque ci arriveremo.

Nel frattempo, mentre la colonizzazione del futuro si organizza, il presente può attendere, lo si può sacrificare in virtù di un domani migliore, e il passato invece occorre conservarlo. Certo per salvarlo dalla tempesta della storia che tutto travolge e dimentica, ma conservando il passato si finisce anche per neutralizzarlo. È così che nasce il museo – da questa particolare concezione del tempo al di fuori della quale non si sarebbe dato come istituzione culturale – e con questa particolare missione sociale: conservare il passato, tesaurizzarlo, e controllarne la memoria. Farne «monumento» da ammirare e contemplare. Ed è così che il passato diventa un’ossessione.

 

Gian Maria Tosatti,  Hotel sur la lune, 2o11.

 

Nessuna cultura, nessuna civiltà, è stata catturata dalla mania di conservare e «monumentalizzare» il passato tanto quanto la nostra. Quando poi la modernità si è esaurita, o meglio si è esaurita la sua spinta «futurologica», della trama stessa del moderno sono rimasti solo il presente, vissuto come eterna ripetizione dell’identico, e il passato esploso come «revival», ed è allora che la memoria inizia a occupare il centro della scena culturale diventando industria. Ecco quindi che la mania conservativa e collezionistica si diffonde ancora di più, e nell’epoca postmoderna – ovvero una modernità senza le speranze e i sogni che avevano reso tollerabile la modernità – il museo sussunto dal capitale globale si moltiplica, diventa spettacolo, giostra luminosa a uso e consumo del turismo culturale. Quando poi il capitalismo finanziario è attraversato da crisi di assestamento, in alcune province dell’impero è costretto a dismettere gli investimenti pubblici nel settore culturale, allora i musei spengono le luci e si arenano come tristi relitti ai bordi della metropoli.

Eppure non tutto è perduto, ed è sempre possibile pensare un altro museo che liberi il passato dalla prigione della memoria e ci aiuti a guarire da quella nevrosi del tempo che ci costringe a vivere catturati nella passione turistica per il passato e nella sindrome ansiogena della fretta. Il museo, oltre il moderno e il postmoderno, non può più essere il luogo separato della conservazione, del monumento e della memoria identica a se stessa. Nel tempo e nello spazio che vengono, occorre trasformare il museo in una «istituzione del comune» dove sperimentare nuovi modi di vivere fuori dal comando capitalista, bisogna farlo diventare uno spazio che liberi la metropoli dal tempo della miseria. È possibile, allora, immaginare e costruire un museo che pensi la memoria come risorsa antagonista e il presente come produzione di mondo liberato.

Ed è quello che cerca di fare il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, un esperimento nato nel 2011 all’interno di una ex fabbrica occupata a scopo abitativo e diventato nel frattempo un museo-non museo, un museo abitato, indipendente e senza finanziamenti. Un’opera d’arte collettiva e, in questo senso, un dispositivo che mette in questione la funzione autore, puntando sulla potenza dei molti che qui sono arrivati alla ricerca di uno sguardo «unheimlich» e di uno scarto laterale rispetto al mondo che gira intorno alle categorie, ormai desuete, di «soggetto» e «oggetto», e quindi di «autore», puntando invece su quella «relazione costante» che ognuno di noi è.

 


Davide Dormino, Editto, 2013. 

 

Qual è il nome dell'autore?

Hans Jürgen Krahl nelle «Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria» del 1969 scriveva che «la distruzione della coscienza culturale tradizionale apre la strada alla liberazione dalle finzioni idealistiche della proprietà, e ciò rende possibile anche ai produttori scientifici di riconoscere nei prodotti del loro lavoro il potere oggettuale ed ostile del capitale e, in se stessi, degli sfruttati […] i componenti dell'intellighenzia scientifica, allora, non possono più intendere se stessi [...] come possessori per così dire intelligibili della kultur, come produttori di rango superiore, di rango metafisico»[1]. Intuizioni profetiche – poi ulteriormente sviluppate dalle lotte e dal pensiero autonomo e postoperaista – che, nell'emergere dell'intellettualità di massa e del lavoro cognitivo diffuso, riconoscevano il tramonto dell'autore e dell'intellettuale.

Insomma tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta sembrava davvero prendere corpo la battaglia di quelle avanguardie che avevano messo in discussione la funzione autore, in musica, in pittura, nel cinema e anche nella filosofia. Sembrava veramente venire meno quell'«errore» chiamato «autore», risultato sempre e soltanto dell'ingiusta divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. E invece... La controrivoluzione ha saputo giocare la sua partita a scacchi con quella grande trasformazione produttiva che ha sostituito le officine Putilov con la Silicon Valley, e le tute blu con i nuovi operai intellettuali del Politecnico, e subito ha rimesso in campo la funzione autore sulla quale ha giocato la sua fortuna. Ha rimesso in moto una «ipersoggettivazione» individualista, narcisista, cinica e caricaturale. È qui, probabilmente anche qui, l'origine dell'infelicità diffusa nel lavoro artistico, un lavoro attraversato dalla competitività neoliberista fatta di prestazione, autosfruttamento, continua valutazione di sé, e promozione strategica della propria aura.


E questa mossa, tattica e strategica, del neoliberismo l'aveva individuata subito Gilles Deleuze in una straordinaria intervista del 1977 a proposito dei «Nouveaux Philosophes». All'intervistatore che gli chiedeva cosa pensasse di questa nuova schiera di giovani pensatori, per lo più ex-maoisti e normalisti, Deleuze rispondeva subito: «Nulla. Credo che il loro pensiero sia nullo», ma poche righe dopo aggiungeva, impietoso e tagliente, che «più fragile è il contenuto del pensiero, più acquista importanza il pensatore, e tanto più grande è l'importanza che si attribuisce il soggetto d'enunciazione rispetto agli enunciati vuoti». Insomma dopo l'avanguardia che aveva messo in discussione la funzione autore si assisteva a un significativo «ritorno a un autore o a un soggetto vuoto e alquanto vanitoso», ritorno che rappresentava «una sgradevole forza reazionaria»[2].

 

Davide Dormino, Scala reale, 2014. 

 

Ma se smontiamo il paradigma autore, proprio come un giocattolo, e cerchiamo di capire come è costruito, ci renderemo conto che il suo meccanismo è attivato da un'altra parola magica e tipicamente moderna: «artista». Prima del moderno l'artista coincideva con l'artigiano e il suo contrassegno era l'anonimato come nella cultura bizantina e nell'Europa nascente dell'anno mille, dove l'artista era stato, artigiano tra gli artigiani, un costruttore di cattedrali. La nascita dell'artista andrà invece di pari passo con l'imporsi del nome proprio e col suo graduale emanciparsi dal monopolio corporativo. Mentre nel caso dell'artigiano il valore estetico faceva tutt'uno con la perizia del mestiere e con la padronanza tecnica, l'opera d'arte moderna sarà definita dal segno di un genio individuale come in Giotto, il pittore «borghese» che inaugura lo spettacolo moderno dell'arte. L'artista diventerà insomma un creatore, e quindi il prototipo del soggetto moderno, l'individuo artefice della propria fortuna. In effetti il processo di emancipazione del soggetto moderno, che trova in Cartesio la sua sanzione metafisica, si completa con il processo di soggettivazione dell'artista. Pronto, dopo la secolarizzazione e il fallimento delle utopie rivoluzionarie del Novecento, a essere sussunto dal capitalismo semiotizzato.

 

E proprio l'artista, in quanto incarnazione della libertà di creare, è diventato – con l'imporsi del nuovo paradigma produttivo postfordista, l'affermazione del lavoro autonomo e dell'autoimprenditorialità – il paradigma del «capitale umano» e del lavoro cognitivo diffuso. Il postfordismo funziona chiedendo al lavoratore creatività, innovazione e quindi libertà. «Siate artisti!» è l'ingiunzione che il capitale lancia ai lavoratori intellettuali che iniziano a popolare le metropoli occidentali alla fine degli anni Settanta. Certo, il neoliberismo funziona mettendo a valore la cooperazione produttiva, eppure la sussunzione di quel «comune» che noi siamo fa perno sempre sulla messa a valore dell'individualizzazione, cioè sulla divisione e valorizzazione delle molte e diverse «aureole» individuali: quelle, appunto, di ogni singolo autore.

 


Giuliano Lombardo, Aeroflessibile, 2016. 

