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Ancora sullo smartphone in classe

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“Una commissione ministeriale s’insedierà per costruire le linee guida dell’utilizzo dello smartphone in aula. Entro breve tempo avrò le risposte e le passerò con una circolare agli istituti”. L’annuncio ministeriale, già commentato da Alessandro Banda, sta sollecitando diverse reazioni.

Mentre nelle sale insegnanti e sui social network i commenti crescono ho sollecitato amici e amiche che lavorano a scuola, in diverse realtà territoriali, principalmente nella superiore, a condividere opinioni e esperienze sul tema.

Quanto segue è il montaggio delle risposte, per le quali ringrazio tutti e tutte, da cui emerge qualche dato di realtà e un paesaggio comunque diverso da quello continuamente disegnato da chi non entra in una classe da decenni.

 

“A me sembra una follia per come è stata lanciata, una boutade futuristico-populista che serve a sollevare polvere e coprire di patina innovativa una carovana di provvedimenti farraginosi e strampalati (vedi le applicazioni dell'alternanza scuola-lavoro). Per come verrà recepita temo sarà l'ennesima catastrofe di polarizzazione indignata o ingenua sopravvalutazione, a seconda dei casi. Qui prevedo comunque la solita forte stigmatizzazione, anche giustificata ma ipocrita, del rapporto degli adolescenti con il telefono, che si confonde con una forte base tecnofoba assai diffusa da parte di adulti comunque iperconnessi. Io sono a favore di un uso scolastico di digitale connesso, ma controllato, non sempre e comunque non attraverso i telefoni. Detto questo conosco colleghi che in scuole molto problematiche sono riusciti a usare i cellulari come strumenti per coinvolgere studenti difficili e hanno inventato laboratori informatici hand-made... La risposta è quindi sempre 'dipende'. In ogni caso qualsiasi ragionamento non può non tenere conto del nostro rapporto con il telefono.” 

Professore di storia e filosofia, Liceo scientifico e linguistico

 

“La dichiarazione ministeriale è tagliata per titoli di giornale a effetto, sconcertante, più che altro per la superficialità. Lascia immaginare gente che prende a caso testi e informazioni tra i primi risultati dei motori di ricerca come modus operandi di una lezione improvvisata, come se fossimo lì tutti per caso e qualcuno tira fuori una storia assurda. Certo, la tecnologia aiuta, dobbiamo insegnarne l’uso critico, ma dipende a cosa serve: per insegnare agli adolescenti la concentrazione e il ragionamento non aiuta di sicuro. Mi verrebbe da dire che forse è proprio quello che si vuole ottenere: consumatori sempre più docili e stupidi, sempre più dipendenti dall'utilizzo di macchine per operazioni anche elementari. Attualmente, comunque, gli smartphone sono già usati moltissimo, in classe: per copiare durante anacronistici compiti in classe – che non possiamo mutare se non tutti insieme e strutturalmente – o per chat e flussi continui di dialogo con amici e fuori dalla classe.

 

Se vogliamo fare un lavoro specifico su Internet va benissimo, ma come si fa a insegnare matematica con geogebra sullo Smartphone?

E poi c'è il dato di 'classe' che rispetto al digitale solca l'intero paese: la sperimentazione funzionerà nelle scuole di alto livello e con utenza molto selezionata, laddove le competenze di base sono già acquisite in entrata e i problemi disciplinari sono già risolti, e susciterà l'entusiasmo di chi punta a fare le cose più avveniristiche, magari gonfiando i risultati positivi e montando fuffa per vincere il premio di miglior insegnante dell'anno.”

Professore di storia e filosofia, Liceo scientifico

 

“Nelle mie classi faccio usare il cellulare in modo pratico per cercare poesie o brani che non sono in antologia, o news da internet, specie per i lavori di gruppo. In modo più intelligente, per connettersi alla piattaforma Edmodo (ambiente di condivisione pensato per le scuole – n.d.r.) o per lavori di ricerca basati sulla ricerca e validazione di fonti in rete, o di correzione verifiche. Il tutto però sotto il mio controllo, visto che vieto di usare il cellulare in altro modo, ad esempio al posto del diario o per appunti personali, perché ho verificato molte volte che la tentazione è grande ed è facile sconfinare su whatsapp.”

Professoressa di lettere e storia, Istituto tecnico 

 

“Personalmente, quando faccio conoscenza di una nuova classe, chiarisco, in una specie di "patto formativo", che durante le ore di lezione (tutte, non solo le mie), non è consentito l'uso del cellulare. Se "becco" qualcuno leggersi i messaggi mentre spiego, lo richiamo verbalmente, avvisando che la trasgressione reiterata porterà ad una nota (che poi va a pesare sul voto di condotta). Cerco però di far leva più sull'incongruità del comportamento con un discorso del tipo: "Sto spiegando, su questi argomenti verrete verificati, è più utile ed economico ascoltare e capire in classe piuttosto che perdersi dei pezzi e non capire”. Di solito funziona, ma io lavoro solo sul triennio liceale.

Per le mie verifiche scritte il cellulare non serve, a meno che si siano fotografati appunti, schemi... ma anche così non aiuta un granché e si rischia di perdere tempo utile a pensare. Lo stesso si può dire di altre forme più tradizionali di copiatura: troppo dispendiose in termini di tempo.

 

Ovviamente per le versioni è tutto un altro paio di maniche. So che alcune colleghe introducono piccole modifiche al testo per scoraggiare o rendere riconoscibile la copiatura brutale da internet. In ogni caso valgono sempre le antiche pratiche di spostamento di alcuni allievi e di ripetuti giri fra i banchi...

Lascio invece prendere il cellulare quando per esempio ho inviato del materiale (testi di filosofia, documenti storici...) che non tutti si sono stampati: preferisco che abbiano un testo sotto il naso, in qualsiasi forma sia, piuttosto che nessuno.

Faccio infine usare il cellulare come terminale internet qualora nell'aula non abbia la Lim o qualcosa di simile e voglia che tutti vedano una certa pagina, oppure se non ho potuto prenotare un'aula multimediale e voglio che a gruppi o a coppie lavorino su differenti fonti in internet già visionate da me, o facciano piccole ricerche.”

Professoressa di storia e filosofia, Liceo classico

 

“Sotto l’aspetto empirico, l'utilizzo di dispositivi digitali durante le ore scolastiche è diventato, oltre che mera quotidianità, un assillo costante dal punto di vista etico-professionale. Personalmente la scelta sull'uso di smartphone in aula/laboratorio spetta a ciascun allievo: in linea di massima non lo permetto né lo vieto, invitando chi non è presente, partecipe o semplicemente in ascolto della lezione ad allontanarsi dalle distrazioni. Compito per nulla facile perché l'oggetto in questione è costantemente un gate di accesso, nella forma di passeggiata nel proprio mondo digitale o di ricerca frenetica di risposte possibili ai quesiti esposti. Due tentazioni molto diverse alle quali è troppo difficile sfuggire; nelle classi minori e più irrequiete o tendenti alla distrazione significa impiegare una buona parte dell'ora a intervenire in merito. Tuttavia, trovandomi spesso in laboratorio tra le postazioni computerizzate dove operano gli studenti, mi pare che lo smartphone venga in qualche modo "oscurato" dal pc stesso e non se ne faccia un uso smodato. In generale, l'uso viene permesso durante le lezioni in cui una ricerca online del singolo studente può aiutare la discussione a progredire e ad arricchirsi di elementi, in particolare se essa verte sui software adatti a svolgere determinati esercizi. 

 

 

Lo smartphone non pare adatto a svolgere le operazioni sui software di editing (testo, immagine, video, codice) richieste dal mondo scolastico, azioni attualmente più fattibili da tablet, portatile o postazione fissa; da questo punto di vista non mi pare che l'oggetto in discussione possa scalzare gli altri device per la risoluzione pratica di determinati problemi informatici. 

Dove invece risulta uno strumento utile è nella dimensione cloud e genericamente in ogni utilizzo che metta in connessione lavori offline, spazi di memoria condivisa, archivio/progettazione e registro scolastico. In questi casi lo smartphone si aggancia ai contenuti reali prodotti o archiviati dagli allievi e aiuta la comunità a gestirli, sistemarli e modificarli, se necessario.” 

Professore di informatica, Istituto professionale

 

“Per quanto mi riguarda, ho spesso fatto utilizzare i dispositivi dei ragazzi in classe e, generalmente, non ne ho rilevato usi "impropri". È una pratica resa necessaria dal fatto che noi "umanisti" non sempre abbiamo a disposizione una Lim e che la connessione dell'istituto si rivela spesso inadeguata. Ho notato, inoltre, che i ragazzi gradiscono essere considerati affidabili e si prestano volentieri all'esecuzione del compito di ricerca durante le lezioni. Confesso, quindi, di usare non di rado queste richieste di "aiuto" nel portare avanti la lezione. Infine, gli studenti con cui ho a che fare hanno un'elevata pratica di giochi online e/o di uso di social a scopo ludico, ma non frequentano quasi mai il web per svolgere ricerche o approfondimenti didattici se non su mia sollecitazione. Mi pare, dunque, che questa possa essere ritenuta una buona ragione per cercare insieme a loro un uso degli smartphone adeguato al tempo trascorso insieme.

 

Qualche anno fa, tra l'altro, tentai di portare una vecchia scatola dove riporre i vari dispositivi durante la lezione: lo ripetei due o tre volte, poi la frustrazione per il tempo perso e il timore di rovinare i cellulari con movimenti poco accorti mi convinsero a soprassedere. In collegio docenti inoltre abbiamo ragionato sul fatto che un divieto assoluto con obbligo di deposito, al fine di evitarne l’uso improprio, rischiava di precludere l’utilizzo di un possibile strumento didattico e abbiamo preferito insistere sull’importanza di responsabilizzare gli studenti.”

Professoressa di lettere e storia, Istituto tecnico

 

“Mi capita di chiedere di verificare sul telefono alcune cose, più come pretesto per ragionare insieme su come funzionano motori di ricerca, social, siti e ‘fake news’ e in genere comunicazione e informazione a livello psico-sociale e nell'oggi. Ho sempre il portatile acceso e verifico o controllo dati rispetto a certe domande, a cui confesso di non saper rispondere subito, soprattutto se parliamo di dati quantitativi o dettagli. Il che diventa una riflessione e un esempio di pratica di metodo, e loro stessi a volte fanno domande, che sono state evidentemente preparate al momento consultando qualche fonte… è anche un modo per testare e confrontare il modo in cui in rete viene esposta la cosa di cui stiamo parlando e ha una funzione positiva, stimola al confronto e aiuta a costruire insieme un ragionamento, moltiplica i punti di vista e le osservazioni, rispetto alla voce unica del manuale.”

Professoressa di scienze umane, Liceo delle scienze umane

 

“Si possono usare gli smartphone in classe per fare ricerca nel web sotto indicazioni dell'insegnante: sia per quanto riguarda l'oggetto sia per i siti da indagare. Si può fare anche ricerca libera, naturalmente. Bisogna forse correre il rischio che qualche studente navighi un po' in acque non controllate. Se però ci si limita a brevi momenti, magari di pochi minuti, questo rischio dovrebbe essere molto contenuto.

Gli smartphone si possono usare per fare giochi a quiz (batterie di domande) per verificare che gli studenti conoscano un po' di nozioni e simili su un argomento studiato a casa o a scuola. Inoltre gli smartphone possono essere usati anche come rilevatori di dati grazie a sensori e app dedicate: tra le varie funzionalità abbiamo accelerometro e giroscopio, che consentono di usare un’app come Google Sky Map. 

In sintesi: lo smartphone va conosciuto bene dal docente che deve saper cosa fare con quali app (essere sempre aggiornato sulle applicazioni e loro usi), in quanto non si tratta più di un telefono con alcuni giochini, ma di un vero e proprio computer (navigazione, video, raccolta dati).”

Professore di lettere e latino, Liceo classico e linguistico

 

La ministra si riferisce allo smartphone come a un’“opportunità che deve essere governata”.
Queste parole hanno senso solo se lo smartphone degli allievi non è bombardato da sms,
messaggi whatsapp o mail , giochi, applicazioni ecc… Lo smartphone dovrebbe favorire la
concentrazione e non ostacolarla offrendo un ambiente virtuale pieno di distrazioni. Per dare un
semplice esempio in un compito di conversazione in inglese non dovrò chiedere al mio insegnante
se non mi viene in mente un vocabolo che mi serve ma potrò direttamente cercarlo sul dizionario
online così come potrò anche controllare se quella particolare struttura linguistica che ho usato sia
corretta o no. Il problema è fare in modo che lo smartphone non si trasformi da strumento utile a
principale strumento usato per l’apprendimento. “Facilitare l’apprendimento” significa renderlo
più facile ma renderlo più facile non significa necessariamente renderlo più veloce, più ansioso, più
adatto a diventare multitasking. Se invito degli adolescenti a una festa e metto sul tavolo una
torta vicino all’insalata è probabile che la maggioranza si dirigerà verso quest’ultima
indipendentemente dalla qualità delle due pietanze.
Professore di lingua e letteratura inglese, Liceo scientifico e scientifico-tecnologico

 

“Hai presente il mito di Teuth nel Fedro platonico? Lì Platone mette sotto accusa il sapere apparente derivante dalla lettura della parola scritta, difendendo l'oralità e il dialogo. Sostiene fra l'altro che la parola scritta esonera dall'autentico esercizio di memoria, che è appropriazione del sapere, perché permette di far affidamento su una memoria esterna, il libro, sempre disponibile. Sempre di più studenti non comprendono perché imparare, se comunque in ogni momento l'informazione può essere recuperata. 

Altri aspetti riscontrati negli allievi (documentati anche dalla descrizione della loro giornata fatta da loro e dai genitori): tempi di concentrazione brevi (continue notifiche di messaggistica, aggiornamento di playlist), facilità alla distrazione (apro una finestra, poi un link, poi un altro... capita anche a me), difficoltà nel distinguere l'attendibilità delle fonti (più che con i media tradizionali), dipendenza che al confronto Cattiva maestra televisione di Popper fa ridere. Da ultimo, qualsiasi uso utile di internet (e ce ne sono) è preferibile su uno schermo dai 13 pollici in su. Ci sono strumenti migliori del telefono.”

Professoressa di storia e filosofia, Liceo classico

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The Ballad of Sexual Dependency

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“È il diario che voglio che la gente legga”, afferma la fotografa Nan Goldin. “È opinione comune che il fotografo sia per natura un voyeur, l’imbucato alla festa. Ma io non sono pazza. Questa è la mia festa. Questa è la mia famiglia, la mia storia”. Il diario ha un titolo: The Ballad of Sexual Dependency ed è composto da una proiezione di fotografie, che si è modificata nel corso del tempo, al cui centro viene posta la questione del vivere e dell’agire: i rischi, l’imprevedibilità, l’innocenza, l’indifferenza, il coinvolgimento, la passione.

I protagonisti sono gli amici della fotografa: la scrittrice ed attrice Cookie Mueller, il marito Vittorio Scarpati, entrambi morti di Aids a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, Trixie, che sembra una ragazzina, mentre fuma con il viso sconvolto e un abito a fiori, Brian l’uomo violento da cui è irresistibilmente attratta, Susan, in treno e in bagno, e poi i momenti in cui essi si divertono, fanno l’amore, litigano, si drogano, muoiono. 

 

Nan Goldin, Trixie on the cot, New York City 1979© Nan Goldin.


 

Nan Goldin, Twisting at my birthday party, New York City 1980 © Nan Goldin.


Ciò che la induce a scattare sono i sentimenti: amicizia, amore, attrazione fisica, che spostano il limite dell’immagine “dentro” il suo mondo e ridisegnano i confini di ciò che possiamo considerare un soggetto visivo credibile. L’impressione è che tutto ciò che esiste al di fuori sia completamente irrilevante. Chi guarda le immagini comprende che non può esserci nessuna aspettativa se non il soggetto colto nella sua purezza di referente: Cookie è Cookie, con il suo abito da sposa e gli occhi perennemente truccati di nero, è il suo essere indecifrabile, sofferente, innamorata. O meglio Cookie è una fotografia. Essa rappresenta “la scena stessa, il reale preso alla lettera”, anche se vi è indubbiamente una riduzione di proporzione e prospettiva. E anche se l’immagine non è il reale, essa è quanto meno ciò che Roland Barthes definisce l’analogon perfetto, ovvero la “perfezione analogica”, “un messaggio senza codice”, e di conseguenza un “messaggio continuo”. Le parole di Nan Goldin lo confermano: “la fotocamera è parte della mia vita quotidiana come parlare, mangiare o il sesso”. Vita e fotografia coincidono anche nella scelta di usare il colore: nulla è statico e tutto è inafferrabile. La slideshow con la colonna sonora ne è la perfetta sintesi: non è propriamente fotografia e non è nemmeno cinema, ma evoca entrambe le esperienze. Inoltre la musica disloca il senso nell’immediata referenza della suggestione fonica: la melodia, l’intensità, la durata, la quantità, le pause dettano il ritmo della Ballad e ne caratterizzano lo stile con cui la fotografa vuole conseguire un effetto di realtà, come avviene con le immagini di situazioni che consideriamo traumatiche. 

 

Poiché il trauma dipende dalla certezza che la scena abbia veramente avuto luogo o, per dirla nuovamente con le parole di Roland Barthes, “più il trauma è diretto, più la connotazione è difficile”, “nessuna categorizzazione verbale può aver presa sul processo istituzionale della significazione”. Ed è vero: è difficile dire di più delle sue immagini di quel che vediamo in esse. 

Per questo ci si chiede cos’è la dipendenza sessuale di cui parla l’artista. “Lo voglia o no, non sfugge alla sua sorte: la schiavitù sessuale è la più forte”, recita con un senso di ineluttabilità l’omonima ballata inclusa nell’Opera da tre soldi di Bertolt Brecht, alle cui parole si è ispirata la fotografa. Cosa resta oltre il suo autoritratto dal volto rigonfio, dopo essere stata violentemente percossa dal suo amante, o al di là della fotografia di un corpo con un livido a forma di cuore impresso sulla coscia? Resta la dipendenza da ciò che sembra essere perennemente vivo nella sua imperfezione. Tutte le immagini sono momenti di questa consapevolezza. Non c’è alcuno sfasamento tra la forma e la realtà. Le fotografie e il loro fluire contengono ciò che è inevitabile da riconoscere nella sua effettività, ciò che è empiricamente certo e legato alla libertà che alle immagini, dinnanzi ai nostri occhi, attribuisce attrazione o repulsione. 

 

Nan Goldin, Couple in bed, Chicago 1977 © Nan Goldin.


La Balladè tutto questo: il ritmo di una feroce intimità che resiste nella sua consistenza dinnanzi agli occhi di tutti, completamene esposta, al di là del tempo che scorre e consuma le cose. Essa suggerisce la certezza che il gesto della creazione può davvero colmare il vuoto della perdita. È l’eccesso della vita che si oppone al nulla. Non conta se le immagini sono mosse, sfocate, imperfette. La passione non è disordine? La vita di Nan Goldin ha questa forma ed è una forma sfatta e disperata, che riesce a tenere il nostro sguardo aderente ai volti e ai luoghi raffigurati, nello stesso modo in cui è accaduto a lei. Il suo è un modo di fotografare che ha aperto il vissuto della quotidianità e dell’eccesso e li ha trasformati in relazione, passaggio, contatto. La fotografia diventa una forma di esperienza, si potrebbe dire l’esperienza diretta dell’“originale”. Anche noi siamo dentro l’immagine: guardiamo il mare a Coney Island, siamo seduti sulle panchine in Tompkins Square Park, ammiriamo dall’alto i tetti di Bowery. E poi siamo a Boston, Merida, Londra, Monaco, Berlino travolti in una ballata, un flusso ininterrotto di fotografie, la storia di una vita: quella di Nan Goldin. 

 

Nan Goldin, The Hug, NYC 1980 © Nan Goldin.

 

Fin dai primi anni Settanta essa documenta ogni aspetto della propria esistenza e di quella dei suoi amici più cari. Le sue prime foto scattate a vent’anni, erano una serie di immagini intitolata Drag Queens, che ritraevano la cerchia di amici di due drag queen con cui lei viveva. Nel 1978 la fotografa si trasferisce nella Lower East Side di Manhattan e continua a fotografare gli amici e gli artisti che frequenta. Essa racconta che una delle prime volte in cui viene proiettata la Balladè in occasione del compleanno di Frank Zappa in un night club a New York nel 1979 e il pubblico è costituito per la maggior parte dagli amici fotografati. L’ultima volta che è stata in Italia risale al 1986, quando ha proiettato la Ballad al Plastic di Milano.

Nel 1985, l’inclusione alla Whitney Biennial a New York, segna il primo interessamento istituzionale di rilievo nei confronti del suo lavoro e la pubblicazione l’anno seguente del suo primo libro The Ballad of Sexual Dependency. Nel saggio introduttivo Nan Goldin racconta della sua infanzia, della voglia di fuggire, del suicidio della sorella a cui era molto legata e alla quale è dedicata la Ballad. Rievoca la storia del suo amore per Brian, il cattivo ragazzo “on the Bowery roof”, delle violenze da lui subite, della dipendenza dal suo corpo. 

 

Eppure non vi è nessuna nostalgia. Non si torna indietro perché tutto vive, tutto è nelle fotografie. “Se ogni immagine è una storia, allora l'accumulazione di queste immagini si avvicina all'esperienza della memoria”, afferma la fotografa. “È una storia senza fine". Per questo ognuna delle sue immagini non rappresenta il passato, ma molto di più: uno stralcio di ciò che potremo continuare a vedere nel suo infinito presente. Come dice una delle canzoni della colonna sonora: “I’ll be your mirror”.

 

Mostra: Nan Goldin, The Ballad of Sexual Dependency, a cura di François Hébel, presso La Triennale di Milano, dal 19 settembre al 26 novembre 2017.

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Libri giallo paglierino con la carta di Vittorini

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«Purtroppo arriva in ritardo per piazzale Loreto». Devono essere state queste le parole che Leo Longanesi rimestava fra le sue labbra guardando dal finestrino del treno il lento avvicinarsi della stazione centrale di Milano. In quella giornata di fine 1945, sulle banchine si assiepavano frotte di profughi che finalmente potevano tornare alle loro case e partigiani col fucile in spalla.

