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Salvare il fuoco

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Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

Il fuoco è stato uno degli incubi di questa estate. Incendi dappertutto, che hanno incenerito migliaia e migliaia di ettari di bosco. Spesso si è trattato di incendi dolosi, appiccati dall’uomo. Il fuoco fa paura, ma al tempo stesso ci attira. Gli uomini hanno un antico e profondo legame con il fuoco, tanto che è impossibile concepire l’umanità senza di lui, come ha scritto Catherine Perlès, studiosa delle origini della storia umana in Preistoria del fuoco (Einaudi). I miti studiati da James Frazer e diffusi in ogni luogo del Pianeta, ci dicono che l’Uomo si differenzia dall’animale solo a partire dal momento in cui diviene padrone del Fuoco. Il mito di Prometeo racconta inoltre che il fuoco è di natura divina, e che per averlo occorre rubarlo agli dei. Ma quando è accaduto questo?

 

Molte delle testimonianze disponibili ci dicono che già l’Homo erectus faceva uso del fuoco 400.000 anni fa, prima della comparsa dell’Homo sapiens. La scoperta e l’utilizzo del fuoco presuppone, scrive Perlès, un progresso psichico e non tecnico. L’Australopiteco possedeva tutti gli elementi necessari al suo utilizzo, dai fuochi spontanei alla possibilità di conservare e produrre il fuoco, ma, scrive la studiosa francese, non possedeva la struttura mentale per sfruttarlo. Per quanto la scoperta e l’utilizzo abbiano dunque un aspetto di natura tecnica, la dimensione psichica è dunque decisiva.  In effetti la tecnica è sempre un fatto mentale: dietro ogni progresso tecnico decisivo c’è sempre un elemento di tipo psichico, come ci ricorda anche Gaston Bachelard nel suo Poetica del fuoco, pubblicato postumo nel 1967. Il filosofo francese vede nella ricerca del fuoco una forma di sessualità sublimata e cerca di individuare in questo elemento presocratico gli impulsi di una verticalità psichica (“L’amore è la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco”).

 

Com’è cominciato tutto, come si è impadronito l’uomo del fuoco? Un tempo nei libri della scuola elementare s’incontrava l’immagine del fulmine che incendia il bosco e offre in tal modo agli uomini la possibilità di usarlo. Ricavare il fuoco dagli incendi spontanei non è tuttavia molto facile, ci spiega Catherine Perlès; per questo la studiosa di preistoria suppone che l’uomo probabilmente ha cercato innanzitutto di produrlo da solo. Una delle tecniche è quella della percussione di due selci. Negli scavi dei siti preistorici si trovano moltissimi esempi di pietre scheggiate e tuttavia non è possibile stabilire una connessione certa tra queste pietre e la produzione del fuoco. Il principio pratico consiste nel far cadere frammenti incandescenti prodotti dall’urto delle pietre su materiale infiammabile come stoppa, esca, foglie secche, trucioli, per poi consolidare il fuoco ravvivandolo con sostanze che bruciano più lentamente: legno, ossa, carbone, torba.

 

 

Solo dal Paleolitico si può pensare che questa tecnica sia stata in uso, data la presenza di tutti i materiali necessari. L’altra tecnica di produzione del fuoco, con cui molti si sono cimentati da ragazzi, è quella della rotazione manuale di un bastoncino su un altro bastone, che richiede l’uso di una cinghia o corda, perfezionamento che nel Paleolitico era già applicabile. Nel corso di questa epoca il legno è stato il maggior combustibile utilizzato. I paleontologi, che hanno studiato i focolari rinvenuti e i carboni ritrovati prevalentemente in grotte, hanno scoperto che le essenze più presenti sono: la quercia, il faggio, il pino, il bosso, l’acero e il pruno. I nostri progenitori usavano tutto quello che trovavano nel loro ambiente. Nella pianura sarmatica durante il Paleolitico superiore si usavano l’abete rosso, il salice, la betulla, poi anche larice, abete, pino, ginepro, sorbo, tasso, olmo, faggio, carpine e acero. Praticamente molti degli alberi che ancora crescono intorno a noi.

 

Anche l’osso è uno dei combustibili più utilizzati nei fuochi paleolitici, il secondo in ordine d’importanza. Il fuoco è calore, serve per riscaldare, ma anche per illuminare, effetto per noi ovvio, ma in un mondo in cui l’illuminazione artificiale era sconosciuta, davvero decisivo. La comparsa delle lampade e delle torce è un passaggio importante nella cultura umana. Dal paleolitico superiore appaiono le lampade di pietra. Il combustibile non è il legno, bensì i grassi animali e persino il midollo osseo. Lo scrittore e divulgatore francese Louis Figuier in un libro della fine dell’Ottocento ci ricorda come con il fuoco delle lampade svanirono le tenebre di antri e caverne dove l’uomo cercava rifugio; con il fuoco anche i climi rigidi divennero abitabili; diminuiva il timore degli animali feroci: “Perduti in mezzo a foreste infestate dalle belve i primi uomini ebbero quindi modo, grazie al fuoco acceso durante la notte, di addormentarsi senza temere gli attacchi delle grandi belve che si aggiravano non lontano da loro”.

 

Una visione oleografica ma probabilmente non troppo lontana dal vero. Il fuoco è stato il nostro principale alleato per migliaia di anni. Calore, luce, modificazione delle proprietà fisiche dei materiali riscaldati: questa è la meraviglia del fuoco, sussidio indispensabile per l’uomo in tutte le attività quotidiane (Perlès). L’uomo preistorico cui dobbiamo la scoperta del fuoco si è rivelato nel corso delle indagini archeologiche molto ingegnoso, tanto che gran parte degli utilizzi anche attuali del fuoco derivano da lui. La studiosa di preistoria ha calcolato che poteva ottenere il fuoco in dieci diversi modi. Sappiamo che poi poteva abbrustolire, bollire, arrostire gli alimenti, ma non possiamo sapere se effettivamente il cibo venisse cotto, dice Perlès. Di diverso parere è invece Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, che ha scritto un intero libro, L’intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri), per sostenere che è la cottura dei cibi ad aver reso l’uomo umano, cottura che può avvenire solo con il fuoco. La carne cotta è più digeribile, più sicura, fornisce più proteine della carne cruda, e quindi più energia. Sono i geni, a suo dire, dei cuochi della preistoria a circolare nei nostri corpi attuali; cuocendo si sono fortificati e sono sopravvissuti meglio dei mangiatori di carne cruda. Molto istruttivo è il capitolo in cui Wrangham si dedica alla confutazione delle valenze nutritive dei crudisti con tabelle, esperimenti, resoconti.

 

La sua idea è che gli uomini si sono adattati a mangiare cibi cotti come le mucche si sono adattate a mangiare l’erba, le pulci a succhiare il sangue o qualsiasi altro animale alla sua alimentazione tipica. Il nostro corpo e la nostra mente sono, secondo il biologo americano, l’effetto della cottura col fuoco: “Noi esseri umani siamo le scimmie che sanno cucinare, le creature del fuoco”. Usando il fuoco per cacciare i nostri progenitori hanno cominciato a modificare i territori che frequentavano, o dove erano stanziati; prima in modo inconsapevole, poi in modo consapevole e diretto. Il fuoco è stato il loro strumento principale. Con le fiamme hanno proceduto a disboscare i territori che abitavano, creando così ampi spazi coltivabili. Così si sono create condizioni favorevoli per alcune piante, specialmente le graminacee e i legumi, cui occorre la luce diretta del sole, come racconta Johan Goudsblom in un bellissimo libro, Fuoco e civiltà (Donzelli Editore).

 

Le società agricole stanziali sono il risultato delle fiamme che ardono. Il fuoco è fondamentale anche in altri ambiti della tecnica come la metallurgia, un capitolo decisivo della civiltà umana, che ha nelle figure dei fabbri i protagonisti di un’attività che confina con il sacro, come ci ricorda Mircea Eliade. Fuoco e religione sono il capitolo fondamentale a partire dal Paleolitico. Senza il fuoco non sarebbero pensabili i sacrifici, compresi quelli umani. L’Homo necans (Walker Burkert) usa il fuoco. Johan Goudsblom spiega il rapporto tra religione e fuoco da Israele alla Grecia e a Roma. Hestia è la divinità del focolare, dea della casa, contrapposta a Hermes, che diventerà poi Mercurio nel mondo romano. Il fuoco esce dai boschi, dalle foreste, dai campi e si lega alla città, ne diventa il centro, così come mutano pian piano, nel corso dei secoli, i combustibili che lo alimentano. Le città bruciano esattamente come i boschi, perché a lungo saranno costruite con il legno, contribuendo a disboscare le foreste che coprono il Pianeta, ridotte pian piano a poca cosa rispetto alle origini. È stato il fuoco a contribuire alla “pietrificazione” e “mattonificazione” delle città.

 

Un’antica religione, quella di Zoroastro, praticata ancora oggi in Iran e in India da alcune migliaia di fedeli, eredi di popoli che abitavano quelle regioni un tempo, conserva la memoria del nostro ancestrale rapporto con il fuoco. I parsi custodiscono nel loro sacrario il fuoco che arde da secoli e secoli nel tempio, dove si possono recitare le preghiere a Ahura Mazda, la divinità creatrice del mondo, divinità del fuoco. Negli anni Settanta Italo Calvino visita questo tempio nella città iraniana di Yazd e ne resta colpito. “La sola immagine possibile d’Ahura Mazda – scrive – è il fuoco: senza forma, senza limiti, che riscalda e divora e si propaga, nell’agilità delle sue lingue abbacinanti che cambiano colore a ogni istante: il fuoco che languisce nella lenta agonia della brace, si occulta nella cenere grigia, e d’improvviso rinasce, solleva le sue ali appuntite, riprende impeto, si slancia in una nuova fiammata violenta” (“Le fiamme in fiamme”, in Collezione di sabbia).

 

Lo scrittore è affascinato dal potere distruttivo del fuoco; lo teme, ma nello stesso tempo ne è attratto. Nel fuoco sono racchiusi, come aveva visto Bachelard, significati come purezza, distruzione, passione, timore, assolutezza. Il fuoco è morte e vita insieme. Calvino catturato dalla catena delle analogie trasferisce il suo sguardo all’universo: “L’universo è un incendio”. E si pone una serie vertiginosa di domande sul fuoco, sulla cenere, su quel processo irreversibile che conduce l’universo a decomporsi in una nube di calore: l’entropia. Scrive: “Il Tempo è come il fuoco”. Il pezzo, brani di diario di viaggio in Iran, si conclude con un apologo tratto da Jean Cocteau. Chiedono al poeta: se un incendio stesse distruggendo la tua casa, che cosa porteresti in salvo? Cocteau risponde: “Il fuoco”.   

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Caro supermercato, mi consoli?

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È di questi giorni la notizia che The Mall of America, la nota catena di centri commerciali statunitense, per celebrare il suo 25esimo compleanno, vada alla ricerca di uno scrittore, il cui compito esplicito sia di prestarsi a raccontare la cultura e la vita del mall, vivendoci per cinque giorni. 

Va da sé che, per ottemperare compiutamente al suo compito, il fortunato vincitore della call potrà usufruire di una tessera per ottenere gran parte del cibo e della merce in vendita gratuitamente oltre che di un generoso onorario per il suo lavoro. 

In rete, si è letta qualche ironia su quanto la notizia possa, per molti, rappresentare un’occasione da cogliere al volo per appagare i propri più languidi desideri adolescenziali, abbandonandosi, una volta tanto, al piacere del consumo. Il tutto, per giunta, senza nemmeno l’incomodo di affrontare rimorsi e sensi di colpa dato che, contro ogni possibile brontolio della coscienza, si può sempre propugnare che di duro lavoro si tratti. 

 

A The Mall of America di un’occupazione di questo genere devono averne davvero sentito il bisogno, se è vero che i centri commerciali vivono dentro una retorica apocalittica che li dipinge come piatti luoghi dell’omologazione. Sarà forse colpa di Romero che proprio nel mall ambientò alcuni passaggi del suo film più famoso, L’alba dei morti viventi. I suoi zombie, richiamati dal ricordo delle abitudini praticate prima di passare a miglior vita, impassibili si rivolgono al centro commerciale. Essi si aggirano nei suoi lunghi corridoi a caccia di carne fresca. E somigliano maledettamente ai clienti che normalmente frequentano questi spazi, tanto da rappresentarne, nella visione del regista, una specie di trasfigurazione. Ma si sa che non c’è ingiustizia più grande di confondere vittime e carnefici.

 

Un tale atteggiamento apocalittico sopravvive, ovviamente, fino ai nostri giorni, salvo che a fare la spesa ci andiamo tutti e che, tutti, nella vita quotidiana, ci troviamo a passare attraverso questi luoghi, segnandoli con il nostro passaggio.

 

Ad assumere una prospettiva di curiosità, provando a raccontare senza falsi moralismi il mondo “sconosciuto” di quelle che vengono forse un po’ troppo frettolosamente chiamate “cattedrali del consumo” (centri commerciali, supermercati ma anche aeroporti, navi da crociera, villaggi turistici etc.), ci sono, a dire il vero, alcuni riferimenti fondamentali: si va dal solito Benjamin (per esempio di Das Passegen Werk, 1927-1940), fino Al Paradiso delle signore di Zola, passando magari per qualche film interessante come The Women (1939). Più recentemente, ricordiamo Storie di amori e infedeltà, pellicola di Paul Mazursky con i coniugi Woody Allen e Bette Midler che, durante il loro pomeriggio al centro commerciale, litigano e fanno pace più volte; il romanzo Una settimana in aeroporto (2009), diario dei cinque giorni trascorsi a Heathrow dal noto scrittore Alain de Botton, assoldato anche lui come writer in residence stavolta da British Airways; il celebre film The Terminal di Steven Spielberg o ancora il delizioso Una cosa divertente che non farò mai più (1996) del compianto David Foster Wallace, sulla sua esperienza di scrittore in crociera. Indimenticato rimane anche uno spot girato ancora da Woody Allen per Coop. Al centro della storia troviamo Giacomo Vitali, uomo qualunque che insieme alla sua famiglia affronta la scelta fondamentale. Egli, proprio perché “innamorato della vita”, del “cibo buono e sano”, delle “passeggiate all’aria pulita”, piuttosto che farsi un giro al parco più vicino o recarsi dall’ortolano di fiducia, entra alla Coop e sceglie di non venirne via: il mondo là fuori, proprio come ai protagonisti del Grande Freddo, doveva essergli sembrato troppo gelido.

 

 

Era il 1992 e questo spot girato da Allen per la nota catena della grande distribuzione avrebbe fatto, a suo modo, storia. Ancora oggi, 25 anni dopo questa fortunata campagna, supermercati e centri commerciali non hanno cessato di consolarci. Indulgenti e longanimi verso ogni umana debolezza, rimangono sempre pronti, anche la domenica, anche alle 22.30, anche a Pasquetta, a soffocare la nostra tristezza nell’abbraccio della loro luce artificiale, tollerando placidi il nostro passarvici attraverso e mai guardandoci storto quand’anche avessimo deciso di non procedere all’acquisto. Seguire i passi dei tanti Giacomo Vitali che alle lusinghe della mondanità preferiscono il mallè forse il modo più efficace per comprenderne il funzionamento. 

 


Ecco, una prospettiva etnografica nei confronti di questi spazi così controversi è forse quello di cui si sente la mancanza, al punto da spiegare la balzana offerta di lavoro con cui abbiamo aperto. 

La semiotica (vedi i lavori di Floch e, più recentemente di Scalabroni e Agnello) ha molto lavorato sull’idea dei centri commerciali come luoghi di socializzazione, contribuendo a superare il riduzionismo di certo marketing interessato soltanto ai numeri e, d’altra parte, a incrinare l’idea apocalittica che essi possano davvero essere considerati non-luoghi senza storia e senza identità.

 

In tempi non troppo lontani, poi, un antropologo americano, Paco Underhill, si è concentrato sul problema della descrizione di questi luoghi del consumo come macchina sociale. Guardato attraverso il suo punto di vista, il mall rivela tutta la sua complessità. Si rivela luogo perfetto di articolazione delle microtattiche della vita quotidiana, in una partita a scacchi che vede inarrestabilmente fronteggiarsi due forme di potere in competizione per l’egemonia: quello dall’alto, dello spazio pianificato e controllato che obbedisce alla logica del massimo profitto e quello dal basso, delle pratiche di resistenza, delle mille deviazioni di senso che, nell’esperienza di attraversamento, i “cittadini” del mall mettono in pratica. Se si assume una prospettiva di questo genere, i centri commerciali emergeranno come giganteschi generatori di socialità, in grado di imparare dalla vita che dentro di essi scorre incessantemente. Ciò che, al mall, appare quindi come ovvio e autoevidente, è quasi sempre il risultato provvisorio dello scontro fra forme di potere. Facciamo qualche esempio: il fatto che, in prossimità dell’ingresso, si possa sempre riconoscere la solita sgarrupata cartoleria o qualche altro negozio di poco conto (parrucchieri et similia) non è affatto casuale. L’ingresso dei centri commerciali viene chiamato in gergo tecnico “zona di decompressione” e ha il ruolo di agire sui consumatori in modo da modificarne il passo.

 

Il mall, propugnatore ante litteram della filosofia slow brand, vuole a tutti i costi che il suo “cittadino” rallenti, assuma un’andatura adeguata a valorizzare ogni discontinuità spaziale suscettibile di essere messa a frutto dal punto di vista commerciale. Dato che il ritmo della città è di gran lunga più veloce di quello che ognuno di noi tiene durante la passeggiata al mall, il passaggio lungo l’area di decompressione avviene così velocemente da inghiottire le attività commerciali presenti all’ingresso: esse letteralmente passano inosservate agli occhi di clienti troppo veloci. Ecco spiegato il prezzo più basso dell’affitto dei locali di questa zona di passaggio. Inutile dire delle mille strategie che vengono messe in atto per ovviare a un tale problema: offerte della settimana, “operazioni sottocosto”, tagli prezzo sono tutte iniziative che “prendono corpo” attraverso grossi volumi posti proprio all’ingresso. Essi, impedendo fisicamente ai clienti di passare, ottengono il vantaggio di rallentargli il passo in vista della loro passeggiata e, allo stesso tempo, di valorizzare commercialmente delle aree “sfortunate”. Ci sarà tempo, una volta entrati, per farsi risucchiare dal flusso, lungo viali e piazze, strade e passaggi che hanno in comune il fatto di essere lisci e levigati, di voler essere il meno significativi possibile, in modo da non distrarre il passante dalla merce in vendita. 

 

Lo spazio del centro commerciale si costituisce, allora, come surrogato della città, orizzonte cittadino geneticamente modificato, città nella città, inarrestabile doppio urbano. Tanto inarrestabile da indurre i suoi passanti a stare al gioco, calandosi, di volta in volta, nella parte che esso provvisoriamente gli assegna: spietati pistoleri alla panineria texana, amanti del lusso e del buon vivere due negozi più avanti, una volta entrati nella gioielleria di turno. Succede perfino al povero Woody Allen (nel già citato Storie d’amore e infedeltà), costretto a sferrare un bel pugno sul muso al mimo che, durante la sua giornata al mall, non faceva altro che scimmiottare i suoi alterchi con Bette Midler, in una sorta di improvvisata parodia del suo passaggio. 

 

Il modo in cui i centri commerciali mimano la città e la vita vera merita pertanto di essere preso in considerazione, emergendo come peculiare e significativo. Si dà il caso, per esempio, che il mall si offra come orizzonte metropolitano ripulito e sicuro: niente sobborghi, ordine e decoro sono la sua regola d’oro. D’altra parte, lo spazio del centro commerciale si rivela insospettabilmente più accogliente di quello cittadino, vuole a tutti i costi mostrare di essere a misura d’uomo, a misura della sua inadeguatezza, della sua incapacità di vincere tutte le battaglie che la lotta per la sopravvivenza impone in città. Nel centro commerciale, per definizione, c’è sempre posto per tutti, non solo per i vincenti. Se lo spazio urbano è sempre frutto di una ragionata selezione, basata sul conflitto fra interessi contrastanti, quello del centro commerciale ingloba, superando, in nome della conciliazione delle più disparate esigenze, ogni vincolo di carattere architettonico e funzionale: cartongesso, plexiglass e silicone, sostiene il grande architetto Rem Koohlhas, sono il suo principio costruttivo. 

 

Ecco perché, proprio mentre la classe media veniva progressivamente prosciugata dalla globalizzazione, i centri commerciali si sono riempiti così velocemente di vita, di persone che hanno visto nella bigness della loro monumentale scenografia un’opportunità di assumere un ruolo, un’offerta genuina di socialità, oltre ogni risentimento antibrand. I centri commerciali finiscono per apparire interessanti, così, non soltanto perché possono esibire il negozio all’ultima moda, ma perché si propongono come luoghi della folla, della complessità, dell’imprevisto. E proprio l’imprevedibilità (è stata – ironia della sorte – Jane Jacobs, gloriosa urbanista e militante anti-mall a sostenerlo) rappresenta il motore di ogni socializzazione: i luoghi vengono frequentati in funzione della loro capacità di promettere l’inaspettato, di fare interagire nel medesimo teatro attori diversi che mai si sarebbero altrimenti incontrati. 

In virtù di questa loro propensione ad accogliere tutti, a costituirsi come luogo frequentato e quindi, in un certo qual modo, complesso, dallo spazio libero delle periferie, i mall hanno così sferrato la loro sfida alle città. È successo anche in Italia con lo sbarco delle grandi catene della grande distribuzione organizzata. Immediatamente, i loro mall sono entrati in conflitto con i centri storici delle città, proponendosi come centri alternativi e, in definitiva, più accessibili e approcciabili, più facili delle città stesse. Molta retorica sullo svuotamento urbano e sulla morte dei centri storici è stata spesa, indicando come nemico numero uno proprio il centro commerciale. 

 

A questo punto, il ribaltamento. C’è voluto poco perché le città si attrezzassero a rispondere a un tale affronto. Introducendo zonizzazione, chiusure al traffico, pedonalizzazioni, i centri storici si sono trasformati in centri commerciali naturali. Sostituendo il loro ruvido asfalto con il levigato basolato delle nuove pavimentazioni e lucidando le loro vetrine, facendo rallentare il passo ai propri passanti, costretti a parcheggiare la propria auto per accedervi e attraversarne i viali, hanno cominciato a pensare se stesse come scenografie al servizio della passeggiata. Un duro colpo ai casermoni di periferia che non riescono più a competere con la grandiosità degli scenari monumentali che i centri storici possono offrire come sfondo alle merci in vendita. Si capisce allora quanto il demalling, ovvero la progressiva dismissione dei grandi spazi del consumo delle nostre periferie urbane, sia solo il segno del loro avanzamento, della loro egemonia. Il futuro dei centri commerciali non può più essere la periferia. I mall vogliono stare al centro, vogliono essere il centro, vogliono essere la rigenerazione urbana delle nostre città. 

E non è nemmeno detto che sia poi così tanto male, checché ne pensino gli apocalittici. 

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Mall, anti-mall, demalling
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Lo smartphone a scuola

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Sono un insegnante che ha iniziato a fare le prime supplenze nel 1988; in quasi trent’anni ho assistito a svariate mutazioni, tutte superficiali, nell’attività di docente, e, al contempo, ad una ferrea, adamantina, coriacea invarianza fondamentale in ciò che si chiama scuola. 

Una delle guide della mia vita ha nome Giorgio Manganelli e questo grande scrittore ebbe modo di scrivere negli anni ‘80, a proposito dei cosiddetti mutamenti scolastici, le seguenti illuminanti e definitive parole: “ mi dicono che le cose sono cambiate. Sarà. Ma ci sono le classi? Le aule? Le campanelle? E allora non ci credo”. Parole sante!

Le riforme della scuola non sono riforme. Sono ritocchi parziali, spesso scoordinati e raffazzonati, tendenti ad un unico fine, triplicemente modulato: tagliare, tagliare, tagliare. Ore, posti di lavoro, siano cattedre o segreterie e dirigenze.

 

Gli accorpamenti di istituti di cui sono stato testimone negli anni non hanno alcuno scopo se non quello appena ricordato. La didattica, la pedagogia non vi hanno alcuna parte.

L’introduzione della settimana corta, cinque giorni su sette, (che è una realtà della mia scuola, sudtirolese) si spiega con la volontà di risparmiare  sul riscaldamento, sulle spese di trasporto eccetera. Perché tenere accesi gli impianti sei giorni è più dispendioso che tenerli accesi cinque. Pagare gli autisti degli scuola-bus cinque giorni costa meno che pagarli sei. Tutti sanno che è così.

Di riforme autentiche, nella scuola italiana post-unitaria, ce ne sono state unicamente due: quella del 1923 e quella del 1962.

 

 

La cosiddetta riforma Gentile e la riforma che introduceva la scuola media unica.

Una presentata come fascistissima, ma in realtà, come riconobbe lo stesso Gentile in parlamento, d’impianto liberale, l’altra ispirata alla stagione riformista del centro-sinistra.

Queste due riforme possono piacere o non piacere. Però nessuno può negare che nascessero da idee. Non so quanti ministri e ministre dell’istruzione pubblica abbiano avuto modo di leggere o almeno sfogliare i due tomi del Sommario di pedagogia come scienza filosofica. Lì avrebbero trovato, ripeto, delle idee forti. Repellenti magari, per taluni. Ma sostenute senz’altro da energia di argomentazioni e pensiero. Allo stesso modo, quella della scuola media unica, era una riforma vera, nata da una convinzione profonda, basata su precise prese di posizione, di classe, magari, tanto per usare una parola oggi del tutto desueta.

Ora, metà settembre 2017, i giornali titolano: la svolta dello smartphone. La ministra Fedeli lo vuole autorizzare.

 

Premetto che io non lo possiedo lo smartphone. E che considero la tecnologia per quello che è: cambio di supporti. Una sciocchezza che sia scritta su carta con lapis, o incisa nel bronzo, o sullo schermo – sempre quella resta: una sciocchezza.

Precisato questo, non so i colleghi (anzi lo so, ma faccio finta di non saperlo, perché a scuola si procede così), ma io lo smartphone sono almeno sette anni che lo faccio usare. Se dico una cosa e gli alunni non mi credono: aggiungo: controllate in rete. Verificate le mie affermazioni in tempo reale, secondo l’abusata espressione. Fonti come wikipedia, per me, sono attendibili. Tutte le volte che le ho consultate ho trovato che dicono sostanzialmente cose giuste e veritiere. Certo ci saranno anche errori, imprecisioni eccetera, ma anche nei libri stampati se ne possono trovare. E non poche. Nel corso della mia lunga attività ho reperito svarioni in grammatiche, manuali, carte geografiche, mappe e persino all’interno di testamenti biffati da notai di fama.

E la ministra lo scopre ora, lo smartphone! Sancta simplicitas! 

Ma è sempre così. L’ufficialità è in perenne ritardo. Costitutivamente. Come Achille con la tartaruga. O giù di lì. Chiedere conferma a Zenone, grazie.

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Agnetti. A Cent’anni da adesso

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Vincenzo Agnetti, o di come affrontare il linguaggio con atteggiamento di sfida, a petto in fuori, armati giusto di se stessi. Si tratta di attitudine vertiginosa, che dà il capogiro come lo dà mettersi di traverso a qualunque cosa esista in quanto tale, come un dato di fatto.