 

Ma anche qui non tutto è perduto, e qualcosa nasce al di là dell'autore e della sua valorizzazione neoliberista, qualcosa che ricorda quel movimento collettivo e potente di costruttori di cattedrali evocato prima, un movimento tellurico profetizzato molti anni fa da un poeta che cantava i molti Alì dagli occhi azzurri che sarebbero arrivati nelle nostre città:

 

«Alì dagli Occhi Azzurri, uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camice americane [...] Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi [...]. Essi che vissero come banditi in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, essi che si costruirono leggi fuori dalla legge, essi che si adattarono a un mondo sotto il mondo [...] dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri — usciranno da sotto la terra per rapinare — saliranno dal fondo del mare per uccidere, — scenderanno dall'alto del cielo per espropriare — e per insegnare ai compagni operai la gioia della vita — per insegnare ai borghesi la gioia della libertà — per insegnare ai cristiani la gioia della morte  — distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento andranno come zingari su verso l'Ovest e il Nord con le bandiere rosse di Trotzky al vento...»[3]


Ecco allora, oggi l'autore è, o meglio gli autori sono, tutti gli Alì dagli occhi azzurri, e con loro quelle migliaia e migliaia di uomini, che, come gli artigiani delle cattedrali, oggi come ieri, stanno scrivendo, ogni giorno, la storia della nuova Europa. E questo museo, ovvero questa cattedrale, è una delle loro bellissime case, una casa che abitano e costruiscono insieme a tutti quegli artisti consapevoli che solo questo movimento «mostruoso» e creatore che attraversa il continente potrà liberarli dall'ambivalenza e dall'infelicità della loro condizione «indivisa». Infine, l’esperimento messo in campo dal MAAM, scommettendo sulla «relazione», è quello di costruire una cattedrale del comune nella consapevolezza che «l’arte non può vivere che dentro un processo di liberazione» e che «per costruire arte bisogna costruire liberazione nella sua figura collettiva»[4].

 

Questo testo fa parte del volume «MAAM – Museo dell'Altro e dell'Altrove di Metropoliz_città meticcia», catalogo pubblicato dalle edizioni Bordeaux in occasione dei 5 anni di vita del museo-abitato, nato a Roma nel 2012.



[1]     Hans-Jürgen Krahl, Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria in Id. Costituzione e lotta di classe, Jaca Book (1973).

[2]     Gilles Deleuze, A proposito dei nuovi filosofi e di un problema più generale, in Id., Due regimi di folli e altri scritti. Testi e interviste 1975-1995, Einaudi (2010).

[3]     Pier Paolo Pasolini, Profezia in Id. Le Poesie, Garzanti (1975).

[4]     Toni Negri, Arte e multitudo, DeriveApprodi (2014).

 

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Costruttori di cattedrali

L’arte di Trevor Paglen

Ad ognuno la sua rosa

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Non son che rovi. Ma non le estirpiamo, anzi: non v’è giardino che non le esibisca, né poeta o scrittore degno di tanto nome che non le abbia cantate. E, come in ogni giardino che si voglia tale, anche nel nostro le rose debbono aver posto d’onore. Ma intendiamoci: niente rose da fiorai. Non hanno le mie simpatie le dive dritte sul lungo stelo: inodori, inespressive.

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Essere giusti, non eroi

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The time is out of joint. O cursèd spite

That ever I was born to set it right!

Nay come, let's go together

Il tempo è scardinato. Maledetto rancore

Come fossi nato per rimetterlo in sesto!

Ora venite, andiamocene insieme.

(Shakespeare, Amleto, 1.5.188-90)

 

Ancora una volta il tempo è fuori cardine, di nuovo tocca a ognuno di noi rimetterlo in sesto. Questo è quanto ci chiede la Carta delle responsabilità 2017 proposta da Gariwo.

Gariwo è la Foresta dei Giusti. Si trova nel luogo noto ai milanesi come Monte Stella o, ai più anziani, Montagnetta di Milano. Là sono stati piantati alberi in memoria dei giusti.

L'ispirazione viene in primo luogo dal Giardino dei Giusti di Gerusalemme, fondato da Moshe Bejski nel 1962. In tutto il mondo, l'esperienza di Gerusalemme ha fornito ispirazione a iniziative che hanno lo stesso animo.

 

La Foresta dei Giusti di Milano ricorda ogni tipo di strage o massacro, a partire dalla Shoah e dal Genocidio armeno, perpetrato dall'Impero Ottomano prima del 1915/16 e oltre, che causò un milione e mezzo di morti e che, ancora oggi, molti esponenti delle autorità turche negano.

Gabriele Nissim e Pietro Kuciukian, console onorario della Repubblica Armena in Italia, sono i promotori principali di questa importante iniziativa, ma non sono gli unici a supportarla. Tra i promotori ci sono personalità del mondo politico e culturale italiano e mondiale.

Invero, in questa iniziativa, c'è qualcosa di più. Certo serve per non dimenticare, per ricordare il passato. Tuttavia, la Carta delle responsabilità 2017, che è parte integrante dell'iniziativa di Gariwo, non è solo un luogo per ricordare il passato, ci chiede anche di aiutare i nostri figli a ricordare un futuro differente, ci chiede di immaginare un futuro in cui il tempo venga rimesso in sesto da noi, prima che sia troppo tardi.

Ho recensito, poco tempo fa, un libro sullo scenario futuro immaginato da Débora Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro. I due si chiedono: “Esiste un mondo futuro?” Sembra infatti che, se raccogliamo un serie di informazioni sullo stato del pianeta, le cose si stiano mettendo molto male. Forse non per noi, ma per i nostri figli e nipoti.

 

 

Ebbene Gariwo ci chiede di fare ancora un sforzo, come ebbe a fare Jacques Derrida in occasione del primo congresso delle città-rifugio tenutosi presso il Consiglio d'Europa a Strasburgo su iniziativa del Parlamento internazionale degli scrittori il 21 e il 22 marzo 1996.

Da allora sono passati ventuno anni, anni di regressione culturale e accademica, di scientismo ideologico, di oblio delle relazioni positive, della cortesia e della tenerezza. Di dominio del pensiero economico, bancario, quantitativo. Di assalti terroristi. Di disprezzo dei minuti particolari e delle singolarità.

La Carta delle responsabilità 2017 ci chiede di essere giusti nel futuro. Essere giusti, non eroi. Ma qual è la differenza tra un giusto e un eroe? Quale quella tra un giusto e un martire? All'eroe, al martire viene chiesta coerenza, a queste figure spetta il compito impossibile di essere perfette, di sacrificare la loro intera esistenza per una causa, di rinunciare a essere soggetti. All'eroe e al martire vengono tolte le responsabilità, eroi e martiri sono vittime di un'infanzia oppressa, nei luoghi religiosi del fanatismo, nelle solitudini dell'abbandono, nelle relazioni violente, abusive, oppure nella desolazione delle periferie davanti allo sguardo perduto di genitori che non sanno più come sopravvivere, nella desolazione esistenziale, nelle discariche, nei campi profughi. Ecco che, proprio in quei luoghi, cresce il sentimento di crudeltà.

 

Questo non significa affatto che il martire debba ricevere una giustificazione per i massacri che compie. Qualcuno ha osservato: ma se patologizziamo il martire, non gli diamo una patente di follia che giustifica il gesto terrorista? Si tratta di un’obiezione seria, da prendere in considerazione. Nel mio lavoro, il lavoro di uno psicologo clinico, bisogna imparare a distinguere tra la follia vera e la distruttività umana. Il fatto che il martire sia il segno di una patologia sociale, non significa che sia folle, nel senso della follia di uno schizofrenico, per esempio. Tutto al contrario, spesso il martire, il sociopatico, che muore per una causa religiosa o ideale radicale, è normotico. Sociopatia e narcisismo sono manifestazioni di ultranormalità. Non sono la solitudine e l’isolamento, bensì la reazione alla solitudine che rendono ognuno diverso, singolare. Chi si ritira dal mondo, il folle, vive nella solitudine dei fantasmi, che si presentano in forme diverse, soffre, ma il suo ritiro dal mondo lo rende inerme, necessita di comprensione. Chi, come Amleto, affronta il dilemma e sposta lo spirito di vendetta trasformandolo nel dubbio, si dà la possibilità di essere giusto: questo accade al nevrotico, a me, a chi sta leggendo queste pagine ed è arrivato fin qui senza smettere, dissentendo o convergendo su queste considerazioni. Infine, c’è chi decide di de-soggettivarsi, di nascondere se stesso dietro un velo, una maschera, una clandestinità; ebbene, costui è sociopatico, narcisista. Il suo problema è, in primo luogo, un problema morale. Costui è pienamente responsabile dei suoi gesti distruttivi, li commette in piena consapevolezza. Ma un sistema sociale in cui queste pratiche distruttive prosperano è un sistema sociale gravemente malato, un sistema psicotico.