«Purtroppo arriva in ritardo per piazzale Loreto»: la frase si riferiva a lui, ed era comparsa quella mattina stessa su “L’Italia Libera” in un articolo che annunciava il suo arrivo. Tra la folla riconobbe l’amico e allievo Indro Montanelli, che era andato a prenderlo, e prima ancora di scendere dal treno stimò prudente affacciarsi al finestrino e chiedergli, indicando un gruppetto di uomini col fazzoletto rosso al collo: «Aspettano me?».

 

Longanesi con Italo Balbo e Paolo Balbo.


Longanesi era stato infatti un fascista della prima ora, sebbene riconoscesse come tra le camicie nere si raccogliessero «gli iscritti senza troppi preconcetti: ecco i facinorosi, i violenti, gli spossati, gli ammazzasette, ecco quei vaghi fanatici che s’agitano senza sapere il perché, più per un naturale bisogno di esaltarsi e di inveire che d’altro». Nostalgico dei valori risorgimentali e lontano dalla modernità, sperava sbagliando – testimonia Montanelli – che il fascismo «restaurasse l’Italia di strapaese» con le sue tradizioni rurali e l’avversione al cosmopolitismo. Fu direttore di “L’Italiano”, foglio della rivoluzione fascista, e realizzò il settimanale “Omnibus”, modernissimo rotocalco per contenuti e immagini, modello di riferimento per i periodici della prima repubblica. “Omnibus”, che suscitò sempre l’attenzione del regime con continue censure e minacce di chiusura, tentava di destabilizzare la retorica imperante: Longanesi dissacrava sì il fascismo, ma non ne fuoriusciva. A ogni modo, l’esperimento durò appena ventiquattro mesi, e il periodico fu chiuso col pretesto di aver oltraggiato Giacomo Leopardi svelandone (la penna era quella di Alberto Savinio) i peccati di gola, ghiotto com’era di «gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolati», tanto da morire di una «colite che i napoletani chiamano “a cacarella”».

 

Milano 1945, si diceva. È lì che Longanesi decide di concentrare tutti i suoi sforzi su «l’editoria perché di questi tempi ho capito che è meglio non fare nulla che si leghi alla politica». È quella una città che, lasciatosi alle spalle l’impatto iniziale, lo accoglie. Noterà infatti come, a differenza di città smaliziate, quali Roma e Napoli, che sono anche «quelle in cui la gente non si lava, le fogne s’intasano e tutti rubano. Milano ti viene incontro, ti fa fido, ti apre il conto in banca. In compenso, ti chiede soltanto di ammirare Toscanini, di credere all’articolo di fondo di Mario Borsa, di rispondere alle lettere e di essere puntuale agli appuntamenti». Longanesi forse non credeva davvero in queste parole, ma sistemò gli uffici in via Borghetto, nella stessa strada dove risiedeva l’imprenditore Giovanni Monti (padre dello scrittore e giornalista Mario, direttore della casa editrice dal 1956 al 1979) che decise di finanziare l’impresa.

Prima che a Longanesi, i Monti si rivolsero a Elio Vittorini. Con lui stesero un primo programma editoriale, che prevedeva tra gli altri la traduzione di quella cronaca della Rivoluzione russa nota come I dieci giorni che sconvolsero il mondo di John Reed (poi effettivamente pubblicata). Ma divergenze di vedute tra le idee progressiste di Vittorini e le più moderate di Giovanni Monti fecero saltare il banco. Il passaggio dello scrittore siracusano segnò certamente l’aspetto estetico dei futuri libri di Longanesi, perché approfittando di una offerta vantaggiosa acquistò un gran quantitativo di carta color paglierino, facendone così scorta in quel periodo di carenza generalizzata.

Ma, cosa più importante, fu Vittorini stesso a indicare in Longanesi il suo possibile sostituto. E all’intesa con Monti si giunse presto: il primo febbraio 1946 veniva firmato tra le parti il contratto di nascita della Longanesi & C.; come marchio venivano scelti due spadini incrociati, coerenti con lo spirito battagliero e spregiudicato dell’editore.

 

Il logo.


La squadra della casa editrice vedeva la partecipazione di Henry Furst per la letteratura americana, Giovanni Ansaldo e Indro Montanelli per la saggistica. A questi più stretti collaboratori si affiancavano anche altri, tra i quali Emilio Cecchi e Vitaliano Brancati. Ma l’impronta dell’editore è ben visibile, «come quando guardava i manoscritti senza leggerli [...] cancellando qua un pronome, là un avverbio», ricorda Arrigo Benedetti. Secondo Montanelli, Longanesi non leggeva i libri, però sapeva annusarli, e tanto bastava alla costruzione di un vario catalogo la cui produzione si assestava a cinquanta titoli nel 1947. Longanesi fece esordire l’ex prigioniero degli americani Giuseppe Berto pubblicandone Il cielo è rosso– «alla tentazione di lanciare come bardo della Resistenza un ufficiale in camicia nera, non resisto» – e accolse I fascisti invecchiano di Brancati pubblicizzandolo come un libro che affronta con arguzia «la questione dell’essere stati o no fascisti». 

Coerente con la sua visione anti-antifascista, dava alle stampe la collana “La fronda”: «Ogni volume è una breve opera che capovolge le idee ricevute»; non trascurava di pubblicare le memorie dal carcere dell’assassino di Matteotti, Amerigo Dumini, e Una rivoluzione mancata di Camillo Pellizzi, già penna di “Critica fascista” di Giuseppe Bottai.

 

Fu l’editore di Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, e la nascita del romanzo rivela le grandi doti di motivatore di cui Longanesi disponeva: nel dicembre del 1946, passeggiando con lo scrittore, si fece raccontare la trama di un ipotetico romanzo: «Se comincia subito le do un anticipo» disse Longanesi, mostrando così tutta la sua fiducia in un autore che non sarebbe poi mai riuscito a ripetersi in una seconda opera del genere. «Pensare di deludere Longanesi – scrive Flaiano – mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere». E infatti, la consegna del dattiloscritto fu rapida così come la lavorazione redazionale, tanto che le correzioni finali dello scrittore non furono inserite perché già si stava approntando la stampa.

Che fosse Longanesi a tenere il timone non v’era dubbio alcuno: nel caso di Giuseppe Berto all’autore venne celato persino il titolo; egli scoprì di aver scritto un libro intitolato Il cielo è rosso solo entrando in libreria. Peggior sorte toccò ad Arrigo Cajummi: la casa editrice era a corto di carta, ma l’editore non voleva certo bloccare le uscite; ecco allora che ampi e vistosi tagli furono operati sulle bozze di Pensieri di un libertino e, anche in quel caso, l’autore lo apprese solo sfogliando il libro.

 

Per la commercializzazione, la casa editrice diede vita a “Il Libraio”, un periodico che raccoglieva sì segnalazioni e recensioni delle novità longanesiane, ma le affiancava a inchieste culturali e articoli di costume. Vi si possono riscontrare tratti di “Omnibus” soprattutto per l’uso delle immagini. I pezzi erano per lo più opera di Giovanni Ansaldo, affiancato da Emilio Cecchi, Giovanni Comisso, Mino Maccari, Alberto Moravia e altri. L’idea, secondo Montanelli, era delle più argute: «Chi riceve un normale foglio di servizio stampa lo getta: ma quando arriva sulla scrivania una rivista che offre inchieste, notizie nel campo della cultura internazionale, e anche rubriche di notizie curiose, gli occhi ci cadono dentro».

Ma il capolavoro di astuzia commerciale fu riservato alla collana “i Gialli Proibiti”, che a partire dal 1953 venivano distribuiti con le ultime pagine sigillate e la possibilità di essere rimborsati dei soldi spesi se si avesse resistito alla tentazione di aprirle.

 

Il Borghese.


Parallelamente all’editoria libraria, nel 1950 l’editore diede vita a un periodico la cui la cui storia meriterebbe di essere raccontata a parte e più a lungo (come ha fatto Raffaele Liucci nel suo saggio Leo Longanesi, un borghese corsaro tra fascismo e Repubblica). Si tratta di “il Borghese”. «Imparate a disprezzare la democrazia con rispetto», si leggeva nelle locandine pubblicitarie. Anticomunista e critico nei confronti della Democrazia cristiana, che pure invitava a votare, “il Borghese” incarnava lo spirito più bellicoso e al contempo nostalgico del suo direttore, che proprio in virtù di questa vis polemica cominciava a essere, e divenne sempre più, scomodo per la famiglia degli industriali Monti, con i quali il rapporto si andava via via deteriorando.

Nel 1956 Leo Longanesi lasciò la casa editrice acquistando il periodico e prendendo accordi con Rizzoli per la pubblicazione di una nuova collana, il cui marchio sarebbe stato quello di due cannoncini incrociati... Di cui però non conosciamo la gittata: il 27 settembre 1957, a soli 52 anni, il cuore lo tradì nel suo ufficio di via Bigli: «Meglio così, – sembra sia riuscito a dire – tra i miei arnesi».

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Longanesi editore a sessant’anni dalla morte
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Ma allora, qual è il tuo mito?

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Il testo Qual è il tuo mito,  a cura di Susanna Fresko e Chiara Mirabelli, esce da un gruppo di filosofi, psicoanalisti e altri autori che si riconoscono nell'esperienza di ScuolaPhilo. La novità, annunciata dal libro, consiste nella riscoperta della Mitobiografia, termine tratto dall'opera grandiosa di Ernst Bernhard. 

«Nel 1912, all'affacciarsi di un momento storico di estremo disorientamento individuale e collettivo, Carl Gustav Jung si rivolse a se stesso e si chiese con grande drammaticità: “Ma allora, qual è il tuo mito? Quello in cui vivi?”» (dall'Introduzione di Susanna Fresko e Chiara Mirabelli al libro).

 

Sono le righe di apertura. Il 1912, presso la fine del periodo migliore della modernità, quando ancora si credeva che le guerre sarebbero terminate e che l'evoluzione tecnologica avrebbe migliorato la psicologia umana, è l'anno della fine della collaborazione tra Freud e Jung. Si consuma la separazione tra Sigmund Freud e il suo supposto erede, Carl Gustav Jung. Un anno drammatico per entrambi, che, solo qualche anno prima avevano compiuto, insieme al terzo grande fondatore della psicoanalisi, Sandor Ferenczi, il noto viaggio negli Stati Uniti. Da quel momento i tre autori si allontaneranno per prendere strade diverse. Oggi queste strade si incrociano nuovamente. È il tempo della nuova collaborazione e questo libro si pone su queste tracce. Apre la serie dei capitoli del libro Romano Màdera, che discute di cosa sia l’“analisi” a partire dal Libro dei sogni di Federico Fellini e dal rapporto di Fellini con Bernhard, suo analista a Roma. Le considerazioni di Màdera sono, in primo luogo, considerazioni di libertà. 

 

 

Anch'io tra le mie tre analisi (sono grave) ne ho fatta una junghiana. Da quella analisi ho imparato a cercare di vivere il mito in cui vivo, che non è il mio mito. Si tratta del mito della nostra singolarità, non di mitomania. Ricordo la passione con cui durante la notte mi alzavo per scrivere i sogni che stavo facendo, a volte a occhi chiusi, stanza buia, quaderno e matita a portata di mano. A volte bastavano due parole per ritirare fuori tutto il sogno alla sveglia. Imparai che a volte i sogni si confondono, si rimandano l'un l'altro, svaniscono e ricompaiono. 

Màdera, attraverso alcune riflessioni della tradizione ebraica, assegna alla mitobiografia il compito, oggi fondamentale, di un insegnamento non concettuale, come quello dei greci, ma di un insegnamento originario, le toledot, sulle origini, sulle generazioni.

L'intenzione di questa Scuola Mitobiografica è passare dai concetti alla vita. È interessante che, nella sua autobiografia, l'attuale Papa abbia ricordato di avere fatto un'analisi a Parigi con una psicoanalista ebrea, no? Aveva qualcosa da imparare proprio in quel posto.

 

Se Màdera parla del Libro dei sogni di Fellini , Chiara Mirabelli non dimentica quello di Jorge Louis Borges (1899-1986). Ispirata da un articolo di Luigi Zoja, Mirabelli scrive del desiderio originario del bambino di ascoltare storie, che, a loro volta, organizzano la memoria infantile. A volte varrebbe la pena di osservare gli adulti, che forse di memoria ne hanno troppa e non si lasciano più andare ai sogni, mentre i sogni – raccontati all'altrui persona in terapia, in gruppo, a un'amica – ci aiutano a ritrovare la nostra infanzia attraverso processi mnesici inconsci. Ricordo un sogno di fine analisi, successiva a quella junghiana. Questa volta l'analista era una donna, avevo sognato  un luogo che da bambino chiamavo “Fuori d'Aria”, ci andavo a giocare, in campagna. L'analisi fa emergere il materiale inconscio, ma quando si torna bambini, il materiale contiene sempre note gioiose. 

 

Ivan Paterlini torna su quel 1912. È l'anno in cui Jung pubblica Simboli della trasformazione e rompe definitivamente con Freud. Sappiamo come questi conflitti di pubblicazione o di concettualizzazione si erano sviluppati, ma è proprio su quel testo che la psicoanalisi avrebbe dovuto conciliare i “concetti” di Freud, l'interesse per le origini e la vita di Jung e la tenerezza reciproca tra terapeuta e “persona che frequenta la terapia” di Ferenczi e, dopo di lui, di Fachinelli.

«In questi anni, scrive Paterlini, mi sono abituato ad ascoltare e ad ascoltarmi abbandonando, quando mi è possibile, e la relazione analitica lo consente, il primato della finalità cosciente, come la chiama Gregory Bateson...» (Ivan Paterlini, A partire da Jung). Bateson fece un'analisi junghiana e fece alcuni studi su Jung. Penso che, per Bateson, i bambini, che non conoscono la finalità cosciente, hanno qualcosa da insegnarci (“ogni scolaretto sa”). C'è un signore in giro per l'Italia e ora per il Mondo, Luca Santiago Mora, che conosce l'arte di farci apprendere dai bambini.

 

Moreno Montanari parte con un piglio giustamente polemico nei confronti di chi – e in questa post-modernità sono molti – separa rigidamente il logos dal mythos, discutendo, io credo, sia le tesi di certi filosofi iper-razionalisti, che hanno dominato il campo della storia della filosofa negli ultimi anni, sia le filosofie New Age, che hanno dominato il campo della “cultura giovanile” per un periodo. Lo fa ricapitolando gli antichi. Logos deriva da legein, da cui deriva anche il termine legame. Una terapia, senza legame tra le persone che vi partecipano non si dà. Da questo punto di vista,  Gregory Bateson è assai vicino a Jung, il mythosè la vita, le cose così come stanno, ciò che oggi Bruno Latour, sulla scorta di Bateson, chiama ontologia; il logosè la loro descrizione: epistemologia.

Questa distinzione Bateson la riprende, in relazione a Jung, in alcune considerazioni intorno ai Sette sermoni ai morti, opera junghiana pubblicata postuma, ma scritta nei primi anni dopo la rottura con Freud. Bateson sulla scorta di Jung, distingue il pleroma, l'indistinto scorrere della vita, che al contempo avviene alle nostre spalle, dalla creatura, il regno delle differenze che introduciamo nel pleroma quando lo descriviamo. 

 

Si tratta di una distinzione importante, che accomuna questi due grandi autori a Baruch Spinoza. Se la sostanza possiede infiniti attributi, noi abbiamo accesso solo a due: la mente e il corpo, che però si sovrappongono, non giacciono separati: gli affetti, i sentimenti o, per dirla col titolo del massimo estimatore di Spinoza, Goethe: Le affinità elettive.

Un altro esempio di critica alla finalità cosciente lo fa Massimo Diana a proposito del mago della pioggia Kiao Tchou, che quando giunge da un'altra località della Cina, per guarire la siccità si chiude per tre giorni in una casa e, quando esce il quarto giorno, inizia la pioggia. Per il mago la zona era fuori dal Tao e anche lui, giunto là, era uscito dal Tao, gli ci sono voluti tre giorni per rientrare nel Tao: “Allora la pioggia è venuta” ( Massimo Diana, “Tra miti e fiabe, verso una prospettiva mitobiografica”).

Invece Ivan Carlot mette a confronto il Robinson Crusoe di Daniel Defoe con Venerdì o il limbo del Pacifico di Michel Tournier per parlare dell'Altro, inteso come viaggio. Se Karl Marx aveva definito la dimensione del soggetto isolato come una mistificazione borghese, Tournier, dopo avere ironicamente descritto il perfetto carattere borghese inglese, sulla scorta della Cantatrice calva di Eugène Ionesco, ribalta la relazione padrone/servo, come nello Hegel della Fenomenologia dello spirito, mostrando l'inopportunità e i fallimenti del colonialismo. 

 

Per ultima Susanna Fresko, che parte con l'opera di René Kaës, La polifonia del sogno, e dalla frase di  Didier Anzieu: “Il gruppo è come il sogno”, per farci attraversare le tracce dell'alleanza di Abramo con Ado(n)ài, la Sua manifestazione misericordiosa, fino a giungere a Ernst Bernhard. 

Bernhard è di fatto, insieme a Jung e forse più di Jung, il grande ispiratore di questo testo. I riferimenti di questo nuovo corso di studi  sono rivolti a lui, alla sua opera unica, Mitobiografia, iniziata dopo la fuga dalla Germania, nel 1936, che attraversa le sue peregrinazioni, i rischi della deportazione nel campi nazisti, le sue attività cliniche e conferenze. 

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Mitobiografia
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Imprese creative e culturali

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Vi sono le condizioni, in Italia, affinché le imprese creative e culturali, sottoposte all’attenzione parlamentare, proprio in questi mesi, sui modi in cui riformarne la disciplina per valorizzarle, possano influire esse stesse, e per prime, alla qualità della regolazione alla quale saranno assoggettate? Il legislatore del nostro Paese, che si sta meritoriamente ponendo il problema, si accinge a prendere provvedimenti conformi a modelli di politica culturale premeditati e lungimiranti?

 

La domanda e l’offerta regolativa sono cioè destinate a corrispondersi o a mancarsi (se non – peggio – a respingersi)? Per affrontare sensatamente domande del genere occorre prima chiedersi quali siano, in astratto, le tecniche normative utilizzabili, quindi verificare quali strumenti forniscano incentivi senza limitarsi a elargire sussidi; cioè andando davvero al cuore del problema. A mio modo di vedere, come ho sostenuto in un precedente articolo (L’impresa culturale italiana: genio e regolatezza, conta anzitutto e più di altro il saper mettere le imprese culturali in condizioni di autoregolarsi efficacemente. Sicché provo a spiegarmi meglio, ma anticipo che in questa occasione devo per forza prenderla alla lontana e stare sul generale. Non si tratta però di questioni solo teoriche, bensì di impostazioni che hanno una ricaduta pratica letteralmente fondamentale, in primis per gli operatori. Soprattutto perché, quando ne sia stata adottata una, la scelta regolativa risulta pressoché irreversibile, e ha comunque effetti di lungo periodo.

 

È prioritario e preferibile il «dare le regole» – da parte del legislatore, alle imprese culturali – o il «darsi le regole» – da parte delle imprese culturali? Occorre fare entrambe le cose, ovviamente, ma il peso di tali componenti può variare di molto a seconda delle scelte di politica del diritto culturale che si compiano a monte. Cercherò dunque di mappare il terreno di gioco (regolativo). A che scopo? Per ora, limitarsi a prendere atto di quanto numerose siano le variabili in campo e capire, proprio in ragione di tale molteplicità e multiformità di soluzioni, quale sia l’approccio che sia più conveniente seguire.

 

 

La partita è complessa da decifrare e, prima ancora di schierare la formazione, si pone un’alternativa di fondo: si può puntare sul collettivo (il sistema economico – qui, il settore culturale), e si può confidare nel talento dei singoli giocatori (i soggetti giuridici – qui, le imprese culturali). Sia nell’uno sia nell’altro caso è dato optare per tattiche diverse, più o meno difensiviste: nel primo caso, cioè se si agisca sul sistema, sono disponibili soluzioni di carattere palliativo, se si disponga già di una compagine di campioni, e soluzioni di carattere eziologico, se gli atleti abbiano buone gambe ma poca testa. Nel secondo caso, cioè se si punti sui singoli, sono disponibili soluzioni mimetiche, che si adattino alle caratteristiche dei giocatori, e soluzioni ortopediche, che li forzino a seguire un dato schema.

 

Entrambe le strategie possono essere applicate con polso diverso, ottenendo effetti inclusivi od escludenti: assecondando le caratteristiche della squadra a disposizione, per quanto scarsa, pur di non destabilizzare il gruppo; o non rassegnandosi alla «broccaggine» di alcuni e imponendo, in termini più o meno ruvidi a seconda del proprio carattere, il proprio schema organizzativo (e chi non si adegui, perché non vuole o non riesce, si accomodi in panchina). Occorre infine aver chiaro quanta fiducia dare alla vecchia guardia della squadra, trattandola come se fosse intoccabile e da favorire a prescindere – se parlassimo di attività creative, e non sportive, potremmo appellarci all’«eccezione culturale» rappresentata dai nostri campioni nazionali – e allora potranno prevalere le indicazioni di carattere regolamentare, ossia protettive e vincolanti, o di carattere promozionale, ossia tese a mettere in competizione i giocatori (e schierare i «senatori» solo se arrivino preparati alla partita). Già così è una bella gatta da pelare, per l’allenatore.

 

Passiamo alla formazione, che evidentemente dovrà essere composta tenendo conto del modulo che si intenda adottare. 

In primo luogo si può costruire il modulo attorno a talune caratteristiche di gioco dei propri atleti, a discapito di altre: giovane età o esperienza, solidità o velocità, senso tattico od estro creativo; un po’ come se, nello scenario culturale, prendessimo a cuore le attività esercitate da soggetti pubblici o grandi società di capitali, o invece da dinamiche imprese innovative, o, ancora, da hub e cooperative giovanili. I moduli di gioco possono poi indirizzare il movimento della squadra in senso tendenzialmente verticale od orizzontale – e a trazione anteriore o posteriore – come in ambito culturale accade quando si prendano provvedimenti calati dall’alto della filiera (top-down), o si cerchi di alimentare la creatività dal basso (bottom-up), e si confidi negli effetti di rete. La regia del gioco, infine, può essere affidata a singoli giocatori, o essere condivisa da un più nutrito nucleo di centrocampo; come quando si intenda valorizzare le eccellenze di imprese creative singolarmente considerate, o invece si intervenga a favore di insiemi affiatati di imprese (distretti industriali, gruppi e consorzi, sistemi metropolitani).