Missione e urgenza del grande e vero pensatore, del grande e vero artista, del pensatore evoluto, effettivo, è sfidare il già dato, e la vertigine che viene da tale sfida; quale ulteriore fardello, dovrà farlo sostenendo l’espressione di disappunto del resto del mondo all’udire una dichiarazione di intenti che suoni più o meno: «Mi propongo di mettere in discussione il linguaggio che ci è dato perché non voglio accettarlo in quanto tale, non voglio prendere nulla di ciò che è già dato».

 

Quello sguardo, in risposta a quella frase, accusa lei e chi la pronuncia di ingratitudine perché ciò che è già dato è qualcosa di concesso, disposto e disponibile: è più facile considerare il già dato come qualcosa di donato, quindi è molto più comodo ritenerlo giusto, in definitiva è una questione di auto-conforto. Ma il conforto di sé è ciò da cui il vero pensatore deve rifuggire, scappare terrorizzato, preferendogli di gran lunga il disagio del non-dato, del da-dare, del da-costruire, del trovare. La rassicurazione (del linguaggio che informa) è l’arma del potere, la ricerca del disagio (per sé e per l’altro) è lo strumento del resistente, dell’artista. Deleuze si pronunciò in maniera eloquente sulla questione:

 

Che rapporto c’è tra l’opera d’arte e la comunicazione? Nessuno.
Nessuno, l’opera d’arte non è uno strumento di comunicazione. L’opera d’arte non ha nulla a che fare con la comunicazione. L’opera d’arte non contiene affatto la benché minima informazione. D’altra parte, invece, c’è un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Lì, allora, sì. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e la comunicazione, sì, a titolo di atto di resistenza. 

[Gilles Deleuze, “Che cos’è l’atto di creazione?", conferenza, 17 maggio 1987]

 

 

Vincenzo Agnetti (1926-1981) intrattenne un rapporto conflittuale e intimo con il concetto di linguaggio nell’arco di tutta la sua attività, interrotta nel pieno fervore da una morte improvvisa. L’arte concettuale di Agnetti posa le sue fondamenta sulla consapevolezza che il linguaggio sia stato disposto come una riga tracciata in modo netto, regolare, un sistema legato a se stesso e da se stesso, una linea che segue e indica un percorso diritto. Come la legge. Non è un caso se il linguaggio condivide con quest’ultima la provenienza etimologica di lègein, legare (la stessa di leggere). Dobbiamo naturalmente badare, per ritrovarci su questo binario, a intendere per linguaggio una traduzione inevitabilmente manchevole del concetto-scrigno di logos, così fecondo da sfuggire sempre ai tentativi di catturarne il senso con la parola (lexis, stessa origine).

 

Il linguaggio, così, porta nel proprio stesso concetto il germe della propria ineffabilità, e allo stesso tempo, come si diceva, propone un progetto lucido, deciso, ideologico. Sceglie cosa vale la pena di dire, e quindi cosa meriti di essere inteso: la creazione di senso del linguaggio procede attraverso la decisione. La linea netta di questa decisione è la preda dell’arte di Agnetti, che vuole affondarla visceralmente e infine tradirla per generare un linguaggio-nebulosa, da de-costruire per ricostruire, che sia molto più importante, interessante e gravido del linguaggio-linea.

 

Siamo all’esordio del momento espositivo dell’artista, che non a caso sceglie di titolare la sua prima personale, al Palazzo dei Diamanti di Ferrara, Principia (1967), come una delle sue opere più celebri, il cui nome deriva dai Principia mathematica di Bertrand Russell e Alfred N. Whitehead.

Un grande pannello di legno dipinto da una campitura bianca a sua volta abitata da alcune parole. Lemmi singolari, solitari ma inevitabilmente messi in relazione dallo sguardo, ripetuti, frammentari, forse casuali. Un altro pannello in legno, più piccolo, è applicato alla struttura, la attraversa dall’alto in basso, è dipinto di bianco, presenta delle parole. Ed è scorrevole in orizzontale. Al muoversi del pannello che l’artista definisce «cursore», si muove il rapporto tra le parole, la relazione che il nostro sguardo individuava. Si presenta una delle formule di Agnetti, destinate a risuonare per sempre come sua cifra stilistica e suo lascito concettuale: «Una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità». 

 


Far tracimare il linguaggio, farlo delirare (de-lira, fuori dal solco), farlo esplodere, saltare per aria, ridurlo in frantumi che vaghino per il cosmo e lo invadano in quanto polvere, in quanto nebulosa, in quanto costellazione.

Come? Vincenzo Agnetti era posseduto dalla convinzione che la traiettoria verso questo non-linguaggio non possa essere univoca, ma debba necessariamente essere spezzettata, errabonda, ricolma di interruzioni qui e di ripartenze là. Le strategie per individuarla, per tracciarne la non-individualità, per esplorarne il territorio sono molteplici, ma Agnetti scelse una premessa nient’affatto banale, nella sua semplicità: di questo non-linguaggio, non si farà scrittura o riscrittura, non si farà altro linguaggio ma, piuttosto, opera. L’opera è ogni volta un esperimento, è unicità radicale e ripetuta, insistita, è un mondo assolutamente imprevedibile che si fa carico di un incantesimo compiuto, di un salto mortale ben riuscito: il linguaggio, su di essa, non è più una scatola vuota ma viene costretto nel ruolo di contenuto. Il dato, poi, viene neutralizzato del suo “già”, della sua particella temporale che è imposizione ideologica, del modo in cui è sempre stato e sempre sarà, e derubricato a puro elemento come, in matematica, il numero, universale e particolare insieme, strumento senza scopo.

 

Quella del numero come minuscola e insieme mastodontica aporia non smise di affascinare Agnetti e di ispirarne, sul piano concettuale, le disinstallazioni, i rimontaggi, le rimodulazioni. Nella preziosa antologica A cent’anni da adesso, dedicata all’artista milanese a Palazzo Reale dal 4 luglio al 24 settembre 2017 e curata da Marco Meneguzzo, almeno tre sono le occasioni in cui al numero viene affidato il ruolo di protagonista della scena, di maestro della controversia.

La prima è la stanza con la fotografia che ritrae il teatro San Fedele, vuoto, deserto come quando nel 1973 Agnetti vi recitò un monologo che sarebbe stato ascoltato solo giorni dopo, registrato. Nella stanza viene diffusa, però, un’altra registrazione, incisa un anno dopo la prima, che mantiene le modulazioni e l’intonazione della voce sostituendo, tuttavia, alle parole i numeri (meglio: i nomi dei numeri). Elencati da uno a dieci, recitati in una sequenza reiterata che si tramuta inellutabilmente in litania, sempre diversa, ma sempre uguale, mentre la calda voce dell’artista si fa ipnotica. Unoduetre… quattro… cinquesei… setteottonove… dieciunoduetrequattro… cinqueseisette… otto… novedieciuno…

 

La seconda, altra pietra miliare nella produzione agnettiana, è La macchina drogata (1968).

Una calcolatrice Olivetti Divisumma 14è stata manomessa, i dieci martelletti che recavano le matrici a forma di cifra destinate a stampare numeri sulla carta sono stati sostituiti e ora non stampano più numeri, ma parole. Ritorna la sostituzione, nella stessa direzione ma nel verso opposto, e la combinazione lineare delle cifre, che dava luce ai numeri ed esplicitava sulla carta le operazioni algebriche in modo limpido e inequivocabile è diventata, ora, il disorientante flusso di coscienza di una macchina impazzita. Acrobazia compiuta con eleganza, quella di Agnetti, che, togliendo di mezzo le cifre, costringe la macchina a esprimersi in cifra, in un linguaggio cifrato fatto di lettere. Un codice pressoché indecifrabile, senza sottovalutare il fatto che l’importanza di tale operazione è probabilmente nulla. Le sillabe non si combinano ma si contorcono in una dichiarazione apocrifa, denunciando la fragilità del linguaggio come informazione e, una volta di più, il suo vuoto di senso. Il linguaggio come ricettacolo vuoto, sempre uguale a se stesso, in ogni discorso, e disposto per differenziarsi soltanto per il contenuto che, di volta in volta, lo riempie. In questa ripetizione, tuttavia, la differenza (il contenuto) è spesso soltanto illusoria, o perlomeno fuori tempo, in ritardo sull’intenzione del discorso.

 

Che diventa così il terreno esclusivo del significante, del contenitore, il quale, fingendo di individuare nel rimando simbolico ciò che lo renda differente, unico, in realtà accelera nel (proprio) vuoto, giacché il simbolo altro non è che un analogo ricettacolo, un equivalente contenitore pieno di nulla. Discorso e simbolo sono vuoti pneumatici che invitano il parlante/scrivente e l’ascoltatore/lettore a riempirli. E lo fanno senza soluzione di continuità perché, senza soluzione di continuità, essi riproducono il proprio vuoto, nullificando ciò di cui ci sforziamo di riempirli, ciò che chiamiamo contenuto. Assumere questa paradossale verità, con la sua intima connotazione politica, e farci i conti, appunto, è compito del numero, per la terza volta: Progetto per un Amleto politico (1973), è una stanza monumentale, un mausoleo con le bandiere nazionali di tutto il mondo e una nuova sostituzione, questa volta sulla scena shakespeariana, tra la stella protagonista parola e la riserva cifra. È quest’ultima a recitare il monologo, sparpagliandolo di simboli e neutralizzandone il contenuto, rivelandone d’altro canto una versione universale, sovranazionale, una per tutti.

 

 

Genio e ostinazione, coscienza politica e conoscenza scientifica, studio ossessivo e profondissima ironia: le sale dell’esposizione, testimonianza così fedele dell’anima artistica di Agnetti, trasudano queste sue caratteristiche così cangianti e raccontano di un personaggio impossibile da trattenere in una definizione senza che qualcosa di fondamentale vi sfugga. Vincenzo Agnetti non è mai dove si può pensare di individuarlo, oppure è sempre e contemporaneamente anche alle coordinate opposte. I suoi ritratti, che sono sempre anche autoritratti, emergono su alcune tavole verticali per mezzo di parole, incise su feltro, e nessuna raffigurazione. I Feltri di Agnetti sorridono sotto i baffi, enigmatici oracoli ma spesso anche solo associazione acuta e imprevista.

 

 

L’artista si provoca, non sa e non vuole smettere di farlo, telefona a se stesso (Autotelefonata 1974), risponde alla propria invocazione, e può rispondersi sempre sì, elevandosi a illusione di comunicazione compiuta, oppure sempre no, tornando nella disperata presa di coscienza di quella prima illusione. Sono le sue parole a darci una misura, pur parziale, di questo proficuo disorientamento.

 

L’artista è la coscienza ribelle della cultura perché la cultura, nei suoi specifici, come ad esempio la storia, ci presenta soltanto dei messaggi intercettati. Qualsiasi insegnamento, qualsiasi segnale, qualsiasi verità detta (eppure la verità non si può pronunciare) è un medium di gomma. La cultura è l’apprendimento del dimenticare, esattamente come quando si mangia. Manipolato più o meno bene il cibo ci dà il suo sapore, ma presto dimentichiamo il sapore in favore dell’energia ingerita. In un certo senso dimentichiamo a memoria i sapori, le intossicazioni e i piaceri del mangiare per portare avanti con più libertà le nostre gambe, le nostre braccia, la nostra testa…

 

Non occorre, allora, nutrire l’ambizione di un linguaggio assoluto che ricordi e archivi tutto, quanto, piuttosto, allenarsi (o lasciarsi andare) al “dimenticare a memoria” – la formula più amata e citata di Vincenzo Agnetti – perché l’archivio sia affidato a una sorte di memoria motoria, di memoria delle membra, anziché alle etichette. Eccola, ammesso che potessimo ipotizzarne l’esistenza, la soluzione di un percorso parabolico la cui funzione è in continua evoluzione: una memoria altra, un “mandare a memoria” che non riguarda il linguaggio già dato ma, piuttosto, il corpo, l’essenziale, un automatismo concettuale che è naturale come respirare e che il linguaggio mai potrà catturare. Mandare a memoria, sì, ma analogamente a come dicono i britannici: learning by heart.

Quasi a memoria, ecco. Quasi dimenticato.

 

AGNETTI. A cent’anni da adesso

A cura di Marco Meneguzzo

Palazzo Reale di Milano

Dal 4 luglio al 24 settembre 2017.

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Uccidere senza un perché

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Sono innumerevoli le vicende processuali che hanno meritato e meritano anche oggi l’attenzione degli scrittori, da Buzzati e Moravia tra gli italiani, a Gide e Truman Capote per citare gli esempi più noti. Perché allora leggere questo libro? Meyer Levin non è uno scrittore affermato. Ha scritto alcuni libri poco noti tra cui Compulsion (Adelphi, 2017), uscito nel 1956 senza particolare successo. In Italia viene tradotto dopo qualche anno con il titolo Gli ossessi, ma poco se ne parla. È portato sullo schermo nel 1958 con il titolo Frenesia del delitto e con un titanico Orson Welles, ma rimane in bassa classifica. Nei primi anni novanta ispira il trascurabile Swoon

In realtà il libro nasce per una casualità. Nel 1924 Levin ha avuto in sorte di seguire, come giornalista giovane e dinamico, una vicenda giudiziaria che all’epoca ha suscitato molto interesse e la descrive nel libro. Di cosa si trattava? 

 

I protagonisti, assassini poi confessi, sono due minorenni, rampolli vezzeggiati di ricche famiglie cui nulla manca, annoiati e alla ricerca di emozioni, legati tra loro da un vincolo stretto e sessualmente ambiguo. Una coppia che diviene criminale, così per i penalisti classici, in cui i ruoli di servo e padrone, di capo ed esecutore, di dominante e dominato sono solo apparenti. 

Organizzano, per dimostrare la loro intelligenza e superiorità, un piano. Quello più raffinato e tragico: fingere un sequestro di persona per denaro, ucciderla invece per timore di essere riconosciuti, nascondere il cadavere e intascare la somma, cui peraltro sono indifferenti perché ricchi. 

 

Come diranno in seguito con presunzione ‘avevamo pensato a tutto’. Uno dei due prepara la lettera in cui chiede il riscatto con la Corona, portatile che tiene in casa. Noleggiano un’auto con nome falso perché la loro è troppo lussuosa, circolano in città e scorgono un giovane amico che individuano come bersaglio, lo trascinano sul sedile, lo colpiscono con uno scalpello e, per evitare soprese, lo strangolano. 

A questo punto subentra la seconda parte del piano: raggiungono una zona paludosa vicino al cimitero, spogliano il cadavere e lo trascinano nudo avvolto in una coperta senza aver mancato di devastarlo nel viso e nel corpo con l’acido cloridrico. Inseriscono quello che riescono del corpo in un tubo di scarico e lasciano gli abiti nei cespugli vicini. A questo punto fanno recapitare alla famiglia la lettera di riscatto indicando un sofisticato sistema, lancio di una borsa con il denaro da una certa linea ferroviaria, per ricevere la somma richiesta. 

 

Tutto sembra procedere come previsto, la polizia naviga nel buio, i giornalisti seguono l’evolversi della vicenda parlando con tutti, la famiglia pensa come raccogliere il denaro. I due giovani provano un’eccitazione perversa nel partecipare alle indagini, nel parlare con la polizia, nel commentare l’accaduto, nel discutere quanto avvenuto sotto il profilo giuridico con il professore. In poche parole ‘sfidano il destino’.

Al momento di concludersi, il piano improvvisamente si inceppa. Viene casualmente trovato un corpo nudo spuntare dal cunicolo e si accerta che è il giovane sparito. Nei pressi vengono individuati i vestiti e così si blocca l’operazione di consegna del denaro, divenuta tristemente inutile. Ma, sempre nei pressi, vengono raccolti dalla polizia occhiali di tartaruga, molto particolari e costosi. Si avviano le ricerche del venditore e si accerta che può essere solo un negozio in altra città, Chicago, che ne ha venduti tre esemplari. Depennate le persone lontane non rimane che uno dei giovani che, convocato dalla polizia, pasticcia. Nega che siano i suoi, non riesce a spiegare come gli siano caduti dalla giacca se non togliendola, poi ipotizza che siano rimasti a casa, dove però la polizia non li trova.

 

L’accesso nella abitazione dà altri frutti: vengono rintracciate alcune copie in carta carbone di lettere scritte con la macchina portatile Corona, anch’essa del giovane. E si nota che hanno alcune imperfezioni (lettere p e y) identiche a quelle presenti nella lettera del riscatto. I giovani vengono ripetutamente interrogati sul pomeriggio del giorno del sequestro. Le versioni si ingarbugliano, si contraddicono, e si verrà a sapere che avevano previsto di far convergere un alibi per i sette giorni immediatamente successivi all’omicidio. Essendo l’interrogatorio avvenuto dopo, l’accordo non valeva più e ciascuno ha agito liberamente. Sarebbe stato ancora poca cosa se non fosse intervenuto il colpo di grazia. L’autista di uno dei due ragazzi, Emil, fornisce un dettaglio che potrebbe essere utile anche se lo ritiene ‘insignificante’: quel pomeriggio è stato lui a usare l’auto del ’signorino’ che quindi non poteva disporne. Le menzogne si sommano: quel pomeriggio sono stati insieme, in auto non sanno dire con chi, non hanno usato la loro vettura, gli occhiali rinvenuti accanto al cadavere sono di uno dei due e sempre uno di loro ha usato la portatile Corona servita per scrivere la lettera del riscatto. Gli indizi diventano troppi, schiaccianti, e loro confessano. 

 

 

E il giovane Levin segue per il giornale l’inchiesta e poi il processo, riferisce, espone spiegazioni, frequenta i due giovani poi imputati e condannati perché li aveva conosciuti in precedenza, cerca di capire e capirli. 

 

Il processo si conclude con la condanna alla pena perpetua; uno dei due è ucciso in carcere mentre l’altro, più tardi, presenta domanda dl libertà condizionata. A quel punto a Levin viene richiesto, in quanto cronista all’epoca dei fatti e amico degli assassini, di avere un colloquio con il superstite. L’esigenza di fare appello alla memoria lo porta a riesumare la vicenda e scrive Compulsion. Il libro è fedele nella ricostruzione attraverso il recupero dei giornali dell’epoca, tra cui le arringhe dell’accusatore e del difensore. Nel contempo introduce elementi di fantasia nei dialoghi, cambiando i nomi di alcuni personaggi, come quello dello stesso autore che si maschera sotto altra identità. Ne nasce un romanzo documentario che racconta un pezzo di storia americana degli anni Venti, una Chicago per noi europei legata solo alla mitologia del proibizionismo, della criminalità feroce, degli ‘Intoccabili’ come titola il celebre film. Quella del libro di Meyer Levin è un’altra Chicago: la benestante, vellutata, chiusa nel suo bozzolo dorato, distante da tensione o odi, pervasa dalla noia dei giovani ricchi che s’industriano a passare il tempo tra balli, amori, sport. 

 

Non basta però la stimolante ricostruzione storica con delitto, alla pari del giallo anglosassone classico che, come notò Walter Benjamin, senza quei salotti borghesi non avrebbe potuto esistere. La vicenda è un’occasione per l’autore di toccare anche problemi generali, quelli senza storia e senza tempo. 

Innanzitutto il romanzo affronta la domanda del perché si delinque o, per dirla diversamente, della possibilità di delinquere senza un perché. Esiste sempre il movente nel delitto, quella molla che spinge all’azione, o esistono anche azioni immotivate, ingiustificate? Emerge in Compulsion la fisionomia dell’atto gratuito che ha affannato i criminologi e i redattori del codice penale. Ha appassionato anche i letterati: come Michel Foucault di fronte all’agire tragicamente muto del suo Pierre Rivière, oppure Camus e Gide che lo hanno descritto quale ribellione contro la normalità, contro la morale noiosa, contro la mancanza di ideali. 

 

Nella vicenda i due giovani vivono credendosi superiori, “esentati dalle leggi ordinarie”, capaci di tutto senza subire niente. Sono imbevuti delle concezioni superomistiche, e soprattutto determinati a vivere secondo le proprie convinzioni perché “una filosofia, se si considera fondata, è qualcosa da mettere in pratica nella vita quotidiana”, “è da vigliacchi non fare quello che si vuole”. Da questa osservazione discende l’idea che l’essere superiore ricerca il delitto perfetto. Analizza ogni ingranaggio, misura ogni dettaglio, bandisce l’impulso a favore della minuziosa preordinazione. L’atto diviene “un esperimento intellettuale”, il tentativo “di isolare la pura essenza dell’omicidio”. 

 

Furono questi aspetti a interessare Alfred Hitchcock in Rope, Nodo alla gola, ispiratosi a un precedente lavoro teatrale di certo Hamilton il quale, pur mutandone il contesto, aveva ancora fresco il ricordo dei due giovani assassini. Anche il grande regista è suggestionato dall’idea del ‘delitto perfetto’, cui dedicò addirittura un film con quel titolo, ma ha cercato di dimostrare che quella perfezione non esiste, che c’è sempre un granello di polvere che entra nell’ingranaggio e lo inceppa. 

Così avviene in Compulsion, dove la studiata preordinazione viene sconfitta da un dato casuale come il rinvenimento del cadavere prima di aver riscosso il riscatto, che ha reso vana la trattativa. Oppure da una sbadataggine, come gli occhiali non recuperati subito da terra, e come la mancata eliminazione della macchina portatile Corona da casa. Oppure dallo scrupolo di coscienza di una persona come l’autista Emil che spontaneamente riferisce un dato che risultava dalle cronache inesatto.

Il romanzo offre un altro spunto di riflessione su come funziona il processo, soprattutto quando ha a che fare con minorenni.

 

A prescindere dalla discussione avvenuta in aula, tragica e per fortuna ora superata in Usa dal 2005, sul mandare a morte i minorenni, la strategia delle parti converge su un punto: erano sani di mente del tutto o solo in parte? Se quel delitto denota uno squilibrio mentale, devono essere giudicati da una giuria con l’eventualità seria della pena capitale. Se sono sani possono ammettere la colpevolezza, essere giudicati dal giudice davanti a cui si trovano e sperare di evitare la morte. La linea di confine è esile: la difesa cerca di sostenere che sono sani ma che i fatti commessi hanno mostrato una loro imperfetta maturazione psichica. La discussione apre la porta agli psichiatri che giungono a convenire che la nozione di malattia mentale è sfumata, clinicamente sfuggente, soprattutto in un momento storico in cui si affaccia la psicoanalisi. E non mancano riflessioni di alcuni esperti che utilizzano gli strumenti di quella giovane disciplina.

 

Buona parte del romanzo è dedicata alle discussioni di questo genere, alla necessità di rivolgersi a esperti in quanto il sapere dei giudici potrebbe apparire insufficiente. Tanto più se si giunge davanti alla giuria, perché in questo caso “alla fine toccherà a un profano della giuria decidere sulla loro sanita mentale. Se gli piaceranno le loro facce”. Comunque sia saranno i giudici sempre a decidere su materie difficili, non giuridiche, scosse al loro interno da incertezze epistemologiche che si riflettono sulle risposte finali. Giovani o vecchie si tratta sempre di scienze che esulano dal settore giuridico, ma con le quali il giudice deve fare i conti con umile difficoltà. Passano gli anni ma questo problema non passa, anzi oggi si aggrava con lo strapotere della tecnologia scientifica

Nel romanzo il giudice ascolta, non interviene come la legge americana impone e alla fine imbocca la strada più sicura: i giovani erano sani, ma la loro giovane età implicava disagi emotivi, evoluzioni psicologiche anche traumatiche, immaturità provata da analisi cliniche che portavano a escludere la pena capitale. 

 

La decisione viene accolta freddamente dall’opinione pubblica che ha seguito la vicenda invocando a gran voce una giustizia rapida come tempi e come contenuto. Il commento dei legali è inequivoco: “nelle ultime settimane non ho sentito che invocazioni sanguinarie”. E fu questa una ragione per cui la difesa scelse di non andare davanti alla giuria popolare, troppo sensibile agli umori della folla che inferocita vuole la sua giustizia, l’atto capitale, la morte.

Un tema oggi diventato di grande attualità: giudicare rapidamente e in modo esemplare, questa la richiesta del pubblico entrato a far parte in modo surrettizio dei processi celebri che si celebrano

Per concludere: un romanzo massiccio, di quasi 600 pagine, che non delude, con una narrazione secca e incalzante fino alla fine. Tanto più che le ultime pagine diventano chiarificatrici, e sono probabilmente anche le migliori. L’autore, dopo molti anni, incontra uno degli psichiatri che allora, seppur giovane, aveva coadiuvato per la difesa i ben più maturi esperti. Ne nasce un colloquio fitto in cui medico, oramai affermato anche come psicoanalista, ammonisce che il movente può sembrare nascosto e in apparenza assente, ma esiste sempre. Esso è sprofondato in fondo a un pozzo, e lo studio della psiche può farlo riemergere. Come nel caso dei due giovani. 

 

Ed è qui che il titolo del libro, Compulsion, si libera della sua apparente ambiguità. Non è infatti ‘impulso’, pur ammissibile letteralmente, che non rende ‘ossessi’ come voleva il titolo della precedente edizione italiana. È invece ‘costrizione’, cioè ‘obbligo’, come spiega nelle ultime pagine il medico parlando degli omicidi: “doveva compiere quel gesto perché spinto da una personale compulsione”. 

Ancora una volta e banalizzando: non fidarsi delle apparenze, la spiegazione è sempre dentro di noi.

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Compulsion di Meyer Levin
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La vespa che fece il lavaggio del cervello al bruco

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Gli animali devono affrontare un sacco di problemi, non problemi complicati o astrusi, problemi semplici, come cercare di riprodursi, proteggere i piccoli, non farsi mangiare ma piuttosto riuscire a mangiare gli altri, trovare un riparo sicuro per la notte – oppure per tutta la vita –, non restare senza cibo e sopravvivere in ambienti squallidi e in condizioni estreme. Problemi semplici, di vita ordinaria, ai quali trovano soluzioni sorprendenti, sconcertanti e, diciamo la verità, non di rado orripilanti e, ad ogni modo, certamente curiose. Come si può giudicare, per esempio, la soluzione adottata da una varietà della platelminta– minuscolo verme marino – che, data la difficoltà d'incontrare un partner nell'immenso fondale oceanico, si inocula da sola il proprio sperma, contenuto nella "coda", in testa?

 

Ce ne parla il giornalista scientifico di Wired Matt Simon in La vespa che fece il lavaggio del cervello al bruco (Raffaello Cortina Editore), un saggio serio e divertente, non privo di qualche tocco horror. Nella Prefazione, Telmo Pievani, lo definisce giustamente «un godibilissimo catalogo di bizzarrie zoologiche che illustrano il lato gladiatorio e spietato della lotta per l'esistenza». Leggendolo, siamo presi da ammirazione per alcune soluzioni e da raccapriccio per la crudeltà di altre; comprendiamo cosa potrebbe avere ispirato l'immaginario letterario e cinematografico relativo a come potrebbero essere fatti gli alieni e a come potrebbero comportarsi con noi. Per non parlare delle scene più spaventose di alcuni film decisamente horror che, ne sono praticamente sicura, devono essere state pensate da qualcuno che conosce molto bene gli insetti. Ma soprattutto ci risulta chiaro, come sottolinea Pievani nella citata prefazione, che in natura esiste tutto e il suo contrario e che «i giudizi morali sono categorie squisitamente umane». 