 

Non sempre morire per una causa corrisponde al fanatismo. Chi ha lottato e lotta contro il fanatismo, chi muore e rischia la vita per la libertà, il rispetto e la dignità umana non è un fanatico.

Tuttavia il giusto è un soggetto dubbioso, come Amleto, gli tocca rimettere in sesto il tempo scardinato perché, anziché credere al primo che passa, ascolta le parole del fantasma del padre. Le porta avanti con fatica e, soprattutto, ne mitiga il messaggio attraverso il dubbio. Lungi dall'essere tutto d'un pezzo, è fessurato, abitato dal nulla. Il giusto non ha bisogno di coerenza, non si espone, come l'eroe e il martire, al mondo. Rifugge il narcisismo dominante in questi anni. Solo, il giusto prende posizione, insieme, cambia il mondo. Questo è tutto quello che ci chiede la Carta delle responsabilità 2017, di prendere posizione per il futuro: il novo imperativo morale, il futuro, non il “progresso”. Ma, come insegna Amleto, tocca farlo insieme, riconoscendoci sempre dentro quel principio che Ernst Bloch definì: “principio di speranza”.

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Gariwo e la Carta delle responsabilità 2017

Canali veneziani e prati inglesi

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Di verde. Il libro inizia parlando di verde. Verde acquamarina dei canali veneziani, verde dorato dei prati e dei boschi inglesi, entrambi soffusi di luce, scintillanti ai bagliori del sole d'aprile sull'acqua immobile e sulle gocce perliformi di rugiada. E poi ancora luce. Luce sulla laguna veneziana. Luce sulle pietre inglesi. Luce soffusa, iridata, impalpabile, che conferisce grazia alle cose, annullandone i contorni ne nega i confini e trasforma i paesaggi in una trama, come se fossero un’immensa tessitura stesa sul mondo. 

È con l'evocazione di queste immagini, ricordate ad occhi chiusi, che inizia Pavone e rampicante. Vita e arte di Mariano Fortuny e William Morris, (Einaudi, 2017) lo straordinario libro di Antonia Susan Byatt. 

Allo stesso tempo saggio, racconto e libro d'arte – è infatti arricchito da un nutrito corredo iconografico – con rigore scientifico reso piacevole dalla sua scrittura mutevole e immaginifica l'autrice arditamente vi accomuna e poi distingue, analizza sovrapposte e quindi disgiunte la vita e le attitudini creative dei due poliedrici artigiani-artisti che un divario di trentasette anni separa e che la Storia dell'Arte colloca sul crinale di due diverse stagioni: la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

 

Mariano Fortuny, dettaglio di tessuto plissettato, 1910 circa (che sembra alludere al moto ondoso, lento, fitto e serpeggiante delle acque verde-acquamarina della Laguna veneziana). William Morris, tessuto con pavoni e draghi, 1878 (che pare interpretare poeticamente gli intrichi vegetali e il verde dorato della campagna inglese).


Il linguaggio artistico di William Morris (1834-1896), borghese, libertario e socialista, vissuto nell'epoca del secondo vittorianesimo, è intimamente connesso al movimento delle Arts and Crafts, di cui è anche il fondatore. Quello di Mariano Fortuny (1871-1949), invece, aristocratico ed elitario, partecipe del clima della Belle Époque, è improntato all'Art Nouveau, o Liberty, che dir si voglia. Nessuno di apparentemente più distante e dissimile, dunque, sia per estrazione sociale che per ambito culturale. Ma è proprio tra le pieghe di queste differenze che Antonia Susan Byatt individua analogie e punti di contatto mai proposti prima che al lettore appaiono subito evidenti e palesi inducendolo ad accoglierli immediatamente e a condividerli. Tutti e due gli artisti, infatti, sono eredi in nuce, dell’anima del Romanticismo: l’immaginazione, ispiratrice del lavoro di entrambi. Tutti e due, poi, sono uomini di genio che amano la natura, della quale ritraggono con immediatezza la vita animale e vegetale, rese con intrichi lineari e con vivaci cromatismi, di analogo fascino se pure con tratti e tecniche differenti.

 

Tutti e due, inoltre, sono artigiani ed inventori ed entrambi si circondano degli oggetti da loro stessi ideati, in cui sperimentano forme nuove e moderne desunte sì da quelle del passato, sebbene da due epoche storico-artistiche differenti: dal medioevo nordico Morris; dal mondo ellenico antico e dall'arte veneziana Fortuny. Tutti e due sono affascinati dalle saghe e dai miti: Morris dalle saghe islandesi, Fortuny dai miti greci. Tutti e due amano i colori naturali e sperimentano tinture con pigmenti di loro creazione, Morris nella tintoria di Merton Abbey, fatta costruire dagli Ugonotti sullo scorcio del Settecento; Fortuny in quella appositamente progettata per lui da Barry Dixon alla Giudecca. Se Morris, infine, è stato uno dei più grandi scrittori inglesi del suo tempo, Fortuny è stato celebrato nei romanzi di grandi letterati a lui contemporanei, quali Gabriele d’Annunzio e Marcel Proust.

 

Da sinistra: William Morris; Jane Burden; Henriette Negrin; Mariano Fortuny y Madrazo.


Antonia Susan Byatt conduce il lettore per mano nelle case abitate dai due artisti, teatri della loro vita privata e professionale: l’austera Red House ed il severo Kelmscott Manor di Morris; il raffinatissimo Palazzo veneziano Pesaro degli Orfei di Fortuny. Con una prosa asciutta, a volte brutale, enfatizzata dalle immagini caricaturali che la corredano, gli narra dell'infelice matrimonio di Morris con Jane Burden, la musa dei Preraffaelliti, amante del pittore Dante Gabriel Rossetti e dello stoicismo con cui Morris ne sopporta la liaison. Con una scrittura fattasi opportunamente passionale e raffinata gli racconta invece dell’amore che per tutta la vita ha legato Fortuny alla moglie Henriette Negrin, coautrice, tra l’altro, dei meravigliosi tessuti che lo hanno reso famoso e apprezzato dal jet-set internazionale e dalle dive del tempo.

 

In alto: alcune vedute della Red House. In basso: William Morris, La belle Iseult, 1858, Londra, Tate Gallery; alcuni esempi di disegni di William Morris per tessuti e carta da parati, dominati dal colore e dal linearismo a motivi naturalistici.


E allora tutti gli artigiani erano artisti

 

Progettata da William Morris nel 1859 insieme all'amico architetto e collega di studio Philip Webb (1831 – 1915), la Red House è stata annoverata da Nikolaus Pevsner nel suo “I Pionieri del Movimento Moderno” (1936) tra gli edifici che rappresentano i prodromi dell'architettura moderna. Manifesto delle Arts and Crafts è completamente realizzata in mattoni rossi, dal cui colore prende il nome, senza che alcun intonaco la ricopra. Inoltre è stata pensata per interagire con l’ambiente naturale in cui è immersa, il paesaggio del Kent, perciò ha tante finestre di diversa forma e dimensione. Sebbene tragga ispirazione dai modelli dell'architettura medievale, soprattutto dal gotico, a cui tanto Morris ha inneggiato, ha tratti di sorprendente modernità nella pianta libera (con grande anticipo su quella che verrà inclusa tra i 5 punti dell'architettura moderna da Le Corbusier nel 1925). Un altro dei motivi che ascrivono questa architettura tra le precorritrici del Movimento Moderno è l’essenzialità quasi minimalista delle sue forme. Il medesimo concetto di stanza vi è addirittura messo in discussione nel concentrarsi negli angoli degli spazi funzionali.

 

William Morris, assertore del socialismo utopico di ispirazione ruskiniana, nonché fautore di un ritorno all’artigianato, sosteneva che per far fronte all’alienazione prodotta dal lavoro in fabbrica e al degrado paesaggistico causato dal proliferare delle industrie sul territorio, fosse opportuno dar vita ad una società in cui arte e vita si unissero indissolubilmente, dove cioè la necessità morale e l'edonismo, il bene e il bello, si fondessero in un unicum capace di recare all’uomo la felicità. 

“Qualunque cosa fatta dalle mani dell’uomo ha una forma, che sarà bella o brutta: bella se è in armonia con la natura e l’asseconda; brutta se è in conflitto con la natura e l’avversa; indifferente non può essere mai”. (The Lesser Arts, lezione sulle arti decorative tenuta da Morris il 21 Gennaio 1882 a Birmingham al Birmingham & Midlands Institute)

Egli riteneva inoltre che fosse necessario reagire alla bruttezza dilagante degli oggetti prodotti industrialmente educando il pubblico alla bellezza insita nei manufatti artigianali del passato, soprattutto se legati al territorio in cui erano stati creati. 