 

In secondo luogo bisogna decidere come fare applicare gli schemi di gioco. Se voglia che le proprie dritte siano stringenti, il mister si potrà servire di strategie imperative – cioè tassative, a pena di perdere il posto – o dispositive – cioè applicabili discrezionalmente, ma nel rispetto di uno schema prefissato – in entrambi i casi potendosi indurre comportamenti in campo, ma prima ancora in allenamento, più o meno collaborativi od egoistici. Come accade altresì nelle partite culturali, se chi dà le regole tenga ad avvantaggiare la trasmissione e la condivisione del talento e delle idee, o invece a valorizzarne la segretezza e l’esclusività. In tutti i casi gli incentivi sono determinanti: per invogliare buone prestazioni l’incentivo può assumere la forma di un premio-partita (sussidio diretto, che incentiva l’offerta culturale).

 

Ma la società sportiva può guadagnarci anche portando più spettatori allo stadio – indipendentemente dalla bontà della squadra – abbassando il prezzo dei biglietti o rendendo gradevole l’accesso e i servizi connessi all’evento (in tal caso il sussidio è indiretto, e incentiva la domanda culturale). 

In terzo luogo – ma le squadre forti sanno che occorre cominciare da qui, per costruire un ciclo di successo – non ci si può limitare a colpi di mercato di fine stagione, con ottica di breve periodo, ma occorre fertilizzare la creazione la diffusione di conoscenza e saperi, nella forma della loro trasmissione intergenerazionale e della loro condivisione tra pari; d’altronde, si sa: la classe è acqua. Parliamo insomma, su tutti i terreni, di nutrire il vivaio, coltivare le scuole di ogni arte, le palestre del mestiere, premiare le eccellenze senza dimenticare che è sempre il collettivo a fare la differenza, che è solo il bel gioco che fa appassionare i nostri figli, e che una vittoria ottenuta in uno stadio blindato, di una periferia degradata, non è certo un successo.

 

Come vogliamo affrontare le prossime partite? Personalmente posso parlare solo delle singole imprese, e delle loro squadre (reti cognitive, hub innovativi, distretti culturali), in termini giuridici. Posto che non esiste uno schema di gioco, cioè un modello organizzativo, valido per tutte, e forse proprio per questo, occorre darsi delle priorità regolative. Io credo che, volendo legiferare avendo a cuore le sorti di lungo periodo delle imprese creative, la soluzione preferibile risieda anzitutto nel concentrare l’attenzione sulla dimensione privatistica e capitalistica in cui esse operano, dato che l’impresa commerciale è il mezzo economico che media meglio tra proprietà e controllo, senza per questo – si badi – dover essere necessariamente lucrativa, né, all’opposto, esercitare per forza la propria attività nel settore (e secondo le regole) del nonprofit. In altri termini, tornando al principio: al disporre statuti speciali è preferibile il creare le condizioni affinché le imprese culturali possano autoregolarsi ed esprimere al meglio il proprio talento (ma senza improvvisare), valorizzare la propria unicità schierandosi in squadre in cui si divertano e che le arricchiscano, integrando l’eccezionalità culturale nell’ordinarietà di un lavoro meritorio e profittevole. Vi sarà occasione, prossimamente, per riprendere il discorso da qui – fuor di metafora però – e cominciare a giocare davvero.

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Una politica culturale premeditata e lungimirante?
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Il perturbante e la bellezza

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Unheimlich schön

Nel 1919, all'indomani della prima guerra mondiale che fu occasione di grandissima paura reale e concreta, Sigmund Freud scrisse un saggio dal titolo Das Unheimliche (Il perturbante, in Sigmund Freud, Opere, a cura di Cesare Musatti, trad. it. modificata di Silvano Daniele,Torino, Bollati Boringhieri, vol. 9, 1977, pp. 77-114) che molti conoscono, qualcuno no. In quel testo Freud elencava otto cause di paura irrazionale presenti nel campo estetico, osservando anche che fino a quel momento poco l'estetica si era curata di tali sentimenti «repellenti e penosi», preferendo occuparsi del bello, del sublime e dell'attraente. 

 

Nel saggio del 1919 Freud esponeva otto cause di ciò che intendeva con l'aggettivo unheimlich: unheimlichè ciò che causa la paura irrazionale, non scatenata da minaccia reale, come di catastrofe naturale, per  esempio; una paura senza oggetto, che si sottrae alla ragione. Le otto cause sono:

 

1) oggetti inanimati scambiati erroneamente per animati (bambole, oggetti di cera, pupazzi, automi, membra isolate) = quando qualcosa che non sia vivente si rivela troppo simile a ciò che è vivo;

2) oggetti animati che si comportano come se fossero inanimati (fenomeni di trance, follia, attacchi epilettici...);

3) cecità o perdita degli occhi (il “mago sabbiolino” di Hoffmann che strappa gli occhi ai bambini);

4) il doppio (gemelli, sosia e Doppelgänger etc.);

5) coincidenze e ripetizioni (es. l'imbattersi più volte nello stesso giorno nello stesso fenomeno);

6) essere sepolti vivi in stato di morte apparente (cui alcuni attribuiscono la palma del perturbante);

7) un genio maligno che controlla ogni cosa;

8) confusione tra realtà e immaginazione (sogni ad occhi aperti ecc.) = quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile.

 

 

Come si vede, lo Unheimlichesè un sentimento che nasce in ciò che è familiare e ordinario ma poi ci disturba, ci fa venire i brividi, provoca Unbehagen, disagio, per usare un'altra parola freudiana. Ma attenzione alla specificità del fenomeno, che non è legato a ogni tipo di paura: un assassino che spunta fuori da un angolo buio in un film dell'orrore non è unheimlich, perché la paura che il pubblico prova è perfettamente razionale e naturale. Così lo sono molte paure dei nostri tempi: anche se la loro valutazione può essere e spesso è sproporzionata agli esiti, non sono unheimlich la paura del terrorismo, dei cambiamenti climatici e degli attacchi ai sistemi informatici, che costituiscono secondo analisi recentissime le tre paure più diffuse sul pianeta. 

 

Unheimlich dunque è propriamente ciò che inserito in un testo estetico (in un testo scritto come in un'opera visiva o uditiva o altro) istilla una inspiegabile ansia, un disagio, una dissonanza cognitiva che monta fino a snervarci. Freud che era Freud aveva una spiegazione per tutto ciò: queste situazioni ci impauriscono perché ci ricordano sistemi di credenze represse e rimosse: o provenienti dall'infanzia, quando credevamo che bambole e pupazzi potessero venire alla vita, o a stadi primitivi dello sviluppo umano, dove si immaginava per esempio uno spirito gemello che ci avrebbe accompagnati in vita e in morte. Il rimando a queste idee inespresse e represse, attraverso un oggetto o un evento di uno dei tipi elencati, provoca un brivido di riconoscimento contro il quale la nostra mente si rivolta. Come è noto, Freud e il suo  compagno psicoanalista Ernst Jentsch, che aveva scritto un saggio Zur Psychologie des Unheimlichen già nel 1906 (nella «Psychiatrisch-Neurologische Wochenschrift» 22, 1906, pp. 195-205), tracciarono l'elenco delle Unheimlichkeiten a partire dal racconto del 1816 di E.T.H. Hoffmann Der Sandmann («Il mago sabbiolino»).

 

Non riscostruiremo tutta la nozione anche perché non siamo psicoanalisti ma diremo che centrale ad essa è la casa, che è il luogo principale della minaccia, come la casa è del resto ciò che dà luogo e struttura a tutta la topica della psicoanalisi freudiana, dove es, io e superio formano i piani dell'anima come i piani di un condominio, come rappresentato nel notevole romanzo Tre Piani di Eshkol Nevo (tr.it. Vicenza, Neri Pozza, 2017). L'aggettivo sostantivato che Freud usa per definire queste sensazioni è das Unheimliche, letteralmente il «non-di-casa». Ma è veramente fuori dalla casa? No, in realtà sta ancora lì, giace dentro la casa, sotto la casa, sepolto sotto la pesante architettura di abitudini e credenze. 

 

Ora, i traduttori che si trovarono alle prese con questo termine lo resero in italiano con perturbante, in francese con inquiétante étrangeté, in inglese con uncanny, in spagnolo con ominoso (dal latino omen, portentoso, minaccioso, inquietante) o con siniestro e fermiamoci qui. Notiamo soltanto che i termini francese e spagnolo sottolineano il fattore inquietante e straniante, mentre l'inglese uncanny insiste più sull'aspetto del mistero nel senso di «qualcosa-di-sconosciuto», un-canny (da can, to know how, in tedesco kennen). L'italiano perturbante punta invece sul tema del turbamento, dal latino turba, a sua volta dal greco tỳrbe=disordine, confusione, scompiglio e in senso figurato alterazione dell'animo, dove il prefisso per offre la connotazione intensiva. Il risultato di tutte queste proposte di traduzione, così diverse, è però identico: la casa scompare e la sua centralità si dissolve. Tutto ciò parallelamente alla diffusione del concetto il quale, dopo un periodo di calma e silenzio che durò, per quanto riguarda l'arte, fino agli anni '70 del Novecento,  entrò con violenza e virulenza nel vocabolario estetico fino a divenire un «master trope», come è stato definito (v. Martin Jay, The Uncanny Nineties, in «Salmagundi», 108, 1995, p. 20). 

 

Oggi, ai tempi della rete, viviamo, pare, in un'epoca decisamente unheimlich proprio in relazione al significato originario dei casi freudiani: i giochi elettronici e internet offrono sempre più opportunità di duplicarci, con profili FB, Second Life avatars, Flikr accounts, per non parlare dell'opportunità di vederci sdoppiati nei furti di identità e di indirizzi elettronici, come quando ci vediamo recapitare messaggi provenienti dal nostro stesso indirizzo. Ci si può chiedere se le nuove tecnologie, con la loro confusione tra reale e virtuale, animato e inanimato, producano nuove forme di Unheimlichkeit o semplicemente rivestano di nuove fogge vecchi modelli o archetipi. In questo caso insistere sul doppio, il sosia, per applicarlo a qualsiasi fenomeno – sosia, gemelli, bambole, automi e robot sullo schermo o di materiale solido – significa rimanere nell'ambito della categorizzazione freudiana. Di fatto però quello che si fa da tempo è estrapolare il termine e il concetto di unheimlich/perturbante per applicarlo a qualsiasi realtà o fenomeno; per quanto riguarda specificamente l'opera d'arte, si cerca di comporla in modo che essa diventi unheimlich, susciti sensazioni di Unheimlichkeit, così che l'opera stessa, pur partendo da una condizione di familiarità e casalinghitudine, faccia venire i brividi e provochi disagio, sorprendendo negativamente. 

 

Dunque ci si allontana dai motivi freudiani, di cui talvolta non si è nemmeno più consapevoli, ma per andare dove e cercare che cosa? La sorpresa accompagnata da disagio e inquietudine, lo choc, per usare il linguaggio di Benjamin, il coup che genera attenzione e non lascia indifferenti. Anche se brutto. Anzi, meglio se brutto, perché non ti lascia tranquillo e torna sempre a tormentarti con la sua bruttezza, che talvolta ti tocca incrociare tutti i giorni perché incarnato in un'opera [d'arte] davanti alla quale devi passare senza scampo quotidianamente. Importante, pare, è che l'opera non provochi indifferenza ma attenzione, anche se accompagnata da imbarazzo e malessere, nonché sorpresa, quella cosa che ti prende sopra, da super-prehendere, o che ti assale come l'incubo, che si siede sopra di te nel sogno (lat. in-cubare) e ti opprime il respiro. Che ti stupisce nel doppio significato del thàuma greco, meraviglia e sgomento, fungendo da catalizzatore estetico.

 

Agli inizi di settembre mi trovavo a Cortona per la settimana della ETH di Zurigo e ho potuto vedere dal vivo, nel Museo Diocesano di Cortona, alcune opere del Beato Angelico tra cui l'Annunciazione del 1430 ca. Che è sorprendente, sorprendentemente bella. È unheimlich schön senza bisogno di essere «repellente e penosa», unheimlich. Il sentimento che suscita è lo stupore, il sentimento che lascia stupiti e attoniti come, dice la parola, scossi da fragor di tuono (dal lat. ad-tonare, tuonare). Stupisce e lascia attoniti con la sua bellezza, scuote e prende sopra, il dipinto del frate pittore. Non è perturbante ma non è nemmeno rasserenante perché la bellezza non è in sé pacificante e serena, anzi. Ne è una splendida testimonianza la tragedia, la tragedia greca per esempio, che colpisce e sorprende e stupisce con la sua bellezza. Gli eventi che presenta sono terribili e orribili anche perché non hanno soluzione – che è ciò che definisce la tragedia – ma la loro rappresentazione è anch'essa unheimlich schön. Non perché sia unheimlich, «repellente e penosa», ma perché è terribilmente bella, molto bella, bellissima.

 

Ora, nessuno vuol tornare ai concetti di bellezza legata al buono, al giusto e al vero come in alcune forme del pensiero antico e in sue sporadiche riprese. E neanche all'idea che la bellezza abbia il compito di suscitar virtute e canoscenza, o che la bellezza debba far pervenire alla conoscenza tramite la passione, ai mathémata tramite i pathémata. La bellezza non ha da essere armonia rasserenante – anche se incidentalmente può esserlo, perché no – ma nemmeno perturbante bruttezza. Certo che il prodotto estetico può e forse anche deve essere dissonante, conflittuale e discordante, e soprattutto emozionante nel senso di non lasciare indifferenti. E può anche essere unheimlich e in qualche modo è sempre unheimlich in un senso nuovo però, perché è ciò che si produce fuori dalle mura di casa, entro le quali si provvede soltanto al necessario delle cose della vita, e l'arte va oltre i bisogni della sopravvivenza primaria (anche se pure questo non vale sempre e per tutti). Anzi, se è unheimlich schön l'opera è bella, bellissima in quanto non-di-casa, proprio essendo unheimlich

 

Relazione nell'ambito del Workshop sul Perturbante che si svolgerà domani 29 settembre 2017 al Monte Veritàpromosso dal Museo Comunale d'Arte Moderna di Ascona.

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Ascona Arte e Perturbante
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La finzione e la mente

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Nel dialogo tra cultura umanistica e cultura scientifica, sempre accidentato nonostante i proclami e le petizioni di interdisciplinarietà, una diffidenza speciale è generata dai segnali di fumo che arrivano dalla vasta e frastagliata provincia delle neuroscienze. Lo studio della mente a partire dalla mappatura del cervello del resto promette una radicale ridefinizione del “problema umano”, e si colloca su una frontiera biopolitica lungo la quale è in corso una negoziazione tacita ma feroce del divenire dell’intera specie, e non solo degli individui. La vigilanza, dunque, da parte di chi ha finora preso in carico l’immagine umana (gli umanisti, appunto) è necessariamente alta, le tensioni inevitabili e, nei casi virtuosi, perfino salutari. Soprattutto perché servono a non dimenticare che la scienza tende a proporsi come discorso descrittivo neutrale, ma sempre nasconde un potere normativo.

 

È una pratica che dà forma al vivente, non si limita a constatarlo, e la sua pretesa oggettività, le sue evidenze sperimentali, vanno continuamente sottoposte a verifica, particolarmente nel momento delle generalizzazioni. Tuttavia, l’influenza che negli ultimi decenni hanno esercitato gli approcci culturalisti e costruttivisti ha forse reso la comunità umanistica ipersensibile ai rischi del riduzionismo e agli spettri del determinismo biologico. Spesso le proposte ermeneutiche che tentano di guardare agli oggetti culturali attraverso la lente del funzionamento mentale vengono vagliate con sospetto, e generalmente risospinte verso le loro stesse premesse: ciò che gli approcci neurocognitivi tentano di dare per acquisito, mettendolo momentaneamente tra parentesi (l’importanza dei contesti storici, la variabilità culturale, le eredità della tradizione critica), viene continuamente riconvocato come il resto decisivo che invalida ogni ipotesi. Il ricorso al noto limita l’esplorazione dell’ignoto, e le possibilità interpretative vengono accolte focalizzando l’attenzione su ciò che rischiano di togliere, più che su ciò che potrebbero aggiungere

 

La resistenza tuttavia non è che il rovescio di una crescente, inevitabile attrazione: tra le testimonianze più recenti, e più aggiornate, il volume di Michele Cometa che mette a sistema una serie di assunti all’incrocio tra darwinismo culturale, neurocognitivismo, revisioni della narratologia in chiave cognitiva. Se Cometa offre un’introduzione alle teorie più accreditate a livello internazionale, e tenta di mediarne i contenuti per renderli disponibili all’analisi letteraria e culturale, un altro studioso versatile che lavora da anni su questa galassia di temi, Stefano Calabrese, mostra la teoria in atto, utilizzando un lessico e un fare critico che strappano traumaticamente con la koinè critica nazionale, nel tentativo di saltare euforicamente le diffidenze e risolvere nella pratica il veto implicito che rallenta la teoria.

 

Senza mai entrare nella contrapposizione polemica tra neuroscetticismo e neuroentusiasmo, Calabrese pratica un esercizio controfattuale, e scrive come se i sintagmi del cognitivismo fossero già parte integrante della grammatica critica italiana, come lo sono in ampie zone del mondo anglofono. Non c’è funzione di mediazione quindi, di compendio o di introduzione, nel suo trattare le teorie neurocognitive, ma un iniettarle direttamente nel corpo vivo dell’analisi letteraria e culturale. Dopo aver curato nel 2009 un volume dedicato alla Neuronarratologia (Archetipo, 2009), in cui da prospettive diverse si tentava di comprendere ciò che le storie fanno con la mente, e ciò che la mente può fare con le storie, nel 2013 Calabrese ha pubblicato Retorica e scienze neurocognitive (Carocci), un piccolo “trattato” di neuroretorica che tentava di dislocare sulla mappa delle funzioni cerebrali l’organizzazione linguistico-concettuale che fonda il pensiero occidentale, e rende possibili tutti i discorsi. 

 

Il lavoro più recente di Calabrese affonda radicalmente in un groviglio di domande essenziali che l’analisi cognitiva ha il merito di rimettere al centro dello studio dei processi creativi: che cosa significa l’arte, e la narrativa in particolare, per l’esistenza umana? Che tipo di presa ha sui nostri corpi e sul loro agire sociale? Perché è importante, in che modo lo è, e perché e come dovremmo continuare a usarla? La fiction e la vita. Lettura, benessere, salute (Mimesis, 2017) “dimentica” le risposte che a queste domande ha dato la tradizione umanistica, per rappresentare l’arte come pratica necessaria alle forme di vita della specie umana, definendo l’interazione profonda, fisiologica tra il complesso corpo-mente e l’esercizio immaginativo. Non si tratta di leggere per educarsi, per diventare, genericamente o metaforicamente, “persone migliori”: si tratta, si potrebbe dire brutalizzando lo stile argomentativo di Calabrese, di nutrire il cervello di storie per indurlo a produrre più mielina, la struttura che lubrifica le fibre nervose e rende più efficienti le connessioni neurali. 

 

 

A partire dal suo radicamento cognitivo e neuronale, la narrazione rappresenta una tecnologia fondamentale, probabilmente decisiva per l’evoluzione della specie umana. Per homo sapiens comprendere la realtà, e quindi abitarla, significa simulare scenari possibili, ovvero: inventare storie. La finzione è fin dalle origini un laboratorio per lo sviluppo delle competenze cognitive complesse. L’essere umano ha da sempre proiettato trame sulla realtà, popolandola di personaggi dei quali era necessario comprendere le intenzioni, prevedere le azioni. L’immaginazione è sempre stata al potere: «se si dovesse dire cosa è più imprescindibile per la vita», scrive Calabrese, «non c’è dubbio che l’inesistente avrebbe un ruolo preponderante su ciò che esiste». Parafrasando il motto giovanneo caro a Leopardi, in quanto esseri umani preferiremo sempre la finzione alla realtà. Perché così è fatto il nostro cervello: immaginare l’inesistente è ciò che ci rende umani. 

 

L’arte serve a vivere, letteralmente. E questa affermazione diventa visibile in tutta la sua concretezza negli utilizzi terapeutici della narrazione descritti da Calabrese in uno dei capitoli conclusivi: praticare il racconto aiuta a ricostruire il sé quando un trauma lo ha mandato in pezzi; lo apre al mondo quando un deficit neurocognitivo lo rende impermeabile, come nei casi di autismo; può dargli continuità quando si sta disperdendo a causa di un processo di decadenza neurodegenerativa. 

 

La predisposizione biologica alla narrazione modella la struttura delle forme culturali: i grandi racconti che si sono affermati come patrimonio immaginativo dell’umanità sono il frutto di un adattamento bioculturale all’ambiente, in un processo co-evolutivo in cui i manufatti immateriali aderiscono alle predisposizioni cognitive degli individui, e allo stesso tempo le esercitano, le potenziano, le riformano. Seguendo da vicino il neodarwinismo culturale di Bryan Boyd e del suo suggestivo On the Origin of Stories. Evolution, Cognition, and Fiction (The Belknap Press, 2009), Calabrese può reinterpretare, ad esempio, la complessità neurocognitiva dell’epos omerico, che racchiude una sorta di traccia fossile della maturazione della corteccia prefrontale: sulla scena umana compaiono per la prima volta la rappresentazione di processi decisionali complessi, la proiezione di scenari concorrezionali sui quali esercitare il calcolo predittivo, un sistema, emergente nel vettore che va da Achille a Odisseo, di inibizione delle emozioni primarie. Odisseo diventa un «eroe neocorticale», ovvero l’eroe dello sviluppo delle facoltà cognitive “superiori”, riconducibili ai circuiti neurali situati appunto nella neocorteccia. 