 

È difficile infatti considerare con sguardo umano (che comprende, mediamente, una certa immedesimazione nel dolore dell'altro, quindi compassione e senso della giustizia) il comportamento, per esempio, della vespa endoparassita che dà il titolo al libro, la quale deposita nella testa di un bruco fino a ottanta uova – un'altra simpatica creatura, una mosca, inserisce un'unica larva nella testa di una formica di una specie determinata, la condiziona ad andare in un luogo adatto abbandonando le sue compagne e una volta giunta lì, la testa, per l'azione interna della larva, si stacca e diventa una comoda incubatrice per l'ospite che contiene. La vespa, invece, non uccide il bruco perché le larve devono nutrirsi dei suoi fluidi. Quando queste escono, si liberano degli esoscheletri ed essi riparano le ferite del bruco. Un gesto di generosa gratitudine "naturale"? C'è sempre un interesse, almeno un briciolo, nei gesti generosi. In questo caso, un paio di larve restano dentro il bruco e rilasciano sostanze chimiche che ne manomettono il cervello e così il bruco diviene il custode, collaboratore e difensore dell'allegra nidiata: caccia via tutti i possibili predatori. Quando tutte le vespe sono in grado di volare via, il bruco resta lì a morire di fame. Nel libro non si dice perché non ricominci la sua vita normale di bruco indipendente mangiafoglie. Forse anche per lui, come per noi, è difficile riabituarsi alla fatica della libertà… Comunque il comportamento della vespa endoparassitaria, nota Matt Simon, provocò in Darwin perplesse considerazioni di carattere teologico. 

 

 

Il libro è pieno di storie di questo genere. Alcune altrettanto cruente, e forse di più, come quella dell'isopode mangialingua, del quale esistono almeno due versioni, una è quella di cui parla Simon: si tratta di un piccolo crostaceo «maleducato che passa per le branchie di un pesce e si fissa alla sua lingua», la mangia pian piano e poi vive lì, al posto della lingua del pesce, il quale apparentemente non si accorge di nulla. Il problema vero, per il pesce, si presenta quando il piccolo invasore se ne va e il pesce, privo di lingua e del sostituto della lingua, non riesce più ad alimentarsi e muore. Il motivo per cui l'isopode abbandona il suo pesce ospite, è complesso e ha a che fare con il fatto che tutti nascono maschi, perciò quando due maschi finiscono nello stesso pesce, uno decide di essere femmina e comincia una storia di amore e morte che vi consiglio di leggere direttamente nel libro. In cui, tra l'altro, troverete molte altre situazioni di incertezza sessuale, cambio di sesso, ambivalenza e amore materno e paterno da cui forse potremmo imparare anche noi qualcosa.

 

Ma, c'è anche un'altra versione dell'isopode, questa volta gigantesco e rosso e nero, che si può vedere raffigurato in un altro libro, l'Atlante di zoologia profetica dell'Atelier dell'Errore (Edizioni Corraini), col nome preciso di Isopode Fango e Sangue Mi Dicono Mongoloide E Io Reagisco E Mi Difendo, – in cui compaiono diversi altri animali, alcuni solo simili altri uguali a quelli di cui racconta Matt Simon, come, ad esempio il Pangolino o il Verme Mangiaossa. Questo isopode, a differenza dell'altro, è un esemplare magnifico e autorevole, con un ghigno che già da solo fa fuggire qualunque antagonista. 

A chi interessano i comportamenti curiosi degli insetti e di altri animali, la lettura del saggio di Matt Simon piacerà senz'altro, perché per ogni animale l'autore scrive in modo scorrevole e non senza ironia, una "scheda" accompagnata per di più dai bellissimi disegni di Vladimir Stankovic. E suggerirei di accostare a questo saggio, il citato Atlante di zoologia, il classico e sempre avvincente La vita meravigliosa di Stephen J. Gould (Feltrinelli) e il piccolo testo, di Marco Belpoliti, La strategia della farfalla (Guanda), deliziosamente illustrato da Giovanna Durì.

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Matti Simon
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Walter Benjamin. La febbre

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Continua la serie di contributi sul tema dell'infanzia legati alla XIII edizione di Torino spiritualità (21-25 settembre 2017). Qui il programma. Valentina Maurella commenta Walter Benjamin (W. Benjamin, Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, tr. it. I. Amaduzzi, Raffaello Cortina, Milano 2012, pp 143-44).

 

«L’inizio di ogni nuova malattia mi insegnava, immancabilmente, con quale sicuro tatto e con quanta abilità il contrattempo mi venisse a trovare. Lungi da esso l’idea di farsi notare. Tutto aveva inizio con qualche chiazza sulla pelle, con un malessere. Ed era come se la malattia fosse abituata ad aspettare fino a quando il medico non le avesse procurato una collocazione. […] cominciavo a riflettere su quanto mi stava per accadere. Calcolavo la distanza tra il letto e la porta e mi chiedevo per quanto tempo ancora la mia voce avrebbe potuto superarla. Già mi immaginavo il cucchiaio dal brodo colmo di esortazioni materne […]. E come una persona che nell’ebbrezza prova a fare un calcolo o un ragionamento solo per vedere se ci riesce, così io contavo i riflessi che il sole faceva balenare sul soffitto della stanza e ordinavo sempre in nuovi gruppi le losanghe della tappezzeria. Mi sono ammalato spesso. Da qui forse proviene quella che altri definiscono pazienza, ma che in realtà non ha alcunché di virtuoso: la tendenza a vedere ciò che mi preme avvicinarsi a me da lontano, come le ore nel mio letto da ammalato. Per questa ragione, quando faccio un viaggio mi viene a mancare la gioia più grande se non ho potuto aspettare a lungo l’arrivo del treno in stazione e così si spiega anche perché, per me, fare regali sia diventata una passione; io, infatti, come colui che dona, scorgo in anticipo ciò che per l’altro rappresenta una sorpresa.»

 

Ph Loretta Lux.


Benjamin tratteggia una situazione nota pressoché a tutti, ossia l’avvicinarsi, inesorabile, della malattia. Riesce a rendere palpabile e reale quella sensazione di imminente disfatta del corpo di fronte all’avanzata del malessere, che pian piano incede, avvinghiandosi alla pelle in forma di chiazza. Non si tratta però solo di una realistica ed efficace descrizione della malattia. Benjamin, infatti, fa di questa condizione, ripetutasi numerose volte nel corso della sua infanzia, la possibile causa di un modo d’essere che rimarrà una costante di tutta la sua vita. 

 

L’attesa della malattia, preannunciata dai sintomi più lievi, diviene per il cagionevole Benjamin bambino un’occasione per constatare l’incalzare della necessità naturale e, allo stesso tempo, questa attesa rappresenta una lenta e faticosa lotta interiore contro quella stessa, fisiologica, necessità. Benjamin non descrive la sofferenza, né la ribellione contro la malattia, ma, attraverso l’immagine dell’ubriaco che cerca di mettere alla prova la propria lucidità, restituisce quella sensazione di angoscia che si prova nel sentire la mente sull’orlo del precipizio. L’equilibrio instabile tra coscienza e incoscienza è tracciato dalle linee sottili del sole sul soffitto e dai disegni della tappezzeria.

 

È nella malattia che il bambino misura se stesso per la prima volta e, nello scontrarsi con una forza esterna che si abbatte su di lui, percepisce il proprio essere e la propria salute come indipendenti dalle amorevoli cure materne. Così, l’attesa del malanno imminente, si traduce in una riflessione sul modo di rapportarsi agli eventi futuri. Per il bambino essa rappresenta la conquista della familiarità con il tempo. Nelle ore in cui attende l’acuirsi dei sintomi che lo costringeranno a letto, il mondo intorno a lui diviene improvvisamente leggibile. Lo scettro per dominare il tempo è nascosto nell’anticamera di ogni evento. Sulle banchine della stazione, nelle ore di febbricitante attesa prima della consegna di un regalo. L’istante decisivo viene previsto e calcolato minuziosamente dall’immaginazione del bambino. Il momento in cui un sorriso riconoscente si disegnerà sul volto del destinatario; in cui il corpo soccomberà definitivamente alla febbre; in cui un interminabile fischio annuncerà la partenza del treno. 

 

L’attesa è un atto di divinazione, in cui la mente del bambino si esercita a interpretare il rapporto tra la necessità degli eventi e la propria capacità di incidere sull’accadere di questi ultimi. La divinazione è un concetto di cui Benjamin si serve, nella XVIII tesi di filosofia della storia, per stigmatizzare l’ideologica contemplazione di un futuro preordinato, che mortifica e inibisce la capacità umana di agire all’interno della storia. Invece ciò che preme a Benjamin, in questo passo, è evidenziare come l’attesa di un evento preannunciato si carichi di un valore soggettivo irrinunciabile, che supera il senso stesso del compimento. L’attesa così concepita rappresenta quella coloritura individuale che è capace di riempire un momento oggettivo della vita quotidiana. Benjamin, con lo sguardo di bambino, caratterizza una concezione qualitativa dell’esistenza, ribaltando la tradizionale immagine di attesa quale interminabile successione di istanti e considerandola, invece, come lo spazio entro cui il bambino sperimenta se stesso in maniera autentica e individuale.

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L’orologio apocalittico del Conde de Torrefiel

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A teatro, diceva Albert Camus, “solo la parola agisce”. El Conde de Torrefiel, a suo modo, ha fatto propria questa frase, anche se ciò che veramente agisce in Guerrilla, visto in prima nazionale sul palcoscenico dell’India per la dodicesima edizione di Short Theatre (“Lo stato interiore”) è la disgiunzione tra il testo che corre sullo schermo, fino all’ultimo senza mai fermarsi, e quello che accade su una scena che, dal vuoto iniziale, diviene sempre più popolosa fino a essere gremita da ottanta persone, tutte, invariabilmente, prive di parola.

 

All’inizio c’è un pubblico, uomini, donne, tutti sotto i quarant’anni, che si dispongono su quattro file di sedie, in attesa di una conferenza, creando immediatamente un effetto a specchio con i veri spettatori seduti in sala (uomini, donne, pochi sopra i quarant’anni): loro sono noi, noi siamo loro, con la differenza che noi li vediamo, mentre loro si comportano come pesci nell’acquario della rappresentazione – come in tutte le rappresentazioni – di cui una mano potente e inavvertita sottotitola vite e destini alzando, come l’instancabile mare omerico, onde sempre più alte, possenti muri d’acqua che inghiottono e risputano le loro piccole e rabberciate zattere esistenziali. Ora grandi, ora minuscoli – sempre imperturbabili sulla scena, quando la voce muta li avvicina, li nomina cifrandoli, secondo una diffusa convenzione romanzesca (“La ragazza con gli occhiali seduta in prima fila, con un quaderno e una penna in mano, si chiama N. N. è nata a Milano e ha 25 anni. La famiglia di N. ha origine ebraiche…”), ingrandendoli nel suo mirino telescopico al solo scopo di allontanarli sempre di più nell’oceano della Storia che bruscamente rifluisce nel momento più acuto della sua tempesta: il presente in quanto profezia. 

 

Ph Claudia Pajewski.


Già, perché, fin dalle prime parole sgranate sul display, Guerrilla si sporge sul futuro prossimo: siamo nel 2023 – come diceva una vecchia canzone interpretata da Dalida che forse i drammaturghi registi del Conde ignorano, o forse no: “nel 2023 io non so/ se il mio cuore batterà…” – e la Cina e la Russia hanno stretto un’alleanza militare per cambiare gli equilibri geopolitici del mondo; nella maggior parte dei paesi europei (tranne la Grecia, la Spagna e la Svezia!) si sono instaurati dei governi nazional-populisti; paesi come il Messico e la Colombia hanno finito col legalizzare il narcotraffico, col risultato di diventare grazie alle royalties due tra le economie più fiorenti del pianeta; un gruppo di scienziati ha scoperto che la terra, oltre il suo strato geologico più superficiale, è per lo più vuota, come pensava lo pseudo scienziato nazista Horbirger. È un crescendo tanto precipitoso quando implacabile, perché neanche le soluzioni in apparenza più fantasiose sono inverosimilmente lontane dal presente, tanto più da un presente in cui le fake news suppliscono la mancanza di storicità e le chiacchere da bar si incarnano misteriosamente una dopo l’altra… Che vuol dire essere contemporanei, secondo Pablo Gisbert e Tanya Beleyer (drammaturghi e registi dello spettacolo)? Vuol dire recarsi, euforici e frementi, a una conferenza stampa di Angelica Liddell che nel 2023 è divenuta quello che già è nel 2017, un’artista di culto – di cui sulla scena di Guerrilla si ode la voce registrata – mentre, nella notte tra giovedì 14 e venerdì 15 settembre del 2017 (quando el Conde ha spostato il suo spettacolo al Teatro dell’arte di Milano) l’irresistibile Kim Jong-un lancia un missile nucleare che, dopo aver sorvolato l’isola giapponese di Hokkaido, si inabissa nelle acque del Pacifico settentrionale…

 

Ph Claudia Pajewski.


Ospiti degli spazi esterni di Short Theatre, qualche giorno dopo, i critici Matteo Antonaci e Sergio Lo Gatto presentano il terzo volume da loro curato di Iperscene (Editoria & Spettacolo, 2017) dove, nelle rispettive prefazioni, si legge di un presente divenuto eterno, tempo unico della comunicazione “totalmente positivo”: per essere profetici, in un presente eterno, è sufficiente imparare, come diceva Walter Benjamin, a nuotare con la corrente. Ma sarebbe fare un torto al Conde, e a tutta quella scena post-drammatica che in realtà riprende a rappresentare – e non solo a esporre e a esporsi in un’autocitazione iper-realistica –, ignorare che nelle loro proiezioni cartesiane di un’attualità in affanno di interpretazioni è proprio la fotografia dello stato interiore, e non lo specchietto per le allodole del dispositivo, ad aprire le ferite più vistose nella coscienza (ormai sovrana) dello spettatore: è la scrittura il grande attore-performer di Guerrilla che nelle pieghe dello spettacolo, e negli a parte del testo, fa scricchiolare la catastrofica resipiscenza del teatro, questo intruso che parla alle nostre spalle con la monotona e perturbante voce dei pazzi che salmodiano sugli autobus. 

 

“Per anni – dice un immaginario sociologo che nel 2023 pontifica sui social media – tanto nelle conversazioni da bar come nei mezzi di comunicazione, si è ripetuta, insistita e sostenuta l’idea di essere in guerra. E così, finalmente, l’idea di guerra si è installata nell’inconscio collettivo. Siamo tutti nemici”. Su quell’avverbio scontornato dalle virgole, slitta una rivelazione profonda come una voragine – non sbaglia io credo Renato Palazzi a usare l’aggettivo “morale” per illuminare il corto-circuito formale di Guerrilla, orologio apocalittico scandito dalle frasi e non dai numeri, è morale tutto ciò da cui il vento del giudizio riprende a spirare: dunque la guerra che si installa nel continuo ripetere che “siamo in guerra”, viene dalla magia nera di un desiderio collettivo al quale niente può essere opposto; dunque non potremo più difenderci, come l’ottuso kaiser Guglielmo negli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus, spergiurando che “non l’abbiamo voluto”, perché più che voluto – essendoci messi nell’incapacità di volere alcunché – l’abbiamo affidato alla potente passività del desiderio dove anche chi non l’ha voluto, chi l’ha temuto o scongiurato, ha finito con l’evocarlo in un soffio, mentre si girava nel letto dalla parte del muro. 

 

Guerrilla, spettacolo tutt’altro che perfetto – e per questo indimenticabile – ogni volta che apre bocca restituisce il contrappunto reale di un discorso immaginario che è quello, volens nolens, del nostro essere contemporanei: come in quell’inno in cui l’economia impregna completamente i nostri giorni, si radica nella nostra idea d’amore, dà da mangiare ai bambini, ci accompagna la sera mentre torniamo a casa e poi dorme teneramente “abbracciata a Jeff Koons” (l’unica cosa che ancora non è riuscita a comprare, aggiunge Gisbert, è ciò da cui tutto il mondo rifugge: la noia, ultima dea di un tempo del quale si potrebbe ancora assaporare l’indugio, il vuoto, o per dirla con l’ormai citatissimo Byung Chul- Han, il profumo).

 

Ph Claudia Pajewski.


Spettacolo imperdonabile, quello del gruppo catalano, perché nel frattempo mette in scena la distrazione continuata di una società dove i comportamenti hanno definitivamente soppiantato le azioni. Cosa fanno, infatti, gli uomini e le donne del 2023? Incredibilmente simili ai loro spettatori del 2017, si assiepano alle conferenze di un’artista guru (che, guarda un po’, ha appena presentato il suo ultimo lavoro a Short Theatre), prendono lezioni di Tai-Chi nella seconda parte dello spettacolo, per poi convergere, nell’ultima, in un gigantesco rave dove anche la prospettiva della scena si rovescia. Non più di fronte ai veri spettatori, ma dando a essi le spalle (finendo col divenire, non uno specchio, ma una proiezione dei loro corpi), un’ottantina di persone – o di ombre dell’Ade? – volgono lo sguardo e alzano enfaticamente le braccia verso la parete di fondo, là dove un tempo si annidava un dio, percuotendo e invocando l’invisibile Baal del rumore e dell’estenuazione.

 

Agli spettatori, come ai compagni di Odisseo, sono stati gentilmente forniti dei tappi di gommapiuma, ma i bassi tonitruanti delle Sirene della techno puntano direttamente al cuore, la protezione è più un velo che li filtra che un’occlusione capace di azzerarli ed è proprio questo ricatto sensoriale a suggerire che ci troviamo ancora, e di nuovo, nell’orizzonte della rappresentazione, cioè di qualcosa che, comunque, si subisce: qualcuno in sala sceglie la via della partecipazione, come una giovane artista olandese che comincia a dimenarsi sulla poltrona perché, non conoscendo l’italiano, non può seguire il testo sullo schermo. Gli altri scelgono per lo più la via dell’apnea o della siderazione, chiamano lo sguardo fuori dall’angoscia del corpo e si abbarbicano alla parola negli ultimi rantoli della sua avvincente lotta contro il suono. Che è un agone già segnato – con tanti saluti al teatro clubbing – dalla percussione epifanica della scrittura, dalla potenza straniante di un Mane Techel Phares che nel giro di un’ora ha assunto la forza, il rilievo, la presenza di una voce o di un urlo silenzioso che nessun tappo può arginare. La profonda intelligenza di Guerrilla sta al teatro contemporaneo in un rapporto assai simile a quello che i romanzi di Michel Houellebecq intrattengono con la letteratura. Ma non potrebbe esistere altrove che sulla scena dove anche l’assenza del testo si incarna e si trasforma.

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Il mercato fa l’arte e l’arte la libertà

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All’arte ormai non rimane altro che «lavorare sul lavoro»: sulle attuali condizioni del proprio lavoro, scrive Marco Scotini in Artecrazia: macchine espositive e governo dei pubblicipubblicato da DeriveApprodi con un’introduzione di Christian Marazzi.

 

In questo libro Scotini indaga le condizioni sociali ed economiche dell’arte contemporanea con contributi realizzati in seguito alla crisi finanziaria del 2008. Solo alcuni testi risalgono ai primi anni Duemila, come l’intervista a Paolo Virno (2003) e la conversazione con Harald Szeeman sul Monte Verità (2000).

Il titolo si rifà a una rivista futurista diretta da Mino Somenzi dal 1934 al 1939, e quindi al legame tra arte e fascismo. Allude all’estetizzazione del politico: non è l’immaginazione al potere come voleva l’utopia del ‘68, semmai l’arte è usata dal potere per ottenere forme di legittimazione e, quindi, di sfruttamento. È il liberismo portato all’esasperazione, con nuovi monopoli, grandi patrimoni in mano a pochi e crescenti diseguaglianze sociali. Si creano relazioni economiche che Maurizio Lazzarato definisce di matrice neo-arcaica: da una parte ci sono i ruoli tradizionali (l’artista, il collezionista, il critico) e dall’altro i luoghi che legittimizzano questi ruoli (i musei, i festival, le biennali). L’arte è quindi ben lontana da un’idea romantica che la vuole al di là del mercato e avulsa da ogni contesto: è sempre all’interno di una realtà socio-economica e delle sue forme di potere. Il libro è una critica alla modernità e alla sua concezione di arte, intesa come ciò che è in grado di liberare e umanizzare i sistemi di produzione industriale in quanto al di fuori di essi.

 

Ma che l’arte sia uno spazio aperto, non codificato, avulso dalle leggi del mercato e da forme di potere è solo un’illusione, e chi opera dentro il sistema dell’arte lo sa bene. E il punto di vista di Marco Scotini su questo nuovo regime di visibilità è interno al sistema perché ha origine dalla sua pratica di curatore e dalle sue contraddizioni. L’analisi del lavoro di alcuni artisti e cineasti (tra cui Peter Friedl, Alberto Grifi, Franco Vaccari, Clemens von Wedemeyer), di alcune esposizioni (Manifesta, Kassel) e il dialogo con alcuni curatori (Li Xianting, Harald Szeeman) sono il punto di partenza per interessanti riflessioni sull’economia dell’evento (per la sezione Esposizioni), sui pubblici dell’arte (per la sezione Pubblici) e sul rapporto tra cinema, politica e spettacolarizzazione (per la sezione Schermi, sull’eco del pensiero di Guy Debord).

 

 

Artecrazia nasce contemporaneamente alle forme di lotta e di antagonismo contro il capitalismo finanziario e ai vari Occupy (nel libro il saggio L’arte ostaggio della finanza. Occupy Whitney Museum), ed è legata agli effetti di una nuova democrazia della creazione, del capitalismo cognitivo e delle sue forme di appropriazione. Con il post-fordismo, il tempo del lavoro si estende alla vita intera: Maurizio Lazzarato lo chiama il tempo del lavoro immateriale, in quanto il dominio capitalistico è aumentato in modo talmente smisurato da riguardare la vita stessa (Videofilosofia: la percezione del tempo nel post-fordismo, Roma: Manifestolibri, 1997, p. 32). Secondo Scotini non solo non è possibile conservare una rigida divisione tra produzione intellettuale, azione politica e cultura: è addirittura impensabile distinguere il lavoro dal resto dell’attività umana. Nel regime fordista l’intelletto restava fuori dal ciclo produttivo, nel post-fordismo attuale lavoro e non lavoro sviluppano una identica produttività basata sull’esercizio i generiche facoltà umane come il linguaggio, i sentimenti, la socialità, l’estetica, ecc. (Scotini op. cit. p. 147).

 

Per quanto riguarda l’arte, lavorare sulle condizioni del proprio lavoro significa vedere la produzione estetica come una produzione sociale diffusa, con la ridefinizione delle nuove soggettività contemporanee. Il capitalismo cognitivo cerca di ricondurre la produzione di conoscenza all’interno del rapporto tra produttore e consumatore (divisione dei ruoli che non è più così rigida, tanto che spesso i lavoratori dell’arte sono anche il suo pubblico, in un circuito più che mai autoreferenziale), ma sono possibili vie di fuga e pratiche alternative in cui il consumo diventa una forma di cooperazione e collaborazione. Per questo è centrale la relazione tra arte e forme di disobbedienza: Disobedience Archiveè un progetto iniziato nel 2004, esposto nell’arco di dieci anni in importanti istituzioni in tutto il mondo (dal MIT al Castello di Rivoli) e costituito prevalentemente da materiale video che indaga l’attivismo artistico nelle sue diverse declinazioni, come le lotte sociali italiane del 1977 e le recenti insurrezioni nel Medio Oriente.

 

Analizza problematiche legate alla rappresentazione e ai media, da cui emerge che la Storia sia sempre un esercizio di potere, che va smascherato e demistificato. Lo stesso vale anche per la macchina espositiva e i suoi pubblici, in un’analisi che eredita le istanze dell’Institutional Critique degli anni ’60 e ’70 e la lettura foucaultiana di Tony Bennet degli spazi museali (The birth of the museum, New York: Routledge, 1995), cercando di aggiornare le proprie riflessioni al tempo presente, profondamente legato alla dimensione temporale ed effimera dell’evento (si veda il moltiplicarsi delle biennali in tutto il mondo negli ultimi anni).

 

Questa forma di attesa e di promessa è profondamente legata a ciò che Walter Benjamin definì Ausstellungswert, ovvero valore d’esposizione. Il valore delle cose diventa proporzionale al loro livello di visibilità per cui esso non è più riducibile integramente al loro carattere intrinseco e alla loro utilità (valore d’uso), né al rapporto di forza-lavoro entro il sistema di produzione (valore di scambio). Questa eccedenza che fa di una cosa essenzialmente “qualcosa che si mostra”, “qualcosa che si dà a vedere”, è ciò che caratterizza la nuova condizione degli oggetti e degli uomini nell’età del capitalismo compiuto (Scotini, cit. p. 59). Tecnologie di potere complesse e sottili uniformano i modi di vita e i comportamenti sociali: non solo le cose diventano riproducibili e filmabili, ma anche e soprattutto le persone, in una forma di asservimento al potere. Sono i pubblici e gli attori dell’Artecrazia, lontani dalla possibilità, per usare un’espressione di Jacques Rancière, di uno spettatore emancipato. Seppur nella disillusione e nella lucidità, resta una domanda sottesa a tutto il libro, una domanda fondamentale, ovvero se sia ancora possibile una forma di immaginazione politica. 

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Roberto Calasso, terroristi e turisti

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Roberto Calasso è interessato ai terroristi. Non quelli del passato, ma a quelli del presente: i terroristi islamici. Sono l’incarnazione di una questione che lo ossessiona dai tempi della Rovina di Kasch (1983): il sacrificio. I giovani terroristi suicidi di Parigi, Londra, Berlino, Nizza, Barcellona con il loro sacrificio protraggono nel mondo contemporaneo – l’età dell’inconsistenza, come la chiama Calasso – un rituale fondamentale che sembrava scomparso nel regno della modernità. Attraverso i ragazzi dell’Isis e di al-Queda il sacrificio celebra nuovamente i suoi fasti: “Il terrorismo islamico è sacrificale: nella sua forma perfetta, la vittima è l’attentatore”. Un ritorno al passato? Non proprio. C’è una differenza sostanziale rispetto al sacrificio arcaico del mondo ciclico evocato nella Rovina di Kasch. In quel libro, costruito per frammenti, giustapposizioni, montaggi, l’antica macchina sacrificale “era concepita per stabilire un contatto e una circolazione tra visibile e invisibile”, mentre l’attentatore che oggi uccide morendo è perfettamente visibile, misurabile, quantificabile, fotografabile. In L’innominabile attuale, volume appena pubblicato da Adelphi, Calasso aggiorna il libro del 1983, aggiunge 180 pagine di postille trent’anni dopo. Il mondo è cambiato, ma la lettura che Calasso ne dà resta imperniata sull’asse cosmico, con una differenza di prospettiva: “Come i missili, l’attentato sacrificale punta verso il cielo, ma ricade sulla terra”.