“C’è stato un tempo in cui il mistero e il miracolo della produzione manuale erano riconosciuti in tutto il mondo, il tempo in cui l’immaginazione e la fantasia si mescolavano a tutte le cose create dall’uomo, e allora tutti gli artigiani erano artisti …” (ibidem)

 

È poi la “forza creatrice del colore” a presiedere alla realizzazione dei suoi arazzi, delle sue carte da parati, dei suoi tessuti e vetrate e stampe. Così scrive:

Per un grande pittore assorto nella meditazione sulla potenza della sua arte, il colore è una forza creatrice. Egli sa quanto il colore agisca la materia, quanto sia, in realtà, una vera e propria attività della materia; sa che il colore vive di un continuo scambio fra materia e luce. Così, a causa della fatalità dei sogni elementari, il pittore rinnova le grandi fantasie cosmiche in cui l'uomo è associato agli elementi, fuoco, acqua, aria e alla materialità delle sostanze terrestri.” (William Morris, News from Nowhere and Other Writings)

Sebbene la  sua opera pittorica si limiti all'esecuzione di un solo quadro, La belle Iseult (Queen Guenevere), per il quale aveva posato come modella la sua bellissima moglie Jane Burden, la sua produzione di motivi floreali e animali, tutti di grande bellezza, è assai copiosa. Parrebbe che Morris, in assoluta controtendenza con il trionfo dell'immagine femminile nella pittura dei Preraffaelliti (in particolare di quella della sua Jane nella pittura di Rossetti), abbia voluto contrapporvi la rinuncia totale alla rappresentazione della figura umana. Chissà?  Forse proprio per non acuire, nel riprodurla, il dolore che il tradimento della moglie gli causava, trovando invece nel linearismo zoomorfo e fitomorfo, ma soprattutto nell’esplosione cromatica delle sue creazioni, la forza per lenirlo e rattenerlo.

 

In alto: Palazzo Pesaro degli Orfei ora Fortuny; Era di Samo, 570 a.C, Parigi Louvre che indossa il chitone e l’himation entrambi i capi sono stati reinterpretati da Fortuny nelle sue creazioni; Mariano Fortuny, abito Delphos; lady Conde Nast indossa un abito Delphos, 1907; Isadora Duncan indossa un abito Delphos, 1910, ph. di Mariano Fortuny. In basso a sinistra: tessuti di mariano Fortuny; a destra: altre due versioni dell’abito Delphos, la prima con himation in broccato veneziano reinventato da Fortuny.


Di roseo rapito a una luna nascente 

 

La lunga e felice love story di Mariano Fortuny con Henriette Negrin si scrive invece a Venezia, nello storico palazzo Pesaro degli Orfei (leggi qui il bell'articolo di Anna Toscano sui differenti suoni che vi hanno riecheggiano nel tempo). Costruito verso la fine del Quattrocento in campo San Beneto per la ricchissima famiglia patrizia dei Pesaro (immortalata da Tiziano nell’omonima Pala) è stato da questa abitato fino a quando non lo ha lasciato, per trasferirsi, verso la seconda metà del XVIII secolo, nella nuova, magniloquente, residenza di Ca’ Pesaro, progettata da Baldassare Longhena e oggi sede della Galleria d'Arte Moderna e del Museo d'Arte Orientale. In seguito, l'avito Palazzo Pesaro acquisirà anche il nome di ‘degli Orfei’ per aver ospitato la Filarmonica degli Orfei. Sarà all'età di ventotto anni che il giovane rampollo del nobile casato dei Fortuny y Madrazo, di origine catalana, che già abitava da tempo a Venezia con la madre, in palazzo Martinengo, vi traslocherà con Henriette, trasformandolo ben presto in un atelier di pittura, di fotografia, di scenografia, di moda e di design, frequentato dalla più raffinata clientela internazionale del suo tempo. Da Eleonora Duse a Peggy Guggenheim, da Isadora Duncan a Sarah Bernhardt, da Ruth St. Denis a Martha Graham, alle nostre Emma e Irma Grammatica e perfino alla “divina marchesa” Luisa Casati (musa di grandi artisti del calibro di Boldini, Marinetti, Balla, Man Ray, Alberto Martini e ispiratrice di D’Annunzio), tutte facevano a gara per indossare una creazione di Mariano Fortuny. 

 

Tra i tanti capolavori che il nostro progetta e mette in produzione in quel palazzo, che diverrà ben presto noto come “Palazzo Fortuny”, il più famoso è Delphos (1907-1930), un abito che ha travalicato i confini del tempo: proveniente dal lontano passato della Grecia ionica, si è infatti eternato nel futuro. Si tratta di un abito in satin di seta ispirato ai chitoni delle korai greche (si veda quello indossato dall'Era di Samo, 570 a.C., Museo del Louvre, Parigi). Caratterizzato da una fitta plissettatura (eseguita con una macchina da lui inventata e brevettata nel 1909) su una base rettangolare era poi chiuso per il lato lungo da una sequenza di perline in pasta di vetro di Murano, in modo da formare una foggia cilindrica che si modellava naturalmente sul corpo di chi lo indossava. Privo di cuciture, ne aveva solo a coulisse lungo gli orli e nello scollo, veniva confezionato avvolto come una matassa di lana, riposto in una piccola scatola. Sottili cordoni di seta, ornati sempre da perline in pasta vitrea, consentivano poi di allungare o di accorciare a piacere le maniche. I meravigliosi tessuti con cui era realizzato venivano tinti con pigmenti naturali, minerali o vegetali, dai colori brillanti, indaco, verde smeraldo, rosso cocciniglia, arancio, rosa antico, avorio, viola, dalle sfumature cangianti, mutevoli alla luce, ottenuti con un procedimento rimasto segreto. 

 

Si racconta che alla morte di Mariano, Henriette abbia buttato via le polverine di colore gettandole nel canale della Giudecca affinché nessuno se ne appropriasse. 

La prima creazione di Fortuny nel campo della moda fu la sciarpa Knossos  (1907), una sciarpa molto lunga che, sebbene nata come costume di scena per il teatro, divenne ben presto un must conteso da tutte le signore eleganti. A fornirgli l’idea ispiratrice era stato il rinvenimento di un brandello di tessuto durante gli scavi di Cnosso condotti sir Arthur Evans (che 1905 definì ‘minoica’ la civiltà cretese) e da lui descritti nel suo libro: The Prehistoric Tombs of Knossos, da Fortuny letto e riletto. 

Ecco cosa scrive in alcune sue note:

 

Nel 1907 alcuni frammenti di tessuto stampato rinvenuti in Grecia mi incoraggiarono a condurre delle ricerche sui procedimenti di stampa del passato, dopo di che mia moglie ed io avviammo un laboratorio a Palazzo Pesaro Orfei per mettere in pratica i metodi che avevamo scoperto.”

La sciarpa era dipinta con motivi cicladici di fiori e di alghe, desunti dalla lettura di un altro testo, quello del medico-archeologo Angelo Mosso, intitolato “Escursioni nel Mediterraneo e gli scavi a Creta”, di cui possedeva una copia che consultava di frequente. Così scrive in proposito:

Le scoperte fatte da Angelo Mosso su Creta furono di grande incentivo a tentare alcune prove. E il primo saggio fu una sciarpa lunga, che chiamai appunto Knossos dai motivi di fiori e di alghe che corrono intorno agli antichissimi vasi ritrovati nell’isola di Candia.”

Mariano scattò moltissime foto di Henriette con indosso la sciarpa Knossos drappeggiata attorno al suo corpo in varie fogge. In un angolo vi si può distinguere il marchio di fabbrica dell’azienda che i due coniugi avevano aperto a Palazzo Fortuny, costituito da un tondo al cui interno è raffigurato un labirinto contornato dalle scritte: Fortuny Knossos.

 

Alcuni dei loghi di Fortuny, a destra il marchio della sciarpa Knossos.


Persino Gabriele D’Annunzio menziona la sciarpa Knossos nel romanzo Forse che si forse che no. La fa indossare al personaggio di Isabella Inghirami, nel paragrafo in cui questa ha un convegno galante con il protagonista del libro, Paolo Tarsis, di cui è innamorata: 

“Ella era avvolta in una di quelle lunghissime sciarpe di garza orientale che il tintore alchimista Mariano Fortuny immerge nelle conce misteriose dei suoi vagelli rimosse col pilo di legno ora da un silfo ora da uno gnomo e le ritrae tinte di strani sogni e poi vi stampa su co’ suoi mille bussetti nuove generazioni di astri, di piante, di animali. Certo alla sciarpa di Isabella Inghirami egli aveva dato l’impiumo con un po’ di roseo rapito dal suo silfo a una luna nascente.”