In questa stessa prospettiva è possibile comprendere anche il successo di alcune narrazioni contemporanee che hanno fatto presa sull’intera popolazione mondiale, come la saga secreta dalla fantasia bulimica di George R.R. Martin, e dell’equipe creativa che lavora con e intorno a lui: Game of Thrones. Un gigantosauro narrativo che, nelle sue diverse declinazioni mediali, ha conquistato l’ambiente antropico proprio perché le sue caratteristiche stilistiche si adattano ad alcune predisposizioni cognitive originarie (la riconoscibilità di pattern ricorrenti e di elementi isomorfi nel groviglio percettivo, la capacità di evidenziazione di potenti nuclei di senso che funzionano da attrattori, l’iperbole come strumento di catalizzazione dell’attenzione), e perché rappresenta una risposta immaginativa ad alcune delle più conflittuali pressioni psichiche del presente: i vincoli atavici rappresentati dalla saga funzionano da cicatrizzante contro la disgregazione sociale; la modellizzazione genealogica risponde a una domanda di orientamento identitario, sostituendo all’infinita apertura del possibile, generatrice di ansia, le strettoie della necessità.

 

L’approccio cognitivo e neodarwinista offre strumenti ermeneutici che possono sbloccare il rapporto conflittuale e antagonistico tra arte colta e arte di consumo, grandi produzioni mainstream e ricerca, popolarità e complessità. Calabrese infrange con disinvoltura il tabù moderno che vorrebbe separate, opposte e incompatibili arte “ispirata” e arte commerciale, collocando invece mainstream e highbrow in un campo scalare, e in un sistema di spinte e controspinte ugualmente significative e necessarie all’arricchimento cognitivo. Nella vertigine dell’ambiente comunicativo attuale, nella savana interconnessa e ipersemiotica che attraversiamo quotidianamente, le narrazioni mainstream hanno conquistato un livello di densità semantica che rispecchia e riproduce la complessità e la molteplicità degli “stili cognitivi” richiesti dall’esistenza contemporanea. Basti pensare alla raffinatezza raggiunta dall’universo della narrativa seriale: il valore qualitativo di questo tipo di prodotti rischia di restare impercettibile agli strumenti di rilevazione critica tradizionali, fondamentalmente vincolati dalla logica d’avanguardia dello “scarto in avanti”, mentre emerge con grande evidenza alla luce di un’analisi neurocognitiva. La narratività diffusa che interseca il nostro mondo, ma non gli si sovrappone mai completamente, contribuisce secondo Calabrese a una sorta di “educazione cognitiva” avanzata: l’universo finzionale si istalla nel mondo attuale come un mondo possibile sempre a disposizione, nel quale chi legge e guarda può entrare continuamente per esercitare le facoltà mentali più complesse, a cominciare dal mindreading, la lettura e interpretazione di processi mentali diversi e indipendenti dai propri, che è il presupposto fondamentale per lo sviluppo dell’empatia e dell’intelligenza emotiva. Esponendoci a sollecitazioni psichiche radicali, in uno scenario liberato da ogni vincolo realistico, e quindi svincolato dalle limitazioni del quotidiano, a riparo dai costi e dai rischi impliciti nella sperimentazione di situazioni estreme, usiamo le storie come uno strumento di orientamento cognitivo, un laboratorio dell’esperienza, non diversamente da quanto facevamo nelle caverne all’origine del nostro processo evolutivo. 

 

La presa esercitata dalle narrazioni di successo si spiega quindi con la loro adesione a dei moduli emotivo-cognitivi primari, che assecondano la narratività naturale del cervello umano. Su questo funzionamento di quelle che Monica Fludernik ha definito natural narratives (Towards a “Natural” Narratology, Routledge, 1996), narrazioni semplici che aderiscono alle facoltà cognitive fondamentali, si innesta poi un processo di elaborazione che conduce alle forme narrative cognitivamente più complesse, fino ai racconti apertamente “anti-naturali” e apparentemente disfunzionali, che si impongono nella letteratura sperimentale e “d’autore” almeno dal romanticismo in poi. Eppure, anche le narrazioni neurotrasgressive, che funzionano per straniamento e negazione delle attese, che violano, invertono o bloccano il flusso narrativo naturale, sono cognitivamente motivabili, soprattutto perché garantiscono un continuo riorientamento della percezione dal noto all’ignoto, e garantiscono la capacità di continuare a pensare la differenza, reagendo così alla mutabilità dell’ambiente.  

Lo stesso Calabrese, proprio mentre in La fiction e la vita indaga le ragioni di interesse delle narrazioni mainstream (e alla Anatomia del bestseller ha dedicato un altro libro recente, pubblicato nel 2015 da Laterza), nel suo La letteratura e la mente. Svevo cognitivista (Meltemi, 2017), che con La fiction e la vita forma quasi un dittico, mostra alla luce delle teorie neurocognitive la densità conoscitiva di un’opera radicalmente d’autore come quella di Svevo, e più in generale di un’arte apparentemente controintuitiva come quella del modernismo europeo. La dissoluzione modernista del romanzo naturalista, infatti, mentre continua a rispondere in modo nuovo ad alcune predisposizioni cognitive permanenti e profondamente radicate, registra gli adattamenti psichici richiesti dalle mutazioni del contesto storico. È l’aumento della complessità semiotica del sistema comunicativo all’inizio del Novecento, infatti, a generare l’esplosione di “mondi controfattuali”, spesso puramente mentali, a cui si assiste all’interno del racconto modernista. Come ricercando a ritroso un punto stabile dal quale osservare il mondo in trasformazione, Svevo si trasferisce nella dimensione mentale, che si rivela però non il luogo di decifrazione di una realtà univoca, ma una camera di incubazione di realtà concorrenziali. Il cervello diventa l’unico mondo abitabile, proprio mentre si scopre che nel cervello avviene un processo di trasfigurazione del reale che rende il mondo esterno inagibile. L’ipercognitivizzazione inibisce ogni possibilità di azione: così nasce l’uomo senza qualità del romanzo novecentesco, l’anti-eroe che anziché operare sul reale, mostra i processi di interazione tra il reale e la mente. L’inibizione è il prezzo da pagare per poter scendere in profondità e scattare un’istantanea del funzionamento mentale che non era mai stata così nitida e realistica, e in grado di registrare i traumi connessi al trasferimento della vita nel mondo infinitamente mediato di inizio secolo, dominato da vertiginosi blending concettuali di ambiti diversi, e da una sistematica intermodalità sinestetica che ibrida i linguaggi e rimescola i sensi. 

 

Le proposte ermeneutiche che provengono dal darwinisimo culturale si presentano come compressioni vertiginose di fatti apparentemente distanti e irrelati, che forse avrebbero bisogno, per essere integrate nella lingua della critica culturale, della costruzione di una scala di mediazioni più sfumate, di una rappresentazione più distesa dell’articolarsi lento della biologia in cultura, dei loro punti di innesto frastagliati e molteplici. Ma la capacità di Calabrese di creare associazioni e sovrapporre domini concettuali lontanissimi fa balenare idee generali affascinanti, che hanno soprattutto il merito di rimettere fulmineamente l’arte e le pratiche simboliche al centro della storia umana profonda, nel senso della deep history che indaga i processi evolutivi all’origine della formazione della mente umana. Effetto paradossale di questo presunto neodeterminismo: in tempi di marginalizzazione dei saperi umanistici, in un mondo sempre più violentemente amministrato dalla tecnica, sottolineare il fattore evolutivo dell’immaginazione è già una possibile piattaforma politica, che può utilizzare la scienza per rovesciare i paradigmi dominanti. 

Al di là di ogni retorica nuovista, lo studio del cervello ci trascina davvero, noi che ci riteniamo custodi dell’immagine umana, nel campo di ciò che non sappiamo, con la perentorietà di cui è capace la scienza. Un posto in cui stiamo scomodi e ci sentiamo a disagio, ovvero siamo nelle condizioni ideali per produrre conoscenza e, perché no, conflitto. È il posto estraneo nel quale ci proietta Calabrese nel suo visionario, futuristico congedo, in cui immagina un essere umano trasformato in biolibro vivente, medium biotecnologico che registra ed elabora gli stimoli della mente-corpo, li fa interagire con quelli provenienti dall’ambiente, e li combina in un racconto simultaneamente narrato e vissuto che continuamente aumenta la realtà. Difficile dire se si tratta di una previsione accurata (ma è recente la notizia della registrazione digitale di un film nel genoma di una popolazione di batteri). Più facile prevedere che chi si occupa del “problema umano” sarà chiamato a scegliere tra stare nel campo ignoto in cui questa e altre possibilità vengono discusse, quindi prendere parte ai conflitti attraverso i quali l’essere umano viene rimodellato, oppure auto-esiliarsi nel noto e condannarsi all’irrilevanza. Contribuire a scriverlo, il biolibro del futuro, oppure lasciarselo inscrivere addosso. 

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I labirinti della percezione di Vargas

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Il teatro è colto tramite i sensi, tramite la mente, o tramite l’azione congiunta di sensi e mente? È il problema epistemologico fondamentale e decisivo sollevato da Il filo di Arianna di Enriques Vargas, fondatore e padre poetico della compagnia Teatro de los Sentidos. Per parlare con una maggiore precisione, si tratta, anzi, di una questione labirintica. Quale che sia la pista che viene percorsa per rispondere alla domanda, ci si imbatterà, infatti, più in sentieri interrotti, in lunghi corridoi aperti e oscuri, ma soprattutto in una perdita completa del proprio orientamento. Vargas costituirà in questa sede un interlocutore per cercare di procedere con minore paura nel labirinto del teatro. Col suo aiuto, forse si potrà forse impostare le basi per capire un giorno qualcosa su questa strana, giovane e ancora misteriosa arte.

 

La risposta più semplice e lineare alla domanda di apertura è senza dubbio quella che il teatro si coglie tramite i sensi. Non è del resto, questo, oggetto di un “vedere”? L’etimologia stessa di teatro deriva dal verbo theaomai, che è appunto legata più di frequente alla sfera della vista, di ciò che cade sotto gli occhi di una piccola o vasta moltitudine di persone, radunatesi per assistere a uno spettacolo. Oppure, non è forse il teatro un’esperienza che bisogna piuttosto “udire”? Gli attori elaborano costruzioni ritmiche che solo le orecchie possono udire, in quanto organi deputati a distinguere la successione e la scansione dei suoni nel tempo. Discorsi analoghi si potrebbero fare anche per il gusto, per l’olfatto e per il tatto, che tuttavia sono usati molto meno dagli artisti rispetto a vista e udito. Parlando in maniera necessariamente più astratta e generica, poiché il discorso ci porterebbe altrimenti troppo lontano, il teatro può essere colto da questi tre sensi quando un attore induce uno spettatore, ad esempio, a cogliere coi sapori un’esperienza dimenticata (in modo simile alla celebre Madelaine di Proust), ad avvertire con gli odori che cosa accade nell’intimo di chi emana quel profumo, a ricavare col tatto una relazione profonda con il corpo di un’altra persona, abbattendo così il muro comunicativo che si frappone tra “me” e questo “altro”.

 

Monet, Ponte giapponese.


Il filo di Arianna di Vargas mette però in guardia dalla facile risposta che sia la pura sensazione a mettere in contatto con la bellezza dell’arte teatrale. Ciò può sembrare un’affermazione paradossale o persino errata, quando riferita a un artista fondatore di un “teatro dei sensi”. Eppure, il punto emerge in modo piuttosto chiaro dalla semplice circostanza fisica in cui è calato lo spettatore dello spettacolo di Vargas. Esso si trova collocato nell’oscuro e silenzioso labirinto di Minosse, ricreato appositamente nelle sale del Centro Culturale Il Funaro di Pistoia. Ora, il contatto con il buio e con il silenzio comporta, nello spettatore coinvolto, una sospensione di vista e udito: il teatro nello spettacolo di Vargas non passa, pertanto, per il tramite esclusivo di questi due sensi. Ma una sorte migliore non arride nemmeno a gusto, olfatto, udito, che pure sono usati generosamente e con delicatezza in Il filo di Arianna. Vi sono momenti in cui essi dominano il mondo sensoriale dello spettatore.

 

È quanto accade, ad esempio, quando quest’ultimo è invitato da un’attrice a percorrere un corridoio oscuro usando solo le mani, ossia immaginando che «gli occhi sono ora nella punta delle tue dita». Altrettanto frequenti sono però i momenti in cui si esce di nuovo e all’improvviso dal buio alla luce, oppure dal silenzio totale a una giungla di suoni. Se il teatro fosse percepibile semplicemente tramite i sapori, gli odori e il tatto, essi sarebbero stati le sole guide dello spettatore all’interno dell’intricato labirinto di Vargas. Ma ciò non è accaduto, e forse è giusto che sia così.

In Vargas, l’occhio viene in tal modo volutamente accecato, e le orecchie volutamente assordate. Gusto, olfatto e tatto sono usati, di contro, per creare varchi inediti nella percezione, e tuttavia non esauriscono l’esperienza del teatro. Non vi è senso che può pertanto coglierlo da solo, per quanto affinato e acuto esso sia.

 

Dalì, Gioco lugubre.


Forse però potremmo ancora continuare a dare alla domanda “tramite cosa si coglie il teatro?” la risposta “la sensazione”, dando una risposta meno grossolana e più precisa. Il teatro non è questione di mera percezione, ma di percezione integrale. Poiché nessun senso isolato basta ad addentrarsi nel labirinto del teatro, allora è la collaborazione e l’armonica alternanza di vista, udito, gusto, olfatto, tatto a permetterci di seguirlo e di trovarvi, alla fine, un’uscita alla luce del sole.

 

Anche questa pista si rivela, però, fallimentare in ultima istanza. Si riprenda, a tal proposito, l’invito dell’attrice a immaginare che «gli occhi sono ora nella punta delle tue dita». Dire che questo è un semplice invito a usare al tempo stesso due sensi (= la vista accecata, il tatto) sarebbe falso e riduttivo. Anzitutto, l’indicazione è data attraverso il linguaggio, quindi per il tramite di un canale che passa materialmente attraverso l’udito, eppure comunica istruzioni alla mente e alla volontà. Va poi aggiunto che immaginare che «gli occhi sono ora nella punta delle dita» non è soltanto un’esperienza sensoriale. È una sinestesia, ovvero un processo percettivo di tipo poetico, in cui un senso si contamina con un altro, mediante l’apporto della mente e della volontà. Bisogna pensare e voler vedere con il tatto, o almeno toccare come se si vedesse, non semplicemente toccare a occhi chiusi. Il punto è che, in assenza della mente o della volontà e di attori che hanno il preciso intento di istruirle, il teatro non si potrebbe dare e i sensi non sarebbero spronati ad andare (poeticamente) oltre i propri limiti innati.

 

Questa considerazione ci spinge allora ad abbandonare la prima ipotesi (“il teatro si coglie tramite la sensazione”) e a valutare il suo opposto. Forse è la mente a riuscire a coglierlo. I sensi costituirebbero, pertanto, solo una condizione necessaria per un’attività mentale speciale. Le visioni, i suoni, i sapori, gli odori e le sensazioni tattili di uno spettacolo si limiterebbero a “risvegliare” le possibilità latenti della mente, che nella pigra vita di ogni giorno si adagia, invece, su abitudini e percorsi consolidati. In linea di principio, si potrebbe addirittura supporre che la sensazione sia necessaria solo per noi. La mente di un dio – ammesso che esista, o che esista e faccia qualcosa – sarebbe forse in grado di attivare questi processi mentali speciali, senza lo specifico apporto dei cinque sensi.

 

La soluzione non può però risiedere nemmeno qui. In senso proprio, la mente astrattasi dalle impressioni dei sensi coglie cose davvero particolari: proposizioni, concetti, nessi causali, la verità e la falsità di enunciati sul mondo, o cose elaborate e astratte di tal genere. Ma il teatro può prescindere da tutte queste cose, anzi potrebbe addirittura essere danneggiato dalla loro presenza, più che dalla loro assenza. Torniamo, infatti, al caso de Il filo di Arianna di Vargas. Uno dei materiali poetici a cui il suo spettacolo si ispira è la dimensione dalla nascita. Tutto il labirinto è costellato da riferimenti a essa: i corridoi stretti e bassi che lo spettatore è costretto ad attraversare gattonando gli offrono, ad esempio, la lampante impressione di passare un condotto uterino e di venire, di lì a poco, al mondo, tra le braccia della madre. Ora, nell’usare questo materiale poetico, Vargas non ci dice nulla intellettualmente su cosa sia la nascita in sé. Non ci illustra, mediante proposizioni o concetti o simili, quali siano le cause della generazione e della corruzione, né se nascere sia un bene o un male o un indifferente. Noi proviamo, con Il filo di Arianna, qualcosa di analogo all’esperienza dalla rinascita. E anche ignorando intellettualmente che cosa siano i due eventi, il teatro è comunque avvertito. La mente è dunque un requisito necessario per esperirlo, ma non lo strumento chiave definitivo.

 

Pollock, Murale (1943).


Resta aperta la terza e ultima opzione. Forse il teatro è colto tramite l’azione congiunta dei sensi e della mente. Le considerazioni svolte prima circa l’esperienza sinestetica dell’immaginare che «gli occhi sono ora nella punta delle dita» alludono al fatto, del resto, che una qualche relazione deve instaurarsi tra sensazione e intellezione. Anche la constatazione che almeno la mente umana (forse non quella divina, se c’è) abbia bisogno dei sensi per poter operare in maniera speciale sembra indicare che è proprio qui che va cercata una soluzione al problema oggetto di questo studio. Ne segue, forse, che l’esperienza del teatro sia realmente un’esperienza sinestetica. È, forse, un processo guidato dalla mente che, tuttavia, non cerca concetti o la verità / la falsità di alcuni enunciati sul mondo, bensì consente di guidare e affinare i sensi in direzioni percettive inedite.

 

Vi è però un’ulteriore difficoltà, che Vargas solleva proprio all’inizio de Il filo di Arianna. Lo spettatore è introdotto sulla scena dello spettacolo dopo essere stato preparato da due attori. Tra i gesti da loro usati, va menzionato almeno l’atto di porre un piccolo specchio sotto il mento dello spettatore, che ha l’effetto di fargli credere che sotto di lui vi è il soffitto e sopra di lui il pavimento, dunque di disorientarne la percezione, per poi introdurlo nel primo cunicolo del labirinto. Per dirla in termini immaginifici, lo spettatore è introdotto dai due attori in un sogno: in una condizione psichica in cui i processi mentali e sensoriali ordinari sono alterati. Mantenendo la debita cautela, si può tentare di aggiungere, inoltre, che ciò che Vargas fa non è altro che esplicitare quello che avviene ogni volta che si va ad assistere a uno spettacolo. Chiunque accetti e partecipi al gioco scenico si cala in un sogno a occhi aperti, divenendo così pronto a recepire le immagini di intensa e irreale bellezza che vengono lì evocate.

 

Ora, quando si sogna accade che i confini tra sensi e intelletto vengano di colpo abbattuti. Le loro operazioni si confondono, tanto che si potrebbe dire che il sognatore vede quel qualcosa che pensa con la mente (per esempio, un gatto con le ali) e, al tempo stesso, crede con la mente di vedere questo stesso qualcosa (appunto, che un gatto con le ali esiste e vola di fronte a lui). La conseguenza di tale abbattimento di confini è che non è più possibile dire che sensi e intelletto entrino in una relazione particolare, quando ci immergiamo nell’esperienza teatrale. Queste nostre due parti semplicemente diventano una cosa sola, sicché il meccanismo di avvertimento del teatro – che pareva essere risultato comprensibile – ritorna di nuovo inesplicabile. Infatti, con questo paragone col fenomeno onirico, si ripete sotto altra forma la tesi che il teatro si coglie tramite una forma di percezione integrale, ossia si ricade in tutte le difficoltà prima ricordate.

 

Kush, Ripples on the Ocean.


Il fatto che l’esperienza del teatro accada e che molti di noi possano dire di averla attraversata almeno una volta è, insomma, una cosa che nessuno (neppure il più scettico) può mettere in discussione. Ma perché avvenga, con quali strumenti si fa sì che avvenga e quando avvenga appare ancora essere un mistero, seppure l’ipotesi sinestetica risulti essere la forma fors meno approssimativa per spiegarlo. Essa costituisce un notevole caso di “dotta ignoranza”.

La conclusione teoretica di tutto questo discorso potrà apparire di certo assai deludente: che cosa sia il teatro e come lo si colga, non lo so. Né ho ancora incontrato un pensatore o un artista – vivo o morto, non importa – che sia riuscito a spiegarmelo, incluso lo stesso Vargas. La storia del teatro e il suo sviluppo tuttora in corso sono un’accozzaglia di fallimenti nel praticare un’arte che non si conosce, o si coltiva in modo ancora troppo poco lucido. Da tale impasse conoscitivo, può forse derivare, però, una conseguenza etica ed estetica positiva.

 

Forse è proprio in questa assenza di lucidità e di perdita temporanea di sé che il teatro manifesta la sua virtù somma. Nella condizione onirica che esso genera, la nostra sensazione e la nostra mente si liberano per un attimo di tutto ciò che è pesante, superfluo, gretto, divenendo così più leggere e sensibili alla bellezza. Troppa riflessione fa male, quando si vuole avere a che fare con la poesia del teatro. Meglio allora accogliere la condizione di serenità che i sogni ricamati dagli attori riescono a procurare, senza pretendere di capire tutto subito. Il fallimento della riflessione costituisce, allora, un passo necessario per abbassare le proprie resistenze mentali e per svuotarsi l’anima, lasciando emergere uno stato di gioioso entusiasmo.

Ciò vale, in ultima analisi, anche per lo stesso lavoro Il filo di Arianna. Usciamo dal labirinto di Vargas ancora più ignoranti e incerti di prima. Ma ci sentiamo, al tempo stesso, più sereni nella percezione e nel pensiero del bello, oltre che pieni di sentimenti di riconoscenza verso gli amici attori e le amiche attrici, che ci hanno fatto per un momento il regalo del gioioso abbandono a uno stato di sogno vigile.

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Sinestesie teatrali al Funaro
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Sette tesi sulla magia della radio

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I libri scritti da chi fa la radio di solito sono delle biografie, o dei romanzi. E di solito, quando li leggi, ci rimani male, un po’ come quando finalmente incontri il tuo conduttore radiofonico preferito al supermercato e pensi: “beh, però, pensavo meglio”. 