 

Nel nuovo sistema sacrificale dei terroristi islamici il Cielo non è raggiunto. Lo scambio tra visibile e invisibile, quantità e qualità, non accade più, e tuttavia il paradigma sacrificale di Calasso resta identico. Come aveva notato Italo Calvino, recensendo all’epoca La rovina di Kasch, con la nascita della modernità il sacrificio cruento aveva lasciato le ragioni del sacro per trasformarsi in “esecuzioni ispirate dalla ragion politica o dagli stermini nel corso di qualche esperimento che dovrebbe avvicinarci alla felicità umana”. Un nome per tutti: Pol Pot e i Khmer rossi, uno dei più sconvolgenti genocidi della seconda metà del XX secolo condotto in nome dell’ideologia. E ora? Quale novità ci racconta Calasso? Il suo libro è intriso di malinconia e insieme cinismo, di catastrofismo e lucidità; è un libro scritto sull’orlo di un precipizio con lo scopo di reiterare la propria condanna del mondo contemporaneo, una condanna che continua con costanza e intelligenza da molti anni. Calasso coglie però in questo libro il tema fondamentale del terrorismo islamico attuale e lo mostra in poche frasi: le vittime sono i terroristi, non i morti. Sono loro, le vittime, che uccidendosi rendono perfetto l’omicidio di decine di persone. Una verità che è stata spiegata benissimo da Albert Camus in L’uomo in rivolta (1951), un libro che stranamente Calasso non cita, e che è la più lucida disanima del terrorismo dall’epoca del suo debutto nella Russia zarista nel XIX secolo. Ora “predominano gli attentati degli assassini-suicidi che si fanno esplodere”.

 

Perché lo fanno? Il loro gesto contiene una grandezza, o presunta tale, che a noi sfugge: io mi uccido, dice il terrorista islamico, per ciò in cui credo; lo faccio contro i vostri valori, quelli per cui voi invece vivete: i valori del materialismo, a partire dal consumismo. Voi vivete per questo, io mi sacrifico contro questo. L’autore di L’innominabile attuale non scandaglia le ragioni psichiche o sociali di questi giovani, preferisce tenere il discorso su un piano che un tempo si sarebbe detto “ideologico”, e che, nel suo caso, è più giusto chiamare “metafisico”. Calasso ragiona solo per grandi orizzonti, evidenziando le immense forze che muovono il mondo, spesso a nostra insaputa. Egli osserva quello che accade dall’alto, da una posizione elevata. Paradossalmente è proprio quest’altezza dello sguardo, il titanismo implicito nella sua posizione, titanismo che si sposa spesso a un sarcasmo pungente, che gli permette di cogliere dettagli decisivi alla comprensione del tutto. Il primo è la coincidenza tra il terrorismo islamico e la diffusione della pornografia in rete.

 

Negli anni Novanta attraverso internet, scrive, diventa disponibile “ciò che avevano sempre fantasticato e desiderato”. Loro sono gli islamici, gli ultimi credenti, stando allo stesso Calasso, che in questa definizione coglie nel segno: l’Islam è oggi l’ultima religione (ne aveva scritto nel 1981 Naupaul in Tra i credenti, poi tradotto da Adelphi). Scrive: “Il mondo secolare aveva invaso la loro mente con qualcosa d’irresistibile, che li attirava e al tempo stesso li irrideva e li esautorava”. Gli uomini di fede islamica erano attratti e contemporaneamente scandalizzati. La pornografia mostrava loro un eccesso con una doppia valenza: negava tutti i valori della loro cultura tradizionale, e questo li faceva infuriare; e insieme mostrava che l’eccesso era possibile, compreso quello dell’attacco all’Occidente corrotto. Un complesso davvero difficile da districare. Il brano solleva una questione che spesso in Occidente viene ignorata, o peggio sottovalutata: la connessione che esiste tra sesso e terrorismo. Negli anni Settanta, agli albori del terrorismo di sinistra, della lotta armata, Pier Paolo Pasolini aveva indicato in un articolo su un giornale, “Tempo”, proprio nell’eccesso di libertà sessuale la causa del terrorismo stesso.

 

Ne ha scritto di recente anche Houellebecq in Sottomissione (Bompiani ). Con il suo tono icastico e insieme apocalittico Calasso scrive che la risposta dei giovani islamici alla pornografia in rete sarebbe stata: andare “oltre”. Aggiunge: “di là dal sesso, c’è solo la morte. Una morte sigillata dal significato”. Osservazione apodittica, ma non priva di fondamento e perfetta per la sua lettura sacrificale. Calasso ha scandagliato, oltre al sacrificio, anche questo aspetto fondamentale che al sacrificio si lega, ovvero la sessualità, protagonista assoluta di almeno un paio di suoi libri. Un continente che lo scrittore ha esplorato nel suo aspetto storico e culturale forse più complesso: l’India del Kamasutra. Quello che di nuovo hanno i terroristi islamici – e qui sta il punto centrale della sua lettura – è il “terrore secolare”. Così lo definisce, e subito spiega: il nuovo terrorismo non è né religioso né politico né economico né rivendicativo, bensì fondato sul caso. Questo è il tema che gli permette di saldare le prime pagine dedicate al terrorismo con quelle centrali del saggio “Terroristi e turisti”; il tema è quello del dominio della casualità moderna imperniata sul numero – l’algoritmo nella sua versione materialista. Anche a questo riguardo Houellebecq ne ha fatto materia di narrazione in Piattaforma nel 2001 (Bompiani). “Secolare” è un aggettivo che Calasso aborrisce: sta per secolarizzazione, cioè ciò che ha distrutto in Occidente il Sacro. Il nuovo terrorista si differenzia da quello nichilista – i russi del XIX secolo, ma anche gli anarchici del XX e probabilmente persino i brigatisti rossi, culmine del nichilismo, seppure questo non lo dica esplicitamente. “Il terrorismo secolare – scrive – vuole innanzitutto uscire dalla coazione sacrificale. Passare al puro assassinio”.

 

Qui starebbe la differenza, ammesso che si possa davvero differenziare tra i terroristi nichilisti del passato, del passato prossimo, e i nuovi terroristi del presente, gli islamici. Il terrorismo casuale sarebbe “la forma di terrorismo più corrispondente al dio dell’ora”. Chi è il “dio dell’ora”? Il nostro dominatore, il tempo degli orologi, il tempo rettilineo, opposto al tempo dell’eterno ritorno, al tempo circolare. A questo punto del libro il suo discorso sembra girare in tondo, ritornare su se stesso. Non può proseguire dal momento che la differenza effettiva non sta nel terrorismo nichilistico e quello che Calasso chiama terrorismo casuale. Cosa sarebbe il caso cui si appella? L’uccidere a caso, come nell’azione con il camion, come a Nizza, o con le bombe sui treni come alla stazione di Atocha a Madrid? Non aveva fatto così anche Mario Buda, l’attentatore di New York, l’inventore dell’autobomba nel 1920? L’anarchico italiano aveva colpito a caso a Wall Strett. Calasso definisce il regime sacrificale del passato mediante “la scelta della vittima”: non è mai a caso.

 


Ma non basta dire che il terrorismo causale non fa discriminazione di ceto o di età, come scrive, perché tutti coloro che sono morti in questi anni di terrorismo suicida hanno una cosa in comune, e non sono affatto casuali. Sono miscredenti, i nemici dell’Islam o, in versione minore, gli islamici tiepidi. I terroristi sono i “supermusulmani” come lo psicoanalista francese d’origine tunisina Fethi Benslama. Tutti i non-credenti meritano di morire, secondo i predicatori dell’Isis. In una cosa Calasso però coglie nel segno parlando del nuovo terrorismo: l’uccidere uccidendosi. Il martire è un suicida, solo così giustifica la sua azione, solo così merita il Paradiso di Allah dove lo attende la schiera delle vergini. Questa è la chiave per comprendere il terrorismo islamico attuale. Non c’è metafisica che tenga: la nuda verità materiale sta in questo gesto assurdo dal punto di vista della psicologia occidentale (l’idea del martire era ben presente alla chiesa cristiana delle origini, bagnata dal sangue del sacrificio dei martiri, ma non si trattava di suicidi). Il sacrificio rende puri, per questo il terrorista può uccidere: l’attende, non solo il Paradiso, ma prima di tutto l’assoluzione preventiva da ogni senso di colpa. Ci si uccide per uccidere. Se il terrorista sopravvive alla propria azione, è un fallito. Per lui ogni strada è chiusa. Non solo quella del Paradiso. Nessuna organizzazione terrorista, dall’Isis ad al-Qaeda, ha previsto di “salvare” i martiri sopravissuti: sono abbandonati a loro stessi. 

 

La parte centrale del primo saggio, ricca d’intuizioni, immagini e connessioni impreviste – nel cortocircuito sta la forza della prosa di Calasso, che porta il lettore in cima alle montagne russe e lo fa precipitare di colpo nel breve giro di una frase –, lavora intorno al nodo del secolarismo, ovvero al medesimo nucleo di La rovina di Kasch dove, come aveva visto Calvino nella sua recensione, si riconosceva come unico valore possibile in questo mondo secolarizzato la leggerezza. Ora in L’innominabile attuale la leggerezza è scomparsa, annegata nella metafisica degli ultimi giorni dell’umanità. Non che Calasso sia per l’apocalisse. Le sue pagine procedono piuttosto nell’ambito dell’apocatastasi, ovvero nella zona che è definita dal penultimo. Tutto per lui è penultimo, mai ultimo. Le sue frasi non si chiudono mai su se stesse, lasciano sempre qualcosa d’inconcluso, come la struttura stessa dei suoi libri, lascia sempre una menda, un foro, da cui si può fuggire, perché i tempi penultimi permettono questo. Gran parte del pensiero, della letteratura, che lo scrittore ha radunato sotto le bandiere della casa editrice, che dirige dagli anni Settanta, sono pensatori del penultimo, non dell’ultimo. A partire da Bobi Bazlen, che è stato il mentore, il maestro di Calasso.

 

Bazlen era un genio del penultimo. Ebbene questa parte centrale, per quanto elegante e affascinante (ad esempio la figura dei “transumanisti” contrapposti ai “secolaristi”), non porta molto di nuovo rispetto al libro del 1983. Il secondo termine che dà forma al titolo – turisti – suona invece nuovo. La diade “terroristi e turisti” sa molto di Adorno, dell’autore dei Minima moralia, un modello che Calasso ha sempre tenuto d’occhio anche quando ha respinto il pensiero del francofortese (e qui, nell’abbozzo di critica del Turismo c’è pure qualche traccia di Enzensberger, nipotino di Adorno e Horkheimer). In comune terroristi e turisti hanno l’extraterritorialità e la condizione di apolidi. Sono degli inappartenenti. Scrive Calasso: “Se i turisti vengono osservati con qualche imbarazzo e un accenno di riprovazione, è l’umanità che guarda se stessa e sospetta di aver perduto qualcosa. Non sa bene che cosa, ma sa che non sarà recuperabile. Qualcuno ha detto che con la democrazia viene esteso a tutti il privilegio di accedere a cose che non sussistono più”. Per l’autore il turismo è il modello della realtà virtuale: una realtà seconda. In queste pagine la passione metafisica dell’autore va crescendo, centrando spesso l’obiettivo dell’aforisma, ispirato da un altro dei suoi modelli, questo sì palese: Karl Kraus.

 

Ma davvero il turista è questa cosa, una realtà seconda? Nel 1773 il dottor Johnson in una lettera a Hester Thrale scriveva: “L’utilità del viaggiare è di regolare l’immaginazione per mezzo della realtà e invece di pensare come le cose possono essere, vederle come sono”. Il viaggiare di cui parla Johnson è il turista? Nel 1869 Mark Twain, come ricorda Marco d’Eramo in un recente libro dedicato al turismo (Il selfie del mondo, Feltrinelli), pubblicò un libro fondamentale con cui comincia ufficialmente l’Età Turista: Innocents Abroad (Gli innocenti all’estero). Si trattava del resoconto della crociera a bordo del Quaker City, la prima organizzata negli Stati Uniti per visitare l’Europa, che definì “il progresso dei nuovi pellegrini”. Twain si poneva il problema dello sguardo: che cosa attrae il turista? La risposta a questa domanda è quella che distingue il viaggiatore dal turista, l’eccezionale dal banale. Viviamo in un’epoca in cui non è più possibile differenziare in modo preciso cosa cerca, e vede, l’uno, e cosa cerca, e vede, l’altro. Il turista è anche lui, come il terrorista, un essere secolarizzato, scrive Calasso. Nessuna possibilità di cavarcela, se lo seguiamo su questa strada. Il problema, come ci ricorda D’Eramo, è che in questi ultimi cinquant’anni non è cambiata solo la nostra relazione con il tempo (tempo di lavoro e tempo libero), ma anche e soprattutto la relazione con lo spazio. Un gruppo di uomini e donne seduti nella sala di aspetto di un aeroporto, in attesa di salire su aereo di linea e di dirigersi nel medesimo luogo, da cui poi dipartirsi verso ulteriori e differenti mete, non è davvero nel medesimo luogo. Le tecnologie digitali le rendono abitanti (o turisti) di realtà diverse: multidimensionali. Una sta ascoltando un brano musicale di un cantante caraibico, l’altro conversa con la cugina australiana, un altro guarda la partita di calcio sul visore del suo smartphone, un altro ancora legge un quotidiano di Città del Capo.

 

Bello o brutto, giusto o sbagliato che sia, viaggiamo in un mondo plurimo, pluriverso, molto lontano da quello che Calasso postula nel suo libro, un mondo, il nostro, dove l’idea di “contatto” è declinata in forme nuove rispetto al passato. Non necessariamente il nuovo è migliore, ma in ogni caso è. Questo è il punto. L’universo entro cui si chiude Calasso – un mondo a suo modo spazioso – non è il nostro stesso mondo. Per capire questa differenza basta leggere la seconda parte del libro, intitolata La società viennese del gas. Si tratta di una serie di brevi pezzi disposti in sequenza temporale, dal gennaio 1933 al maggio 1945, ciascuno scandito da una data e con un racconto: puro storytelling. Una sequenza in cui l’autore descrive “l’autoannientamento” che l’umanità ha tentato, il tutto compreso tra l’ascesa al potere di Hitler e la fine del secondo conflitto mondiale. Qui davvero siamo agli “ultimi giorni dell’umanità”. Sono pagine bellissime, abbacinanti, dove il genio per il dettaglio di Calasso brilla per rapidità, capacità di sintesi, e anche per indugio, pausa, sosta. Sono decine di micro-storie che danno da pensare, ma che fanno anche capire la prospettiva storica, e dunque temporale, con cui questo autore pensa al futuro.

 

Viviamo oggi sospesi in un mondo penultimo, quello dominato da Donald Trump, il più farsesco dei personaggi storici apparsi negli ultimi 70 anni. Le pagine di Calasso non lo nominano, ma il suo faccione sgarbato e la capigliatura color polenta fa capolino nelle pagine di L’innominabile attuale (che sia lui l’Innominabile?), pagine sinistre: stiamo precipitando nel medesimo baratro del 1933? Davvero un piccolo paese come la Corea del Nord è in grado di scatenare le follie di un insano dottor Stranamore? L’attuale non è però innominabile. Al contrario: è perfettamente nominabile. Ci sono altri pensatori e altri libri che ci possono venire in soccorso, altre parole per rispondere alla provocazione di Calasso che finisce per definire quest’epoca, la nostra, inconsistente. Nonostante tutto consiste. Nonostante i terroristi e i turisti. Anzi forse proprio grazie a loro. 

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Sue Williamson, cronista della memoria*

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Era il 2008, e il Palazzo delle Papesse di Siena ospitava una collettiva di giovani artisti del Sudafrica. Tra loro, un’ancora poco nota Zanele Muholi, con la serie Miss D’vine e altri lavori focalizzati sulla comunità LGBT sudafricana. Il mio interesse giornalistico per l’arte contemporanea africana (qualsiasi cosa questa espressione voglia dire) è cominciato con quelle immagini, che furono il punto di partenza per un’inchiesta sugli stupri correttivi in Sudafrica, la pratica odiosa e ricorrente di violentare le donne omosessuali per riportarle “sulla retta via”. Gli scatti di Muholi mostravano concretamente quanta forza di testimonianza e denuncia potesse irrompere dall’arte. Offrivano una chiave di lettura, una via d’accesso a un Paese in trasformazione. Erano il punto d’incontro tra poesia e cronaca, tra espressione del sé e impegno sociale. Qualcosa di molto vicino alla mia idea di scrittura. 

A volere Muholi alle Papesse era stata Sue Williamson, artista sudafricana che figurava tra i curatori della mostra. Per questa ragione, da allora, ho sentito di avere un debito con lei. Quando ho avuto la possibilità di intervistarla, grazie alla casa editrice Skira che le ha dedicato il volume monografico Sue Williamson. Life and Work, non mi è sembrato vero. 

 

 

Definire Williamson artista è corretto, ma anche riduttivo. Perché questa donna minuta e gentile ha voluto e saputo essere molte altre cose: una narratrice, un’attivista, una promotrice di creatività, cultura e impegno, testimone e cronista della memoria, pronta a prendere posizione, senza mai perdere di vista la complessità delle situazioni. 

I suoi genitori erano inglesi e si trasferirono a Johannesburg nel 1948. Lei aveva 7 anni. 

Cresce sotto l’apartheid, venendone disturbata (per esempio dal primato dell'afrikaans, lingua che non padroneggiava) ma sostanzialmente senza farsi troppe domande. Si mette a lavorare come giornalista e a 21 anni si sposa. Poco dopo si trasferisce a New York, dove scopre la passione per le arti visuali e dove nasce la sua prima figlia. Quando la bambina è ancora molto piccola, lei e il marito decidono di tornare alla base, per condurre una vita più tranquilla. Ma nel 1976 la rivolta di Soweto, la morte di Hector Pieterson e poi di altre decine di studenti risvegliano Sue dal suo "letargo dell’anima". Comincia a guardarsi attorno, a interrogarsi, a trovare quella condizione insopportabile. 

Qualche mese dopo, in occasione di un incontro pubblico, ascolta la scrittrice Sindiwe Magona (se non aveste letto nulla di suo, vi consigliamo vivamente di farlo) che esorta le donne sudafricane – nere, coloured e bianche – a unirsi in un movimento non razziale. Si ritrova “travolta” dall’idea e realizza di non aver avere avuto idea, fino a quel momento, di cosa la circondasse. Diventa una delle fondatrici del Movimento delle donne per la pace. Va a vedere cosa accade nei cosiddetti insediamenti abusivi reiteratamente smantellati dalla polizia. Osserva, disegna, raccoglie materiale, lo rielabora e lo propone sotto forma di progetti artistici di grande impatto. 

 

 

Nascono in questo modo, per esempio, la serie The Modderdam Postcards (1978) e l’installazione the Last Supper (1981). Nella prima, a partire da suoi bozzetti presi durante gli sgomberi a Modderdam, confeziona vere e proprie cartoline, su cui riporta i messaggi che un ipotetico funzionario del Bantu Affairs Administration Board, il servizio incaricato in sostanza di vigilare sull’efficacia della segregazione, avrebbe potuto mandare a un collega o a un amico. La seconda raccoglie in una composizione suppellettili, arredi e oggetti vari raccolti durante le demolizioni di District Six e viene esposta alla Gowlett Gallery di Cape Town, dentro cioè uno spazio virtualmente bianco. Sono lavori che non raccontano solo la brutalità dell'apartheid, ma mettono in connessione pulsante proprio quei mondi che il regime voleva tenere separati.

 

Nel 1989, anno cruciale per il Sudafrica e per tutto il mondo, pubblica Resistance Art in South Africa.«Questo libro riguarda il modo in cui gli artisti della mia generazione risposero alle verità che gli eventi del 1976 avevano finalmente reso chiare», scrive nell’introduzione. Si tratta di un testo fondamentale per capire la scena creativa sudafricana di quegli anni, il passaggio da una pratica sostanzialmente elitaria e disimpegnata a un’altra che attraverso molteplici strumenti e linguaggi si confronta con la società e vuole trasformarla. 

 

 


L’intreccio tra arte visiva, scrittura, impegno e testimonianza attraversa tutta la produzione di Williamson. Con la fine dell’apartheid non viene meno, ma si evolve toccando altri temi, utilizzando nuovi mezzi espressivi (il video, la grafica digitale) e, in particolare negli ultimi anni, varcando i confini spaziali e temporali. Pensiamo alla serie From the inside (2003) che racconta cosa significhi non morire ma vivere con l’HIV; alle video installazioni There’s something I must tell you (2013), che fanno dialogare figure femminili emblematiche della lotta all’apartheid con le loro nipoti, alle prese con problemi completamente diversi; o anche al workshop itinerante Other Voices, Other cities, che ha toccato città di tutti i continenti ed è tutt’ora in corso: ai partecipanti viene chiesto di individuare una frase, un messaggio che esprima il carattere essenziale del luogo in cui vivono, collaborando poi alla sua rappresentazione fotografica. 

Per inciso, sulla cover di Life and Work e anche sul Taccuino che Williamson ha realizzato per il progetto At Work di Lettera 27, ci sono proprio le immagini del progetto relative a Johannesburg. 

 

L’elemento costante del percorso di Williamson è dunque il social commitment. L’artista e storico dell’arte nigeriano Chika Okeke-Agulo lo evidenzia nella sua introduzione a Life and Work: in molte culture africane è anche semanticamente impossibile scindere il concetto di etica da quello di estetica, la creatività dall’impegno verso la collettività. Non è concepibile un’arte che non sia sociale. Williamson incarna questa impossibilità e, in un certo senso, va oltre. Perché tutti i suoi lavori, nessuno escluso, hanno sempre un respiro partecipativo. C’è stato chi l’ha contestata per questo. Come il critico sudafricano Thembinkosi Goniwe, che in un intervento di qualche anno fa sottolineava come Williamson lavorasse troppo “sugli altri” senza mai esporre se stessa. In realtà, la scelta di privilegiare le storie "degli altri" e il lavoro "con altri", di concentrarsi su precisi soggetti (le donne, le vittime, i migranti) e tematiche (la corruzione, i soprusi, l’identità) sono passaggi rivelatori, che dicono molto, moltissimo sulla persona che li compie. Ma Williamson, in quell’occasione, tagliò corti dicendo di essersi sentita sempre, in primo luogo, una reporter. 

 

Che legame c’è tra la sua arte e il giornalismo?

 

La curiosità, il bisogno di capire. Io so di essere molto curiosa: in particolare delle storie della gente e di quello che giovani e vecchi pensano in relazione al Sudafrica. Mi interessa capire come i giovani vedano oggi il Paese, se i crimini dell’apartheid si possano dimenticare, se ci sono le condizioni per affrontare finalmente le questioni di genere… Faccio le mie ricerche a partire da questi temi. Per esempio, alla Fondazione Louis Vuitton a Parigi (in occasione della collettiva Être Là. Afrique du Sud, une scène contemporaine, ndr), ho portato It’s a pleasure to meet you, un video a doppio canale in cui parlano due ventenni che non si conoscevano prima, accomunati dal fatto di essere rimasti piccolissimi orfani di padre, per responsabilità dell’apartheid. La ragazza ha avuto la possibilità di andare in prigione a incontrare gli assassini del padre e dice: «Avevo bisogno di conoscere i dettagli. Ora che so come è andata e posso perdonarli». Ma il giovane è in una situazione completamente differente. Così comincia una discussione sul perdono e sulle sue condizioni di possibilità, sulla Commissione per la Verità e la Riconciliazione e sulla sua efficacia. Io raccolgo delle testimonianze, e sento il bisogno di condividere le cose rilevanti di cui vengo a conoscenza, proprio come farebbe un giornalista. Anche se poi non ne faccio degli articoli. 

 

 

Da subito si è focalizzata sulla popolazione nera del Sudafrica. Penso a una serie come A Few South Africans(1983-87) che, in anni molto difficili, ha dato un volto pubblico alle donne che lottavano contro l’apartheid. È stato complicato per lei, bianca, lavorare con i neri? 

 

Meno di quello che si possa immaginare. Ritrarre, raccontare, testimoniare sono sempre operazioni molto complesse. I soggetti possono sentirsi non rappresentati compiutamente. Io ho cercato ogni volta di essere onesta con le persone, spiegando loro cosa stessi facendo e perché, coinvolgendole e invitandole a partecipare attivamente, evidenziando le finalità politiche. Ci sono state anche delle critiche, non lo nego, ma in genere sono stata capita. E in molti casi ho creato dei rapporti personali forti, autentici, duraturi.

 

Cosa è cambiato con la fine dell’apartheid?

 

Fino al 1994 mi sono occupata essenzialmente di sottolineare il ruolo delle donne nella lotta di liberazione. Con le prime elezioni democratiche è cominciata evidentemente una fase nuova. Il Sudafrica si è dotato di una delle costituzioni più avanzate al mondo, mettendo al bando ogni genere di discriminazione. Ma la realtà è diversa. Ci molte questioni aperte. Il potere economico che rimane ancora nelle mani dei bianchi, per esempio. E poi l'aids, la corruzione, la violenza di genere, gli stupri correttivi di cui lei è venuta a conoscenza grazie a Muholi, il razzismo contro gli immigrati provenienti dagli altri paesi africani.

 

Parliamo di questo. Al tema lei ha dedicato la serie Better Lives, del 2003. 

 

L’economia in crescita attirava anche prima moltissime persone dal Malawi, dallo Zimbabwe, dal Mozambico. Ma con la fine dell’apartheid il flusso si è intensificato. E i locali, che avevano aspettato anni per avere case, elettricità scuole, si sono molto risentiti. Hanno dimenticato il passato. Le storie dei migranti in fondo sono le stesse in tutto il mondo. Arrivano in un nuovo paese e non hanno nulla, perciò sono pronti a lavorare in maniera durissima, ad accettare condizioni penalizzanti e questo scatena una sorta di competizione tra poveri. A Cape Town, in qualsiasi posto tu voglia parcheggiare, trovi dei “guardiani” pronti a custodire la tua auto per pochi rand. Se parli con loro capisci che sono magari laureati e hanno le migliori intenzioni. Ma gli autoctoni non li recepiscono così… È un problema che qui risulta particolarmente paradossale, per i trascorsi del Paese, ma in realtà ha una portata mondiale, e rimanda alla questione dell’identità, della libertà di movimento, delle fragilità ambientali. 

 

Dal punto di vista artistico, il Sudafrica è spesso considerato “non Africa”. Lei cosa ne pensa?

 

Il Sudafrica vanta gallerie, musei, infrastrutture all’altezza di quelle europee o americane. Per questo c’è chi vorrebbe considerarlo una succursale occidentale. Ma la verità, storica e geografica, è che questo Paese è in Africa. Il problema è il permanere di una forte attitudine neocoloniale rispetto all’Africa. I curatori occidentali troppo spesso vogliono lavori “african looking”, che rimandino alle maschere di legno, ai tamburi e a un repertorio esotico cristallizzato. Insistono a considerare non africano quel che si discosta da questi stereotipi. Ma in Sudafrica (e non solo lì) moltissime cose si discostano: è un dato di realtà. Invece che modificare la visione e ammettere la complessità e la pluralità dell’Africa, però, c’è chi suggerisce di portare il Sudafrica altrove. Da questo sguardo distorto deriva più in generale una grande difficoltà per tutti gli artisti africani che non vogliono e non possono separarsi dalla loro cultura e dalla loro storia, ma neanche essere rinchiusi in un ghetto. Sono davanti a una scelta (restare o partire?) che mette a rischio l’identità e la libertà creativa.