 

Un altro merito di Fortuny come stilista di moda è stato quello di aver saputo ricreare i lucenti broccati in velluto di seta per cui Venezia era divenuta famosa nei secoli, ampiamente riprodotti nella pittura dai suoi artisti, da Paolo Veneziano (1300-1365) a Vittore Carpaccio (1455 ca-1526), da Paolo Veronese (1528-1588) fino a Vittorio Zecchin (1878-1947), passando attraverso il cromatismo di Giorgione, di Tiziano e del Tintoretto.

Di questi broccati narra anche Marcel Proust, nel secondo volume della Recherche:

“… dicono che un artista di Venezia, Fortuny, abbia ritrovato il segreto della loro fabbricazione e che, fra qualche anno, le dame potranno passeggiare, e soprattutto stare a casa loro, in broccati splendidi come quelli che Venezia ornava, per le sue patrizie, con i disegni dell’oriente”. 

E ancora, nel quinto volume, lo scrittore francese ci racconta di un mantello di Fortuny indossato da Albertine:

 

““Posso venire così, se non scendiamo dall'auto". Esitò un secondo fra due mantelli di Fortuny per nascondere la vestaglia, come due amici diversi da condurre con sé, ne prese uno azzurro cupo, bellissimo, infilò una spilla in un cappellino. In un minuto fu pronta, prima ancora ch'io avessi preso il mio soprabito, e andammo a Versailles.”

 

Fortuny è l'unico artista contemporaneo a Proust ad essere da lui citato nella Recherche con il suo vero nome e non con uno pseudonimo. Ha inoltre il privilegio di esservi menzionato per ben tre volte, in quello che lo stesso Proust ha definito leitmotivFortuny. In uno dei brani, egli si sofferma sull’unicità delle creazioni del maestro veneziano che, lungi dall'essere seriali, posseggono, pur nella ripetitività del modello, delle peculiarità, magari insite in un dettaglio, che le rende uniche e individuali, al punto che meriterebbero un nome proprio, così come avviene per le opere degli artisti:

“Tra tutte le vesti o vestaglie della signora di Guermantes, quelle che mi sembravano più rispondenti a un'intenzione determinata, e dotate di uno speciale significato, erano quelle fatte da Fortuny su antichi disegni veneziani. È forse il loro carattere storico, o piuttosto il fatto che ciascuna è unica, a dar loro un carattere così singolare che l'atteggiamento della donna che le indossa, mentre ci aspetta o parla con noi, acquista un'importanza straordinaria, come se quel vestito rappresentasse il frutto d'una lunga deliberazione e se quella conversazione si distaccasse dalla vita ordinaria come una scena di romanzo.(...) Nulla di vago può restare nella descrizione del romanziere, giacché quel vestito esiste realmente, e i suoi menomi disegni sono altrettanto naturalmente precisi di quelli di un'opera d'arte. Prima di indossarne uno, la donna ha dovuto scegliere tra due vestiti, tutt'altro che simili, ciascuno dei quali è anzi profondamente individuale e potrebbe portare un nome."  

 

Mata Hari con una sciarpa Knossos; Lillian Diana Gish con un abito Delphos, 1920; Miss Muriel Gore ritratta da Sir Oswald Hornby Joseph Birley con indosso un abito Delphos e una sciarpa Knossos, 1919.


Ad occhi chiusi

 

Dopo aver osservato a lungo le trame e i colori dei tessuti e delle carte da parati di Morris e quelle delle stoffe delle vesti di Fortuny, socchiudendo gli occhi, Antonia Susan Byatt scrive di avere come l’impressione di vederle confondersi. In un’esperienza visiva involontaria esse le sembrano sovrapporsi le une alle altre, come le era accaduto anche quando, trovandosi a Kelmoscott, semplicemente chiudendo gli occhi, vedeva le immagini appena guardate circonfondersi della luce acquatica dei canali veneziani; oppure quando, invece, pur essendo a Palazzo Fortuny, se chiudeva gli occhi, le pareva di trovarsi immersa nella luminosità vegetale della campagna inglese. 

È così che si conclude il suo libro, ad occhi chiusi, com’era iniziato.

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Mariano Fortuny e William Morris

Verso una definizione operativa di “populismo”

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Quanto più si consolidano i successi delle formazioni populiste, specialmente nell’Occidente avanzato, tanto più gli intellettuali si interrogano sul significato di tale fenomeno e sulla plausibilità di tale concetto che, a ben vedere, significa cose diverse in contesti diversi ma pare conservare un suo nucleo di caratteristiche stabili. Una sorta di DNA mutevole che rimane riconoscibile nel suo excursus storico e nel suo adattamento geografico, come nel movimento che esso attua all’interno della stratificazione di classe, nei diversi sistemi sociali esaminati. Dunque, alla polisemia del concetto corrisponde una proteiformità dei fenomeni a cui esso si riferisce. Manuel Anselmi, nel suo libro Populismo. Teorie e problemi (Mondadori università, 2017), recupera la categoria wittgensteiniana di “somiglianza di famiglie”, che il filosofo austriaco sviluppava a partire dalla nozione di gioco linguistico (e ripresa anche dalla prefazione di C. Ruzza), proprio per mostrare come le diverse forme di populismo esprimono forti assonanze tra loro ma mai una sostanziale identità. 

 

Nell’introduzione al testo, l’autore esordisce con uno studio di Marco D’Eramo che esamina il numero di pubblicazioni su tale fenomeno registrate nel catalogo della University of California tra gli anni ottanta, circa 557, gli anni novanta in cui il numero raddoppia, e gli anni più recenti in cui, nel solo intervallo tra il 2010 e il 2013, ci sono più di 1046 titoli. La ricerca, che rischia di schiacciare l’intero discorso su un livello d’analisi quantitativo, in realtà ci dice molto sul ruolo della tendenza culturale in atto e sul modo in cui la riflessione accademica partecipa alla diffusione del fenomeno socio-politico in una sorta di profezia che s’autoadempie. Inoltre la stessa disamina ci offre una chiave per capire la struttura del libro: se il populismo ha una lunga storia alle sue spalle e una notevole varietà di applicazioni, gli anni recenti sono quelli in cui esso raggiunge un livello di espressività e di rilevanza politica forse sino ad ora inaudite. Nella medesima introduzione Anselmi riassume tre chiavi interpretative per orientare il lettore: 1) leggere il fenomeno più come questione sociologica che politologica; 2) il rapporto tra il populismo e la questione della sovranità popolare; 3) una epistemologa della complessità che sfugge alla tentazione di ridurre il fenomeno a una semplice patologia disfunzionale per il sistema. Inoltre l’autore ci tiene a spiegare la struttura stessa del libro attraverso le due categorie di diacronico e sincronico: la prima riguarda l’evoluzione del dibattito sul populismo con riferimento ai diversi contesti in cui è attecchito, la seconda si riferisce alla seconda sezione in cui appunto i capitoli affrontano sincronicamente le analogie tra le diverse manifestazioni concrete di tale categoria. 

 

La prima sezione (diacronica) sugli autori che hanno affrontato tale questione nella storia del pensiero socio-politico, è inaugurata dall’approccio di G. Germani. Lo studioso migrò dall’Italia mussoliniana alla volta di Buenos Aires a causa di un arresto che subì per via delle sue iniziative antifasciste, per poi giungere nel 1966 a insegnare a Harvard e chiudere infine la sua carriera di accademico a Napoli negli anni settanta. Lo studioso interpreta il fenomeno come variabile dipendente dal processo di modernizzazione e di mobilitazione delle masse, ovvero come inserito nella più generale questione weberiana della secolarizzazione. La mobilità sociale che produce nuovi conflitti e rotture di equilibri tradizionali è difatti destinata a istituzionalizzarsi, soppiantando appunto il valore della tradizione con quello del mutamento sociale. Se l’ideologizzazione delle masse accomuna il fascismo e il peronismo, Germani è attento a sviscerare le differenze sostanziali tra tali ideologie. Laddove nel fascismo è centrale il rapporto tra la classe media e i ceti più abbienti come forma di “mobilitazione dall’alto” volta a controllare le classi subalterne, il peronismo si configura come un'ideologia multiclassista e dal basso, in cui la classe media si “allea” con quelle subalterne. 