Il libro di Massimo Cirri – Sette tesi sulla magia della radio (Bompiani, 2017) – è sia una biografia che un romanzo, ma scritto in forma di saggio “leggero”, o, come avrebbero detto nella radio degli anni venti, “saggio radiofonico”. E in questo caso non c’è delusione, perché a leggerlo (308 pagine di formato ristretto) fa l’effetto di sentire una puntata di Caterpillar, noto talk show di Radio2 creato da Sergio Ferrentino insieme a Massimo Cirri nel 1997 e oggi condotto da Cirri e Sara Zambotti. Per chi ama Caterpillar – di solito sono una setta di fedeli che si ritrovano ogni anno a Senigallia e si sposano pure tra di loro – leggere il libro di Cirri è un po’ come sentirne la voce, il ritmo, le battute. Il testo ha i tempi del suo parlato alla radio, lo riconosci subito, ne senti in testa la pasta vocale che ti accompagna da anni mentre torni a casa in auto.

 

Ma questo libro non piacerà solo ai fanatici di Caterpillar, questo libro è per tutti quelli che tutti i giorni accendono la radio e soprattutto per tutti quelli che non lo fanno, che non sanno cosa si perdono. Questo libro potrebbe convincere tutti quegli studenti svogliati che ho avuto nel tempo e che non sono riuscito a convertire all’ascolto della radio, per i quali la radio era solo un sottofondo. 

Il libro di Cirri forse potrebbe convincere gli studenti che la radio non è morta, perché ha un senso ascoltarla, e addirittura potrebbe farli appassionare a una cosa noiosissima come la storia dei mezzi di comunicazione di massa. Quando in classe parlavo di come era nato il broadcasting facevo sempre una gran fatica. Quando parlavo di David Sarnoff e della sua idea del radio music box, ovvero gli albori dello sfruttamento commerciale del mezzo radiofonico, tutti sbadigliavano. Cirri invece trasforma la storia di David Sarnoff, il telegrafista che ricevette l’SOS dal Titanic e che poi sarebbe diventato uno degli uomini più influenti della storia del broadcasting statunitense, in una storia romanzesca, che dura giusto il tempo di un blocco di parlato tra una canzone e l’altra. Ogni capitolo del libro è come un blocco di “parlato” all’interno di una scaletta di un programma radiofonico e ogni blocco corrisponde a una magia della radio, descritta in forma di racconto o di mini-episodi tratti dalla storia della radio. 

 

 

La storia della prima radio libera d’Italia, ideata da Danilo Dolci nel 1970 per catturare l’attenzione del governo sulla lentezza della ricostruzione seguita al terremoto del Belice, diventa un piccolo racconto epico sull’importanza di dare voce a chi non ha mai avuto voce. Questa è la storia che gli invidio di più, perché ogni volta che la affrontavo a lezione per spiegare come si era infranto il monopolio della Rai sulla radio, vedevo volti sbadiglianti e telefonini che si alzavano come barricate. Era sicuramente colpa mia, che gli snocciolavo la storia come una medicina da prendere per poter passare poi a cose più contemporanee, ma forse era anche un problema di linguaggio. Se potessi tornare indietro, racconterei loro la vicenda storica di Radio Sicilia Libera usando le parole del libro di Cirri. 

 

Il libro contiene altre micro-storie di radio che si leggono come un romanzo, come la vicenda del deejay americano Scott Muni, che dai microfoni di Wnew-FM si mise a negoziare con Cat Olsen, il sequestratore/rapinatore di banca protagonista del film Quel pomeriggio di un giorno da cani

Ma queste storie, insieme ai momenti più “saggistici” del libro, in realtà svelano qualcosa di più personale, ed è per questo che prima ho parlato di libro biografico pur essendo un libro con pochissimi riferimenti biografici: il libro parla del modo di fare radio di Cirri e di Caterpillar (e ancora prima del modello a cui si ispira Caterpillar, ovvero Borderline e altri programmi della Radio Popolare di Milano degli anni ottanta e novanta). E questo modo di fare radio ha una caratteristica particolare: non è broadcasting, non è “a freccia unica. Da una parte chi parla, dall’altra chi ascolta” (Danilo Dolci), ma è una radio che si fa insieme agli ascoltatori. Il libro racconta uno specifico modello di radiofonia, in cui gli ascoltatori sono protagonisti e si conoscono attraverso la radio. Ascoltatori che chiamano al telefono, che pagano un bene gratuito come la radio pur di sostenerla (il caso dell’abbonaggio di Radio Popolare, ancora oggi una delle magie più strane della radiofonia italiana), che si fanno sposare da Cirri e Solibello, ascoltatori che si prestano a fare da inviati e corrispondenti esteri che fanno invidia ai grandi giornali, ascoltatori che rompono le scatole, sempre, ma che non sono solo una presenza fantasmatica o numerica negli indici d’ascolto. 

 

Con questo saggio leggero, in forma di flusso radiofonico, Cirri riesce nella magia di parlare di Caterpillar e dei suoi vent’anni di radio (solo considerando Radio Rai) senza quasi mai nominarlo, ma pescando dalla storia della radio quegli episodi che insieme compongono il ritratto di un mezzo socievole, sociale, che tiene insieme le persone, “trasloca l’intimo nello spazio pubblico”ed è capace di ridurre le distanze, come quella volta che a Caterpillar chiesero agli ascoltatori in coda in auto di uscire, bussare al finestrino dello sconosciuto autista in coda come loro e offrirgli un caffè “perché se ascolta Caterpillar non può essere un maniaco sessuale”. Quei due ascoltatori sconosciuti, divisi da due finestrini ma casualmente ritrovatisi in coda uno accanto all’altro, hanno poi continuato a vedersi. Ne è nata un’amicizia, forse qualcosa di più. L’ascoltatrice non lo dice al telefono. Ma è andata davvero così. La radio è stato il primo social media della storia.

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Il primo social media della storia
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Sentieri lenti

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Continua l’intervento di doppiozero a sostegno del Progetto Jazzi, un programma di valorizzazione e narrazione del patrimonio culturale e ambientale, materiale e immateriale, del Parco Nazionale del Cilento (SA).

 

«Mi attenevo in questo all’esempio dei viandanti che, smarriti in una foresta, non devono andare in giro errabondi, ora in una direzione e ora nell’altra, o, peggio che mai, fermarsi da qualche parte, ma devono camminare sempre diritto, per quanto è possibile, in una direzione, e non cambiarla senza un buon motivo … ». La seconda regola della morale provvisoria di Cartesio obbedisce anch’essa ai criteri suggeriti dal metodo; quest’ultimo (letteralmente, la via, odos, per) indica il cammino ottimale, segue il percorso più breve, come fa esemplarmente la traiettoria della luce. La Razionalità classica e la sua strategia dell’efficacia rispondono ad un principio di economia: è questo, ha osservato Michel Serres, il fondovalle (talweg) della cultura della modernità. Si tratta di risparmiare tempo, di conseguire il risultato massimo con il dispendio minimo, di procedere velocemente verso l’uscita dall’oscuro labirinto, dalla tenebrosa foresta dell’ignoranza. La via metodica si muove nell’uniformità di un deserto: riduce a zero le deviazioni, ricaccia nell’insignificanza le differenze, fonti di distrazione. Il metodo segue gli estremi, procede per massimi e minimi: accoglie soltanto quanto è così chiaro e distinto da non poter essere messo in dubbio, divide le difficoltà nelle parti più piccole possibili, segue l’ordine delle ragioni più semplici, compie le enumerazioni più complete.

 

Questo spazio omogeneo delle ragioni era già stato tracciato sulla sabbia del deserto dove Talete, ricorrendo all’ombra, misurò l’altezza delle piramidi: spazio delle similitudini, dove le stesse cose si ripresentano quando lo si divide a metà o in parti sempre più piccole. È lo spazio in cui la freccia si dirige inutilmente verso il bersaglio, dove Achille insegue in eterno la tartaruga; lo stesso spazio in cui Calvino voleva rendersi irraggiungibile, nascondendosi nella continuità della retta. Ma lo Zenone del nostro tempo, della nostra geometria post non-euclidea, abita varietà molteplici, ripiegate, dove l’operatore di variazioni non è la semplice divisione, è semmai il clinamen lucreziano, la deviazione infinitesima. Il nostro spazio-tempo non è il foglio bianco o la lavagna, è una varietà piena di buchi, di nodi, di pozzi ed ombelichi, di singolarità e punti di catastrofe, di curve di von Koch dalla dimensione frattale. Viviamo spazi topologici più simili al comporsi variegato di un paesaggio che non allo spazio vuoto delle traiettorie lineari della meccanica classica: colline e anfratti, svolte improvvise e salite scoscese, dove il passo e lo sguardo incontrano ostacoli, altrettanti vincoli che impongono o suggeriscono di procedere con lentezza. Le norme universali del metodo valgono dove il locale si limita a riprodurre il globale, ma non ci aiutano a percorrere un paesaggio:

 

Anna Enrica Passoni

 

la varietà differenziata dei luoghi costringe a divergere, circostanze impreviste impongono un cammino che asseconda le condizioni del terreno e le variazioni meteorologiche. Non un metodo, ma una randonnée, suggerisce Michel Serres. Nell’antico lessico della caccia, correre a randon significa seguire la corsa irregolare della selvaggina, mutare spesso direzione perché la bestia, con salti bruschi e imprevisti, cerca di depistare la muta dei cani. E se l’inglese attribuisce oggi a randon il significato di caso, il francese ha conservato in randonnée il senso del vagabondare, dell’erranza pronta a dare ascolto alle rapide metamorfosi delle nuvole.

 

Anna Enrica Passoni

 

Ulisse non poteva seguire una via metodica per tornare ad Itaca: le meteore, i giochi delle correnti, i cattivi paraggi, mille vincoli gli impedivano di procedere linearmente. L’abile marinaio è costretto al piccolo cabotaggio, a stare sotto costa per evitare venti contrari, ad andare un po’ al largo per lasciarsi trasportare dalla giusta corrente, ad ormeggiare lontano dal canto delle Sirene e dalle seduzioni femminili. Ulisse, polymethes, dalle molte astuzie, gioca con i vincoli che turbano il cammino, tiene conto del momento giornaliero o stagionale, è costretto a una rotta sinuosa, quasi mai la più breve: scopre così terre ignote che può cartografare, entra in porti sconosciuti prima (Kavafis). L’odissea è un esodo: non quello che giunge alla terra promessa attraversando il deserto, ma quello suggerito dall’etimo, il cammino seguito si stacca (ex-odos) dalla via scelta, qui e là, localmente, scarta rispetto alla norma. Ulisse si sottomette alle fluttuazioni dei flutti, del mare e del vento, scivola fra i turbini di Cariddi e Scilla, resta bloccato in porto per assenza di vento, subisce il fascino di attrattori strani. L’ordine del suo percorso si fa intreccio, gnommero, di cammini imprevedibili, come accadeva ai naviganti in cerca del passaggio a Nord-Ovest, fra il Nord del Canada e l’Artico; essi dovevano attendere il momento propizio, quando nei ghiacci si aprivano varchi, incerto tempore incertisque locis (diceva Lucrezio del clinamen), che nessuna carta poteva indicare, e il percorso era ogni volta da inventare.  

 

Sull’oceano possono scatenarsi le intemperie, ma la nave prosegue lungo la sua linea diritta o la sua geodetica. Colombo non ha bisogno di deviare dalla sua rotta percorrendo la monotona semplicità dell’alto mare; i vincoli o le variabili sono ridotti a meri dettagli quando si attraversa l’oceano, feroce ma governabile. Quando si naviga invece su mari stretti, dal mareggio corto, fra le mille variabili dell’Egeo o del Mediterraneo, la chiglia può sbattere su scogli sommersi o frangersi sulla costa frastagliata, sospinta da venti impetuosi. La randonnée di Ulisse richiede più astuzia di quanta ne occorra sulla via per le Indie: correre al riparo di una baia foranea per sottrarsi al vento, doppiare un capo prendendolo a distanza per sfruttare le correnti. Andare diritto vorrebbe dire fare naufragio. La rotta di Ulisse è una maglia di fili intrecciati dove i capricci di venti, onde e correnti disegnano turbolenze, vortici di circostanze, singolarità locali. L’abilità di manovra impone mille svolte, l’invenzione di espedienti per gestire cambiamenti improvvisi: è questa l’intelligenza del gubernator, l’antico maestro della cibernetica di Wiener. È questa la ratio che nasce navigando sul mar Mediterraneo, la stessa del contadino che contende la terra all’erosione dei venti e delle onde, ai rovesci del tempo: intarsio di luoghi modellati dalle brezza, terrazze strappate allo scivolamento del terreno, lotti singolari che la salinità infetta o che il sole inaridisce. Le circostanze formano i luoghi: lungo le coste, le grotte sono abitate da divinità capricciose, all’interno, fra boschi e orti, altri geni popolano i paraggi.

 

L’epoca dei grandi viaggi prepara il terreno su cui si edifica la modernità: varcare gli oceani lungo archi di grandi cerchi, uscire dalla foresta seguendo una linea retta senza scorgere il ramo d’oro, equivale a gettare nell’oblio, a dissolvere, l’abito d’Arlecchino del paesaggio, annullare il locale nel globale universalizzato. Nello spazio reso omogeneo dal governo di un unico dio, la Ratio lineare scopre leggi valide per ogni latitudine: «Chi avrebbe potuto credere, nel corso dell’Antichità, all’esistenza di una legge universale, quando nessun ulivo si torce allo stesso modo e nessun colpo di vento assomiglia a quello della vigilia?» (Michel Serres). La mappa della modernità è lo spazio cartesiano, bianco e privo di curvature, dove le uniche differenze sono quantitative: possiamo così tracciare traiettorie senza ostacoli, nel vuoto in cui valgono le leggi della dinamica newtoniana. La mappa non è il territorio, si sa; ma qui la mappa cancella il paesaggio, insieme ai luoghi che il politeismo pagano faceva brulicare di differenze. Il pagus latino, circoscrizione rurale a cui era affidata la manutenzione di strade e beni comuni, boschi e pascoli, era anche luogo di culto, talvolta trasformato in pieve nell’epoca cristiana. Il paesaggio era pagina di pagine, esuberanza di differenze non sconfitte dalla reductio ad unum; e viaggiare fra i sentieri dell’orto o nell’intrico del bosco poteva riservare più sorprese che una navigazione verso l’Oriente esotico o lungo le rotte degli spazi siderali. 

 

E se fosse il paesaggio il modello che meglio illustra la complessità del reale? Oggi lo si può leggere attraverso le formalità astratte della geometria qualitativa dell’anesatto, grafi e catastrofi, frattali e nodi; e le varietà della topologia (topos, il luogo appunto, in origine analysis situs) non ignorano la ricchezza della molteplicità sensoriale. Possiamo così trovare nuovi equilibri tra il mondo ed il luogo, tra il cosmo e il focolare, dare sostanza al sogno del Roland Barthes de La camera chiara (e di Calvino) di una mathesis singularis, una scienza del singolo oggetto. La modernità ha inseguito il suo paradigma nell’astronomia: nello spazio cosmico, contenitore uniforme, si disponeva il sistema del mondo, centrato o in espansione verso l’infinito.

 

E se fosse la geografia il nostro nuovo paradigma? La geografia in senso letterale, scrittura della terra su di sé, ricorda Serres: sono le cose stesse a lasciare impronte le une sulle altre, a scrivere sulle pagine del mondo, prima che lo facciano gli umani, i contadini su tutti. Trascinate dai torrenti e dal loro peso, le pietre incidono le rive e disegnano il fondovalle, il vento erode le coste, il ghiaccio spezza gli alberi: le cose disegnano il proprio intarsio sulla carne del mondo. Chi scrive? L’acqua, la neve, il granito, il sole, scrivono sul marmo, sulla flora e la fauna, riempiono la terra di rughe. Il paesaggio così disegnato forma orologi che misurano l’usura del tempo, s’ingombra di ricordi, colleziona monumenti, ed ogni luogo è portatore di memoria. La geografia precede la storia, ricordava Fernand Braudel, e la condiziona: la geografia, scienza dura delle cose dure, abita il tempo inteso come durata; la storia, successiva e leggera, comincia con la scrittura, incisione del dolce (soft) sul duro (hard), e apre l’epoca del Verbo/logos. Lo spazio euclideo e cartesiano, universo omogeneo della comunicazione, governato dalle leggi universali della scienza, si fonda sullo spazio topologico dell’abitante, habitat concreto dove si stringono relazioni di vicinanza, carico dell’esuberante ricchezza dei dettagli qualitativi.

 

La randonnée riconosce i luoghi e assembla i pagi, seguendo un cammino intricato, di svolte, pause e digressioni; il locale ha contorni indefiniti, la sua singolarità incontra frontiere e ostruzioni, punti di singolarità dove brulicano in folla narrazioni che portano memoria di passate circostanze. Le mappe tracciate da una ragione riconciliata, che sa connettere il globale al locale, conservano la topologia fine di luoghi molteplici, dove terre seminate, vigne, alberi da frutto si mescolano ai profili delle case. Un pensatore dalla cultura ibrida, Yi Fu Tuan, in cui le tradizioni della Cina antica convivono con la modernità degli Stati Uniti, invita a “sentirsi a casa nel cosmo”, a promuovere l’ideale di un focolare cosmopolita, di un universalismo saturo di differenze. La topophilia, l’amore per il luogo, riconcilia il chiaroscuro avvolgente della prossimità del familiare (sede di Hestia, la dea del focolare), e lo spazio potenzialmente illimitato, dai confini sfumati, su cui transita Ermes, il messaggero angelico.

 

Il cammino esodico attraverso il paesaggio richiede lo sguardo attento del camminatore che sa apprezzare le virtù della lentezza. Passata l’infanzia di lunghe camminate dove era il corpo intero ad immergersi nei luoghi, passata l’adolescenza in bicicletta dove allo sguardo si aprivano scorci ignoti, campi di grano e filari di gelsi, profili prealpini e visioni di borghi in collina, la mia generazione ha conosciuto il paesaggio dai sedili del treno e delle automobili. Dalla postazione stabile, che non richiede sudore né dispendio energetico, osserviamo immagini scorrere sullo schermo. Anche nelle vesti di turisti siamo entrati nel mondo della rappresentazione: di un paese conosciamo i frammenti conservati dalle foto scattate nei momenti di sosta del viaggio. Bergson ricordava che “mille fotografie di Parigi non sono Parigi”: l’esperienza di una passeggiata nella città non potrà mai venirci restituita dalla successione discontinua delle cartoline dei luoghi da cui siamo passati: la continuità del vagabondare è carica di tonalità affettive, la sua durata è arricchita di emozioni e fascinazioni estetiche. Percorrendo l’autostrada o sul treno ad alta velocità, concediamo un occhio distratto allo spettacolo del paesaggio, ma non è solo lo spazio che scorre di lato a divenire fuggitiva parvenza, è anche il presente (quello che la saggezza della lingua fa equivalente al dono) a fuggire via. O meglio, il presente viene sottratto alla continuità del tempo: «l’uomo curvo sulla sua motocicletta è tutto concentrato sull’attimo presente del suo volo; egli si aggrappa ad un frammento di tempo scisso dal passato come dal futuro […]; è fuori del tempo; in altre parole, è in uno stato di estasi; in tale stato non sa niente della sua età, niente di sua moglie, niente dei suoi figli, niente dei suoi guai, e di conseguenza non ha paura, poiché l’origine della paura è nel futuro, e chi si è affrancato dal futuro non ha più nulla da temere. La velocità è la forma di estasi che la rivoluzione tecnologica ha regalato all’uomo». Quando l’uomo delega il potere di produrre velocità a una macchina, il suo corpo è fuori gioco, la velocità a cui si abbandona si fa immateriale: si produce così uno «strano connubio: la fredda impersonalità della tecnica e il fuoco dell’estasi» (Milan Kundera).

 

Per guadagnare tempo e giungere alla meta, dobbiamo tralasciare quel che resta ai margini del cammino, della vita diritta e diretta che abbiamo scelto. Nella guerra contro il tempo, i vincitori non sanno quello che perdono. Così, quando entriamo in una foresta o in un bosco, non è solo la vastità dello spazio e la difficoltà di trovare riferimenti a turbarci, è anche l’esperienza di una durata che non si misura sulle clessidre delle nostre esistenze. «Le foreste portano la firma del tempo e dell’eternità», ha scritto Holmes Rolston III, uno dei massimi interpreti dell’etica ambientale statunitense; esse consentono d’incontrare un tempo grandioso, un passato (pre)storico, di valutare su di una scala che non ha rapporto (ratio, appunto) con le nostre abitudini e pratiche. È l’esperienza della lunga durata, non quella della storia, ma quella del tempo della vita sulla Terra: “a memoria di rosa, non è mai morto un giardiniere” (Fontenelle). Milioni di anni sono stati necessari al cammino evolutivo per organizzare il complesso ecosistema che consente agli alberi di stringere “contratti naturali” con i capricci dei venti ed il variare delle stagioni, di trovare accordi di reciproco vantaggio con gli insetti ed altri animali, di coabitare nella reciproca tolleranza, nella temperanza, come diciamo di certi climi.

 

Una foresta è un museo della storia del mondo: gli alberi sono le statue scolpite da un tempo ancestrale ed incantato, un bosco porta dentro di sé il senso del fiorire della vita. Siamo usciti dalla foreste, ricordava Vico, ma non abbiamo smesso di perpetuare il sogno originario di Gilgamesh, distruggere le foreste per strappare alla natura il segreto della rinascita. Gli alberi evocano la genesi persistente della vita fra le tracce del suo de-perire, l’emergere fugace della bellezza sopra il caos e nell’informe. Ma l’esperienza estetica che possiamo vivere camminando in un bosco è prossima più al sublime che non alla bellezza in senso kantiano. Non siamo spettatori immobili che osservano, a distanza, quadri incorniciati appesi alle pareti; gli oggetti non sono messi in posa, in scena, per coglierne l’identità, l’essenza definita nell’istante che si vuole eterno. Vagando in un bosco, l’intero corpo partecipa ad un’esperienza multisensoriale, non solo visiva; l’intelligenza corporea ci offre sensazioni cinestetiche, avvertiamo i muscoli in azione, ci coordiniamo nello spazio, siamo sensibili al passaggio dall’ombra al sole della radura. A differenza del motociclista, l’uomo che cammina o corre a piedi è sempre presente al proprio corpo, notava Kundera; è costretto a pensare continuamente alle vesciche, all’affanno, avverte il proprio peso e la propria età, ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita.