 

Restare o partire: il dilemma degli artisti dell’“isola” Africa si intitolava, per inciso, uno scritto di Williamson presentato in occasione della mostra alle Papesse nel 2008. Un testo che si focalizzava proprio sulla fatica di fare arte in Africa, evidenziando i limiti concreti e teorici dell’espressione “arte contemporanea africana”. Anche rispetto a questo Williamson rappresenta una figura emblematica. Perché al di là dei contributi teorici al dibattito, sono il suo lavoro e la sua biografia a rivelare l’ambiguità di un’etichetta in qualche modo ancora necessaria (per agevolare la comunicazione tra profani, per fissare dei paletti, per dare un ordine ai volumi di una biblioteca…) ma di certo, mai come ora, drammaticamente insufficiente. 

 

*Intervista fatta il 5 giugno 2017, presso la storica libreria Bocca di Milano. Foto di Dante Farricella.

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Sue Williamson, Chronicler of Memory*

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Italian Version

 

It was 2008, and the Palazzo delle Papesse in Siena was hosting a collective exhibition of young artists from South Africa. Among them, a still-unknown Zanele Muholi with her Miss D’vine series and other works focused on the South African LGBT community. My journalistic interest in African contemporary art (whatever this expression means to say) began with those images, which represented the starting point for an investigation into South Africa’s “corrective rapes,” the hateful and recurring practice of abusing homosexual women to bring them back “on the right road.” Muholi’s shots concretely show how much testimonial strength and denunciation art can hold. They offered a key to understanding, a way to access a country in transformation. They were the meeting point between poetry and chronicle, between expression of self and social commitment. Something very close to my concept of writing.

 

Muholi’s presence at the Papesse was strongly called for by Sue Williamson, a South African artist who was among the curators of the exhibition. For this reason, I felt I owed her a debt ever since. When I had the opportunity to interview her, thanks to Skira, publisher of the monographic book Sue Williamson. Life and Work, I couldn’t believe it.

 

 

Defining Williamson as an artist is correct, but also simplistic. Because this gentle and kind woman wanted to be—and managed to be—many other things: a narrator, an activist, a promoter of creativity, culture and commitment, a witness and chronicler of memory, ready to state her position, while never losing sight of the complexity of a situation.

 

Her parents were English, and moved to Johannesburg in 1948 when Sue was seven years old. Growing up under apartheid, many things bothered her (beginning with, for example, the Afrikaans language that she could never master) but she did not worry too much about anything. She began working as a journalist and at age 21 married. Shortly thereafter she moved with her husband to New York, where she discovered a passion for the visual arts. After the birth of her first child, they decided to return to South Africa, to live a more peaceful life. But in 1976 came Soweto’s uprising, Hector Pieterson’s death along with dozens of students, awaking Sue from her “soul’s lethargy.” She began to look around, to ask questions, to find the whole situation unbearable.

 

A few months later, at a public gathering, she listened to the writer Sindiwe Magona (if you have not read anything of hers, I strongly recommend that you do) exhorting South African women—black, white, and mixed—to join in a non-racial movement. She found herself “overwhelmed” by the idea and realized that she had never really had any awareness, until that moment, of what surrounded her. She became one of the founders of the Women’s Movement for Peace. She went to see what was happening in the so-called squatter camps repeatedly dismantled by the police—observing, drawing, collecting material, redesigning it into artistic projects of great impact. 

 

 

It was in this way that series such as The Modderdam Postcards (1978) and the installation Last Supper (1981) were born. In the first, she started with her sketches from her visits to Modderdam during police raids, creating postcards on which she posted a series of messages from a hypothetical official of the Bantu Affairs Administration Board (the department responsible for monitoring the effectiveness of segregation) that could have been sent to a colleague or a friend. The second is a composition of furnishings and various items collected during the District Six demolitions and is exhibited within a virtually white space at the Gowlett Gallery in Cape Town. They are works that tell not only of the brutality of apartheid, but link the very worlds that the regime wanted to keep separate.

 

In 1989, a crucial year for South Africa and the world, she published Resistance Art in South Africa. “This book is about how my generation’s artists responded to the truths that the events of 1976 had finally made clear,” she writes in the introduction. This is a book that is vital for understanding the South African creative scene of those years, the transition from an essentially elitist and non-socially engaged practice to one that confronts the society and desires to transform it through multiple tools and languages.

 

 

The intertwining of visual art, narration, dedication and testimony emerges through Williamson’s entire production. With the end of apartheid, it does not lessen but evolves by touching other issues, using new media (video, digital graphics) and, particularly in recent years spanning the boundaries of space and time. This brings to mind the series From the inside (2003), which tells what it means not to die but live with HIV; the video installation There’s something I must tell you (2013), which shows emblematic feminine figures of the apartheid struggle speaking with their grandchildren, who are dealing with completely different problems; and the traveling workshop Other Voices, Other Cities, which has touched cities on all continents and is still ongoing. In this workshop, participants are asked to find a phrase, a message that expresses the essential character of the place where they live, and turn it into a photographic representation.

 

Incidentally, on the cover of Life and Work and also in the Notebook that Williamson made for the At Work project from lettera 27, there are some of the pictures of the Johannesburg project.

 

The constant element of Williamson’s path is social commitment. Artist and Nigerian art historian, Chika Okeke-Agulu, points this out in his introduction to Life and Work: in many African cultures it is also semantically impossible to separate the concept of ethics from aesthetics, creativity from the commitment to the community. Art that is not social is inconceivable. Williamson embodies this impossibility and, in a sense, goes further because all her works, without exception, always have a participatory nature. There have been some who have challenged her for this, such as the South African critic Thembinkosi Goniwe, who claimed a few years ago that Williamson was working too much “for others” without ever exposing herself. In fact, the choice to favor the stories of “others” and to work “with others,” to focus on specific subjects (women, victims, migrants) and themes (corruption, abuses, identity) are revealing steps which say a great deal about the person who makes them. But Williamson, on that occasion, cut the discussion short, saying that she always felt first and foremost a reporter.

 

What is the link between your art and journalism?

 

Curiosity, the need to understand. I know that I am very curious: in particular, about the stories of people, and what young and old people think about South Africa. I am interested in understanding how young people see the country today, if the crimes of apartheid can be forgotten, if the conditions are there for finally addressing gender issues…My research starts with these themes. For example, at Fondation Louis Vuitton in Paris (Ed: during the collective exhibition Être Là. Afrique du Sud, une scène contemporaine), I brought It’s a pleasure to meet you, a two-channel video in which two 20-year-old strangers—with nothing in common but having been raised fatherless due to apartheid—have a conversation. The woman went to the jail to meet her father’s assassins and says: “I needed to know the details. Now that I know what happened, I can forgive them.” But the young man is in a completely different situation. Thus begins a discussion of forgiveness, of the conditions that make that possible, and of the effectiveness of the Commission for Truth and Reconciliation. I gather testimonies, and I feel the need to share the relevant things I come to know, just as a journalist would do. Even if later I do not write the article.

 

 

You immediately focused on the black population of South Africa. The series A Few South Africans (1983-87) comes to mind which, during very difficult years, gave a public face to the women who fought against apartheid. Was it complicated for you, a white woman working with blacks?

 

Less than you could imagine. To portray, recount, testify—these are always very complex operations. Subjects may not feel fully represented. I have always tried to be honest with people, explaining to them what I am doing and why, engaging them and inviting them to actively participate, highlighting the political goals. There have also been criticisms, I agree, but in general I have been understood. And in many cases I’ve created strong, real, lasting personal relationships.

 

What changed with the end of apartheid?

 

Until 1994, I was mainly concerned with emphasizing the role of women in the struggle for liberation. Obviously with the first democratic elections, a new era began. South Africa has one of the most advanced constitutions in the world, banning all types of discrimination. But the reality is different. There are many open issues: the economic power that remains in the hands of whites, for example. Then there’s AIDS, corruption, gender violence, corrective rapes that women have come to know thanks to Muholi, racism against immigrants from other African countries.

 

Let’s talk about this. You devoted your series Better Lives in 2003 to this theme.

 

The growing economy had already been attracting many people from Malawi, Zimbabwe, Mozambique. But with the end of apartheid, the flow intensified. The locals, who had been waiting for years to have homes, schools, electricity, were very resentful. They forgot the past, the stories of migrants are the same throughout the world. They come to a new country with nothing, but are ready to work hard, to accept brutal conditions, and this triggers a type of competition among the poor. In Cape Town, wherever you want to park, you find “guardians” ready to protect your car for a few Rands. If you talk to them, you discover they’re university graduates and have the best intentions. But the indigenous people do not see them this way… This is a problem that, due to the country’s past, has become particularly paradoxical, but in reality has a global reach, referring to the issue of identity, freedom of movement, and environmental fragility. 

 

From an artistic viewpoint, South Africa is often considered “not Africa.” What do you think?

 

South Africa boasts galleries, museums and infrastructures in the standards of Europe or America. That is why some would like to consider it a Western branch. But the truth, historical and geographical, is that this country is in Africa. The problem is the persistence of a neocolonial attitude towards Africa. Western curators too often want “African looking” works, referring to wooden masks, drums, and an exotic crystallized repertoire. They insist that anything that differs from these stereotypes is non-African. But in South Africa (and not only there) a lot of things are different: it is a reality. Instead of changing the view and admitting the complexity and plurality of Africa, however, there are those who suggest that South Africa belongs elsewhere. From this distorted view comes a great difficulty for all African artists in general, who neither want to nor can separate themselves from their culture and history, but at the same time be locked in a ghetto. They are facing a choice (stay or leave) that endangers their identity and creative freedom.

 

To stay or leave: The dilemma of the artists of the “island” of Africa was the title, incidentally, of one of Williamson’s papers presented at the 2008 Papesse exhibition. It focused precisely on the difficulty of creating art in Africa, showing the concrete and theoretical limits of the expression “African contemporary art.” Also in this, Williamson represents an emblematic figure. Because beyond the theoretical contributions to this debate, it is her work and biography that reveal the ambiguity of a label that is in some ways still needed (to facilitate communication with laymen, to better define subject boundaries, to organize volumes in a library, etc.), but is now, as never before, dramatically inadequate.

 

* Interview held on June 5, 2017, at the Bocca historic library of Milan. Photos: Dante Farricella. Translation by Laura Giacalone

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Live. Intensità, intermittenza, registrazione

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Abitualmente pensiamo che le parole non soltanto creino una separazione tra ciò che ci accade e la possibilità di farne esperienza, di trattenerne il ricordo, ma che nella vita parlante dell’uomo il puro vissuto nemmeno esista. Eppure se prendiamo alcuni testi, per esempio autobiografici, capita che ci restituiscano una trama che non si esaurisce in una serie di fatti e di episodi, in una struttura che si risolve nella propria consistenza fattuale, ma siamo di fronte a un gesto che rimane come attraversato da una corrente viva che trova improvvise condensazioni visive, interruzioni, intermittenze in cui la vita che si vive e la vita per cui viviamo coincidono e come in un sogno diventano un dato da vedere.

È come se questa tensione tra il puro vissuto e il suo prendere forma trovasse uno spazio in cui l’occhio si fa specchio dello sguardo e la visione aumenta d’intensità.

 

È la certezza che un puro vissuto esiste, che le parole lo dimenticano, ma che le immagini vi si fissano con tutte se stesse. Non si tratta di contrapporre le immagini alle parole, ma di cogliere, o di essere colti, in diretta, live, da come le nostre parole si sgranano nell’incontro con il reale e il nostro occhio si fa nassa visiva dell’accaduto. Allora la vita non pare più bruciare le immagini nelle proprie metafore, ma legge le metafore vedendo le immagini che in loro ancora bruciano, ora, in diretta, nel momento stesso in cui la propria vita accade.

Il live, la diretta, per noi condensa in sé questo ordine di questioni, dall’apparente impossibilità di cogliere sul vivo al nodo differenziale che introduce la ripetizione, il rifacimento, dalla vita dell’immagine stessa a una nuova interattività conquistata nel virtuale Web conversazionale.

 

Nel presente volume si va allora da Proust a Michaux, alla performance, a particolari forme cinematografiche, al remake e re-enactment fino appunto agli usi che dell’immagine si fanno nella Rete, secondo un percorso che intreccia vita e morte, introspezione e auto-osservazione, visibile e invisibile, visione e corpo, parola e immagine, immagine fissa e immagine in movimento, assenza di immagini e immagini connesse.

Il primo testo del volume stabilisce per noi un filo di continuità con il volume precedente della collana, che era dedicato ai temi della memoria presa tra accostamenti, sovrapposizioni e persistenze, che vengono qui portati verso i nostri nuovi temi. Al centro del testo di Tanguy Viel vi è infatti la dialettica tra il flusso inarrestabile e veloce del pensiero, dell’immaginazione, del vissuto, la “fuga delle idee”, e la volontà artistica di restituirlo attraverso un linguaggio necessariamente più lento, laborioso, regolato. Dalla potenza persistente e strutturante delle immagini Viel ci porta, lungo il suo percorso, attraverso immagini che strappano il flusso, la superficie, lo schermo, alle immagini che “creano una durata nello scorrere, un altro tempo nel tempo”, aprendo in questo modo la durata “al proprio infinito”.

 

Henri Michaux, Senza titolo, 1948. Matita, inchiostro e acquarello su carta, 47,6 x 31,2 cm. Winterthur, Kunstmuseum Winterthur.

 

Da Proust Viel passa a Munch e all’Hitchcock di Psycho, infilando peraltro una serie di volti dalle particolari espressioni e sguardi che per noi formano quasi una sequenza in sé, secondo un ruolo dell’immagine non di pura illustrazione che rivendichiamo in questa nostra impresa editoriale. Non troppo distante dal testo di Viel è quello di Muriel Pic, che affronta la questione del “testimone” che lo scrittore è, ma anche che ha dentro e fuori di sé mentre scrive, mentre traspone in scrittura i propri pensieri. Da un lato sta allora l’introspezione e dall’altro l’osservazione esteriore, per superare l’alternativa dei quali Henri Michaux, protagonista del testo, assume a modo suo due paradigmatici metodi scientifici dell’auto-osservazione: quello etnografico, che rovescia però in una sorta di etnologia immaginaria, e quello medico, in particolare nelle famose sedute in cui assume mescalina, che trasfigura a sua volta spostando il suo oggetto d’osservazione dal visibile all’invisibile. Ne nascono due altri tipi di auto-osservazione peculiarmente artistiche, quello del testimone cieco, divinatore, che vede l’invisibile, e quello del testimone meravigliato, che vede l’inatteso e il sorprendente.

 

Dunque il live comporta queste problematiche e disegna soluzioni simili, ma siamo solo all’inizio. Lungo un’altra serie di interventi scorre un filo che le collega, quello che va dalla performance, per definizione atto unico e irripetibile, fondamento del live nelle arti visive, al remake e re-enactment, dove la rievocazione e ripetizione – nonché la sovrapposizione e il not straight, per ricordare i temi dei due volumi precedenti e la continuità della nostra ricerca – sono rimesse in gioco in forma rinnovata. Si parte da una strana “storia della performance in 20 minuti”, trascrizione di un intervento che è stato a sua volta una performance. Performer vi erano l’ideatore e autore del testo Guillaume Desanges e l’attore Frédéric Cherboeuf, che ha mimato le performance evocate. L’idea portante è il potere silenzioso e zittente dei gesti, da un lato un rispondere con i gesti alle chiacchiere, dall’altro la rivendicazione di un “giubilo dell’immediatezza” che il gesto può avanzare forse più della parola.

 

Ma, lungi da un’idea ingenua dell’immediatezza del gesto e dell’evento – del resto qui ripetuti, nel doppio e triplo senso della ripetizione teatrale –, la dialettica in atto è ripresa appunto da Érik Bullot in un modo e da Mickaël Pierson in un altro. Il primo tratta di una ripresa, la ripetizione “due volte”, insita nel cinema stesso, fin dalle origini, ricordata e riconsiderata dalle avanguardie sperimentali poi, significativamente, negli anni Settanta, e ancora in quelli recenti. Si tratta di un “raddoppio differenziale”, dice Bullot, e fa due esempi che inquadrano le questioni in gioco: “Hollis Frampton esplora la ripresa attraverso la distanza tra descrizione e messa in mostra, mentre Jean Eustache sottopone le inquadrature a una permutazione generale data da dirottamento e manipolazione”. In entrambi, ulteriore motivo di interesse, è poi in causa il rapporto tra fotografia e cinema, immagine ferma e immagine in movimento, in cui interviene il sonoro che le sfasa e sovrappone, o brucia in un caso o rilancia nell’altro: in entrambi i film presi in esame una voce descrive qualcosa che non è ciò che stiamo guardando.

 

C’è una sfasatura, uno scarto differenziale in gioco nel live. Lo si vede in modo ulteriormente diverso nei remake e re-enactment tornati all’ordine del giorno nel cinema e in arte, argomento del testo di Pierson. Nati con finalità di rievocazione, ricostruzione o riattualizzazione, sono recentemente diventati forme d’arte in se stessi a partire, anche qui, dal rifacimento di qualcosa, film o altro, che per definizione si proponevano come eventi unici e irripetibili. In essi gioca la sovrapposizione del già noto e della versione e ricezione attuale. Entrano allora in gioco le questioni sollevate da un lato dalla corporeità della rieffettuazione concreta, che per certi versi risponde all’assenza di immagini documentarie, come nel film di Rithy Panh che ricostruisce il genocidio dei khmer rossi in Cambogia, e dall'altro i rischi di deformazione e di ogni genere di rapporto problematico con il modello originale, gli effetti perversi in cui può incorrere ogni ricostruzione, al centro di altri film che Pierson analizza. È proprio l’assunzione e la decostruzione di tali rischi, declinati però a partire dal rifiuto della dicotomia finzione/documentario, a costituire la novità di queste pratiche e la premessa per un remake e un re-enactment vivi, live.

Il due detta la legge sottile della visione anche nell’intervento di Giovanni Oberti e Keti Shehu: due attaccapanni, due bicchieri ci dicono che le vedute dalle finestre vanno guardate con sguardo doppio: dentro e fuori si legano e il mondo diventa un “altro mondo”, forse quello “sfondo di contrasto perché spicchi il disegno d’un minuto” di cui parla Rilke, citato dagli autori (due), con l’avvertimento che noi “non conosciamo il contorno del sentire, ma soltanto quel che dall’esterno lo forma”.

 

Rithy Panh, S21: La macchina di morte dei khmer rossi, 2003. Fotogramma.


Su nuovi registri del sentire, vivere e vedere sono incentrati un altro gruppo di testi. Daniel Birnbaum ne ha introdotto uno attraverso la fotografia secondo Wolfgang Tillmans, quello di immagini che sembrano casuali e si rivelano frutto di un’acutezza visiva del tutto singolare. Essa deriva non tanto da decisioni estetiche o categorie fotografiche quanto dall’“alchimia della luce”, da una parte, e dall’“interesse per il nostro essere-al-mondo con gli altri”, ovvero dall’intreccio inestricabile tra fenomeni visivi e vissuto, dall'altra; così le sue opere apparentemente astratte si caricano di un erotismo che le rende fisiche e quasi viscerali, mentre le immagini apparentemente colte per caso nella situazione momentanea si dimostrano invece paradigmi della complessità e della condivisione, della scelta “dell’instabilità e della vulnerabilità che sono sempre un aspetto della bellezza individuale”. “Fondamentalmente le sue immagini sono basate su coinvolgimento e affezione”, scrive Birnbaum.

 

Su un vedere invece non-umano – ma quanto di più-che-umano, troppoumano c’è anche nello sguardo di Tillmans? – sono incentrati i testi di Florian Leitner e di Nicola Turrini. Il primo analizza strane immagini e video realizzati volutamente o casualmente da animali – in particolare un video realizzato di fatto da una tartaruga marina che giocava con una videocamera smarrita nell’acqua – paragonandoli al capolavoro di Michael Snow La région centrale, a sua volta realizzato non da occhio umano bensì tramite un dispositivo meccanico semovente. Dove finisce l’intenzione umana, dove l’autorialità, dove il confine tra umano e non-umano, tra tecnico e naturale, e le nozioni tradizionali che riguardano la soggettività e l’estetica? Ne emerge un vedere non antropocentrico e post-umano che l’autore considera anche “paradigma per le pratiche di imaging e di significazione nelle reti digitali” e una sottile riflessione sul viaggio che le immagini fanno per giungere a destinazione e concludere che è proprio “il movimento che fanno quando viaggiano verso la rete globale ciò che ci affascina”.

 

Nicola Turrini sviluppa per molti versi gli spunti di Leitner portandoli in un’altra direzione. Quello che gli interessa è non solo una visione non-umana, ma una anche immersiva, un filmare “con i corpi e con i pesci” nel caso del film Leviathan di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, e quell’immagine “pura” che viene da un “puro vissuto del doppio divenire”, secondo la formula di Gilles Deleuze. Tale immagine, anzi “situazione ottico-sonora pura”, non solo viene da “un occhio dotato di capacità analitiche inumane”, come definiva il cinema Jean Epstein, capace di penetrare l’interiorità degli esseri e di modulare il puro vissuto, ma descrive un “universo alle soglie della percezione umana”, un’immagine che finisce con l’essere “l’immagine dell’inafferrabile fantasma stesso della vita”, forse “la chiave di tutto”.

Un poco fuori dalle righe ma non troppo è l’intervento di Elio Grazioli, che prende il live dalla parte della morte, a rovescio, se così si può dire, incentrando il suo intervento sulla particolarità, anzi “singolarità”, dell’opera di artisti che sanno di star per morire. Scatta qualcosa in quella circostanza di assolutamente unico, a cui alcuni artisti – qui Hans Hartung, Felix Gonzalez-Torres, Robert Mapplethorpe, Martin Kippenberger – hanno risposto con cicli di opere in cui la questione della morte e della vita è rilanciata in un rovesciamento temporale che oppone la pratica di un dopo la morte immanente al pensiero più diffuso di un dopo trascendente.

A questo testo possiamo accostare l’intervento visivo di Simone Schiesari, i cui “Creaturi” intrecciano vita e morte, reale e simulacro, passato e rifacimento – qui pulitura digitale – nella direzione, come suggerisce il titolo, del futuro piuttosto che di un luttuoso sguardo al passato.

Chiude il volume una doverosa interrogazione su che ne è dell’immagine e del suo rapporto con il live nel Web e nella tecnologia correlata. Andrea Zucchinali affronta vari aspetti della questione appoggiandosi sia ad artisti come Joan Fontcuberta o Sophie Calle, sia agli usi della fotografia ormai diffusi nel Web, “favoriti dalla sua [della fotografia] dimensione fluida-digitale combinata con lo sviluppo del suo nuovo habitat, il Web orizzontale interattivo”. È appunto questa combinazione a teorizzare oggi un nuovo genere di immagine, “connessa e “conversazionale”, che induce Zucchianali a scrivere che lì non solo si parla per immagini, ma si parla le immagini, nel senso in cui si dice che si parla l’italiano.

 

Introduzione a Imm, settembre 2017.

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Dunkirk, il tempo e la menzogna

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Dunkerque, nord della Francia. L’Inghilterra è a una quarantina di chilometri, al di là del canale della Manica. È il 1940, la Seconda Guerra Mondiale è iniziata da circa un anno e la Germania sembra inarrestabile. 400.000 soldati inglesi e francesi sono rimasti intrappolati in questo minuscolo lembo di terra, accerchiati dall’esercito del Terzo Reich, pronto a fare con loro il tiro al bersaglio. In un modo o nell’altro, devono essere portati oltre la Manica perché rimanga qualche futura speranza di vittoria.

In questo contesto storico, Dunkirk inizia senza preamboli: uno sparuto gruppo di soldati si aggira smarrito per le strade di una cittadina deserta, splendidamente fotografata dal DOP Hoyte van Hoytema (Her, Interstellar, Spectre) nella tanto chiacchierata pellicola IMAX 65mm. Non si sa chi siano e come siano arrivati qui. Non ci sono dialoghi, il silenzio è violato solo dalla colonna sonora che propone l’incessante ticchettio di un orologio.

 

Prima che irrompano gli spari, viene naturale – come dice giustamente Roberto Manassero – richiamare le parole di Cobb in Inception: «Non ti ricordi mai veramente l'inizio di un sogno, giusto? Ti ritrovi sempre nel bel mezzo di quello che sta succedendo». È ciò che avviene in Dunkirk, che – nonostante sia l’unico dei dieci lungometraggi di Christopher Nolan a non mostrare sogni, ricordi o flashback dei suoi personaggi – dà la nettissima sensazione di catapultarci all’inizio di un incubo, senza sapere come e perché. 

 

In questo war movie atipico, Nolan è insolitamente avaro di premesse. Un rimprovero che i suoi detrattori spesso gli rivolgono è di tendere a “spiegare” troppo le sue mind-game stories, quasi avesse bisogno di inserire nei dialoghi dei suoi script un vademecum che permetta di orientarsi nel labirinto narrativo di strutture così complesse. Succede – e più volte – che in puzzle come Inception o Interstellar i personaggi espongano “le regole del gioco”, siano esse suggestivi ingranaggi onirici o complessi teoremi di fisica quantistica. Dunkirk, al contrario, è estremamente parsimonioso di punti di riferimento. Solo all’inizio del film veniamo messi a conoscenza, mediante sovrimpressioni, che tre storie si intrecceranno e avranno durate diverse: “il molo” – durata: una settimana – vede protagonista Tommy (Fionn Whitehead), un soldato fra i tanti che cercano la fuga; “il mare” – un giorno – racconta di mr. Dawson (Mark Rylance), marinaio civile che con il figlio Peter e il suo amico George si precipita al di là della Manica con il suo yacht, insieme ad altre migliaia di piccole imbarcazioni, per tentare il recupero dei soldati; “il cielo” – un’ora – vede il pilota della RAF Farrier (Tom Hardy) impegnato in un duello con la Luftwaffe. I tre ingranaggi si mettono in moto insieme e iniziano a girare, con il montaggio à la Griffith che ce li fa percepire come simultanei, anche se in realtà viaggiano su assi temporali differenti. 

Da qui, a noi il compito di risistemare i pezzi.

 

Le regole dell’astrazione

 

C’è un rapporto molto particolare tra Nolan e il “genere”. Anche senza scomodare paragoni con Kubrick o altri nomi inviolabili – cosa che invece ha fatto recentemente e con ottime argomentazioni David Bordwell – può essere rintracciato un modus operandi ricorrente nell’uso che il regista di Memento fa dei luoghi comuni dei generi cinematografici. Nolan si serve del genere per raccontare in forma simbolica e metaforica questioni emotive spesso traumatiche e complessi processi psichici. Il massimo della grandeur hollywoodiana, insomma, per il massimo dell’intimità, per andare nel profondo delle emozioni e dei moti più reconditi, in un intreccio – unico nel cinema contemporaneo – tra cerebralità e visceralità. Ad esempio, si dovrebbe guardare Inception più correttamente come un mélo che racconta, in forma iperbolica, la difficoltà straziante dell’elaborazione del lutto, o Interstellar come un racconto grandioso sull’abbandono e sul perdono, in cui Nolan “usa” la fantascienza per arrivare a mettere, l’una di fronte all’altro, un’anziana donna sul letto di morte e il “fantasma” giovane di suo padre, giocando con il tempo e la sua relatività solo affinché il genitore possa, davanti alla figlia invecchiata, avere l’aspetto di quando, anni prima, il trauma si era consumato.

 

 

Allo stesso modo, Nolan approda al war movie in modo strumentale, cioè per dire “altro”, perché in fondo nel cuore dell’assurdità della guerra c’è, in forma più radicale, lo scontro che è al centro della sua visione del cinema e del mondo: la lotta dell’uomo contro il tempo.