 

Se nel fascismo italiano le classi più alte e aristocratiche si alleano con la classe media in un’azione di controllo delle classi subalterne, anche in una ottica di contrasto di una mobilitazione bolscevica, nel nazionalpopulismo invece l’alleanza sociale avviene tra la classe media e le classi più basse contro le classi più alte, espressione di un’alleanza di poteri, con orientamento liberale, però basata su una strutturazione sociale precedente alla modernizzazione (ibidem).

A ben vedere la declinazione argentina di questo “populismo oligarchico” traduce il sostegno delle classi subalterne nei termini di una organizzazione patriarcale-latifondista che pertanto tradisce sia la premessa logica della alleanza multiclassista, sia l’ideale stesso della mobilitazione sociale che viene invece incanalata verso l’organizzazione militare in cui i ceti popolari sono cooptati e ordinati.

 

Nella sua trasformazione successiva il nazionalpopulismo argentino muove dalla base contadina a quella urbana, traducendosi in un processo di “urbanizzazione delle masse” che sarà utilizzato da Péron come fondamento per una nuova strategia di creazione del consenso. Anselmi chiude il paragrafo con una nota sull’utilità dello “schema interpretativo della mobilitazione” per comprendere ad esempio le più recenti forme di populismo mediatico determinate dalla diffusione globale del web. Ma forse, senza volersi spingere così in fondo sul fronte della comunicazione mediatica, basterebbe sottolineare la simmetria inversa tra un populismo tradizionale che precede la formazione di una classe media urbana e industriale, contro invece l’attuale populismo che nasce proprio dallo sfascio, dallo sfilacciamento e dal drammatico impoverimento dei ceti medi. 

 

 

Anselmi è molto più sintetico sull’opera di E. Shils, di cui sottolinea principalmente il riferimento a un periodo storico peculiare come quello del maccartismo e della famigerata caccia alle streghe. Non a caso lo studioso americano fu intellettualmente vicino allo struttural-funzionalismo di T. Parsons, da cui riprese una certa preoccupazione nei confronti di fenomeni sociali capaci di minacciare l’equilibrio del sistema sociale. Il tema dell’equilibrio è difatti centrale nella relazione tra i macrosistemi che caratterizzano le società moderne e liberali. Il bilanciamento tra le tre dimensioni della privacy, della secrecy e della publicity, garantisce un funzionamento efficiente del sistema sociale e politico, a differenza dei regimi in cui la dimensione pubblica prevale su quella privata e quella della segretezza su entrambe. Il paese in cui tale equilibrio raggiunge le sue proporzioni ottimali è la Gran Bretagna che pertanto si configura come il sistema socio-politico più “bilanciato e costitutivamente anti-populistico”, a differenza degli USA in cui invece attecchisce una “cultura essenzialmente populistica”. In ultima analisi Shils è persuaso del fatto che “il populismo identifica la volontà del popolo con la giustizia e con la moralità” conduce i seguaci di tale orientamento a rifiutare tout court la logica squisitamente funzionalista del check and balance, nonché ad avversare élite e ceti intellettuali. 

 

Nel capitolo su Populism. Its Meanings and National Characteristics (1969) curato da G. Ionescu e E. Gellner, Anselmi passa in rassegna i punti di vista degli autori che hanno partecipato alla stesura di questa importante, opera che egli definisce come una “pietra miliare negli studi sul populismo”. Di particolare interesse in questo paragrafo sono le analisi sul rapporto tra populismo e cultura contadina e sul modo in cui esso si è sviluppato in paesi diversi: dagli imprenditori agricoli statunitensi al “trans-class populism” latino americano; dal populismo russo inteso da A. Walicki come una “reazione al capitalismo”  interno ed esterno, sino alle differenze sostanziali tra quest’ultimo e gli altri populismi “contadini” sviluppatisi nell’Europa dell’Est (quello serbo, croato, bulgaro ecc. analizzati dallo stesso Ionescu). Incredibilmente attuale la lunga lista di attributi che, sempre nella stessa opera, P. Miles ascrive al fenomeno e che qui riporto in maniera sintetica:

- il populismo è più moralistico che programmatico; 

- l’aspetto, i modi, lo stile di vita del leader sono fondamentali nel
rapporto con i seguaci; 

- il rapporto leader e massa è quasi di carattere mistico, poiché si basa
su potenti aspetti di identificazione; 

- il populismo è indisciplinato e male organizzato; 

- la sua ideologia è debole e lasca, e ogni tentativo di definizione risulta inutile; 

- è anti-intellettuale; 

- è sempre contro l’establishment e contro l’élite di potere; 

- è incline alle teorie cospirative e incline a forme di violenza inefficienti e di corto respiro; (…)

 

Decisamente più organica l’opera di M. Canovan che, edificandosi a partire dal pensiero di H. Arendt, s’addentra in una sistematica esplorazione delle molteplici forme di populismo a partire dalla già citata teoria wittgensteiniana delle somiglianze linguistiche. La prima differenza sostanziale viene marcata tra il populismo “agrario” già introdotto nel paragrafo precedente e quello “politico”. Nella prima categoria sono presenti, come si è visto, sia il populismo americano che quello russo. Con la differenza che il primo aveva “l’obiettivo di sganciarsi dalla subalternità dei monopolisti federali… i quali lucravano a vantaggio degli stessi produttori” e che pertanto traduceva tale interesse economico in un’azione politica contro le élite plutocratiche e i politici nazionali. Al contrario quello russo è un “populismo dell’intellighenzia proposto alle classi sociali rurali, la cui dottrina è tesa a glorificare lo stile di vita rurale in chiave antimoderna, protosocialista e sulla base di un sentimento di riscoperta delle radici slave”.

 

Tra gli autori che hanno contribuito a svecchiare la riflessione sul populismo, Anselmi colloca Ernesto Laclau, preso in considerazione anche per il suo tentativo di proporre una riconcettualizzazione del marxismo in chiave più avanzata, soprattutto con il riferimento a una tradizione di studi – Gramsci, Lacan, Althusser – che a ben vedere è la stessa a cui fanno riferimento i Cultural Studies. Del resto, come i secondi si appoggiano sulla semiotica di Barthes e di Eco, anche Laclau dà grande valore all’analisi del linguaggio, soprattutto quella di “Ferdinand De Sassurre secondo cui il linguaggio è un fatto sociale” (p. 33). La costruzione del “soggetto popolo” è difatti un atto principalmente linguistico che è determinato dall’applicazione di due principi: quello equivalenziale e quello della differenza. Se il primo riguarda un’attivazione e una mobilitazione del popolo dal basso, il secondo invece riguarda una penetrazione del potere nell’ambito dell’organizzazione sociale attraverso una modalità che, usando riferimenti diversi, potremmo oggi definire biopolitica. La spinta postmarxista dell’autore tende difatti a superare alcuni concetti classici della politologica, come quello di proletariato, classe sociale ecc. riferendosi invece a “nuove soggettività sociali”. Il populismo risulta in ultima analisi come un concetto neutro, né positivo né negativo, che è stato corrotto da una certa vulgata neoliberista ma che in realtà indica qualcosa di molto più essenziale, ovvero (un po’ come per Canvan): una “forma originaria del politico”.

 

Nella seconda parte del libro, pur recuperando parecchi temi già discussi nella prima parte, Anselmi si concentra sul fenomeno dei nuovi populismi che, citando lo studio curato da G. Mazzoleni, J. Stewart, B. Horsfield (The media and neo-populism: A contemporary comparative analysis, Greenwood Publishing Group, 2003), riguarda lo stadio in cui le democrazie occidentali sono caratterizzate da “processi di glocalizzazione, dalla ipermediatizzazione della sfera pubblica e della politica in genere e dalla crisi di legittimità dei sistemi di rappresentanza politica”. Soprattutto nel capitolo terzo della seconda sezione l’autore esamina il fenomeno del neopopulismo alla luce di tre categorie fondamentali – ideologia, strategia e discorso – che vengono sistematizzati in una tabella sinottica tratta da Gidron e Bonikoskwy. Di particolare interesse è l’analisi svolta nel capitolo sesto, in cui il neopopulismo è considerato in relazione alla variabile indipendente delle trasformazioni economiche e sociodemografiche che investono le società nella globalizzazione. Il libro si conclude con la proposta di una definizione operativa di populismo che offre alla comunità degli studiosi uno strumento euristico capace di orientare le ricerche future e al lettore comune la capacità di discernere rispetto alla spaventosa moltiplicazione di interpretazioni mediatiche e prét-â-penser del fenomeno.