 

L’ingresso nella foresta risveglia l’emozione originaria di fronte alla wilderness, alle forze grandiose e selvagge: spettacolo spaventoso e attraente, numinoso e tremendo, esperienza primordiale del sacro, nei boschi e fra gli alberi ebbero sede i primi dei, e le cattedrali non faranno che riprodurne l’architettura. Ed anche ora che gli dei hanno abbandonato la terra, che la scienza ha prodotto il disincanto del mondo, il bosco conserva il suo fascino perturbante e il suo alone di mistero: siamo in grado di spiegare i processi complessi che presiedono alla biochimica dell’ecosistema forestale, ma questo non cancella il senso di una religione senza trascendenza, la religio che ristabilisce i legami del nostro essere con il tutto, che riconnette, nel senso di Bateson, la nostra esistenza a quella dell’intera biosfera. Nell’esperienza di inoltrarsi nella foresta, lo spirito rousseauiano di Henry David Thoreau riscopriva i tempi lenti della natura selvaggia, ritrovava il senso di una continuità di vita per la quale la nostra memoria scritta non dispone di segni. Tanto più intensa la memoria quanto più ci affidiamo alla lentezza: la velocità si paga con l’oblio, quando cerchiamo di recuperare un ricordo sfuggente, la saggezza del corpo ci induce a rallentare. Il tempo del camminatore scopre i vantaggi del pensiero che asseconda il ritmo naturale di quella macchina lenta che è il nostro cervello. Un’altra vergogna prometeica ci riempie di frustrazione per l’incapacità di emulare la velocità degli strumenti digitali, di quella tecnologia soft della comunicazione che si fonda sulla leggerezza dei bit senza peso; ogni ramo della scienza, diceva Calvino, sembra dimostrare che il mondo si regge su entità sottilissime, i messaggi del DNA, gli impulsi dei neuroni, i quarks, i neutrini vaganti nello spazio dall'inizio dei tempi..., materialismo informatizzato che rinnova l’atomismo antico.

 

Kundera lamentava la scomparsa di quegli eroi delle canzoni popolari che se ne andavano a zonzo e dormivano sotto le stelle; con loro, sono scomparsi i sentieri nei campi, i prati e le radure, in una parola la natura stessa. Un proverbio ceco definiva il loro vagabondare ozioso con la metafora «contemplare le finestre del buon Dio»: felicità concessa a chi sa apprezzare il piacere della lentezza.

 

Nelle future Lezioni americane, dopo la leggerezza, non potremmo assegnare un posto alla lentezza invece che alla rapidità? 

 

 

Per approfondire:

 

Milan Kundera, La lentezza, Adelpgi, 1995

Harrison Robert Pogue, Foreste, Garzanti, 1999

Holmes Rolston III, “L’esperienza estetica delle foreste”, in La bellezza di Gaia, a cura di R. Peverelli, Medusa, 2007

Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1985

Michel Serres, “Metodo e randonnée”, da Les cinq sens, Grasset, 1985 (traduzione in Riga 35, a cura di G. Polizzi e M. Porro, Marcos y Marcos, 2015)

Michel Serres, Préface, Des ensembles à la singularité, in Paysages des Sciences, Le Pommier, 1999(traduzione in Riga, op. cit.)

Michel Serres, Il mancino zoppo, Bollati Boringhieri, 2016

Yi Fu Tuan, Il cosmo e il focolare, Eleuthera, 1996

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Scatola magica: i 100 anni de La Rinascente

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Ripensando alla Milano del boom economico, origine di quella di oggi, mi pare che sia stata percorsa contemporaneamente da due flussi, spesso destinati a mescolarsi. Da una parte, con la piena occupazione, è il luogo dove è nata l’alienazione del lavoro di fabbrica e negli uffici, evocata così bene ne Il posto (1961) di Ermanno Olmi e nella Ragazza Carla (1960) di Elio Pagliarani, dall’altra la città come occasione di affermazione della propria individualità (maschile e femminile), rompendo le catene della famiglia, le maglie strette dal paese e del controllo sociale della comunità. Un punto di sintesi è forse La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi, un libro che denuncia lo smarrimento individuale e collettivo di quegli anni, quasi una sbronza quotidiana.

 

Il Luciano emigrato a Milano per far saltare in aria il Pirellone e vendicare i minatori morti in una miniera della Maremma è, nella realtà, premiato dal successo editoriale, dal film che Carlo Lizzani trasse dal libro e dall’offerta di scrivere per il Corriere della Sera, organo ufficiale di quella borghesia che il protagonista sente come avversario ‘naturale’. 

Per dirla con Giovanni Verga, dall’Unità d’Italia Milano è sempre stata “la città più città d’Italia” e nel suo firmamento brilla, insieme al Teatro alla Scala, alla Pirelli e al Pirellone, all’eredità politecnica di Leonardo, allo star system della moda e al design fucina dell’Italian style, la stella della Rinascente di cui quest’anno si festeggiano i 100 anni con mostre (Milano e Chiasso) e relativi cataloghi. L’azienda non ha conservato un proprio archivio, se non in proporzioni modestissime, e le mostre hanno dovuto soprattutto attingere a fondi di privati e di altre istituzioni per ricostruire la storia del più grande magazzino italiano.

 

Se si dovessero riassumere cent’anni in un solo episodio la scelta dovrebbe forse andare al Natale 1959: travolto dalla febbre degli acquisti il personale del grande magazzino deve sbarrare gli ingressi per il flusso ininterrotto di clienti alla ricerca dell’ultimo regalo. La Rinascente è in quell’istante l’epicentro del boom economico, della faticosamente raggiunta modernità italiana e della rivoluzione dei consumi che si irradia attraverso le sue sedi sparse per la Penisola (Roma, Genova, Bologna, Firenze, Palermo, Catania e Cagliari). Per la prima volta un cittadino definisce la propria identità attraverso il consumo. La Rinascente è il luogo dove questo avviene e in tanti film di quegli anni (ad esempio in Mafioso, 1962, di Alberto Lattuada) se ne trova traccia.

 

La Rinascente, come è noto, prende il nome dal poeta-vate Gabriele d’Annunzio, oracolo della borghesia milanese, in fondo così diversa da lui, ed è di proprietà della famiglia Borletti che condivide la gestione con i Brustio. Due dinastie di imprenditori, unite anche da legami di parentela, che governano insieme per circa mezzo secolo. I Borletti (Senatore, Romualdo, Ferdinando), azionisti di riferimento, danno all’azienda un’impronta allo stesso tempo nazionale e famigliare (“la famiglia Rinascente” degli house organ, con le cronache del dopolavoro, gli album delle gite ai laghi lombardi, il Natale dei dipendenti), mentre i Brustio, padre e figli, instaurano uno stile aziendale, il management, che prevede, secondo modelli anglosassoni, un potere più condiviso per responsabilità, anche per la complessità di gestione che un grande magazzino comporta (stagionalità, rifornimenti, logistica, formazione del personale, vendita, acquisto merci, ecc.). Anglosassone è anche lo stile. Ha ricordato Giancarlo Iliprandi a proposito dei Borletti e dei Brustio: “Esprimevano il gusto della buona società milanese, con dei valori, delle radici. Esprimevano un’eleganza vera. Avevano classe ed erano, implicitamente, un esempio”. Lo confermano alcune fotografie d’autore degli uffici della Rinascente negli anni Sessanta. Sembrano uscite dalla serie Mad Men. Erano padroni senza timidezze, consapevoli che il potere significa prima di tutto responsabilità, esempio.

 

La Rinascente nasce e rinasce in varie occasioni: la prima volta dai Magazzini Bocconi, appunto nel 1917, e prosegue la sua attività fino alla Seconda guerra mondiale, quando nei bombardamenti dell’agosto 1943 la sede di piazza Duomo va in fumo. In questa fase, quando la borghesia era una parte minoritaria della società italiana, ancora soprattutto legata al mondo agricolo, è un grande magazzino d’élite (tanto è vero che i Borletti incaricano, dopo la crisi del 1929, Franco Monzino di aprire la UPIM, magazzino a prezzo unico su un modello tedesco). Le collaborazioni artistiche più notevoli in questi anni sono due: Gio Ponti che progetta con Emilio Lancia la serie d’arredo Domus Nova (1927) per rinnovare gli interni della casa borghese e Marcello Dudovich che, con i suoi manifesti pieni di grazia, illustra le campagne pubblicitarie fino al 1956, a testimonianza di come il liberty sia lo stile che gli italiani identificarono con la modernità fin nel cuore del XX secolo.

 

Max Huber, l R – la Rinascente, 1951, pagina pubblicitaria, 29.


La riapertura per il Natale del 1950 della sede di piazza del Duomo apre la seconda fase della storia aziendale, la più feconda. Progettata da Ferdinando Reggiori con l’utilizzo del marmo di Candoglia (lo stesso del Duomo), con gli interni di Carlo Pagani (reduce da un viaggio di studio negli Stati Uniti in visita ai grandi department stores e che poi scriverà: “mi sono accorto sempre più che un grande magazzino deve essere una scatola magica e che la merce è un oggetto sul quale il nostro occhio deve essere attratto indipendentemente dal suo valore e qualità”) e le decorazioni di Massimo Campigli, è uno dei simboli, nella sua austera opulenza, della rinascita del Paese.

 

In un momento di generale crescita economica La Rinascente ha l’ambizione, implicita e mai teorizzata, di ‘fare gli italiani’ attraverso un’educazione al consumo (la stessa funzione assolta da Carosello) e ad assimilarli nei comportamenti a un gusto borghese contemporaneo. Proprietà e management mettono insieme una squadra di collaboratori internazionale che, attraverso frequenti viaggi, è aggiornata su quello che sta accadendo a New York, a Parigi, a Londra, sulle novità che arrivano dal Nord Europa. Informazioni, stili e tendenze che confrontano e adattano al ‘buon gusto’ italiano della nostra miglior tradizione artigianale (Brianza e Italia centrale). Da quel coagulo è nato il nostro made in Italy. Singolare, ma non troppo, che un fondamentale ruolo di mediazione tra La Rinascente e il resto del mondo lo abbia avuto la Svizzera, nazione con una propria tradizione di arti applicate e che ha reso più funzionale e forse meno aspra la modernità nata dalle avanguardie tedesche e mitteleuropee.

 

L’incunabolo è forse, negli anni Trenta, il milanese Studio Boggeri (e l’ufficio pubblicità della Olivetti) dove si mescolano, secondo la lezione della Bauhaus, illustrazione, fotografia, pittura e tipografia e nascono nuove professioni e nuove forme espressive al servizio della comunicazione aziendale. Da qui sono passati, prima di approdare alla Rinascente, Max Huber e Albe Steiner, reduce da un’esperienza messicana nell’immediato dopoguerra. Dal Ticino arriva Amneris Latis che, prima di diventare art director della Rinascente, si occupa delle Grandi mostre che si tengono al settimo piano dell’edificio di piazza Duomo.  A Zurigo studiano Salvatore Gregorietti, Oliviero Toscani; dalla Svizzera arriva anche Serge Libiswewski, per molti anni fotografo delle campagne pubblicitarie del grande magazzino. Anche una parte dell’azionariato della Rinascente è svizzero, appartiene agli Jelmoli, proprietari dell’omologo magazzino zurighese della Rinascente.

 

Nella seconda metà degli anni Cinquanta arriva a Milano da Zurigo Lora Lamm, grafica con un tocco leggero ma efficace nell’arrotondare concezioni troppo geometriche di altri grafici che lavorano per l’azienda. L’anno della Rinascente è scandito dal calendario commerciale (il “bianco”, l’estate, la scuola e il Natale), picchi in cui si concentra il fervore creativo e che danno continuità al rapporto con la città. Un altro momento importante è l’annuale mostra dedicata a un paese straniero. Tra cultura, consumo ed esplorazione etnografica (penso soprattutto al lavoro di Roberto Sambonet) il settimo piano è invaso da oggetti che provengono, anno dopo anno, da Messico, Giappone, India, Spagna, Regno Unito, Stati Uniti, Thailandia. La civiltà materiale di un paese – non è ancora l’epoca dei jet – viene messa in mostra in un implicito confronto con la nostra. 

 

E l’Italia? Gli italiani vivono finalmente in appartamenti divisi da ambienti definiti: la cucina, la sala da pranzo, il salotto, il bagno, la stanza dei bambini. Oggi sembra ovvio ma fino agli anni del boom non era così. Ancora attorno al 1970 un terzo delle case di Milano non possedevano un bagno proprio. La nostra cultura materiale sta passando nel dopoguerra dall’artigianato all’industria (il mezzo di trasporto quotidiano si evolve, in poco più di dieci anni, dalla bicicletta all’automobile attraverso lo scooter), le riviste di architettura propongono i migliori esempi del design straniero (è l’epoca della Scandinavia). Gio Ponti (straordinario personaggio di cui manca ancora una vera biografia) con Aldo Rosselli si accorgono che manca un premio che stimoli e segnali i migliori prodotti e le aziende più innovative italiane. È il 1954, l’anno in cui nasce il Compasso d’Oro, premio annuale organizzato da La Rinascente con una giuria molto qualificata e che ne sancisce il ruolo di produttore di qualità, di organizzatore culturale e di creatore di stili di vita. Da Olivetti in giù, tutti i principali oggetti che compongono il paesaggio domestico delle (nuove) case degli italiani passano di lì. L’origine del nostro design, dell’“Italian style”, o almeno la sua presa di consapevolezza, trova qui un suo plausibile atto di nascita.

 

Nella vita del grande magazzino un’estrema cura è posta nel lavoro di allestimento delle 28 vetrine che si sviluppano per 150 metri lungo piazza del Duomo e le vie limitrofe. Qui il maestro, insieme ad Albe Steiner, è Bruno Munari che coordina il lavoro di grafici, fotografi e impiegati specializzati, i cosiddetti ‘vetrinisti’, in un lavoro di scenografia di cui resta traccia solo in qualche fotografia. Si lavora per analogia, per accostamenti di oggetti e di colori in un lavoro di squadra che diventa il manifesto dello ‘stile Rinascente’: una comunicazione chiara che informa, aggiorna, ma non rinuncia a catturare l’occhio del passante con la sorpresa e lo spiazzamento. Le vetrine ruotano solitamente ogni quindici giorni ed è una formidabile occasione di lavoro di squadra per il gruppo di creativi che La Rinascente sta mettendo insieme.

 

Con gli anni Sessanta un’aria nuova entra in Rinascente. La ‘lista nozze’ alla Rinascente diviene un’abitudine della nuova borghesia mentre la giovane Mariangela Melato che indossa l’uniforme di commessa è il simbolo delle ragazze che in epoca pressessantottina si emancipano dalla famiglia prima del matrimonio. La fotografia sostituisce l’illustrazione come principale strumento di comunicazione. Nel 1961 si apre la nuova sede di Roma in piazza Fiume, opera degli architetti Franco Albini e Franca Helg. Con una struttura quasi priva di finestre per sfruttare meglio gli spazi interni è forse la più innovativa architettura della Rinascente. A sostituire Amneris Latis arriva la giovane Adriana Botti insieme a brillanti coetanei come Salvatore Gregorietti e Oliviero Toscani. Si guarda di più agli Stati Uniti (chiamati dalla Botti transitano da Milano William Klein e Helmut Newton). Dalla Olivetti arriva Augusto Morello con il compito di creare un Ufficio sviluppo (un luogo di sperimentazione per intercettare i nuovi consumi) dove i giovanissimi Mario Bellini e Italo Lupi fanno le loro prime (e già promettenti) prove. Lavorano per La Rinascente i grafici americani, i coniugi Bruce e Pegge Hopper, l’olandese Bob Noorda (già a Milano) e la moglie Ornella. Tra i fotografi spiccano Ugo Mulas e Aldo Ballo. Qui fa le prime prove il giovane Carlo Orsi. 

 

È davvero un momento magico e anche la moda, il pret à porter, produce una linea maschile e una femminile che colma il vuoto di mercato che esiste tra le maison più celebri e le sartine che ricopiano i cartamodelli delle riviste specializzate, aprendo la strada alla grande epoca della moda milanese e italiana degli anni Settanta-Ottanta. Non è un caso che la formazione professionale e culturale, ma le due cose vanno insieme, di Giorgio Armani avvenga qui e in quegli anni. Nel 1963 viene messo a contratto il giovane ma già noto stilista francese (di origine veneta) Pierre Cardin che in quel periodo aveva rotto col sistema dell’alta moda francese e dichiara che la moda deve essere accessibile a tutti. La Rinascente, dopo aver utilizzato per anni le sale dei grandi alberghi milanesi, usa per le sue sfilate la sua sede milanese. Nella comunicazione della Rinascente di quegli anni si trova spesso la traduzione delle principali correnti artistiche coeve (optical, pop, neoliberty) e oggi c’è un maggior interesse di studio e di mercato per grafici, fotografi e illustratori di quegli anni piuttosto ad artisti che allora andavano per la maggiore (Dova, Cassinari, Morlotti…). Direi che il punto più avanzato di Rinascente come laboratorio della modernità avviene nel 1969 quando Tomás Maldonando progetta i manuali per la segnaletica interna. Nello stesso anno i Borletti cedono La Rinascente al gruppo FIAT che in breve tempo la ‘normalizza’. Quello che avviene dopo sembra soprattutto un’appendice di questa storia. La Rinascente tuttavia è ancora lì ad accogliere i visitatori nei sette piani di Piazza Duomo e in giro per l’Italia.

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Romeo brucia (per) Giulietta

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D’amore si brucia, s’impazzisce, come testimonia già Saffo. Un romanzo di Gabriele D’Annunzio pubblicato nel 1900 si intitola Il fuoco: non riscuote particolare fortuna, ma è noto per aver trattato la storia appassionata dello stesso vate con Eleonora Duse. Il protagonista si chiama Stelio Effreni, da “Ex frenis”, “senza freni”; e lei, Foscarina, ne «era attratta da un amore e da un terrore senza limiti». Amore e terrore? Dopo 10 anni D’Annunzio scrive Forse che sì forse che no, dove le commare si raccontano una tragedia che ha per protagonista il fuoco. Novella chiede: «Non conosci il fatto di Fondi, Vana?».

 

– Il pastore feroce aveva ventidue anni – disse Novella. – La vittima ne aveva ventuno. Si chiamava Driade. – Che nome strano! – Era bellissima e intrepida. Immagina che, dopo il primo tentativo di ratto, si provvide d’una rivoltella, e si esercitava contro i tronchi delle roveri. Non passava giorno ch’egli non la perseguitasse e non la minacciasse. – Era un ossesso d’amore. (…) Allora il pastore nella notte chiamò a gran voce l’amata. “Driade, svegliati! Sono io. Fuoco per fuoco!” – E appiccò il fuoco ai quattro lati della capanna. – Fu un attimo, tutto arse, tutto fu una sola vampa. – E il pastore cantò! – Si mise a cantare una canzone d’amore, una disperata, e a saltare intorno al rogo ardente, mentre veniva per la macchia troppo tardi il soccorso. – Tra il pianto dei bambini e il rantolo della vecchia, riconosceva il grido della giovine contro la porta sbarrata; e rispondeva col canto. – Poi cantò al rugghio delle fiamme, perché nessuno più pianse, nessuno più gridò. Le quattro vittime caddero ai piedi della porta e ci restarono, a incarbonirsi, in un mucchio.

 

Il fatto raccontato da D’Annunzio è reale e sale alle cronache nazionali il 20 agosto di 110 anni fa, quando la storia d’amore tra il pastore e la bella giovane sfocia in disgrazia. Amore e terrore. Fondi è un paese di pastori e agricoltori della “Ciociaria di mare”. Il racconto dannunziano è certamente più poetico del nudo accadimento, ma tutta la vicenda sembra tanto surreale quanto odierna. L’uomo è reo di sei omicidi, ma riesce a fuggire: latita per 21 anni. Eppure non è “solo” un delinquente latitante: è un uomo con una nuova identità che si unisce a una donna da cui ha quattro figli, come riporta da “La Stampa” nel 1930. 

Quarant’anni dopo D’Annunzio, un altro poeta si affaccia su questa vicenda che tutti vorrebbero dimenticare. È Libero de Libero, che di Fondi è nativo e deve aver sempre sentito parlare di quella storia, tramandata in principio tra commare, commentando la bellezza invidiata di lei e il “fuocammore” di lui. Nel 1920 Sigmund Freud pubblica il saggio Al di là del principio di piacere dove le pulsioni di “Eros” e “Thanatos” dominano le dinamiche umane. Eppure l’indagine più profonda la compie proprio un poeta. De Libero pubblica Amore e morte per Garzanti nel 1951 e contemporaneamente annota nel diario Borrador le pene della stesura, lo scandaglio psicologico:

 

Dalle radici tanto lei che lui dovettero succhiare un veleno che non poteva non far da sedimento all'amore che li costrinse a cercarsi, quasi per vendicarsi. C'è un poco dell'uno nel carattere dell'altra: un languore femmineo in lui, una collera virile in lei. Il contrasto genera inquietudine e repugnanza, la rissa costante, una crudeltà senza limite. Infine lei, pur amandolo, sfoga su di lui il corruccio antico dei suoi genitori verso i genitori del giovane; infine lui avrebbe il potere di domarla, ma vi rinuncia per esercitare contro di lei un cruccio più segreto, indecifrabile. Il veleno è dunque il male delle loro radici. La pianta è bella, è fiorente, ma il frutto ha il baco nascendo. È questo il nodo da sciogliere, il luogo da scavare senza pietà.