Per arrivare a questo, Dunkirk viene sottoposto a un processo di astrazione estremo. 

Nessun personaggio possiede infatti una caratterizzazione degna di nota: i soldati vengono ridotti a puro istinto di sopravvivenza, non hanno un passato o una storia e spesso nemmeno un nome. Il nemico è perennemente fuori campo, quasi mai nominato, assente. Non c’è il sangue di Salvate il soldato Ryan, cui pure qualche critico blasonato l’ha recentemente accostato con qualche eccesso di foga ideologica, e non ci sono eroi o battaglie. I soldati vogliono solo tornare a casa e reagiscono in modi diversi sotto il peso della tensione cui sono sottoposti. La retorica è asciugata dalla stessa scelta di raccontare una sconfitta, dall’assenza di lunghi discorsi che abbiano il minimo respiro epico (a eccezione di quello celeberrimo, retorico ma bellissimo, di Churchill) e limitata all’uso della parola home, strumentale a inquadrare il paradosso di una salvezza visibile e a portata di mano eppure irraggiungibile.

Attraverso questa spersonalizzazione dei caratteri, il film rinuncia anche all’idea di collettività: tra le maglie della storia non c’è spazio per il singolo e per l’umanità, tanto meno per la solidarietà tra i soldati, al cui posto rimane solo un individuale e generico desiderio di salvezza. 

 

Il risultato di questo processo di scarnificazione, che spesso arriva a fare a meno dei dialoghi (Tommy, il soldato che compare dalla prima sequenza, praticamente non parla in tutto il film), è visibile anche dalla durata: 99 minuti, il film più corto della carriera di Nolan, tolto l’esordio di Following. Un’insolita economia narrativa, grazie alla quale i discorsi ricorrenti del suo cinema risuonano con una forza più intensa.

 

Ristrutturare il tempo

 

Abbiamo detto come il tempo sia uno dei temi che ricorrono in modo ossessivo nel cinema di Nolan. Qual è però l’angolazione da cui il regista inglese affronta questo tema? Che cosa del tempo costituisce, nella sua visione del mondo, un elemento così opprimente?

Bisogna fare a monte una distinzione tra due “qualità” di tempo. Il filosofo Henri Bergson distingueva tra il tempo “della meccanica”, in cui gli istanti sono tutti uguali, «come in una collana di perle», e il tempo interiore, quello dell’esperienza e della “durata”, che si allunga e si accorcia come un elastico in base alla percezione soggettiva. Il primo è misurabile, il secondo no. Nei film di Nolan tra queste due dimensioni temporali si apre tragicamente una faglia: ad esempio, mentre il tempo meccanico scorre implacabile su Leonard, protagonista di Memento, il suo “tempo interiore” è avvitato sull’istante traumatico della morte della moglie. Il dramma è il conflitto tra queste due “entità”, una frattura che viene “riempita”, almeno parzialmente, dal cinema, che è un dispositivo di affabulazione in grado di manipolare il tempo, anche quello meccanico, torcerlo e sigillare la crepa. 

 

In altre parole, per rendere tollerabile la sproporzione tra soggettivo e oggettivo, Nolan (si) costruisce l’illusione di poter controllare il tempo attraverso il racconto. Ora, se pensiamo che, in fin dei conti, anche un semplice orologio ci dà la sensazione illusoria di esercitare un dominio, è interessante notare che Dunkirk– che racconta una pura, semplice, continua lotta contro il tempo – funziona meccanicamente come un orologio. Le tre storie, infatti, ognuna con una durata differente, procedono insieme proprio come tre lancette, in aggiunta accompagnate da un ticchettio costante e incessante. Mentre il nemico manca, c’è sempre lo spettro di questa forza inarrestabile che assedia, stritola e incombe, che che tiene in scacco i soldati, noi, gli uomini, il mondo intero. La spiaggia di Dunkerque, spazio simbolico, aperto, luminoso e inquietante (che richiama il campo deserto di Intrigo Internazionale e Hitchcock continua a sembrarmi il Maestro con cui Nolan ha più cose in comune), diventa il luogo in cui il tempo (della storia) insidia e asfissia, perché indeterminato e inquantificabile, “fuori campo” come il nemico; il tempo (del racconto) invece viene riorganizzato molto più razionalmente di quanto possa sembrare, attraverso questa struttura che rimanda alla dimensione simbolica di un orologio.

 

Lo spazio e la menzogna

 

Un soldato intrappolato in un aereo precipitato che cerca di non affogare; altri sottocoperta in una nave da cui tentano di uscire prima che sia troppo tardi; altri ancora incastrati dentro un peschereccio recuperato sul bagnasciuga, mentre la maggior parte di loro su una spiaggia non possono che aspettare, con le onde che li ricacciano indietro e ne restituiscono i cadaveri. 

Ovunque, in Dunkirk, qualcuno è in trappola, mentre dal cielo piovono le bombe degli Stukas e il mare è solcato dai missili degli U-Boats. Eppure la salvezza, al di là del mare, visibile ma irraggiungibile, dista solo 34 km. Questo spazio ridotto può essere percorso solo al contrario rispetto ai classici war movie: l’operazione Dynamo di Dunkerque, in effetti, è il rovescio dell’operazione Overlord in Normandia, non sono i soldati che sbarcano per salvare i civili, ma i civili che si muovono per andare a riprendersi i soldati. Acqua, aria, terra (e il fuoco delle armi), dipinti da una fotografia plumbea e inquietante, delineano l’incubo di Dunkerque, un inferno in cui c’è quel “troppo” di reale con cui poi è necessario fare i conti. Così, nel finale del film, si affaccia in modo straordinario l’altro grande tema su cui sembra insistere Nolan dall’inizio della sua filmografia. Se per “sostenere” il tempo, l’unico modo è simbolizzarlo in strutture che diano l’illusione di poterlo controllare, l’unica via per accettare le ferite che lasciano gli incubi del reale è, perciò, mentire. 

 

Il cinema di Nolan è fatto di persone che mentono, o meglio, che ri-narrano i fatti per render(ce)li accettabili. In Dunkirk mente il giovane Peter al soldato interpretato da Cillian Murphy, quando gli nasconde la morte del ragazzino George, che lui stesso ha provocato per uno stupido incidente; mente Churchill, quando la sua retorica trasforma una disfatta in una mezza vittoria; mente ancora Peter, quando racconta al giornale locale la storia di George e trasforma la misera tragedia di un adolescente morto per una caduta in barca (per di più causata da uno dei soldati rimpatriati) in quella di un eroe di guerra. Sono, più che menzogne, ri-narrazioni, una modalità che il cinema di Nolan usa per assumere un punto di vista assai pessimista sulla società degli uomini: affinché regga – e affinché il reale sia in qualche modo sostenibile – alcuni fatti vanno celati, nascosti e ri-raccontati, solo così possono essere accettati e il meccanismo preservato. Da Leonard, che in Memento mente a se stesso per continuare a “stare” un passo prima dell’elaborazione del lutto, a Cooper, che in Interstellar non dice a sua figlia che sa di non fare ritorno a casa, passando per Batman e Gordon, che nascondono a Gotham la caduta intollerabile di Harvey Dent, «a volte la verità non basta. A volte la gente merita di più», dice il Cavaliere oscuro. Così la chiusura del film non può che essere l’uscita dall’incubo in cui siamo caduti all’inizio: sul molo quasi deserto, da cui ormai la maggior parte degli inglesi sono riusciti a fuggire, Nolan mostra letteralmente un soldato, uno solo, che si sveglia, probabilmente per cacciare indietro i fantasmi del tempo e del reale.

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Polaroids dall’Atelier dell’Errore

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Continua la serie di contributi sul tema dell'infanzia legati alla XIII edizione di Torino spiritualità (21-25 settembre 2017). Qui il programma. Pubblichiamo oggi il testo dello spettacolo «Piccola liturgia Errante» dell'Atelier dell'errore, previsto domani domenica 24 settembre al Teatro Gobetti alle ore 15.30.

 

1 - Nicolas e la Remora ADE

 

Nicolas il primo giorno d’atelier si è presentato con una felpa giallo canarino, inserti bianchi e alcune di quelle scritte che reclamizzano qualche generica spiaggia perlopiù immaginaria, o roba simile.

Pantaloni cotone marrone medio, scarpe da ginnastica tipo Decathlon. Un ragazzino apparentemente come tanti: papà camionista, mamma che fa le pulizie.

Ve lo presento così, in un’istantanea da telefonino, non perché io faccia caso a come si vestano i miei in atelier. Semplicemente perché per tutti e tre gli anni, lui in atelier si è sempre presentato così.

Anche il giorno del nostro addio, era vestito uguale: stessa felpa, stesse scarpe, stessi pantaloni.

Forse era una divisa la sua. Ma io non l’ho mai capito purtroppo. Certo che lo avrei gratificato!

Quello che mi colpisce oggi, è che quegli stessi vestiti, nel corso di tre lunghi anni, lo hanno sempre vestito perfettamente. Non una manichetta un po’ cortina o la gamba del pantalone che fa intravedere il calzino, mai. Aderenza perfetta, inalterata negli anni.

Quindi, nei tre anni fatidici, dalle scuole medie alle prime classi superiori, quando i corpi dei ragazzini si distendono mirando al cielo, lui no. Lui è rimasto così com’era. Non un centimetro di più

Un corpo in crescita intrappolato in un cristallo.

E questa è la sintesi fedele dello stato di tensione nervosa ed emotiva con cui Nicolas si è sempre, regolarmente presentato in atelier. Logorato dalle sue personali tensioni quotidiane.

In primis la scuola e tutto quello che ne consegue: 

aule, banchi, sedie, compagni di classe, bulli, compiti, verifiche, giudizi...

Era tirato come un vecchio elastico malandato, il nostro Nicolas. Pronto per un nonnulla a spezzarsi, frustando le dita di chi se lo ritrova in mano. Chiunque esso sia. E abbiamo imparato a considerarci molto fortunati: a scuola va molto, molto peggio, ci ha sempre detto. 

Quando questa tensione traboccava, glielo si leggeva in viso. Viso che si trasformava in un ghigno di sfida, contro tutto e tutti. Lui si stampava una specie di sorriso affettato in viso e poi veniva a spezzarti una matita in faccia, faceva così, a 3 cm dagli occhi.

 

Remora ade, 50x70, 2015, Nicolas, Atelier dell'errore.


Una, due, tre matite verdi Faber Castell 9000 in dotazione all’atelier. Dopo poco l’atelier si è dotato di una scatoletta di matite cinesi da un euro e cinquanta per 12 pezzi. Gialle ovviamente. Inservibili al disegno, 

ma perfette per la performance rituale di Nicolas. Con il passare dei mesi queste performance si sono diradate. Abbiamo trovato l’antidoto: un accordo, gli chiedevo di rappresentare queste sue tensioni nel disegno. In cambio, da parte mia, dell’Atelier, di: un AscoltoPrivato (così l’ha chiamato lui).

Per questo mi toccava uscire con lui dalla stanza del nostro atelier all’interno del Museo di Scienze Naturali di Bergamo e costruire con i cartoni per il disegno, una casetta nella stanza del: Cervus Acoronatus.

Da lì dentro, in quella scatola nella scatola, Nicolas si raccontava, voleva farsi ascoltare appunto.

Lì dentro ho conosciuto la sua intelligenza superiore, esercizio di ammirazione. 

I suoi racconti, in quei 15 minuti solo suoi, sono veri gioielli, da autentico fuoriclasse, giudizio indifendibile e ingiustificabile di fronte a qualsiasi commissione scolastica o equipe neuropsichiatrica.

Il suo racconto più celebre si intitola: L’immane Ragno Ferro di Curnasco.

E questo, al momento, basti.

 

Dormiva poco la notte Nicolas.

Questo sacrificio gli permetteva però di vedere:

- orologi molli che camminano nella stanza (chi era Dalì?).  

- bicchieri pieni che, con la forza del pensiero, arrivano dalla cucina fino al bordo del letto (altroché Stalker). 

- e poi, molto più banalmente: bande di ladri che origliano nottetempo alle finestre, aspettando solo che lui si addormenti per entrare in casa e svaligiarla.

Eppure noi non siamo ricchi, diceva sempre: siamo poveri-normali.

Anche il suo disegno è materiale incandescente, di valore assoluto. In 3 anni, 2 disegni: e questo è uno: 

la Remora ADE.

Lui stesso assevera che per AdE, in questa remora, non s’intende il classico regno ctonio sotterraneo per il quale io mi ero ingenuamente entusiasmato leggendo il titolo. Molto sapientemente va letto:

A come Atelier, D come dell’, E come Errore.

 

Voilà, così è nato ADE, il perfetto e terrifico acronimo di Atelier dell’Errore.

L’occhio destro della Remora è un Rabbiometro: strumento che misura con precisione assoluta i gradi di rabbia profonda che uno ha in corpo. Se lo brevettassimo faremmo la fortuna dell’atelier e tutta la società se ne gioverebbe: potremmo così impiegare il corpo dei Carabinieri per vestire gli ignudi e le forze di Polizia per dar da mangiare agli affamati.

Questi in dettaglio i gradi di rabbia della scala personale-universale di Nicolas, precisamente elencati a compendio del disegno:

Grado 1 Normale

Grado 2 Nervoso

Grado 3 Arrabbiato

Grado 4 Arrabbiatissimo

Grado 5 Spaccotutto

Grado 6 Tira giù i grattacieli (Con la trancia) (Trancia: macchinario che taglia tutto fatto così…vedi disegno)

Grado 7 Piega i pullman (con 2 cacciaviti)

Grado 8 Ingobba i gorilla (su questo punto non abbiamo mai chiesto specifiche…mai voluto approfondire)

Grado 9 Sfonda i tetti con utensili da pugilato

 

Così si rivela un Maestro in Atelier

 

 

2 - Stefano e Il Tritaossa MangiaParenti.

 

Questo è il Tritaossa MangiaParenti. Chi l’ha scoperto e descritto su un foglio bianco si chiama: Stefano.

Stefano è un ragazzino pallido, fragilissimo. Occhi penetranti e vivaci, quando non troppo stanchi.

Anche per lui da anni, nei pochi anni, problemi con la notte. Ansie di cui in specifico non ha mai voluto raccontare. A dire il vero, noi in atelier non chiediamo mai. 

Lasciamo uscire, quello sì.

 Stefano aveva fra tanti altri, il grosso problema dei genitori, e dei parenti-in-generale.

Il padre lo aveva incontrato la prima volta solo qualche anno prima. Una volta sola, ed è bastata.

Non una parola di più. 

La mamma in terapia da anni. Quando dormiva da lei, lui non riposava mai.

In atelier ci è venuto per tutto il tempo in cui è stato dato in affido ad una famiglia attenta, volenterosa, sensibile. 

 

Ade Ple, the Cockroach.


Con loro, aveva ripreso un po’ di tranquillità, anche nel sonno. La stanchezza di anni però, nei suoi pochi anni, quella, di giorno, di tanto in tanto, lo stendeva ancora.

Stefano prendeva con impegno inflessibile l’atelier. Piano piano, a sua insaputa, a insaputa di tutti, scuola compresa, come spesso accade, ci siamo accorti che Stefano possedeva il dono di una mano davvero felice

Ma soprattutto: molte, molte storie dentro. Da far uscire, su un foglio da disegno, per esempio.

L’atelier era per Stefano la sua stanza personale in cui il quotidiano rimaneva finalmente fuori, per un po’.

Purtroppo per lui una sola volta la settimana.

In Atelier aveva due amici della stessa età: Dino e un altro Stefano detto: Il Grande.

Amici che sanno starti ad ascoltare, che chiedono, e domandano, e ti cercano se non ci sei.

Merce rara, per tanti dei miei.

 

In atelier Stefano aveva certamente un nume tutelare che lo proteggeva.

Lì, riposava il suo démone. Potente e magico al punto da farlo sempre, immancabilmente, inserire nella ristretta selezione dei disegni presentati in occasione delle varie mostre.

Non capita a tutti in atelier.

Si è perfino preso da solo la copertina di Lapis, una rivista monografica con un intero numero dedicato all’atelier.

L’ultimo anno prima che sparisse, nonostante la sua fragilità e la sua stanchezza cronica, mi ha chiesto di poter far da Tutor per i ragazzini più piccoli appena entrati in atelier. Io così lo rivedevo volentieri anche due volte la settimana. Stanchezza permettendo. Di slancio è riuscito persino ad ipnotizzare il terribile Cristian da Boscotrecase, provincia di Napoli, rendendolo mansueto come il leone di San Gerolamo. 

Il Tritaossa Mangia Parenti appartiene alla categoria oltre-zoologica delle Remore, dopo Plinio il Vecchio e Cavazzoni Ermanno.

A me hanno sempre fatto specie i peli: nascono sempre al centro preciso di una botta ricevuta. 

Come lui ha definito questi cerchiolini rosa, pazientemente disegnati.

 Gli occhi, segnati da molte e molte rughe, di chi non ha requie neppure la notte. Appunto.

Stefano oggi non è qui in teatro perché già da due anni è diventato materiale per avvocati.

Nemmeno la sua famiglia adottiva lo vede più. Dove riposa la notte, lo si può solo fantasticare.

I suoi due amici in atelier, quando lo ricordano, se lo vogliono immaginare sempre mentre dorme.

E questo è anche il nostro augurio: Dormi Stefano, dormi più che puoi.

 

 

3 - Giorgia e Il Drago Medusa Palline in Testa 

 

Giorgia ci aspetta sempre in atelier. La sua forma particolarissima di autismo non le permette di cambiare facilmente le sue abitudini spaziali. I suoi luoghi devono essere preferibilmente: conosciuti, predefiniti e sperimentati. Giorgia per frequentare ambienti diversi, necessita di molto più tempo, fatiche ed energie di noi. Viene in atelier da più di 12/13 anni e dell’atelier è certamente una Regina. Giorgia è un mondo intero fatto e finito, generalmente insondabile. Un mondo misterioso, enigmatico, quotidianamente abitato da:

tante Figure, dal Doppio e dagli Opposti. Come ognuno di noi, ma senza possibilità di mediazione.

Solo: luce o ombra, terra o cielo.

I primi anni Giorgia venive sola in atelier, nessun compagno le era compatibile, sopportabile.

Se dovessi descriverla con un suo gesto è questo: con entrambe le orecchie turate, da entrambe le dita, di entrambe le mani. Lo fa ancora in atelier, ma più raramente.

 Per mesi non ha parlato in atelier, ora risponde a tutte le domande purché siano poste con precisione assoluta, e senza forme retoriche.

Sia il tuo si: si, e il tuo no: no

Il suo percorso in atelierè stato una costante, lenta, prodigiosa: progressione.

Il primo anno si sedeva e disegnava sempre e solo ciò che voleva lei, come diceva lei, per il tempo e con i materiali che decideva lei.La sua mano però, nel disegno è una mano assoluta, fin da quando l’ho vista all’opera la prima volta. Il suo enorme limite, tipico: un accanimento incontrollabile e irrefrenabile del segno fino a sfinire il foglio, in mesi e mesi di lavoro. Ricami che torcendosi su se stessi, alla fine cancellavamo ogni forma, ogni intenzione.

 

Drago medusa palline in testa, 140x200, 2015, Giorgia, Atelier dell'errore.


Quindi:

1) Primo obiettivo: farsi accettare. 

Il mio rigore autistico sulla cura del luogo, credo sia stato il primo motivo di stima e fiducia condiviso con Giorgia. Atelier come spazio del necessario, e non del superfluo. Arte del togliere, teoria della scultura.

La punta più elevata raggiunta al momento, ci è stata regalata poco tempo fa, dopo 14 anni di duro lavoro.

I maggiorenni dell’atelier lavorano infatti da gennaio in uno spazio a noi dedicato che occupa un piano intero della Collezione Maramotti, 400 mq di bianco e di luce. 

 2) Ad un certo punto per sfruttare ogni millimetrica possibilità di comunicazione mi sono perfino messo a disegnare anch’io che non lo so fare, scarabocchiando accanto a lei, vergognosamente. Eppure questa goffaggine volenterosa credo abbia aperto un varco, nella fortezza di Giorgia. Come dicesse-senza dire:

vabbè, sei un normaloide, questo linguaggio non ti appartiene proprio, però sei umile e di buona volontà, ci sta: Ti insegno io COME SI VEDONO LE COSE…Si fa così.

3) Dopo un anno il tentativo di condividere la scelta di un colore. Facciamo così: uno lo decidi tu e uno io… questo per mesi. A un certo punto fa passare un turchese, me lo ricorderò sempre. È sempre stato il mio colore preferito.

4) Ancora oltre, il tema dell’Atelier: solo animali. Per mesi ho maldestramente imitato di tutto:

soprattutto mi toccavano: draghi e meduse!!! Uno strazio, potete facilmente immaginare.

Passa così, lentamente, anche la monotematica specialistica dell’Atelier dell’Errore, 

l’Oltre-Zoologia. Per tutto questo: anni.

5) Poi la prima compagna di gruppo, su disegni peraltro sempre ben distinti fra le due.

Ancora anni… gradino per gradino.

5) Oggi Giorgia è una professionista dell’AdE BIG, i maggiorenni che hanno il loro spazio riconosciuto all’interno della Collezione Maramotti.

Oggi Giorgia accetta le sue compagne di atelier come ospiti del suo disegno.

E addirittura accetta di inserirsi e improvvisare variazioni a modo suo, sul disegno delle sue compagne.

Come la Famiglia di Insetti in fieri, che stanno disegnando 5 ragazze diverse, su un foglio che supera i 4 mt.

 

Che Giorgia venga in atelier sempre più felice, per me non era una certezza. Per Gianni, suo padre, invece si. Il suo (PRB), Passaggio Rituale in Bagno, prima di entrare e una volta uscita dallo spazio dell’atelier, è una sua dichiarazione inequivocabile di grande apprezzamento, perfino di entusiasmo. Così Gianni.

Noi dell’atelier, tutti sommamente felici.

Eppure l’atelier non fa magie, nessuno entra con una patologia e ne esce guarito, MAI. 

L’arte non è stregoneria.

Ma può essere determinante nell’aiutare a riscoprire in sé quelle risorse interiori che non conosciamo, che non sappiamo utilizzare. Questo si.

Per questo motivo Giorgia da un certo punto di vista resterà sempre un abitante di un pianeta a noi sconosciuto. A volte, anche se più raramente in atelier, scossa da una furia distruttrice che va presa così com’è, cercando solo di limitare i danni.

 

Come la nota teoria secondo la quale il battito d’ali della farfalla a Pechino può provocare una tempesta di neve a New York, così ci sono giorni in cui un minimo cambiamento, una impercettibile variazione in atelier può scombinare tutto. Scatenare una tempesta di tremori, voci cavernose, urla e pugni.

Questo che vedete è il Drago Medusa Palline in Testa: vale un anno e mezzo di lavoro per lei.

Al traguardo di un anno intero di paziente lavoro, Giorgia un giorno arriva in atelier più agitata del solito.

Abbiamo un ospite, che lei ha già visto diverse volte in atelier. Ma oggi non basta, non passa. 

Pugni a ritmo sempre più assordante sul tavolo, urla che mettono in fuga l’ospite, fortuna sua. 

Giulia, sua compagna di atelier, va a finire sotto il tavolo, la Lauretta, altra sua compagna, va a nascondersi turandosi le orecchie, tremante.

Giorgia si scaglia sul suo disegno (14/15 mesi di lavoro) e comincia a strapparlo. Io mi butto d’istinto fra lei e il disegno. Da lì sotto riesco a trascinare tutto verso la cassetta di pronto soccorso dell’Atelier. Cassetta dotata di un solo medicamento, di un unico farmaco: cioccolato fondente 70% cacao.

È provato da due precedenti, che in atelier questo con Giorgia funzioni. E così è, anche questa volta, per fortuna. Giorgia, lentissimamente ritrova la calma. Torna al tavolo, cerca i suoi due inseparabili legnetti apotropaici e la sua pallina di cera vergine con funzione rilassante e poi si riavvicina al suo disegno.

Lo guarda accigliata, lo gira, lo ri-orienta nel verso esatto, ri-accosta i pezzi strappati, si siede e ricomincia imperturbabile, come se nulla fosse accaduto, a lavorare.

 

Giulia esce da sotto il tavolo e la Lauretta piano piano si tranquillizza. Si stendono entrambe sulla loro immensa Fenice (3 mt x 2mt) e lavorano nel silenzio fianco a fianco, sorreggendosi anche fisicamente.

Siamo tutti stesi a terra intenti a lavorare o a fotografare, quando improvvisamente senza alcun preavviso, la voce roca, di Giorgia ci coglie di sorpresa alle spalle e ci fa sobbalzare:

Scusa non volevo, scusa non volevo, scusami non volevo, scusa non volevo proprio.

Improvvisazione in 7/8 battute con piccolissime variazioni sul tema.

Noi tre ci guardiamo e non c’è nessuna parola all’altezza.

Anche oggi abbiamo imparato molto.

 

 

4 - Youssef e la Medusa che mi protegge dal Popolo Misterioso

 

A Youssef, che viene dal paese d’Egitto, devo il mio Battesimo in atelier. È successo due primavere fa, dopo 14 anni di lavoro in atelier.

Con Youssef ci eravamo già annusati quando, piccolissimo, era stato iscritto ad un altro atelier. Passando dal nostro, con la porta aperta, si soffermava sempre per vedere i nostri ragazzi disegnare, o ballare o raccontare. Ci ha sempre colpiti Youssef, con quei suoi occhialetti colorati da iper-miope, già alla sua età.

Lo abbiamo invitato diverse volte a restare. E lui restava.

Insieme abbiamo scoperto che amava il disegno, pur non avendo quasi mai disegnato.

Per noi in atelier questa è la condizione di partenza in assoluto migliore: meno stereotipi da demolire, nessuno sforzo di convincimento.

 

Youssef raggiungeva l’atelier a piedi o meglio: la mamma a piedi, lui su uno strano triciclo gigante, che lo dispensava dall’esercizio dell’equilibrio. Con pedalata felpata, senza fretta, era sempre puntualissimo.

Lo ricordo in atelier, sdraiato comodamente sul suo ultimo enorme disegno: 2 mt x 2 mt.

Si chiama: Medusa che mi protegge dal Popolo Misterioso, e questo basti.

Così, sdraiato per un’ora e mezza, senza stancarsi di arricchire la sua creatura con particolari, dettagli, texture. Quel giorno, del mio inaspettato Battesimo dell’Atelier, nessuno ne sapeva nulla.

Ricordo un giorno Youssef un po’ più rattrappito del solito. Qualche scatto a chiudersi su se stesso, però sempre ben disteso sul foglio. Poi un odore insistente, sempre più intenso. Nessuno dei suoi due compagni dice nulla. L’odore cresce in intensità e raggio d’azione. Ma loro: come se nulla fosse. A scuola non sarebbe andata così, lo penso e ne sono certo.

Lo osservo meglio: noto un alone cupo e intenso in via di espansione sul posteriore. 

Chiedo a Youssef: Tutto bene? Si, risponde con la sua vocina sottile, timidissima.

Ma l’odore cresce, inconfondibile.

Studio la modalità d’approccio più delicata, e gli dico: Non è che vuoi andare in bagno Youssef?

Sì, mi dice subito. Lo aiuto ad alzarsi e se ne va a gambe strette tracciando l’atelier con una scia odorosa.