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Una lettura sociologica

Edoardo Persico. Notizie dalla modernità

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Persico, malgrado la sua breve vita, è stato un notevole e piuttosto misterioso personaggio, al centro della storia culturale italiana fra 1923 e 1935. Era nato a Napoli nel 1900 ed è morto a Milano in modo mai del tutto chiarito all'inizio di gennaio del 1936. La sua vita è piena di presenze ambigue, di scelte improvvise e di comportamenti contraddittori in un periodo in cui la dittatura fascista si affermava e l'adesione al regime o la clandestina resistenza antifascista degli intellettuali si manifestavano in comportamenti non sempre facili da decifrare. 

La vita di Persico si divide in due fasi distinte: i suoi contatti con Gobetti, l'arrivo a Torino quando ormai Gobetti era morto, la sua attività di promotore e organizzatore di cultura culminata con il suo ruolo nella formazione del gruppo dei 6 pittori di Torino da una parte; e dall'altra il suo trasferimento a Milano come gallerista e poi come protagonista, accanto a Pagano malgrado la differenza di posizioni, della rivista Casabella e come teorico del rinnovamento modernista e razionalista dell'architettura italiana in una prospettiva di incontro e confronto con l'architettura europea.

 

Ma è improprio limitarsi ai suoi scritti per intendere la sua importanza: era stato un personaggio di grande fascino che aveva attratto con la forza delle parole e delle convinzioni quanti lo avevano conosciuto, al di là del suo cattolicesimo profondo e in qualche modo misticheggiante ispirato da Gheon, Maritain e Péguy e malgrado la sua contraddittoria posizione verso personaggi legati al fascismo.                                                                                                                                                             

I due volumi di cui parlo sono la ripubblicazione dell'edizione degli scritti, riorganizzata cronologicamente anziché per temi, già uscita per le edizioni Comunità nel 1964 a cura di Giulia Veronesi, da cui però 'sono state eliminate le appendici e le immagini ed è stato soppresso il capitolo Il capolavoro sconosciuto' (p. xxvii). Anche le note sono quelle scritte a suo tempo dalla Veronesi, senza aggiornamenti. Queste scelte sono certamente infelici: nelle appendici comparivano corrispondenze fondamentali, con Gobetti (48 lettere a Gobetti senza le risposte, corrispondenze col fratello Renato, con Ottone Rosai, con Dino Garrone); inoltre la maggioranza degli articoli apparsi su Casabella erano commenti a immagini e diventano incomprensibili senza che il lettore possa averle sotto gli occhi.

 

Esaminiamo gli scritti e la vita di Persico fino al 1928, il suo periodo napoletano e il suo arrivo a Torino dopo la morte di Gobetti, con cui è in corrispondenza dal 1923: siamo di fronte a un personaggio ansiosamente alla ricerca di una visibilità e comunque pieno di proposte e di idee, mescolate con promesse mancate e millanterie. Due temi prevalgono: il suo interesse per un cattolicesimo realmente spirituale e la volontà di contribuire a una cultura italiana che si sprovincializzasse, legandosi alla cultura europea, pur conservando la sua specificità. Scrive e pubblica un testo moraleggiante sulla città futura fatta 'di bellezza e verità' e collabora con Rivoluzione Liberale  e con Il Baretti, le riviste di Gobetti. Tuttavia sono accolti solo i suoi interventi sulla Spagna e sul teatro, oltre un articolo sul ministro francese Caillaux di cui la seconda parte apparirà, dopo la morte di Gobetti, su Critica fascista. Ma durante questo periodo le sue vicende son poco chiare: a Napoli ha partecipato al partito di Giovanni Amendola e pare che sia stato arrestato, per qualche giorno, dopo un comizio, anche se non resta nulla negli archivi della polizia. E insieme, secondo la Veronesi, sarebbe stato il primo segretario della gracile sezione napoletana del movimento fascista nel 1920.

 

 

Ma dal 1923 è affascinato dalla figura di Gobetti a cui invia numerose lettere, promettendo romanzi e articoli e parlando di suoi libri pubblicati all'estero di cui non esiste traccia. Dal 1927 sembra aver maturato posizioni lucide e radicali per suscitare un movimento culturale 'per una letteratura morale e una coscienza europea in un'epoca di ricerca delle ragioni prime, parlando il linguaggio di tutti, che si nutra dei problemi attuali, che sia espressione del legame sociale della nazione'.

E nello stesso tempo si fanno più palesi le affermazioni di un cattolicesimo cupamente tradizionale, con un’esaltazione della Spagna carlista o del conservatorismo di Valle- Inclan, 'perché il flagello dei conquistadores, l'intolleranza degli inquisitori sono un grande fatto spirituale' (1927).

Il suo legame sincero, di vera devozione per Gobetti, insieme alla sua energia piena di idee, è certo uno dei motivi che spiegano il suo legame con il gruppo dei Sei pittori di Torino e con altri gobettiani come Giacomo Debenedetti e Mario Soldati, che non mi pare fossero sospettosi dell'ambiguità di molte delle sue espressioni e del suo cattolicesimo. Persico era certamente un personaggio affascinante e pieno di energie organizzative. Fu lui che organizzò nel 1929 la prima mostra dei Sei 'che hanno levato l'insegna di Manet. Noi chiameremo perciò europei questi pittori, che nel campo delle arti figurative si possono assegnare alla corrente di idee promosse da Lionello Venturi per un gusto moderno' (1929). Persico organizzerà e presenterà la mostra, che giudica molto innovativa ('Le opere di Carlo Levi indignano, a prima vista, il borghese' scrive ad esempio) ma non sarà presente all'inaugurazione perché viene convocato a Napoli dalla polizia e la sua abitazione di Torino viene perquisita senza che ne risultasse nulla di compromettente.

 

Dopo il trasferimento a Milano Persico sarà ormai affermato: scriverà su Belvedere, rivista pubblicata da Pietro Maria Bardi, proprietario della galleria omonima e apertamente fascista, nella quale organizzerà mostre con il progetto 'di ricondurre gli italiani a una comprensione viva degli interessi spirituali', e inizierà la sua collaborazione a La Casa Bella (che dall'inizio del 1933 si chiamerà Casabella), divenendone condirettore accanto a Giuseppe Pagano ed estendendo progressivamente i suoi interessi verso l'architettura, il design e l'arredo, sempre sostenendo che 'la decadenza dell'arte italiana è legata alla mancanza di un'intima coscienza religiosa degli artisti: cioè alla mancanza della fiducia di compiere una funzione produttiva nel mondo moderno... Rigorosamente, un'estetica italiana può trovare soltanto nella dottrina cattolica la liberazione dalle ideologie straniere e rappresentare la realtà di un paese capace di sottomettersi alla vita della nazione' (1930).

 

Il suo interesse oltre che per i Sei, di cui organizzerà una nuova mostra a Milano prima che il gruppo si sciogliesse, riguarderà moltissimi pittori in due gallerie che Persico dirigerà o promuoverà, dopo che Bardi si era trasferito a Roma dove sarà un esponente della critica d'arte e dell'architettura strettamente legata al fascismo e autore del Rapporto sull'architettura (per Mussolini) (Roma,1931). Persico esporrà Carrà, Soffici, Arturo Martini, Spazzapan, Tomea, Spilinbergo, Rosai e altri e si occuperà molto dell'arte sacra in una versione spiritualista e primitivista sia negli scritti sia nella Galleria del Milione, legandosi a Garbari, interessandosi ai pittori del Sacré Coeur, parlando di Rouault, di Denis e anche di pittura e religiosità ebraica riferendosi a Chagall e a Modigliani. Ma dal '32 si concentrerà specialmente sull'architettura, sull'arredo, con un'attenzione al design, ai materiali, alla relazione fra la casa e chi la doveva abitare. I suoi giudizi e le sue prese di posizione si fanno sempre più definite e radicali e fanno appello alla moralità dell'arte: la sua critica della architettura tradizionale da una parte e poi di quella monumentale o che vuole proporsi  come architettura dell'impero si ripetono continuamente e sempre più in polemica con l'architettura piacentiniana e fascista. La sua attenzione per i materiali, per la semplicità e la linearità, per il rapporto fra i vuoti e i pieni si rifanno con originalità all'architettura europea di Mendelsohn, della Bauhaus, di Breuer e di Gropius, di Mies van der Rohe o americana di Wright e di Neutra e di quella sovietica di Mel'nikov mentre ha qualche dubbio politico su Le Corbusier con le sue 'piaggerie sul fascismo' e 'i suoi traffici fra Mosca e Roma', e per Loos, a cui rimprovera di essere rimasto 'isolato come una specie di Diogene moderno' e dunque poco influente.