 

I due giovani sono «infelice Giulietta e infelice Romeo», ma «l’amore non aveva un balcone per essi». In quegli anni il romanzo era stato definito un moderno Promessi Sposi dal critico Emilio Cecchi, ma è un giudizio affrettato, superficiale. De Libero è molto più vicino a Shakespeare che a Manzoni; quest’ultimo era infatti più concentrato sulla lingua, sulla trama e sul romanzo storico che sui tumulti d’amore. Ungaretti ha tradotto a suo modo uno dei sonetti shakespeariani, il CXLIV, che ben s’adatta alla vicenda deliberiana:

 

 


Ho per disperazione e per conforto due amori, | due spiriti, e di continuo m’ispirano: | è l’angelo migliore, un uomo leale e in tutto perfetto, | lo spirito peggiore è d’una donna di malatinta. | Per precipitarmi in inferno, il mio demonio femmina | l’angelo buono dal mio lato tenta d’allontanare, | e vorrebbe la santità intaccarne, e ridurlo a demonio | con immondo calore insidiandone la purezza. | E ch’essa abbia in demonio tramutato l’angelo mio, | non posso per diretta scienza dirlo, ma solo arguirlo; | scambiandosi quei due amicizia, da me lontani, | l’angelità dell’uno congetturo bruci nell’inferno dell’altra: | bene non lo saprò e vivrò nel dubbio, | finché l’angelo mio cattivo dal suo fuoco il mio buono non espella.

 

In Amore e morte la bella Driade è Assunta, il pastore Antonio. Driade era il nome di una ninfa legata alla quercia, albero da cui si discostava per amare i mortali e danzare in mezzo a loro. Ma nella realtà lei non è che una cavalla indomabile, con una criniera che riluce sotto il sole agostano, distinguendola dalle altre. Lui è un pastore «forastico», uomo rozzo fulminato dalla cavalla cui salta in groppa senza sella per dominarla. De Libero non giudica questa storia d’amore disperata. Scava, come un archeologo, terra e uomini. La metafora animalesca è sempre accesa per un tempo in cui persone e bestie vivevano insieme: «i genitori di Antonio e di Assunta avevano ereditato dagli avi l’odio reciproco come una bestia di razza»; il padre di lei è una belva che si aggira per casa bestemmiando come grugnendo, mordendosi le mani e sfasciando ogni cosa. 

 

«Antonio e Assunta erano analfabeti anche nell’anima». Si rincorrono, vogliono uscire dai loro istinti ferini attraverso la feritoia dell’amore. «Da un certo giorno cominciarono a sentire nelle vene un tepido fiato e una tenera peluria nelle loro voci, quando si chiamavano; cominciarono a guardarsi di sfuggita e si trovarono cresciuti di statura e belli, e sgomenti dal piacere che provavano a guardarsi. Avevano diciassette anni». Lui «fumava perché non sapeva parlare» e «non pensava, dentro di sé gridava»; sua caratteristica è l’ostinazione, che quando «persegue un fine di amore e un fine di spropositato amore come quello di Antonio, manca di destrezza e di agilità; incapace di un tocco leggero che alla lunga sbriciola anche le pietre, essa trasforma in pietra ciò che tocca». Questo amore è un labirinto, un «territorio inaccessibile». Antonio decide una fuga d’amore, come in Giorni d’amore del regista Giuseppe De Santis. Con lo stesso cineasta de Libero avrebbe dovuto girare un film, Il pastore di Fondi (la sceneggiatura era piaciuta anche a Visconti). Il progetto sfuma. Qualcosa di tragico e grave impedisce il compimento di quell’amore e brucia persino la sua rappresentazione. «Il ratto di Assunta fece scalpore (…). In breve la notizia fu su tutte le bocche, su ogni tavola imbandita per la cena, in ogni stanza da letto; girò nel circolo e nelle case dei signori, nelle bettole e nei caffè; e come la bellezza di Assunta allappava i sensi di giovani e anziani, così la bellezza di Antonio punse di gelosia e di disinganno le tante ragazze e donne che l’avevano desiderato da marito o da amante». Assunta, cocentemente attratta da Antonio, non scappa dalla morsa. Viene la madre a riprenderla, sfotte il giovane che chiede la sua mano. Al ritorno a casa il padre la picchia: Assunta «non piangeva e le sue lacrime vere erano le poche gocce di sangue che le colavano dal naso lentamente macchiandole il seno scoperto».

 

È una madonna vergine che piange sangue. Antonio viene arrestato per tentato rapimento: «Ora la notte poteva dormire, ma per qualche ora vagava nel buio la brace della sua sigaretta, come fosse il suo occhio ardente, irrequieto». Esce dal carcere smagrito, ma più bello e virile. Assunta intanto è costretta dal padre a “fare la conoscenza” di Ernesto, un ricco giovane che vuole sposarla. I due giovani amanti «s’illudevano d’essere usciti dalla loro vicenda che infine pareva esaurita già nelle turbolente premesse; invece essi, riconducendosi in mezzo alla folla, da cui un giorno s’erano tolti, coinvolsero anche la folla, il paesaggio e le cose, non meno responsabili dell’odio che quelli muoveva». E qui de Libero fa sfoggio di tutta la sua maestria. La passione è descritta come una grandissima e variopinta fiera, mercato dove le fiere si vendono e si comprano, come la mano d’Assunta. Amare e armare sono separati da una consonante, Antonio e Assunta dalle “razze”. Questa distanza li infuoca, ne fa una miccia esposta al sole di un territorio rigoglioso e aspro. C’è un’altra mano che li muove: appartiene a un corpo incontrollabile da cui nasciamo.

 

Laggiù s’incontrano le cose più disparate, che di solito nell’universo stanno disposte secondo una regola di clima, allo stesso modo che nell’intimo di Assunta e di Antonio. (…) Laggiù il cipresso fa da recinto all’arancio; la palma sconfina tra le capellature dei salici; l’ulivo si contorce attorno all’eucalipto; la vite si strappa dal ficodindia; e tra gli uni e gli altri stanno mescolati pioppi e querce, tutte le specie d’albero da frutto, la specie d’ogni verdura (…). Per essere germoglio di tale natura, la gente non potrebbe essere diversa; generosa e tracotante, taciturna e spaccona; spietata nel far soffrire gli altri non lo è di meno nel far soffrire sé stessa; prontissima all’ira, nella sua rara allegria resta tanto di quell’ira che è una malinconica ira, e impedisce la piena del riso. I fiumicelli perenni che irrorano ogni zolla, talvolta ristagnano fomentando la malaria, allora la febbre inasprisce il sangue alla gente, e i suoi pensieri diventano pesanti, crudeli le passioni, i desideri struggenti. Spesso la Morte viene laggiù da giustiziera, e non da consolatrice degli afflitti. Quella gente ha una concezione impietosa della vita e dell’amore, e gli scioglimenti di quegli intrighi sono così assurdi. Di questa razza erano Assunta e Antonio, i loro parenti, gli amici, i nemici.

 

Qualcuno stuzzica Antonio: «Quel povero cavallo corre dietro la cavallina pazza e si prende le frustate …». Una delle scene memorabili è il “fidanzamento pubblico” in spiaggia, sotto gli occhi di tanti compaesani, ma soprattutto del narratore e di Antonio che osservano il «circo equestre» al cui interno «da quegli sguardi e parole Assunta venne scovata nel suo nascondiglio, spogliata e dilaniata, e l’avrebbero bruciata viva come usavano i quacqueri con le streghe». La giovane dalla celebre treccia non vuole sposarsi. «Pareva che sino a quel momento lei non avesse avuto che un solo scopo a vivere, che una sola impresa da compiere: lottare contro Antonio, come se le due famiglie nemiche avessero scelto e mandato in campo i loro campioni più forti. Ma a vittoria avvenuta, Assunta non s’era sentita né paga né deserta, quasi la dominasse un altro scopo: lottare contro se stessa, che amava Antonio e altro uomo non poteva amare». Riecheggia il mito di Pentesilea, la splendida Amazzone che si scontra a cavallo con Achille. L’eroe omerico se ne innamora perdutamente, ma solo dopo averle tolto l’armatura, una volta sconfitta ed esanime. Achille la possiede da morta. 

 

«O mia o di nessuno…», ripete Antonio. L’ordigno è pronto: una miscela di folla, follia, passione, razze e razzìe. La miccia s’accende davanti alla capanna in cui Assunta sta con la vecchia zia. «Era la prima volta, da quando non erano più ragazzi che Antonio chiamava il nome di lei; non aveva più chiamato Assunta, non era abituato a chiamarla con nessun nome, non aveva più pensato il nome di lei, e una volta che gli era venuto alle labbra, lo implorava: “Assunta, esci …”». Il fuoco divora l’amore. Le fiamme dividono i due giovani amanti come chi si guarda da una riva all’altra dell’inferno in cui altri li hanno gettati. D’Annunzio è certo «che se Driade potesse risuscitare dalle sue ceneri, si metterebbe a riamare disperatamente il suo assassino».

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Il cielo non è blu e il mare è di molti colori

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Questa affermazione, apparentemente paradossale, la potete leggere nel libro di Riccardo Falcinelli Cromorama. Come il colore ha cambiato il nostro sguardo, appena pubblicato, in settembre, da Einaudi. Certo, il cielo non è blu, il cielo non ha un colore preciso – blu pennarello, intende: può essere bianco, grigio, grigio scuro e minaccioso, celeste chiaro, screziato di rosa e di rosso; i pittori lo hanno dipinto di volta in volta con un colore diverso, anche rosso, nero e colore dell'oro.

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Le grandi star sportive americane, la politica. E gli italiani?

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“Il nostro paese è imbarazzante per il mondo intero”. Ecco le ultime dichiarazioni riguardo la politica americana di uno dei più navigati e vincenti coach dell'NBA, Gregg Popovich. Pensiero già manifestato con schiettezza ai tempi dell'elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d'America: “Mi fa venire il voltastomaco. Non tanto perché hanno vinto i Repubblicani ma per il disgustoso livello di commenti che sono stati xenofobi, omofobi, razzisti e misogini. Vivo in un paese dove metà delle persone ha ignorato tutto questo e ne ha eletto il rappresentante”.

Il rifiuto a Trump è diventato nelle ultime ore quasi sistematico, ed è partito dalle seguenti dichiarazioni: “Io non voglio andare, le mie convinzioni rimangono le stesse. Dovessimo mettere il viaggio alla Casa Bianca ai voti, io opterei per il No”. A dirlo è stato Stephen Curry, probabilmente il più popolare giocatore NBA nel Mondo e campione in carica con i Golden State Warriors che ha provocato anche la risposta dello stesso Trump, a mezzo twitter, per disdire l'invito.

 

Ecco, per un attimo chiudete gli occhi e pensate a uno dei nostri migliori allenatori o calciatori fare altrettanto. Cioè esprimersi apertamente, parlare di politica e della società in cui vive e che rappresenta. Senza che questo significhi l'essere preso a modello comportamentale, come ci si auspica spesso con la retorica appiccicosa del “buon esempio”. Si intenda invece riuscire a dare voce alle proprie opinioni, e impiegare il proprio tempo a crearsene.

 

Il discorso forse sarebbe percorribile con Sarri, il più “schierato” tra gli allenatori di Serie A, i cui ultimi interventi sul mondo politico italiano sono però rimasti agli anni di Empoli. Oggi le dichiarazioni, e le domande, sono più legate allo Scudetto rispetto allo scenario politico. Lui, come pochi altri allenatori, ha espresso la propria idea ma derubricabile oggi a semplice spirito di appartenenza. Insomma si resta sulle indicazioni di voto, più o meno come fece Raimondo Vianello, che pur non essendo calciatore era alla guida della trasmissione calcistica più seguita: “Pressing”, nel 1994. Oppure si scade nel “vaffa” come l'attuale Presidente dell'Associazione allenatori italiani, Renzo Uliveri, che nel suo ultimo viaggio oltreoceano si è fatto immortalare in foto col sorriso e il dito medio rivolto a uno dei palazzi griffati Trump.

 

Non proprio sullo stesso piano delle rumorosissime e argomentate dichiarazioni di Popovich, Curry e compagnia. Inimmaginabile sentire opinioni così dure da “eroi” più vicini al nostro quotidiano, un po' come se Messi o Cristiano Ronaldo avessero preso posizione, qualsiasi essa sia, nella vita politica di tutti i giorni.

I contesti sono diversi e non è, almeno non qui, una questione sul merito delle dichiarazioni, ma è evidente che questi atleti abbiano un pensiero forte, a cui tengono, e che vogliono esprimerlo. Le parole di Curry e James non sono cadute nel vuoto, raccogliendo consensi e plateali prese di posizioni anche dai giocatori professionisti, campioni e non solo, di altri sport come football e baseball.

 

 

E da questa parte dell'Oceano? Le dichiarazioni fuori campo degli uomini copertina del calcio sono quasi sempre sulla difensiva, l'ambizione davanti al microfono è quella di arrivare più rapidamente possibile allo 0-0 o di cavarsela con poche perdite.

Ben inteso: non che ci sia qualcuno lì a fargli domande sulla politica, anche se la retorica consumata col soporifero prontuario delle frasi fatte farebbe cadere ogni velleità. Citare le eccezioni non serve a dimostrare il contrario ma è capitato che Buffon abbia raccontato il proprio pensiero senza nascondersi. Schierandosi politicamente alle ultime elezioni, e andando in tv da Bruno Vespa per sponsorizzare la candidatura di Mario Monti.

 

Una differenza con gli USA è che in Italia sono gli sportivi ad essere usati come arma politica e non ci aspetta invece che questi prendano parte al dibattito, indirizzandolo. Senza andare a scomodare i tempi delle faraoniche Olimpiadi tedesche del 1936, o la voglia di Mussolini di trasformare il pugile Primo Carnera in icona, sono i campioni e soprattutto le squadre di calcio che vengono tirate in ballo dalla politica. Non il contrario. Anzi, per un politico, dichiarare il proprio tifo è usato come mezzo per entrare in sintonia con l'elettorato. E lo è stato certamente essere presidente di un club, come è successo a Berlusconi. Per un calciatore, dichiarare la propria appartenenza politica risulta invece come un'incongruenza tra un “Daremo il 101%” e “Ci aspettano tutte finali”.

Uno dei casi più eclatanti europei ha avuto, e ha tutt'ora, per protagonista il difensore del Barcellona Piquè, costantemente fischiato da larghissima parte degli spagnoli ad ogni apparizione con la maglia della nazionale. Il motivo sono le sue dichiarazioni per l'indipendenza della Catalogna, anche se queste sono più catalogabili tra i “si dice” piuttosto che tra le prese di posizione con un microfono in mano. Amplificate da foto e video in cui dominano dubbi e ricostruzioni tra verità e ambiguità. Ancora vive grazie ai silenzi del calciatore, che in alcune occasioni si è tirato fuori dalla polemica indicando come i colpevoli di tutto i tifosi del Real Madrid. Niente di nuovo.

 

In Italia si “parla” più di politica con gli striscioni e i cori delle curve che non negli spogliatoi, in uno scenario, quello del mondo ultrà, lasciato desolatamente libero da dirigenti e calciatori.

Imparagonabile a quanto avviene in qualsiasi sport americano ma fatto normale nelle vicende europee. Pochi gli sportivi che hanno mai provato a dire qualcosa, in un senso o nell'altro, e spesso ci si è limitati ai gesti. Senza arrivare al pugno chiuso nella notte dei tempi di Sollier e alla sua vita attiva in politica, si guardi più al presente con l'altro pugno chiuso, quello di Lucarelli o al braccio teso di Di Canio. Pare ci sia più possibilità di argomentare a carriera conclusa, come se rimessi panni civili sia più facile poter spiegare la propria idea. Non un caso che si rimanga sorpresi nel vedere alcuni calciatori e sportivi entrare in politica. Vedi Massimo Mauro, diventato deputato come Gianni Rivera, oppure Stefano Tacconi, Pietro Mennea, Sara Simeoni o Josefa Idem.

 

Forse l'unica eccezione in calzoncini corti fu quella rappresentata da Fabio Rustico, difensore che nel cognome aveva anche la definizione tecnica, amante di Seneca e che non mancava di dire la propria idea sulle questioni politiche, anche quando doveva giocare una partita di Serie A. Una volta sopra la maglia dell'Atalanta vestì la bandiera arcobaleno, chiarendo la sua posizione sulla guerra in l'Iraq. Venne poi eletto e nominato Assessore allo Sport di Bergamo e terminò quasi contemporaneamente la sua carriera da calciatore. I due impegni, evidentemente, erano inconciliabili.

 

Carriere politiche che non sono l'aspirazione, o movente, di Curry e degli sportivi americani. Il loro ruolo è anche quello di rispondere a istanze del genere, e non certo di viverle come una tortura. Cosa che in alcuni casi continuano a fare anche dopo aver smesso di giocare. Come Maradona, che esterna molto spesso pensieri politici su ogni argomento, oppure Dennis Rodman, ultimo esempio di un ex atleta da copertina, che adesso si fa immortalare in amabili chiacchierate con Kim Jong Un, dittatore della Corea del Nord.

 

Spendono la loro faccia per veicolare il loro pensiero, ben sapendo qual è il loro peso specifico nella vita quotidiana. E sapendo anche che impegnarsi per avere ed esternare un'opinione non impedisce di vivere le proprie carriere e vite fuori dal campo nella normalità, grossolanamente riconducibile a queste stereotipate stelle. polari: lusso, shopping, videogame, donne e tatuaggi.

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Cisbicchio!

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La poesia di Giuliano Scabia

Una vecchia tipografia milanese, restaurata da poco, con annessa cartoleria. Si vendono articoli di cancelleria vintage: quaderni, matite, pennini. Un bel signore, capelli d’argento, sorriso mite, occhialetti curiosi, è seduto dietro un banco di legno laccato di chiaro. Voglio comprare dei pennini: ce n’è uno a forma di manina con l’indice puntato, mi ricorda lo yad o teitel, il cursore per la lettura pubblica del Sefer Torah. E poi c’è quello a forma di torre Eiffel: un miraggio delle mie scuole elementari. Chiedo al signore se posso vederne qualcuno ma – sorpresa – il venditore di pennini non è lui. Peccato. 

Un movimento goffo e faccio cadere con la borsetta l’espositore di cannucce – ne acquisterò una verde bosco, lucida, bellissima. E il signore argentato, serafico, commenta con arguzia intorno alla pericolosità delle borsette delle donne.

 

È il 2 giugno 2015: sono arrivata in questo posto fuori del tempo – la cartoleria e tipografia Fratelli Bonvini – per la festa di Doppiozero e per assistere al reading di un poeta che non conosco. Ma il mio interesse è tutto rivolto al presunto venditore di pennini. Chissà chi è. Si muove elegante, discreto. 

Tutto è pronto per la lettura nel piccolo cortile sul retro della tipografia. E – sorpresa sorpresa – il poeta è il finto venditore di pennini! Beh, mi dico, non avevo poi sbagliato di molto. Con penne e pennini ha pur sempre a che fare.

Lui è Giuliano Scabia e legge con fascino (di quello sì, ne ha da vendere) alcune quartine del suo avventuroso poema Albero Stella di poeti rari. Quattro voli col poeta Blake. La lettura è così coinvolgente che trascina anche me sul platano grande di St James Park, in volo sopra Londra in compagnia del poeta visionario, sua guida, suo Virgilio. E mi fa attraversare d’un fiato tutta la poesia, tutta l’epica fin dalle origini.

 

Mentre legge mi trovo a dirmi: toh, ma questo è Omero, questo è Dante, e Ariosto, e questo sa di Pascoli, e qui Leopardi e qui e qui… ma tutto è nuovo, tutto ha un timbro, una cadenza mai sentiti, un passo lieve come un frullo d’ali, un profumo di pane appena sfornato. 

Esco da lì con la voglia di correre e rimediare all’ignoranza. Mi sono accorta – direbbe lui – che esiste il poeta Giuliano Scabia. Ma ci voleva la voce, la sua voce. Che mi è rimasta dentro e ora, quando torno ai suoi versi e alla sua prosa, o li leggo con gli studenti, ritrovo quel passo, quell’accento e mi pare di vederlo a fianco a me – ma un po’ discosto – o laggiù in fondo all’aula. E non so dire l’emozione che mi ha preso, la contentezza che mi ha travolto quando ho letto la trilogia di Nane Oca: è stato un po’ come tornare a casa, nel paesetto di campagna lombarda (non che voglia tornarci, ma è sempre là in fondo). O quando ho visto i filmati di alcune sue azioni teatrali: benedetta la rete se concede a chi allora era distratto di guardare a ritroso Marco Cavallo, il Gorilla, l’angelo e il diavolo l’un l’altro legati sorprendere gli ignari abitanti del Casentino. Ma mi mancava vederlo all’opera prima della messa in scena. 

Così, non ho perso l’appuntamento dell’annuale festival L’importanza di essere piccoli, promosso dall’associazione culturale SassiScritti, che recava in programma per il 6 agosto Giuliano Scabia con i suoi Canti brevi e l’accompagnamento di solisti e musicisti diretti da Saverio Lanza. 

 

Siamo partiti per l’appennino tosco-emiliano, su su, bordeggiando boschi che non godevano acqua da mesi, lungo la strada che porta a Porretta fino alle spalle di Pistoia, a Spedaletto. Vi si è fermata due mesi Matilde di Canossa, dicono. Chissà, forse impedita dalla neve che allora doveva scendere generosa. All’ingresso un involto, una chiesa in pietra grigia in cima a una scala che sale di traverso alla facciata chiusa dal poderoso campanile, un pugno di case linde e ben restaurate, gran vasi di fucsie e zinnie nella piazzetta, un lavatoio, una fontanella pubblica che chiacchiera, il Limentra che gorgoglia a fil di voce e, di là dal rivo su un dosso erboso, un piccolo cimitero che fa desiderare di riposare lì in eterno. Qui, una visione straniante: seduto a gambe incrociate, addossato al muro di cinta, c’è un giovane solitario che pare un santone indù. Il paese è un incanto. Il bosco tutt’intorno. 

Nel tardo pomeriggio arriva Giuliano con i musicanti per l’ultima prova. È per questo che sono qui. Il poeta è già venuto per altri sopraluoghi, questa è l’ultima messa a punto dello schema: sono giorni – dice – che fa disegni per cercare di capire quale dev’essere la forma della commedia. Ce li mostra: una drammaturgia pensata e preparata con matite colorate su fogli di carta bianca o gialla – somiglia a quella usata nelle botteghe dei macellai. In uno di questi sono ben rilevate le linee nere che da alcuni punti segnati su una linea chiara a zig zag arrivano al blu di un grande cielo stellato. Scabia si incammina verso la chiesa, sale i gradini e sosta davanti all’ingresso, alle spalle il campanile: è la prima delle sei stazioni in cui si snoderà l’azione, da qui partirà il corteo che attraverserà il paese. Ma ora assistiamo alla prova. 