In bagno ci resta per un bel po’.

 

Medusa che mi protegge dal popolo misterioso, Youssef.


Chiedo: tutto bene? Lui non risponde. Busso e non risponde.

Tutto a posto? Ripeto e non risponde. Apro piano, l’odore è irresistibile. Lui è in piedi, spaventato e tremante, i pantaloni in una pozza maleodorante. Ma ciò che mi lascia di sale è il bagno:

pavimenti, muro, finestra, specchio perfino, tutto tempestato da una pioggia di meteoriti di escremento.

In ogni dove, ad altezze impensabili. Mai visto.

Apro la finestra trattenendo il fiato, e gli dico: stai tranquillo, siediti sulla tazza, e quando te la senti spostati sul bidet e lavati per quanto riesci. Richiudo ma ormai tutto l’atelier affonda.

 Anche i suoi due amici non possono più far finta di nulla. Faccio mente locale, ricordo d’avere un paio di pantaloni di riserva. Certo staranno un po’ abbondanti ma il pulmino lo porta a casa diretto, in dieci minuti sarà là. Congedo gli altri due e spero solo non siano puntuali i ragazzi del gruppo successivo.

Purtroppo Andrea quel giorno è pure in leggero anticipo. Si presenta sulla porta dell’atelier, sgrana gli occhi e si mette a ridere, inevitabilmente.

Il cataclisma che temevo, si avvicina minaccioso: per Youssef diventare ridicolo anche nel suo Atelier sarebbe il fallimento irrimediabile su tutti i fronti.

Sgrano gli occhi più di Andrea, lo prendo per le braccia per centrarlo meglio con lo sguardo e gli dico:

vai dentro, fai quello che vuoi, apri-tutto ma: non ridere, e nemmeno fiatare, per nessun motivo al mondo

 

Rientro in bagno Youssef ancora in piedi, decentemente ripulito, a terra un acquitrino. 

Se sto lì non riesce a muovere un dito. Mentre dico qualcosa per disimpegnarmi, raccolgo tuta, mutande, calze e scarpe con due dita a pinza, infilo tutto in un sacchetto doppio di plastica e lo richiudo tre volte.

Gli faccio un paio di mutande con lo Scottex, come un pannolone gigante, chiudo tutto con lo scotch carta. 

Gli infilo i miei pantaloni di scorta e un paio di scarpe di riserva che ho in atelier e gli dico:

ecco fatto, tutto pulito, tutto tranquillo.

Non è successo nulla, anzi succede spesso, succede a tutti, anche a me succede spesso.

Mi ascolto mentre gli dico tutto questo, e mi sento ridicolo. 

Credo però che Youssef apprezzi. Non riesce a dire nulla, mi guarda solo.

 

Ma QUELLO SGUARDO, signori: quello sguardo di cucciolo animale, impaurito e riconoscente allo stesso tempo, è uno di quegli sguardi che restano. Per farti compagnia, anche al buio.

C’è il tuo pulmino che ti aspetta, gli dico con ansia. Riportameli pure con calma i pantaloni. 

Certo non erano esattamente a sua misura, ma rimboccati e chiusi con tre grossi elastici annodati non cascano. Poi la moda dei giovani di questi tempi ci dà pure una mano…

Sono perfettamente cosciente che: se arrivano gli altri due del gruppo di Andrea, con bagno e atelier ridotti così: è la fine!

Messo in sicurezza Youssef, anche il mio corpo si rilassa un po’, e proprio per questo ricalibra al ribasso la sua forza di resistenza agli odori: maledetti bagni senza via d’uscita!

Non ci sono altri adulti in atelier, non è previsto. Quindi adesso: mocio, guanti da cucina, secchiello, spugnette colorate e Scottex

Secondo l’impeccabile e inesorabile Liturgia prevista per il mio Battesimo.

Perché l’atelier non è una messa in scena, non c’è finzione. Nemmeno nelle creature più assurde, innumerevoli, inenarrabili dei miei ragazzini.

L’atelier è la vita stessa, e la vita sa essere imprevedibile, dirompente, può anche puzzare a volte, e va bene così.

 

Medusa con la bocca di Lucifero dell'aldilà, 190x50, 2015, Youssef, Atelier dell'errore.


Riappare Andrea di fianco a me. Si china e mi dice serio:Ho un’idea: Perché non usiamo quegli spray che si usano per profumare la casa? Mai usati. E non credo proprio ce ne siano qui.

Lui: impossibile in tutte le case ce n’è uno, salgo in cucina e vado a cercarlo.

Almeno non sta qui nel lezzo, penso, e lo lascio andare.

Cerco di farmi una mascherina con una maglietta di cambio. Arriva Andrea con una bomboletta rosa in mano: Eccola! Te lo dicevo no? Io, Tommaso incredulo, ci credo poco comunque. Eppure me ne devo velocemente ricredere, perché Andrea è ben più risoluto di me.

Spara spray a trecentosessanta. Quando la nube vaporizzata si dissolve, in effetti, l’aria si fa respirare.

Con un intenso profumo di rosa chimica su tutto, ma si fa respirare.

Sono grato ad Andrea per questo insegnamento sulla deodorazione degli ambienti. Lo elogio senza remore.

 

Lui prende in mano il secchio si introduce in bagno e comincia a pulire i muri. 

Per Grazia Ricevuta gli altri suoi compagni oggi sono assenti-senza- preavviso, non capita mai:

Si rivela così una Liturgia per soli iniziati.

Passiamo l’ora pulendo e disinfettando, perché è arrivata anche l’Amuchina. Alla fine della nostra ora di atelier tutto è ricomposto, buttiamo in un unico sacchetto sigillato: spugnette, guanti, la bomboletta-spremuta tutta e quant’altro. 

In tutto questo, per onor di cronaca, dovete sapere che Andrea, non è un ragazzino esattamente facile, è uno di quelli che a scuola si fa conoscere subito, marcato a uomo, argento vivo, una goccia di mercurio.

Incontenibile, incontrollabile, irrefrenabile. A casa: lo sfinimento. Anche per questo oggi non lo vedete qui a teatro, con noi.

 Eppure Andrea, nel momento del bisogno, quello vero, della vita vera, si è fatto docile e intraprendente come mai l’ho conosciuto. Non solo, a mo’ di congedo, mi abbraccia con un sorriso complice e mi bendice così: 

la mia più bella giornata di atelier in assoluto da sempre.

Al profumo di una rosa sono stato battezzato dall’atelier.

 

Leggi anche:

 

Luca Santiago Mora, L'atelier dell'errore

Rocco Ronchi, Cosa sono i mostri

Marco Belpoliti, Atelier dell'errore

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Restare o diventare bambini
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Uva turca

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Ben prima di Gilles Clément, teorico del «terzo paesaggio», il nostro Alessandro Manzoni è titolare se non di un elogio certo di un democratico omaggio alle erbe spontanee. Nel celebre passo sulla vigna di Renzo (cap. XXIII) lo scrittore appassionato di botanica elenca una gran varietà di essenze vegetali divenute padrone del piccolo podere.

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The Happines Philosophers

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L’utilitarismo filosofico, non l’edonismo, né il fanatismo, ci potrebbe venir d’aiuto, oggi più che mai. Invece viene snobbato. Una biografia, da poco pubblicata, ce lo racconta in termini chiari e forti.

Balza fulmineo agli occhi sia dello scrittore, sia del lettore che la biografia, non romanzata, costituisca un genere difficile, un costante work in progress. Da scrittore cosa vi metto dentro, il lato pubblico, il lato privato, o un miscuglio tra i due, e fino a quali dettagli, pure intimistici o intimi, mi spingo? Da lettore cosa vado a setacciare in quella biografia? Forse colui o colei che vorrei essere diventato e non sono mai stato; o forse una parte di me gioca il ruolo del sovrano guardone; o ancora mi trovo nella laboriosità pirandelliana di uno dei personaggi in cerca d’autore? 

 

La biografia filosofica presenta, a tutt’oggi, maggiori difficoltà. Solo un esempio, tra i tanti, l’iperpremiato Ray Monk per il suo Wittgenstein. Il dovere del genio (trad. it., ora in tascabile 2000, Bompiani) ha ricevuto parecchie frecciate dai filosofi e dai cultori di Wittgenstein. Perché come recita Michele Ranchetti nella prefazione italiana, “... è difficile trovare nella storia delle grandi vite di filosofi, di musicisti, di scrittori, di artisti, una vita che sia stata fatta coincidere con un esercizio così assoluto della ricerca della perfezione”. E, in particolare, Ray Monk si confronta con la tragicità intellettuale, nonché umana di Wittgenstein, quale la sua lacerata omosessualità, in un discorso parallelo: l’evoluzione del pensiero di un genio e la sua esistenza privata. 

 

 

Del resto, però, come ben inculca in mente Bart Schultz in The Happiness Philosphers. The Great Lives and Works of the Great Utilitarians, volume biografico corposo da poco uscito per la Princeton University Press, in una certa filosofia il distinguo tra vita pubblica e privata risulta assai arduo. 

Per utilitarismo, oggi, nel linguaggio comune si intende tutt’altro, ovvero strumentalismo all’“American style”. Benché preoccupante, per ignoranza dilagante, ciò non dovrebbe sconcertare più di tanto.

La regina Vittoria e i suoi precedenti in materia di etica venivano indiscutibilmente amati dal popolo, non dal circolo utilitarista – e rimane vitale che si trattasse di un circolo alla ricerca e alla teorizzazione della felicità di tutti, non certo del singolo, edonismo sempre alla “American style” –  a partire da Mary Wollstonecraft, femminista dichiarata e nota autrice di A Vindication of the Rights of Woman: with Strictures on Political and Moral Subjects (1792). Non la si pensi come una Valerie Solanas che dichiara in Scum: “In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile”. Probabilmente, Wollstonecraft avrebbe concordato, non su tutto però, senz’altro non sulla sua distruzione del sesso maschile. A lei interessavano i diritti delle donne. E, difatti, non ha impedito a sua figlia di sposarsi un poeta brillante, Percy Shelly, ateo e per i tempi scandaloso, né che questa figlia scrivesse l’ormai classico Frankenkestein, non ben visto ai tempi, mentre attualmente è giustamente considerato un capolavoro. 

 

Nel circolo, o meglio in una sorta web-ragnatela, si ritrovano, tra l’altro, coinvolti e coinvolgenti, oltre Wollstonecraft, sua figlia e il marito, intellettuali del calibro di William Goodman, Aron Burr, Amerlia Curann, Jeremy Bentham, John Stuart Mill. Sebbene per alcuni versi storicamente da contestualizzarsi, le loro battaglie in virtù della difesa di norme etiche, in filosofia come nella vita pratica, che concedano la maggiore felicità, o, ad ogni modo, il maggiore piacere al maggior numero di persone al mondo, rimangono la loro lezione più preziosa, ma purtroppo assai perduta in questi tempi grotteschi in cui ci si avvinghia solo al proprio bene privato, pure quando si praticano fanatismi in gruppo con un qualche “ism” incollato.

 

Ciò che John Suart Mill ha sempre denominato un “experiment in living”, influenzato (e chi l’avrebbe immaginato? Io, da vera sciocca ho approfondito solo il suo libro di logica e il libro di filosofia femminista con la moglie Harriet Taylor: a questo servono davvero le biografie migliori, ad assumere consapevolezza dei propri limiti per porvi rimedio) dalla filosofia greca antica, cosicché propugnava una conduzione di vita mai separata dall’esercizio filosofico, come se l’esistenza del circolo costituisse un continuum coi loro pensieri. In tutta onestà. E l’onestà della difesa di diritti, come ci ha sempre ricordato Stefano Rodotà, nel nostro paese, pur con diverse modalità, è consistita pure nella costruzione utilitarista dei studi gender, Lgbtg e sulla sessualità. Sempre in relazione utilitarista stretta con la loro vita e le loro battaglie. Sovversivi e trasgressivi? Per i loro tempi, forse. E per i nostri italiani pure. Da non dimenticarsi che, poco dopo, Virginia Woolf gioiva nel citare le osservazioni di William Godwin, pure lui legato alla ragnatela, quale la seguente: “La nostra non è un’inutile felicità, un paradiso di egoismo e piacere transitorio”.  Pare di confrontarsi, in un certo qual senso, con Simposio di Platone, nonostante là vi comparisse purtroppo un’unica donna, Diotima.  

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Dove vanno i nostri matti?

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Quando, da piccolo, abitavo in campagna, in un piccolo paese della Lomellina dove sono nato, i matti sparivano. Quando qualcuno cominciava a uscire di brutto dalla consueta routine di gesti e di pensieri – e pareva essere entrato in un mondo dove le regole erano capovolte, e le sue parole non corrispondevano più a quelle degli altri, e le sue azioni sembravano mosse dai fili di un burattinaio capriccioso e minaccioso, nascosto e tenebroso – arrivava il momento di portarlo via. 

Dove? A Voghera. 

 

Per indicare dove i nostri matti finivano non era necessario usare termini difficili e che non avevano neanche traduzione nel dialetto.

I nostri, infatti, erano quasi sempre matti di antica e semplice follia: donne cadute in depressione attraversando la menopausa o perché si facevano troppe domande intelligenti sull'inadeguatezza della loro vita; vecchi attesi al varco della demenza senile; lunatici che sin da piccoli si erano isolati dalla comunità e si erano messi a seguire le loro fissazioni come camminando sonnambuli su un filo che vedevano solo loro. E poi c'era qualcuno, da sempre un po' ai bordi del vivere comune, che all'improvviso veniva afferrato da uno scatto di violenza, una ribellione improvvisa, come un tuono di urla e un bagliore di sangue. Quasi sempre era la risposta inaspettata e fulminea a ingiustizie durature subite, a dolori indicibili, a una sorte sventurata covata da troppo tempo in silenzio, in solitudine, perché poi non dovesse esplodere col fragore di un lampo, il luccicare di una lama. 

E quando dico questo so di cosa parlo. Perché, anche se guardati con gli occhi di un bambino, mi vedo ancora davanti i volti, certi loro ultimi gesti, di quelli che, sgranati lungo gli anni della mia infanzia, sparivano dal paese, da un giorno all'altro. Portati via. Finiti a Voghera, appunto.

 

Aula didattica ex scuola infermieri, @Marcella Milani (Urbex).


Non era necessario chiamarlo manicomio, ovvero, dice l'etimologia, "il luogo di ricovero e di cura dei matti". Un termine che entra in uso  verso la metà dell'Ottocento, lasciando dietro di sé altre denominazioni, "asilo per alienati", "ricovero per pazzi", che senza preoccuparsi troppo della gentilezza del linguaggio andavano, con ruvida concretezza, a descrivere in tempi precedenti  la realtà delle cose. Come stavano davvero, senza abbellimenti.

Ma per noi, in paese, manicomio era un termine estraneo e difficile (nessuno sapeva il greco), e la definizione che qualcuno, almeno in città, già cominciava ad utilizzare – clinica psichiatrica, clinica per malattie mentali – ci risultava ancora più evanescente. Per capire dove andavano a finire i nostri matti quando la loro follia diventava conclamata, a volte persino un po' pericolosa (spesso più per loro stessi che per gli altri), bastava una parola sola: Voghera.

A Voghera, ad esempio, era finito Gramion, un contadino taciturno che viveva da solo in una casina abbarbicata alla costa. Coltivava i suoi campi, viveva del suo raccolto, non comprava nulla di nulla nell'unico negozio del paese, inalberando così un'ulteriore orgogliosa pretesa di autosufficienza che risultava stonata persino in quei tempi sparagnini. Soprattutto quel vecchio uomo non voleva parlare. Né intendeva avere a che fare con nessuno. 

 

Me n'ero accorto quando, chierichetto, avevo accompagnato il parroco nella benedizione delle case. Arrivati davanti al sentiero che portava alla abitazione di Gramion, lui, che ci aveva intravisti dalla finestra, era sceso verso di noi, vestito tutto di nero. Quando anni dopo, al cinema, ho visto in azione nei western all'italiana Lee van Cleef, sempre nerovestito, il cappellaccio in testa, e l'aria minacciosa del cattivo, mi sono ricordato del suo scendere verso di noi, a passi lenti, e ho pensato che Gramion e Lee van Cleef si assomigliavano – nei tratti, nei movimenti – in modo strabiliante. 

Senza dire niente, guardando fisso il parroco, aveva chiuso in modo plateale davanti a noi il cancelletto cigolante e poi ci aveva girato le spalle. Evidentemente non voleva saperne della benedizione e non voleva sprecare una sola parola per spiegarlo.

 

A parlare a questo punto – visto che ormai Gramion si stava allontanando – era stato il parroco che, come riflettesse tra sé e sé, aveva detto: "Uscite da quella casa e scuotete la polvere dai vostri calzari". Era il Vangelo, Matteo 10, 7-15, ma io non lo sapevo e così, perplesso, avevo guardato prima i miei scarponcini e poi le scarpe scalcagnate, e quanto mai impolverate, del vecchio parroco. 

Però di quell'uomo in nero ho un altro ricordo ancora, e lo sfondo questa volta non è di polvere ma di bianchissima neve. Inverno, dunque. 

E lui, che non andava mai a casa di nessuno, si presenta davanti alla porta di casa nostra, dove c'è mia madre e ci sono io. Mio padre è al lavoro. Mamma Federica lo intravede, si asciuga le mani nel grembiule perché sta pulendo la verdura, mi dice di mettermi seduto e stare zitto, e – senza un attimo di incertezza – gli va incontro. Non gli parla. Non gli sorride. Lo guarda, in silenzio, con attenzione. Lui dice due sole parole: "Ho fame".

 

Giardino centrale, corridoio adiacente il pozzo e la chiesa, @Marcella Milani (Urbex).


Aveva finito la farina con cui si faceva il pane e, forse da giorni, non mangiava. Federica, lo guarda. Gli mette una mano protettiva sulla spalla. "Aspetta qui..." gli dice, lasciandolo sulla soglia di casa.

Entra. Estrae dalla madia i due micconi di pane della nostra scorta (ne rimane uno, basterà) e poi, dopo averci pensato un attimo, prende il sacchetto di riso da un chilo. Mette tutto in una cesta, ci aggiunge un cartoccio di sale, una dozzina di patate e delle cipolle, e gliela porge. "Torna, quando hai bisogno". Niente altro.

È tornato. Qualche mese dopo quando stava arrivando l'estate ed io ero solo a casa. I miei nei campi a lavorare. È venuto a restituire la cesta. L'ho visto arrivare e mi sono preso paura ma lui, come intuendolo, si è fermato sulla soglia e ha lasciato lì la cesta, piena di mele bellissime, quelle dei suoi alberi. "Per tua madre", ha detto. "E per te..." ha aggiunto. 

Pochi giorni dopo Gramion fu meno gentile con la guardia comunale che gli voleva consegnare il bollettino delle tasse. Per convincerlo ad andarsene gli aveva puntato il falcetto dritto verso il petto. Così, poche ore dopo, sono venuti a prenderlo e l'hanno portato a Voghera. Al manicomio, appunto, e non è più tornato.

 

Quando, anni dopo, ci sono andato io, a Voghera, perché ci era finito ricoverato mio fratello, più grande di me di sette anni, quel viale che portava al cancello imponente, minaccioso, mi è parso non finisse mai.

Nella vita sono proprio le domande che si vorrebbe non aver mai pensato che, alla fine, bussano alla nostra porta e portano la loro risposta. 

Voghera era una di queste domande che mi si era messa dentro nel cuore, sin da bambino. Sin da quando stavo in paese e mi chiedevo cosa e come fosse quel posto dove sparivano quelli che diventavano matti. La domanda era rimasta lì, in sospeso. Accanto forse ad altri interrogativi venuti dopo: sulla malattia mentale, sulla sventura di chi ne viene colpito e sul terremoto che a quel punto scuote la sua casa, la sua famiglia, dove qualsiasi sforzo di sgombrare macerie e rimettere in sesto muri, dopo ogni crisi, deve fare i conti con la prossima scossa, la nuova paura, lo sfinimento di una fatica che non ha mai termine. 

 

Ma forse tutto questo non lo sapevo ancora perché, per impararlo, bisogna stare accanto alla prova della follia per un po'. Qualche anno. Qualche decennio. Oltre mezzo secolo nel caso di mio fratello. 

Non l'ho mai detto ma sapevo, intanto che percorrevo quel viale che portava al massiccio edificio del manicomio di Voghera, che ci sono dolori che  spezzano il cuore. Se i nostri cuori fossero, fossero stati, interi, forse non solo la nostra vita sarebbe stata diversa ma anche noi saremmo stati diversi. Ma forse i cuori si devono spezzare per far sì che arrivi, sino a noi, sino al cuore del cuore, il senso del tutto. Perché tutto, nella vita, alla fine ha un senso. Anche quell'ingresso del vecchio manicomio di Voghera che sapeva di disinfettante, di cibo e di aria stantia. E il girare delle chiavi, e i rumori e le voci acute che sentivo venire dai reparti. 

 

Una camera al primo piano, @Marcella Milani (Urbex).

 

In realtà il manicomio stava allora cambiando pelle. Era arrivata una nuova équipe di medici, nuove impostazioni di cura e la palazzina, accanto al vecchio edificio, dove stava mio fratello, assomigliava un po' a tutti gli ospedali. Solo che c'erano le chiavi e gli infermieri controllavano nella borsa cosa stavi portando ai ricoverati. I medici erano gentili e gli psicofarmaci che cominciavano ad essere usati al posto delle vecchie terapie sembravano poter contribuire ad addomesticare la durezza della malattia.

Però, nonostante quei mutamenti in atto, i luoghi dove la follia è venuta ad abitare, a farsi curare, rimangono posti intrisi di dolore. Non ne sono pervase solo le persone. Sembra quasi che anche le pareti, i muri, le porte, gli infissi e i mobili essenziali che arredano le camere, partecipino al dolore infinito, irriducibile, incancellabile, di chi è passato lì dentro. E spesso vi ha chiuso i suoi giorni.  

Tutte quelle vite che sono trascorse lì dentro, in giorni interminabili, in pene che nessuno saprà mai, in violenze silenziose e sofferenze che non hanno mai più voce, rimangono. Sono dentro queste mura e abitano in questo edifico che Marcella Milani ha avuto il coraggio di affrontare, da sola, in una ricognizione che non avrei mai avuto cuore di fare. Lei lo ha fatto e questo compie un destino: consente di dare un senso a tutto quanto vi è accaduto. Di spiegarlo e di renderlo evidente. Di far parlare i silenzi e di dissipare le amnesie sulle esistenze che qui si sono compiute.

Il senso da trovare è che tutto, nella vita, cerca consolazione. 

 

Non solo le persone che ci vivono accanto, o che stanno al mondo. Cercano consolazione anche coloro che sono spariti per sempre. Cercano consolazione anche i luoghi, gli edifici, le case. Marcella Milani ha avuto forza e cuore impavido. Ha saputo stare, da sola, tra queste mura, ad aspettare il momento giusto per fermare immagini che rendono tutta la tristezza, il dolore, la sofferenza che vi hanno avuto dimora. 

Queste immagini ora ci interpellano. 

Chiedono che destino vogliano dare a questo edificio, alla storia che vi è raccolta, alle vite che vi sono passate. Chiedono in che modo pensiamo di consolare la tristezza che vi è stata deposta. Una prima risposta è proprio in queste foto: perché il linguaggio della bellezza e la sfida del suo sguardo affidato ad ogni scatto sono già raggi di luce. Espandono gli spazi dell'intelligenza del comprendere che, letteralmente, è sempre, non dimentichiamolo, un "prendere con sé". Queste foto aprono le finestre dell'attenzione, scaldano di tenerezza l'ascolto che andrà dedicato a queste storie di vite che si sono dissolte come pulviscolo nel crepuscolo. 

Chiedono di non dimenticare ciò che è passato qua dentro perché, appunto, tutto ha senso. Tutto cerca consolazione. Tutto ci riguarda. 

 

Testo tratto dal catalogo per della mostra «MENTE CAPTUS - spazi e silenzi dell'ex manicomio di Voghera», progetto ideato e realizzato dalla fotografa Marcella Milani. Dal 15 settembre al 1 ottobre 2017, Spazio per le Arti contemporanee del Broletto di Pavia.

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Ex manicomio, Voghera
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M5S un fallimento digitale?

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Il dibattito e i commenti sulla candidatura di Luigi Di Maio alla presidenza del Consiglio riportano in primo piano il conflitto tra le due anime del Movimento 5 Stelle: quella bottom-up e “movimentista” dei meet-up, e quella top-down di Grillo e della Casaleggio Associati. Da un lato gli Ortodossi, fedeli ai principi egualitari delle origini, dall'altro gli Istituzionali, ovvero l’“anima democristiana” incarnata appunto da Di Maio. Il saggio di Paolo Ceri e Francesca Vetri, Il movimento nella rete. Storia e struttura del Movimento 5 Stelle (Rosenberg & Sellier, Torino, 2017), esamina in dettaglio la guerra tra la visione orizzontale e quella verticale del potere all'interno del M5S, una doppia anima, una sorta di schizofrenia politica, che porta subito a chiedersi se il M5S sia “espressione della crisi dei partiti o, al contrario, fattore del suo superamento” (p. 7). 

 

Da un lato c'è un movimento che proclama di voler inventare e praticare la politica 2.0, sul base del  principio “uno vale uno” abbinato alla rete, annunciando l'utopia di una democrazia digitale diretta, egualitaria, partecipata. Dall'altro c'è un partito personale, o meglio padronale, le cui fortune sono basate sulla figura carismatica del fondatore e leader Beppe Grillo, oltre che sulle utopie digitali e sulle tecniche di marketing (o di manipolazione, secondo i critici) della Casaleggio Associati. 

 

A partire da questa dicotomia, le analisi del Movimento 5 Stelle ricadono quasi tutte in due grandi filoni. Da un lato c'è chi vuol salvare l'Italia dal dilettantismo e dalla barbarie “grillina”, e in generale dal populismo (vedi Alessandro Dal Lago, Populismo digitale, Raffaello Cortina, Milano, 2017). Dall'altro c'è chi vede nel movimento l'unico antidoto a una partitocrazia corrotta e al saccheggio perpetrato dalla “casta”, in grado di recuperare all'attività politica milioni di cittadini disillusi. Per alcuni i “grillini” sono la massa di manovra degli ambiziosi padroni del partito. Per altri sono lo slancio vitale, radicato nei territori, che risolleverà le sorti della nazione, al di fuori di mafie e caste. Incarnando queste contrapposizioni, il Movimento 5 Stelle – con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, le sue illusioni e la sua realtà – rappresenta un affascinante laboratorio politico, utile per capire l'evoluzione della politica nel nuovo secolo (su questa base avevo impostato il mio Comico e politico. Beppe Grillo e la crisi della democrazia, Raffaello Cortina, Milano, 2014, sul quale vedi l’articolo di Marco Belpoliti su doppiozero).

Il confronto tra le due anime non spiega certo il perdurante successo elettorale del M5S, che ha motivazioni più complesse.

 

In primo luogo la presenza mediatica di Grillo e le sue gag politiche, dall'eroicomica nuotata attraverso lo Stretto di Messina alla comparsata al Festival di Sanremo, che nel 2013 hanno monopolizzato l'attenzione dei media e reso visibile il “non-partito”. Bisogna poi tener conto del quadro sociale e politico, oltre che della battaglia con gli altri partiti, a cominciare dal PD. Ma la dialettica interna aiuta a capire la possibile evoluzione del M5S. Allargando l'orizzonte, viene da chiedersi se le nuove forme della politica 2.0 siano davvero praticabili e in quali forme, con quali procedure. 