 

E poi da critico giunge a farsi progettista e realizzatore con Nizzoli del negozio Parker e del salone d'onore per la VI Triennale di Milano. Degli italiani, a parte lo stretto rapporto con Pagano nella redazione di Casabella, i suoi legami sono con Terragni, con Levi Montalcini, con Labò, con Figini e Pollini, con Gio Ponti. Tuttavia i suoi rapporti con Pagano si fanno man mano più tesi, essenzialmente per ragioni politiche, per le prese di posizione di Pagano sempre più vicine alla politica del fascismo. Persico sarà ormai morto da dieci anni quando Pagano passerà alla Resistenza, sarà arrestato e deportato e morirà per le torture il 22 aprile del 1945 nel campo di concentramento di Melch.

 

E questo è un punto fondamentale della vicenda di Persico: il suo sempre più evidente antifascismo legato alla sua esplicita polemica contro la politica del regime nel campo dell'architettura. 

Punto ed a capo per l'architettura, apparso su Domus nel novembre 1934 e il testo della conferenza Profezia dell'architettura tenuta a Torino nel gennaio 1935 mostrano la sua scelta di abbandonare posizioni che mascheravano prese di posizione più nette nei confronti del regime. Intanto – nell'articolo – con i riferimenti agli studi di architettura moderna di Argan, Lionello Venturi, Carlo Levi e Pagano come modelli positivi e le prese di posizione contro Piacentini la cui Architettura d'oggiè definita 'un'epitome di notizie senza costrutto critico' e contro Sartoris e Giuseppe Pensabene, contro il romanismo, contro Rava che ha rinunciato al suo europeismo 'per le esigenze politiche della mediterraneità' e per proporre 'una architettura coloniale moderna'. La sua polemica è contro 'i compromessi fra architettura e politica che hanno capovolto la natura del dibattito', con 'i concetti più gratuiti come la romanità e la mediterraneità. Quelli che adattandosi a un patriottismo di maniera associano 'razionalismo' e corporativismo, che parlano di ‘architettura arte di stato’, che affermano 'che l'architettura cosiddetta razionale non è né iconoclasta né estranea all'immenso ideale della rivoluzione fascista', 'rinnegano per sempre i motivi fondamentali del razionalismo e ne legano la fortuna agli espedienti della lotta politica'. Per concludere 'il fondamento del 'razionalismo'  è in questa intuizione della necessità di forze nuove che si inseriscano in uno stato di fatto 'europeo', non soltanto come idee estetiche, ma anche come forze di cultura, economiche, sociali, politiche'. 

 

Invece, 'dall'europeismo del primo razionalismo si è passati con fredda intelligenza delle situazioni pratiche, alla romanità e alla 'mediterraneità, fino all'ultimo proclama dell'architettura corporativa'.

Conclude così su un vero appello contro un'architettura che si adegui a un sistema politico prestabilito: 'Gli artisti debbono affrontare oggi il problema più spinoso della vita italiana: ‘la capacità di credere a ideologie precise’(è una citazione di Gobetti) e la volontà di condurre fino in fondo la lotta contro le pretese di una maggioranza 'antimoderna'. 

La conferenza pubblica ma pubblicata solo nel 1945 da Alfonso Gatto, poi termina con un'esaltazione della libertà: 'fino a quando si continuerà a discutere di arte utile, di arte come espressione del tempo o della società, ricalcando De Bonald o Le Corbusier, sfuggirà sempre il senso profondo dell'arte, che è indipendenza e libertà dello spirito... La sua profezia (dell'architettura) è di rivendicare la fondamentale libertà dello spirito'.

 

Posizioni evidentemente molto esplicite e coraggiose sia per i contenuti sia per i suoi riferimenti culturali. Queste prese di posizione, oltre alle sue sospette relazioni con intellettuali antifascisti, lo portano a un breve ma probabilmente drammatico arresto, su cui tuttavia non sono stati trovati documenti. Nello stesso periodo, tra 1934 e 1935, venivano arrestati i militanti torinesi di Giustizia e Libertà tra cui Carlo Levi molto legato a Persico dagli anni dei Sei di Torino. Di Levi Persico aveva pubblicato su Casabella e citato come fondamentale il saggio Considerazioni sull'architettura nel settembre 1934. 

Esattamente un anno dopo questa conferenza Persico viene trovato morto nella sua casa di Milano. 

Sia la sua vita che la sua morte contengono molti misteri, su cui si son fatte molte illazioni nella ormai amplissima bibliografia che lo riguarda: la vicenda disordinata della prima parte della sua vita, il suo cattolicesimo, forse un'adesione al movimento fascista napoletano nel 1920, la sua vicinanza a Il Saggiatore di Giovanni Amendola', un suo arresto dopo un tafferuglio seguito a un suo comizio amendoliano, la sua firma all'Appello ai meridionali di Guido Dorso, il suo legame con Gobetti che accetta con molte resistenze la sua collaborazione, il tentativo di creare a Napoli i Gruppi di Rivoluzione Liberale, i molti libri e articoli promessi e mai scritti, i numerosi e misteriosi viaggi forse inventati a Parigi, Londra, Berlino, Mosca e in Jugoslavia: questo è quello che contribuisce all'immagine contraddittoria e incerta che abbiamo di lui fino al suo arrivo a Torino nel 1927. È una vicenda degna di un libro giallo che ha infatti incuriosito e trovato il suo romanziere ideale in Andrea Camilleri.

 

Camilleri, stimolato dal disordine della documentazione, creata negli anni da esaltatori e detrattori di Persico, ha proposto una lettura molto credibile della vita e della morte di Persico in Dentro al labirinto (Skira, 2012), basata su un attentissimo studio della documentazione esistente prima di concludere con alcuni Appunti per un romanzo: 'Se dovessi disegnare i percorsi fatti non ne verrebbe fuori la pianta di un labirinto ma una serie di ghirigori ora sovrapposti ora a se stanti non destinati ad una necessità geometrica. Allora provo io a fare una mappa possibile. Che ha l'unico merito di intrecciare diversamente, attraverso l'invenzione narrativa, tutti i percorsi sin qui fatti ma tenendoli sempre in filigrana.' La sua ipotesi è che Persico fosse stato, fino al 1924 almeno, un informatore della polizia: il che spiegherebbe i suoi viaggi e i suoi contatti. Ma dopo l'assassinio di Matteotti e la morte di Gobetti si sarebbe ribellato, in particolare con un ritorno improvviso da Mosca, dove era stato inviato. Di qui in poi resta sotto sorveglianza della polizia, con la convocazione a Napoli al momento dell'inaugurazione della mostra dei Sei di Torino nel 1929: la perquisizione della sua casa di Torino e di Napoli che danno un esito negativo. Poi il suo antifascismo si farà progressivamente più evidente e sarà arrestato per vari giorni, nel 1935, e duramente interrogato. Uscito dal carcere la sua salute era, secondo varie testimonianze, molto peggiorata e la sua morte improvvisa e inspiegabile sarebbe stata causata dalle botte avute durante gli interrogatori subiti. Malgrado fosse un personaggio di grande rilievo nella vita culturale milanese, i necrologi saranno pochissimi e la vicenda della sua morte resterà immediatamente avvolta nel silenzio e senza spiegazioni. Dopo la guerra la sua vedova riceverà una pensione assurdamente motivata con la morte del marito come eroe di guerra.

 

Questa ripubblicazione delle sue opere lascia molte delusioni: nulla della bibliografia pubblicata in questi anni è utilizzata nella poco felice introduzione di 10 pagine di Giuseppe Lupo e nulla è detto della vita dell'autore per tacere di alcune affermazioni gratuite di cui la prefazione è disseminata. Una per tutte: 'Fuggire dalla città o credere nella città: questo è il grande enigma che si nasconde negli scritti di Persico'. Parole in libertà, ma non era questa la libertà a cui Persico aspirava.

 

Edoardo Persico, Notizie dalla modernità. Tutte le opere, 2 voll., Nino Aragno Editore, Torino, 2016.

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Etica e estetica della sobrietà

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Diciamolo subito, non tutte le virtù sono alla portata di tutti, o meglio possono costituire un modello comportamentale, una indicazione da seguire al fine di ottenere uno stato di grazia o di benessere, sia esso fisico oppure spirituale (etico e/o morale). Questa considerazione vale, sotto molti aspetti, in particolar modo per la sobrietà, la virtù del giorno dopo, a cui il saggio di Manlio Brusatin, Stile sobrio. Breve storia di un’utile virtù. Marsilio, Venezia 2016, dedica una colta e raffinata digressione.

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