Il saggio di Ceri e Veltri ripercorre la cronologia del partito, almeno per quanto può essere documentata, senza indulgere al complottismo e cercando di allineare i fatti (anche se la posizione degli autori emerge con nettezza). L'indagine è condotta su due versanti: “Per capire la natura di un movimento sociale occorre osservare soprattutto le istanze e le forme dell’attivismo di base; per capire la natura di un movimento politico si devono osservare gli orientamenti e la struttura della leadership” (p. 12). 

Grillo ha fondato il suo blog nel gennaio 2005, nell'era del web 1.0, con la complicità di Davide Casaleggio. È stato lui a proporre, pochissimi mesi dopo, nel luglio 2005, la creazione dei Meetup Amici di Beppe Grillo, tipico strumento del web 2.0. Il partito nascerà solo nel 2009. Per Ceri e Veltri, questo “peccato originale” segna l'evoluzione successiva: “è mancata la fase genetica nella quale la partecipazione e la mobilitazione collettive sono talmente fuse da non essere distinguibili, così come sul piano soggettivo non è possibile distinguere quanto sia l’azione degli individui a creare il movimento e quanto questi siano portati dalla sua corrente” (p. 289). Questo non è avvenuto, il peso della leadership è stato e continua a restare determinante. 

 

Lo scontro tra le due anime è in atto almeno dal 2007, ma a prevalere finora sono stati Grillo e Casaleggio. Il destino dei meet-up ricorda il destino dei Soviet “normalizzati” dai bolscevichi e da Lenin, o l'involuzione leaderistica delle assemblee del '68, presto militarizzate dai gruppuscoli marxisti-leninisti. Per garantirsi l'unanimità, la leadership del M5S innesca un feroce meccanismo di espulsioni, con gogne e mini-plebisciti digitali assai poco democratici. Dal febbraio 2013 al gennaio 2015, i due gruppi parlamentari del M5S perdono quasi un quarto dei loro membri: 18 senatori su 54 e 17 deputati su 109. La feroce gestione del dissenso garantisce l'unanimità interna e non indebolisce il movimento, anzi ne rafforza la coesione relegando i reietti alla marginalità politica senza intaccare la base elettorale (come era accaduto per la Lega). Il leader può così presentare proposte approvate plebiscitariamente, in apparenza univoche e dunque non negoziabili. In questo si nasconde la vocazione totalitaria del M5S: “In guerra, fintanto che deve essere guerra, non vi è spazio per l’apertura, il negoziato, il compromesso. Ogni passo, anche minimo, in tal senso è giudicato un cedimento, un tradimento. Pertanto, solo in apparenza vi è contraddizione tra una concezione che vede nei partiti e nei politici il male assoluto e nei propri eletti l’alternativa senza macchia. Vi è anzi un’intima coerenza. Peccato mortale è infatti considerata l’intesa con i partiti, con il nemico. Non occorre si tratti di un’alleanza, basta l’accenno a un’apertura di dialogo” (p. 237).

 

 

Nel corso degli anni, il M5S cerca di strutturarsi come partito, almeno in apparenza. Vengono via via creati organi interni di coordinamento (il Direttorio) e di garanzia, che però si ritrovano spesso schiacciati tra un'investitura che arriva imperscrutabilmente dall'alto e la confusa e rissosa domanda di partecipazione che sale dal basso. La sintesi tra le diverse “volontà individuali” e la “volontà generale”, garantita dal “portavoce Grillo”, resta sempre precaria, e alla fine dev'essere determinata con un gesto autocratico.

 

Gli organi territoriali del Movimento, cui viene in apparenza lasciata ampia autonomia, non riescono a coordinarsi tra loro ed esprimere una volontà politica comune, e le direttive a livello nazionale restano appannaggio dei leader (che per sondare la “pancia” del movimento dispongono dei big data della piattaforma digitale). Per Ceri e Veltri è cruciale il fallimento del Meetup 280, il tentativo più organico di coordinamento interno “dal basso”, presto disinnescato dal vertice. Le conseguenze politiche di questa frattura tra i territori e il centro sono evidenti: “Se sul tappeto sono, per fare due esempi, problemi come la chiusura di un campo rom o l’accoglimento dei profughi, le decisioni relative hanno condizioni e conseguenze giuridiche, economiche e morali – in una parola, politiche – di portata nazionale o internazionale” (p. 231).

 

Un primo giudizio sulla storia del M5S può rientrare nella tradizionale aneddotica politica: un movimento allo “stato nascente” si istituzionalizza, come è forse necessario e inevitabile, grazie anche alla furbizia e al cinismo del leader carismatico, e tenta la scalata al potere (ovvero entra nelle istituzioni). Il titolo del libro allude ironicamente a questo: la rete è il terreno in cui si sviluppa la proposta politica, ma è anche la rete in cui il movimento viene intrappolato (o si mette in  trappola). In questa ricostruzione Grillo e Casaleggio non ci fanno una gran bella figura, ma intanto la strategia funziona e il M5S continua a vincere le elezioni: non è una meteora come lo sono stati Poujade o l'Uomo Qualunque di Giannini. Anzi, Grillo ha aperto la strada ad altri movimenti analoghi in Europa.

 

Se ci si astrae dalle beghe e dalle inquietudini politiche italiane, il M5S rappresenta un interessante esperimento di innovazione politica. In Occidente, la democrazia rappresentativa sta attraversando una profonda crisi, le vecchie organizzazioni novecentesche non funzionano più. Berlusconi e Trump sventrano i partiti tradizionali. Un comico diventa influente leader politico. Ma allora dobbiamo rassegnarci alle “democrature” alla Putin o alla Erdogan, dove si salvano le forme ma non la sostanza? O possiamo inventare nuove forme di partecipazione e deliberazione? 

 

Il movimento nella rete ci aiuta a capire quanto sia complessa e fragile la democrazia. Difenderla (o diffonderla) è una battaglia quotidiana. La lotta si fa ancora ancora più difficile se vogliamo reinventarla, per superare i tradizionali modelli parlamentari, raffinati negli ultimi secoli ma ora forse resi obsoleti dalle opportunità della rete, a cominciare dell'utopia delle piattaforme per il voto online. 

La “piattaforma elettronica accessibile a tutti, destinata alla deliberazione condivisa e non solo al voto” (p. 120), viene promessa già nell'incontro al Teatro Smeraldo del 4 ottobre 2009. Un post di Grillo dell’aprile 2010 annuncia che verrà messa in funzione entro il 30 giugno dello stesso anno, anche se la piattaforma online nazionale, destinata esclusivamente a fornire agli attivisti la possibilità di selezionare in prima persona i candidati alle elezioni politiche, entra in funzione solo a fine 2012: è lì che i candidati alle primarie per il Parlamento postano i loro video autopromozionali. Oltre a quelle attive all'estero, vengono progettate piattaforme alternative: il portale Unovaleuno.it, creato nel 2010 da attivisti di Reggio Emilia,  Airesis o Agorà 2.0, Parelon (presentato dal “Fatto Quotidiano” come piattaforma ufficiale del Movimento). Sappiamo già che non può esistere un sistema elettorale perfetto. È il paradosso di Condorcet, dimostrato da Kenneth Arrow nel 1961: nei sistemi elettorali si possono creare situazioni circolari in cui i vari candidati vincono uno sull’altro, a seconda dell’ordine in cui si effettuano le votazioni. Aumentare la complessità del sistema, per farsi carico non solo del semplice meccanismo della votazione ma anche di quello ancora più sfaccettato della partecipazione, non elimina il problema. Al massimo lo occulta.

 

Nel 2013 entra in vigore, dopo anni di attesa, il ‘sistema operativo’ fornito dalla Casaleggio Associati, che “si occuperà di: (a) decisioni; ossia la possibilità per gli iscritti di votare 'su temi di interesse nazionale o del MoVimento'; (b) interazioni; la possibilità tramite forum di discutere su temi locali; (c) elezioni; la possibilità di selezionare le candidature sia a livello nazionale che locale; (d) leggi; i cittadini potranno discutere le leggi presentate dai parlamentari e proporne di proprie; (e) raccolta fondi (p. 183). Il 1° agosto 2017 viene lanciata la nuova piattaforma Rousseau, immediatamente violata: gli attacchi hacker e le polemiche che ne conseguono portano alla luce il problema della sicurezza, ma anche quello della regolarità delle elezioni. Senza dimenticare la dialettica tra l'esigenza della trasparenza e quella della privacy (a partire dalla segretezza del voto). Emerge inoltre la questione della proprietà e dell'uso dei big data, raccolti da una piattaforma che registra le preferenze di centinaia di migliaia di cittadini. La lezione non è bastata, i profeti della democrazia digitale restano dilettanti informatici. Il 21 settembre 2017, in occasione delle primarie Di Maio vs. i “sette nani” (visto che nessun leader aveva avuto il coraggio di affrontarlo), la piattaforma Rousseau collassa “per sovraccarico” e il seggio elettronico deve essere riaperto la mattina dopo.

 

Un altro livello critico riguarda il rapporto tra la democrazia partecipativa, ovvero la discussione aperta per definire l'agenda politica e per definire programmi e proposte, e la fase deliberativa, quella del voto. Per Cerri e Veltri la storia del M5S è stata anche un lungo “scontro interno fra forme di democrazia partecipativa e deliberativa e l’uso di una democrazia diretta basata principalmente sul voto” (p. 173). I leader del M5S, con la complicità dei media che enfatizzano l'aspetto agonistico, spingono verso una democrazia plebiscitaria, a cominciare dalle varie forme di primarie o parlamentarie, che possono assumere la forma degradata del sondaggio televisivo o del talent show. 

 

In fasi politiche di questo tipo si creano diversi livelli di partecipazione: alla base i semplici elettori che si limitano a mettere la croce sulla scheda, poi i militanti (i fan) che seguono l'attività del movimento; al vertice s'insediano gli attivisti, i militanti a tempo pieno che tendono a diventare una casta e sequestrano di fatto il dibattito, con il rischio di allontanarsi dal “comune sentire”: “Spesso si creano queste due realtà: il movimento civico e il movimento politico. Il primo con attivisti simpatizzanti e impegnato in più fronti non vuole che tutto si esaurisca nella competizione elettorale, apertura e chiusura della lista, vittoria e non delle elezioni. Ma che si crei di più il concetto di movimento e interazioni fra esso” (p. 123). Se alle difficoltà tecniche e all'arroganza dei rivoluzionari di professione si aggiungono le molestie dei troll, l'epidemia di commenti off topic, i fake, i sospetti di manipolazione, le purghe, si capisce perché la partecipazione sulle varie piattaforme diminuisca drasticamente. 

 

Una democrazia diretta e partecipata tende a trasformare tutti i cittadini in militanti (e rivoluzionari) a tempo pieno, come notava Norberto Bobbio. A questo punto sorgono alcune difficoltà. In primo luogo, è materialmente impossibile “che tutti decidano su tutto in società sempre più complesse come sono le società industriali moderne”. Ma se anche diventasse possibile, se disponessimo degli strumenti tecnici adeguati, questo non sarebbe auspicabile “dal punto di vista dello sviluppo etico e intellettuale dell'umanità. Negli scritti giovanili Marx aveva additato come meta civile dell'umanità l'uomo totale. Ma l'individuo rousseauiano chiamato a partecipare dalla mattina alla sera per esercitare i suoi doveri di cittadino, sarebbe non l'uomo totale, ma il cittadino totale (…) E il cittadino totale non è, a ben guardare che l'altra faccia non meno minacciosa dello stato totale” (Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Einaudi, Torino, 1984, pp. 30-31). 

Il rapporto tra “professionisti” e “dilettanti” della politica si intreccia con la barriera della competenza: “non sempre i commentatori sono in grado di valutare correttamente l’effettiva fattibilità degli emendamenti proposti dagli altri iscritti. Non basta dunque che i commenti siano apprezzati da un numero elevato di utenti – di cui nessuno, al di fuori dei gestori della piattaforma, conosce la quantità precisa – perché questi diventino davvero parte della legge” (p. 186). Malgrado gli strali contro la “dittatura degli esperti”, quasi inevitabilmente si forma un ceto di professionisti della politica (e della pubblica amministrazione) in grado di raccogliere consenso, magari al di là della competenza specifica. Ma questo processo determina di fatto le modalità di formazione e di selezione della classe dirigente, un altro tema cruciale dell'evoluzione (o dell'involuzione) della società civile. Da queste scelte dipende la possibilità di tenuta di una forza politica nel medio termine.

 

Di Maio sta cercando di ottenere la candidatura a premier della prima forza politica italiana (a giudicare dai sondaggi). Il processo evidenzia molte delle contraddizioni evidenziate da Ceri e Veltri. Sono altrettanto emblematiche le reazioni degli osservatori. Da un lato, l'avvento di Di Maio viene salutato positivamente come indizio della normalizzazione del partito, con “una offerta politica più tradizionale e rassicurante”. Insomma, “ora i 5stelle sono un po' più uguali agli altri e nel senso migliore dell'espressione”. Tuttavia, si argomenta, “quella di Di Maio rischia di somigliare più a una nomina che a un'elezione. Un modo per legalizzare l'arbitrarietà del potere interno, non per superarla” (Stefano Cappellini, I gradi del leader e un'elezione che sa di nomina, “la Repubblica”, 16 settembre 2017). 

In gioco, nel “reality politico” del M5S, non c'è solo la leadership di uno dei tanti partiti in uno dei tanti parlamenti del mondo, in uno staterello a sovranità limitata e marginale nel mondo globalizzato. C'è di più. Per le speranze che ha suscitato, per i processi che ha innescato, l'avventura politica del M5S è una cartina di tornasole che illumina i processi democratici: il “sismografo Grillo” “ha registrato due sommovimenti profondi e contemporanei: lo smottamento del sistema di potere in un paese inerte, e l'impatto della rete sulle procedure della democrazia” (Oliviero Ponte di Pino, Comico e politico, p. 243).

 

Chissà se ora il “partito del Grillo” diventerà davvero un partito normale, creando un nuovo sistema di potere. A leggere Ceri e Veltri, c'è da temere che diventi un partito “più uguale degli altri”, accentuando nella sua caccia al voto le venature populiste, demagogiche, autoritarie. Se accadesse, e se il sogno democratico dei meet-up venisse seppellito, sarà necessario rilanciare la promessa – o l'invenzione – di una politica diversa, con modalità di partecipazione attiva che rispondano alle attese e alle abitudini delle giovani generazioni. Se i vecchi partiti non sapranno reinventarsi, (e non sembrano in grado di farlo), toccherà a qualcun altro. Magari ci proverà Google, che già pratica la democrazia digitale, “un clic un voto”. O Facebook, con la formula “un MiPiace un voto”. Il rischio è davvero quello del “populismo digitale”. Ma come aumentare la consapevolezza e il senso di responsabilità di ciascuno, contro le facili scorciatoie della demagogia e della manipolazione? Non sarà facile, ma è l'unico modo per provare a salvare la democrazia, o quello che ne resta: sognare una democrazia 2.0 più compiuta e vicina ai cittadini.

 

Oliviero Ponte di Pino è autore di Comico&Politico. Beppe Grillo e la crisi della democrazia, Cortina editore, 2014.

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Giorgio Agamben. Innocenza radicale

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Sebbene Giorgio Agamben abbia dichiarato chiuso, nel 2014, il suo progetto ventennale di un’archeologia della politica e del diritto, che ha preso il nome di Homo sacer, con la pubblicazione del volume l’Uso dei corpi, la sua produttività non è affatto diminuita, e il nuovo testo dell’autore romano, Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto, uscito recentemente per i tipi Bollati Boringhieri, ne è – non lo fossero stati abbastanza i testi usciti in precedenza, dedicati, tra gli altri, a Majorana, a Pulcinella, e alle proprie vicende biografiche – l’ulteriore riprova. 

 

Se si volesse speculare, si potrebbe addirittura arrivare a sostenere che questo volume potrebbe occupare il posto vuoto lasciato enigmaticamente da Agamben nella posizione II.4 del suo progetto.

In Karman Agamben presenta al contempo una summa dei motivi portanti del suo pensiero e una loro evoluzione in una direzione inedita. Come il sottotitolo indica, l’azione, la colpa e il gesto sono le tre grandi categorie oggetto dell’analisi agambeniana.

Queste vengono analizzate tramite gli strumenti teorici che hanno reso famoso il filosofo (e spesso gli hanno attirato critiche anche feroci): la filologia storica, il diritto (Agamben ha alle spalle una formazione universitaria da giurista, fatto che non va mai dimenticato quando si leggono i suoi lavori), e – ovviamente – la filosofia.

 

Nel primo capitolo del testo, La causa e la colpa, Agamben parte proprio – come spesso è solito fare – da un’analisi filologica, che rivela l’originaria oscurità etimologica (e parentela concettuale) dei termini in questione: la causa non sarebbe altro che una precisa “cosa” nell’atto in cui essa viene inclusa nell’ambito del diritto (p. 14). È proprio in queste pagine che si delinea la tesi di base di Agamben: la causa e la colpa sono due concetti che non appartengono all’edificio del diritto, ma permettono l’entrata in esso, il suo stesso costituirsi (p. 16). 

Ma come avviene questo costituirsi? La risposta del filosofo è che esso avviene attraverso il concetto di “pena” (p. 17). 

Ricordando che con “pena” indichiamo sia il “prezzo da pagare” per un’azione extralegale, che una sofferenza senza spiegazione, Agamben si richiama al giurista tedesco Carl Schmitt (p. 22) per evidenziare come non esista una colpa senza la corrispondente pena. Quella che in apparenza potrebbe sembrare un’affermazione banale, in realtà contiene in sé un portato radicale: è solo l’esistenza di un ordinamento giuridico che stabilisce come sanzionabile un’azione, che rende quest’azione una colpa. Al di fuori dell’edificio del diritto non esiste alcuna colpa, ma solo una radicale innocenza del vivente in quanto tale. 

 

 

La colpa esiste come tale solo in virtù della pena che la sancisce. È per questo che la sanzione è così importante all’interno dell’edificio del diritto. Richiamandosi ancora una volta all’origine etimologica del termine, Agamben – sulla scorta del linguista francese Emile Benveniste – ritrova l’origine del concetto di “sanzione” in “sanctus” (e non – come un lettore di Agamben si aspetterebbe – in “sacer”, p. 32), termine che indica un’interdizione totalmente (legata a una legge) umana, in cui il fattore religioso non gioca alcun ruolo. La sanzione sarebbe dunque il modo in cui gli uomini puniscono – entro il recinto giuridico dei fatti umani – la colpa: essa sarebbe, dunque, il fatto costitutivo della legge.

Questa sconvolgente immanenza e arbitrarietà radicale della legge – che unisce ambiguamente in sé sempre la giustizia alla violenza – si vede in maniera chiara in quella che comunemente viene chiamata “legge del taglione”. La parola “taglione” trova la sua origine nella parola latina “talis” (da cui l’italiano “tale”): a una precisa azione criminosa corrisponde esattamente – tale e quale – la stessa azione come sanzione, la quale, però, in quanto inclusa nell’edificio del diritto, è permessa (p. 38). Questo rende evidente – agli occhi di Agamben – come non esistano colpe, ma solo azioni sanzionate, ossia azioni innocenti che perdono la loro innocenza solo nel momento in vengono dichiarate colpevoli. “Tutto è bene”, come sentenziava Edipo nel momento di massima accettazione della tragicità del proprio destino, o meglio, “ogni azione è di per sé innocente”, se volessimo forzare in direzione agambeniana la sentenza edipica. 

 

Che la legge culminante in una sanzione sia la legge migliore è, però, tanto comunemente dato per scontato quanto cosa dubbia, come ricorda Agamben sulla scorta del giurista romano Ulpiano (pp. 42-43). E non è affatto da sottovalutare che già il diritto romano – vale a dire la struttura portante del nostro ordinamento legale moderno – abbia posto un serio dubbio sulla legittimità della sanzione come mezzo di correzione legale.

La necessità di ripensare i limiti delle nostre definizioni di causa e di colpa, e del conseguente edificio del diritto, viene avanzata da Agamben nei capitoli 2 e 3 del suo testo, rispettivamente intitolati Crimen e Karman e Le aporie della volontà.

 

Se però il lettore esperto di Agamben, nel primo capitolo, ha trovato i riferimenti teorici a cui è stato abituato dal filosofo romano (il diritto, Franz Kafka, i giuristi Yan Thomas, Carl Schmitt e Hans Kelsen), in questi due capitoli va incontro a una sorpresa: i punti di riferimento concettuali dell’autore cambiano, diventando – per chi conosce Agamben – alquanto inusuali. Lo studio dell’etimologia latina lascia il posto a quella sanscrita, e l’amato (noto e spesso “saccheggiato” da Agamben) Emile Benveniste al meno conosciuto Adolphe Pictet, autore di un poco noto quanto affascinante Les origines indo-européennes. Essai de paléontologie linguistique. Questo è il ponte che permette ad Agamben di allargare le sue analisi di filologia storica, ma pure di operare una sorta di “passaggio a Oriente” filosofico, andando a descrivere alcuni momenti portanti della filosofia buddhista. Il motivo del movimento teorico agambeniano è il ritrovare l’origine del latino crimen (da cui il nostro “crimine”) nel sanscrito karman, che per i buddhisti indica la volontà, l’intenzione dietro all’azione (p. 49). Secondo Agamben è chiaro che l’intera struttura teorica dell’insegnamento buddhista si basa sul fatto che «karman significhi crimen, che vi sia, cioè, qualcosa come un’azione imputabile e produttrice di conseguenze» (Ivi). 

 

La conseguenza di questa idea dell’azione come crimine, e del crimine come frutto di un’intenzione, sarà decisiva per l’idea di soggetto che sta alla base dell’edificio della filosofia (in particolare di quella occidentale). L’idea che esista un’azione imputabile, infatti, secondo Agamben porterà alla formulazione del concetto di volontà, che non è altro che lo strumento teorico tramite cui un’azione può essere legata inscindibilmente a un soggetto. A livello filosofico vale la pena qui notare un’evoluzione del pensiero agambeniano che già era all’opera ne L’uso dei corpi (e in generale in quest’ultima fase della sua produzione): una progressiva critica ad Aristotele (che – nei decenni scorsi – era sempre stato, invece, un punto di riferimento “in positivo” per il filosofo romano) e un parallelo progressivo avvicinamento a Platone. Se, infatti, «appartiene alla più profonda intenzione del pensiero platonico il tenace, inflessibile – e, per un greco, quasi impensabile – tentativo di identificare altrove che nell’azione il luogo dell’etica e della politica» (p. 61), significa che Platone ha cercato progressivamente (ponendosi, in questo, dalla parte di Buddha), di situare il bene dell’uomo dalla parte dell’Essere e della contemplazione, mentre invece Aristotele è colui che si è posto dalla parte dell’azione e del divenire. Questa dicotomia (essere/divenire, che si rispecchia in quella contemplazione/azione) è l’oggetto delle analisi del capitolo 3 del libro, che racconta la storia del passaggio dal mondo antico a quello cristiano come la storia – tramite Aristotele – della creazione del concetto di volontà (p. 82). La volontà, come accennato, non sarebbe nient’altro che il dispositivo filosofico che aggancia l’azione al soggetto, facendo di questo il responsabile (imputabile, quindi sanzionabile) dei propri atti (p. 127). Ed è per questo che bisogna andare – come indica il capitolo conclusivo del libro fin dal titolo – Al di là dell’azione.

 

Lo sparring partner di Agamben è qui sempre Aristotele, per cui «l’azione umana appare come la dimensione che si apre in vista del bene» (p. 104). Questo, però, presuppone che tra l’uomo e il suo bene ci sia «una frattura» (p. 105). Per questo, l’uomo, secondo Aristotele, deve agire: perché egli non è il bene, deve attuare il bene. E questa necessità di attuare il bene, per Agamben, è il retaggio che Aristotele lascia in mano al Cristianesimo e all’Occidente tutto: il bene è qualcosa che va ricercato, che deve essere voluto, e non qualcosa che giace nell’essenza dell’uomo. Se Goethe, all’inizio del Faust, ha potuto sostenere che «In principio era l’azione», lo ha potuto sostenere solo perché si muoveva in un orizzonte concettuale profondamente segnato dalle coordinate etiche aristoteliche. 

 

Contro Aristotele vengono fatti giocare da Agamben Platone e Schopenhauer (e, in parte, Kant, tramite un’ardita torsione teorica): ancora una volta due referenti che nell’arco filosofico del pensatore romano stanno prendendo progressivamente sempre più importanza, soprattutto rispetto a una relativa assenza nella produzione passata. In particolare Platone, che evidenzia come nella vita – e nella politica – sia decisiva la dimensione (e la metaforica) del gioco: l’attività senza fine per eccellenza. E insieme a Platone – con un ruolo addirittura più importante – Buddha (p. 128): è, infatti, stato il buddhismo il tentativo più grandioso di liberare il soggetto dalla catena che lo lega ai due poli della volontà e dell’azione. La rivelazione di Buddha sarebbe in questo senso il tentativo di rendere il soggetto quello che è indipendentemente da quello che fa, di sciogliere il nodo scorsoio che consiste nell’identificazione azione-soggetto. Non necessariamente un uomo che fa il male è malvagio, così come un’azione buona non rende chi la compie, di per sé, buono. La colpa, il crimen, è sempre legata all’azione, ma non necessariamente al soggetto, che deve liberarsi di essa, e dell’idea di essere un polo generatore di azioni, che a sua volta viene generato retroattivamente da esse. 

 

La conclusione di Agamben è legata a un suo vecchio tema (il testo Note sul gesto, pubblicato nella raccolta Mezzi senza fine del 1996, risale addirittura al 1992), quello – appunto – del gesto

Il referente teorico a cui si agganciano le analisi sul gesto di Agamben, oltre alla dottrina buddhista, è il suo amato Walter Benjamin, e in particolare il Benjamin di quel testo del 1921 – Sulla critica della violenza– a cui Agamben aveva dedicato già uno dei suoi primissimi scritti giovanili, il saggio Sui limiti della violenza del 1970. Come già nel 1970, e a più riprese nel corso del suo lavoro filosofico (come ad esempio nella parte centrale di Stato di eccezione), ad Agamben interessa il tentativo di Benjamin di scollegare l’azione umana dal circolo mezzi-fini, in modo da pensare un’azione “pura”, che abbia il proprio fine in sé. Il paradigma di quest’azione pura sarebbe per l’Agamben di Karman, appunto, il gesto, quale ad esempio si dà nelle cosiddette “arti performative” (p. 131).

 

Questo sarebbe un «terzo modo dell’attività umana» (p. 137), oltre la prassi e la produzione, «un’attività o una potenza che consiste nel disattivare e rendere inoperose le opere umane e, in questo modo, le apre a un nuovo, possibile uso» (p. 138). 

È proprio su queste analisi sul gesto – che resta in qualche maniera un oggetto filosofico non completamente esplicitato né identificato dal filosofo romano – che si chiude Karman, che di certo rappresenta un’interessante sviluppo nel percorso di pensiero di uno dei più importanti filosofi viventi, e – a parere di chi scrive – un parziale punto di svolta nel suo stesso orizzonte teorico, grazie all’inserimento dell’inedito elemento filosofico orientale.

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