Giuliano ha attorno i musici, in mano i Canti brevi, e dice: sono come una coppa in cui stanno appollaiati sul bordo tutti i poeti, i personaggi e gli amici cui sono dedicati. Da questa coppa il canto si alza verticale, seguendo la linea del campanile, verso il cielo. Ecco, la commedia è questa, e mostra il disegno. E continua scandendo le parole, lasciando ad ognuna il proprio spazio in modo che ci arrivi dritta, scolpita, avvolta solo dall’inflessione pavana: noi cantiamo per le stelle, deve entrare molto dentro questa idea che a fatica lo ha visitato. Perché ogni luogo ha una sua forma data dai muri e dalle presenze, l’ascolto è l’inizio del teatro.

 

 

Racconta dei greci che facevano i loro teatri in luoghi adatti all’ascolto, come il teatro di Epidauro che è in una valletta dall’acustica perfetta e ascolta la foresta intorno, e gli animali che poi entrano dentro le tragedie e le commedie, ballano nel coro e si fanno sentire in alto. Ecco, dunque, perché siamo qui: da questo luogo in su, e poi a zig zag per il corpo del teatro, che è il paese tutto, andiamo nel punto più elevato a cantare l’infinito – Sempre sarà che stelle chiare– a parlare sempre con le stelle non con le persone, con il cielo della notte, anche se ci fosse temporale. E allora qui cominciamo con Notte. Questa non l’avevamo provata, dice Giuliano, ma non ce n’è bisogno, i musici sanno bene che fare, tra poco andranno a cantar messa. Noi si aspetta la notte con le sue stelle per lo spettacolo che per noi c’è già stato.

E la notte arriva, serena, stellata. Giuliano è in cima alle scale della chiesa, di sotto s’è assiepato numeroso il gruppo d’ascolto. Ci dà il benvenuto e le istruzioni su come procedere in corteo, mostra il piccolo libro tutto arredato con i colori delle bandierine segnapagina. Da qui si leveranno i canti per far ri-sonare il paese e per farli arrivare fino stelle, questo è il teatro: chi ci sente? chissà dove arriva la nostra voce.

Ma prima, per introdurci nel teatro della poesia, legge l’inizio di Una signora impressionante: è la sua idea di poesia. Legge fino a questo paragrafo:

 

Poesia è nel corpo. Corpo della poesia. Un’allodola (ce ne sono ancora? le guardavo passare a stormi e le ascoltavo) quando vola e canta è poesia. Come l’usignolo. Come il gatto che cammina. Come la lepre che fugge. E l’acqua che scivola. E la trasparenza. E la brezza. E allora?

Allora anche l’azione è poesia: dire la poesia, cantarla – ma anche costruire una poesia, metterla nel mondo: una casa, un giardino, una bicicletta, un bacio, un cavallo azzurro: quando coi matti abbiamo fatto il cavallo azzurro sentivo che insieme costruivamo una poesia.

 

Scabia ci sta chiamando a fare poesia, insieme, con il nostro ascolto e il suo canto.

Poi racconta la storia del librino: l’ha voluto un amico di Valverde, sulla montagna Etna, per la sua piccola casa editrice, Le Farfalle, 499 copie numerate, non una di più: ma qualcuna però ve la faccio sentire mentre passa quel bambino, ciao bambino buonanotte, e la sua mamma, e la nonna, guarda che meraviglia, buonanotte buonanotte, ciao bambino, ciao. 

Ecco, dopo lo studio, i sopraluoghi, i disegni è arrivata anche l’improvvisazione. Scabia ha catturato nell’azione anche chi se ne sta allontanando.

Poi, legge, legge dapprima Utopia del Paradiso dedicata a Benenghéli, il suo cavallo di cartapesta – a grandezza naturale! –con cui ha galoppato per boschi e prati:

 

Torneranno i ciuchi e i cavalli

a parlare del Paradiso – le valli

e le pianure trionferanno d’insetti

e uccelli – il Sole in suo carro

borioso e noi con lui a esplorare 

l’ombra. Com’è ricco

il futuro. Ricco di

non essere ancor giunto alla presenza.

 

E continua: ve ne leggerei tantissime, ma ci aspettano le stelle, il canto per le stelle. La poesia nasce tutta cantata, poi s’è perso il canto… avete mai pensato al primo verso del Canzoniere, sistema di canti, il suono… lui sta parlando della musica non della sua dolenza amorosa.

Questa però ve la leggo, è dedicata al Gorilla Quadrumano.

E questa perché è dedicata ai miei amici di Marmoreto… e anche questa perché mi piace tantissimo, e questa perché c’è una chiave nell’ultimo verso. Ma ve le leggerei anche tutte, perché io, mi godo a leggere, mi godo!

E ora basta, fermiamoci qui. Il resto della lettura, della lezione (niente musica quando dico la poesia, perché se no si rovina la musica e si rovina la poesia, anche i film che mettono la musica sotto i dialoghi: bocciati, non si deve fare), del lungo corteo dietro al poeta e al coro, della preghiera nel buio della notte davanti alle colonne degli abeti sul limitare del bosco, o in riva al torrente, fino all’epilogo buffo della distribuzione del santino, lo lasciamo all’immaginazione. 

Ma grazie Giuliano, abbiamo goduto anche noi. Cisbicchio che godimento!

 

Angela Borghesi

 

Il teatro verticale infinito di Giuliano Scabia

 

Canti brevi per il cielo della notte

(osservando Giuliano Scabia mentre costruisce un nuovo dramma)

Luglio 2017.

Sono venuta da Nimes per seguire Scabia mentre prepara l’azione dei Canti brevi.

È una struttura nuova – mi dice Giuliano mentre disegna nel suo laboratorio. Sta cercando la forma dello spettacolo. Vedi – dice – il paese è il palcoscenico, tutto il paese, il centro è la chiesa, la scalinata, il campanile quadrato è l’asse. Ma la forma non è orizzontale, è verticale.

Verticale? – domando.

Verticale, – dice. – Canteremo e reciteremo per le stelle. Il soffitto del teatro saranno le stelle. Un soffitto infinito.

Ecco – adesso ha completato, a colori, la partitura: si va a zig zag per tutto il paese (che è piccolo, col suo torrente) e nella parte alta del disegno c’è il blu con le stelle d’oro e la luna.

È una forma che sto cercando di capire, – dice Scabia. – È nuova nel Ciclo del Teatro Vagante.

E come mai nasce dai Canti brevi? – domando.

Perché la poesia è la radice del teatro, – dice Giuliano. – E perché è venuto il momento di aprire il cielo del teatro verso l’infinito.

Scabia ha preparato a lungo questo evento insieme a Saverio Lanza – il compositore che lavora sulle voci improvvisando – con due visite di sopraluogo, una di giorno e una di notte.

Nel sopraluogo notturno verso mezzanotte ho sentito prendere forma il dramma, – dice Giuliano. – Era già lì, mi è entrato nel corpo.

Nel suo sperimentare Scabia ha aperto nuovi spazi e forme del teatro e della poesia. Ora assisto al nascere di una nuova visione – vedo la visione di Giuliano.

 

6 Agosto. 

È annunciato un temporale ma poi vengono le stelle: il cielo del teatro è pronto. Nel programma è scritto: Prologo, Partitura, Epilogo Taumaturgico. Il pubblico è particolare nell’ultimo giorno del festival “L’importanza di essere piccoli” inventato dai SassiScritti di Daria Balducelli e Azzurra D’Agostino – è intenso, curioso, grato. Sa di star per entrare in una cerimonia unica. 

Sono molto emozionata – è la prima volta che assisto a un evento di Scabia, “il più imprevedibile dei poeti italiani”.

Eccolo che appare sulla scalinata della chiesa. Ha in mano il libro dei Canti fiorito di petali – i segna pagina colorati. Questo piccolo libro, – dice – è un nido: sul suo bordo, come uccelli appollaiati ci sono dei, poeti, il Gorilla Quadrumàno, Nane Oca, il mio cavallo Benenghéli, amici – tutte le poesie sono dedicate. Tiene fra le mani il libro come una coppa. Da questa coppa, – dice – si leva il canto, che sarà per le stelle.

Poi parte il coro e sul canto Giuliano dice la prima delle 6 poesie scelte: 

 

Sto sulla soglia pronto

a indossar la notte – ma

che maschera verrà stanotte

a indossare me?

 

Ed ecco che non lontano si ode un altro canto – Giuliano, preceduto dal portatore d’altoparlante – guida verso il luogo della seconda stazione. Andiamo attirati dal coro – il legamento è da coro a coro, chiamati dal canto.

Quando arriviamo – nel buio – a una radura di pini alti vedo di colpo la forma immaginata da Scabia. Stiamo cantando (orando) verso l’alto, l’altissimo – il teatro (la poesia) è sulla sua soglia suprema.

L’ultima stazione (la sesta) è la più verticale. Il coro, seminascosto in un avvallamento, ci ha chiamati/convocati nel buio del bosco. Qui sale il canto tremante mentre Scabia dice: 

 

Sempre sarà che stelle chiare

davanti in ogni parte notte

a far cammino avremo. In nostre

barche per il tempo sparse

astronavi anime andremo

e sempre più chissà forse vedremo

dell’infinito il bordo estremo. Sì?

 

Esiste forma più pura e non chiesastica di preghiera? – mi dico. 

Ecco, la forma del dramma è compiuta come era stata progettata. Giuliano dice i versi dell’infinito seminascosto fra le foglie.

Poi scendiamo verso la piazza e là, accanto alla fontana, Scabia capovolge il dramma. Viene il momento “comico” della consegna del santino taumaturgico de L’azione perfetta. Ma prima Giuliano dice anche che siamo fragili, che siamo in pericolo, che l’acqua è in pericolo, che la specie si deve preoccupare. Poi mostra come far diventare efficace il santino taumaturgico – io non ci credo, dice, ma non si sa mai – e scende fra la gente per consegnarlo a tutti, mentre il coro canta e tutti si uniscono al canto, improvvisando diretti da Saverio.

Non si sa mai – ma io ci credo, – dico fra me e me, mentre prendo il santino. 

Dove sono stata, in che sogno, stelle e notte?

 

Marie France Deneige

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La poesia di Giuliano Scabia
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Sul gioco, sul serio

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Peppino, il braccio, scombicchera fogli, allo scrittoio; in piedi, Totò, la mente, gli detta il testo di una lettera sconclusionata fin nella punteggiatura: è il gag di Totò, Peppino e la… malafemmina (film  del 1956, diretto da Camillo Mastrocinque) di cui si conserva la massima memoria. Lo sfondone sintattico, la catastrofica scivolata lessicale, la torta in faccia alla norma grammaticale e ortografica: ingredienti d’una comicità efficace ma molto facile.

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Il bambino che disegnava la luna

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Se volessi ricordare la prima volta in cui presi in mano una matita, per quanti sforzi possa fare, non credo che ci riuscirei. Con una certa plausibilità potrei solo ipotizzare che sia accaduto sui banchi di scuola. Durante il primo anno delle elementari, magari. Dubito che prima di allora potessi aver utilizzato una matita poiché una cosa che ricordo bene è che non mi piaceva il colore generico del suo tratto. Una tinta che poteva deviare dal grigio spento all’argento vivo per poi mutarsi in un buio assoluto. E io del buio avevo una paura disperata. 

Preferivo le tinte colorate dei pastelli. Anzi, adesso che mi ci fai pensare, erano i pennarelli ad avere la preferenza su tutto quando si trattava di colorare i miei disegni. Tuttavia, ora che ci rifletto, non avrei potuto colorare senza prima aver disegnato e di certo i primi disegni che avrò realizzato saranno stati degli schizzi a matita. 

 

Sì, senza dubbio devo aver utilizzato una matita anche prima di andare a scuola. Forse all’asilo o più facilmente a casa, sul tavolo della cucina o steso sul pavimento della mia cameretta, tracciando scarabocchi su qualche agenda logora, sulle pagine di un vecchio quaderno inutilizzato o sul retro del foglio bianco del mese precedente del calendario. 

Segni sgorbi e incomprensibili. Finché, adesso sì che lo ricordo bene, non imparai a fare i cerchi o qualcosa che ci assomigliasse. Luna. Da piccolo disegnavo la luna. Di continuo. Riempivo un foglio dopo l’altro di circonferenze irregolari e spicchi di varia grandezza che poi mostravo euforico a mia madre dicendo che era la luna. La luna! Un’altra luna! 

E oggi non ho dubbi circa il fatto che per tracciare quei segni utilizzassi una matita. Un oggetto sproporzionato per quella mano piccina, tutto considerato. L’idiosincrasia per le matite deve essere arrivata dopo, perciò, un’intolleranza sviluppata non tanto verso lo strumento quanto per quel colore imprecisato, vorrei presumere.

 

 

Delle matite apprezzo il fatto che lasciano segni che si possono cancellare. Questo verosimilmente poiché a scuola ci facevano riempire pagine intere di vocali, consonanti, sillabe, ripetute all’infinito e righe su righe di nomi, vocaboli, verbi e tutto il resto. Quando accadeva di fare uno sbaglio era una catastrofe poiché la penna non si poteva cancellare. E allora, siccome trovavo abominevole rovinare la pagina barrando gli errori con pesanti tratti di inchiostro, per contro avrei apprezzato la possibilità di correggere cancellando gli errori con la gomma come potevo fare con le matite e non abbandonare il foglio al dominio delle macchie e degli sbuffi d’inchiostro, ovvero al caos, rendendolo simile alla superficie della luna con i suoi crateri, le sue dune e le sue ombre infinite.

C’è stato un momento quindi in cui sono tornato a considerare la matita uno strumento privilegiato e unico. Quando ho iniziato a scrivere i primi racconti provando a diventare un autore. 

La matita dava l’opportunità di cancellare e riscrivere in modo rapido quando una frase non mi convinceva. Soprattutto la matita è più leggera di qualsiasi penna e affatica la mano in misura inferiore. Con la matita riesco a scrivere in maniera veloce riuscendo a tallonare i pensieri, spiarli mentre prendono forma in testa, catturarli e trasportarli sul foglio di carta. 

 

La matita ti permette di ritrattare. Di cambiare versione. Di rimangiarti quel che hai appena scritto. Di riscrivere non solo il passato e il presente ma soprattutto il futuro. Di alterare la realtà. Di mentire, in definitiva, e raccontare balle facendola franca. E ancora inventare. Simulare. 

Persino oggi che utilizzo la tastiera del computer come strumento di scrittura, la matita rimane per me uno strumento privilegiato. Il mezzo con cui abbozzo i punti fondamentali, ma anche quelli superflui, per le trame delle mie storie e gli elementi essenziali dei miei personaggi. È con la matita che traccio le osservazioni basilari per la correzione e la revisione dei miei testi. 

Quel grigio mutevole è diventato il colore delle cose in mutazione capace di trasformare le lettere di un intero alfabeto. Le parole di un vocabolario dall’inizio alla fine e viceversa. La matita diventa il dispositivo di un potere assoluto. Quello della fantasia.

 

Appartengo ad una generazione di scrittori che è passata dai quaderni di carta direttamente allo schermo di un computer, senza passare perciò attraverso la romantica ma obsoleta macchina per scrivere. Eppure pochi giorni fa, mentre ero intento a mettere in ordine i cassetti della mia scrivania mi sono imbattuto in un piccolo astuccio di paglia intrecciata.

 

Non ricordavo come fosse finito lì dentro, men che meno quando. Tuttavia quel che mi stupì in misura maggiore fu trovare al suo interno decine di piccole matite affastellate come mozziconi di sigarette di legno. I moncherini che rimangono a forza di temperare una matita fino allo spasimo. Rimasugli messi insieme nel corso del tempo. Testimoni e reduci di anni di scrittura. Se ne stavano là dentro occultati, esiliati come inconsapevoli sensi di colpa. Li ho osservati a lungo. Nella mia mente si rincorrevano immagini legate a eventi ormai passati. Lampade, scrivanie improvvisate, camere in affitto e polvere di gesso. Taccuini, quaderni a quadretti, fogli di carta e tovaglioli. Quindi li ho gettati nel cestino. 

Uscendo di casa pensai che era ora di comprare una scatola di matite nuove. Avevo in mente di mettere giù gli appunti per un breve racconto che volevo scrivere. Questo.

 

Le altre matite:

 

Anna Toscano, Facendo la punta

Gianni Montieri, Breve storia di alcune matite

Mauro Zanchi, 2H

Francesco Lauretta, Breve storia delle mie matite

Francesca Serra, Simonio e Lyndiana

Chiara De Nardi, Matita. Strumento divinatorio

Giuseppe Di Napoli, L'anima nera del carbone

Aldo Zargani, La matita del fato

Giovanna Durì, La prima matita e le sue compagne

Francesca Rigotti, Matita: veloce e lenta, giovane e antica

Maria Luisa Ghianda, Histoire d’H (di B e di F)

Guido Scarabottolo, Perdonare gli errori

La redazione, Una matita per l'estate. Il concorso doppiozero

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Una matita per l’estate
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Feudalesimo universitario

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L’ampia eco mediatica data all’arresto di sette docenti universitari in Diritto tributario, per aver truccato concorsi, rischia di indurre nel pubblico una falsa immagine dell’università italiana: fa pensare che la falsificazione dei concorsi accademici sia una rarità, mentre in realtà è la regola. Chiunque (come me) conosca un po’ il mondo accademico sa bene che i concorsi all’Università e in molti istituti di ricerca sono quanto più lontani dall’accertamento del merito. E questo specialmente nelle facoltà più corrotte, Medicina e Giurisprudenza. 

Il sistema semi-feudale della cooptazione degli accademici è la spia della mediocrità del sistema universitario e scientifico italiano. Per capirci però qualcosa occorre sgombrare il campo da un certo fake knowledge.

Intanto ci si lamenta che molti studiosi italiani se ne vadano a far carriera in Gran Bretagna, Germania, Francia o Svizzera. In paesi che appartengono o sono appartenuti all’Unione Europea, o sono stati cooptati da essa. Questo dimostra lo scarso spirito europeista di questi commentatori: l’Unione Europea non era stata fatta proprio per far circolare facilmente non solo i lavoratori, ma anche gli intellettuali? 

Si parla sempre della produzione scientifica di un paese come di un vantaggio e mai anche come di un costo. A parte le scoperte che riguardano direttamente la sfera militare e che quindi restano segrete, una scoperta scientifica e un’invenzione tecnologica sono patrimonio di tutta l’umanità, e conta in fondo poco dove sia stata fatta. L’invenzione del cinematografo in Francia non ha impedito poi a Hollywood di diventare la maggiore macchina di produzione di merce filmica. Il fatto che la meccanica quantistica sia stata creata soprattutto da scienziati tedeschi non ha avvantaggiato specialmente la Germania (anzi, la prima bomba atomica è stata costruita dagli americani, per fortuna, non dai tedeschi). In effetti, produrre un premio Nobel è molto costoso, perché per uno che vince il Nobel altri cento ricercatori non sono riusciti a scoprire granché. Ogni paese dovrebbe chiedersi piuttosto: Quanto io paese sono disposto a spendere per contribuire al progresso scientifico e culturale dell’umanità? Un po’ come ogni paese deve chiedersi quanto voglia contribuire agli aiuti per le nazioni povere.

 

È vero che molte scoperte si concretizzano in brevetti. Ma non è detto che chi usufruisce degli introiti di un brevetto viva dove ha inventato la cosa brevettata. Può darsi che un italiano scopra e brevetti qualcosa negli USA e che poi se ne vada a vivere in Cina, paese dove riceverà i soldi del brevetto.

Comunque, università e istituti di ricerca italiani attraggono ben poco studenti e ricercatori stranieri. Evidentemente perché abbiamo un insegnamento superiore di basso livello, comunque poco prestigioso. Secondo la classifica THE delle migliori università nel mondo, due sole università italiane appaiono nella classifica delle prime 200, entrambe a Pisa: la Scuola Superiore Sant’Anna (155a) e la Scuola Normale di Pisa (185a). Contro le 62 università statunitensi, le 31 britanniche, le 20 tedesche, le 13 olandesi, le 8 australiane, le 7 svizzere, le 4 belghe… che appaiono tra le prime 200. 

 

Abbiamo anche un tasso molto basso di persone (tra 25 e 64 anni) che hanno completato la loro educazione terziaria: solo il 17% (nel 2014). Contro il 54% del Canada, il 48% del Giappone, il 44% degli USA, il 42% della Gran Bretagna, il 35% della Spagna, il 32% della Francia, il 27% della Germania. Si laureano più di noi anche i portoghesi (22%) e i greci (28%). Insomma, insegniamo male a poche persone. Tra i paesi sviluppati, siamo tra i meno colti.

Siamo tra gli ultimi posti anche nella Ricerca & Sviluppo. E siamo solo decimi (nel 2015) per numero di brevetti, dopo – nell’ordine – Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Germania, Taiwan, Cina, UK, Francia, Canada. E a grande distanza da essi. 

Si dice che questa nostra mediocrità dipenda dal fatto che spendiamo poco per l’istruzione e per la ricerca. E in effetti spendiamo per l’educazione in generale il 4,08% del PIL, contro il 5,73 del Regno Unito, il 5,49 della Francia, il 5,39 degli USA, il 5,28 del Canada, il 4,95 della Germania, il 4,27 della Spagna.  Che spendiamo meno di quanto potremmo, è bene illustrato da questo grafico sui paesi OCSE:

 


 

La linea mediana centrale segna la congruenza tra il PIL pro capite dei vari paesi e le loro spese per l’istruzione universitaria. I paesi che si trovano sopra questa linea sono quelli che spendono oltre questo livello, insomma sovra-investono nell’istruzione terziaria; i paesi che si trovano sotto questa linea sono quelli che sotto-investono nell’istruzione terziaria. Come si vede plasticamente dal grafico, i paesi che spendono di più per l’istruzione rispetto alla loro ricchezza sono Regno Unito, Stati Uniti e Svezia, che ottengono anche i risultati più lusinghieri in termini di qualità riconosciuta dell’insegnamento superiore. L’Italia invece appartiene al plotone dei paesi che sotto-finanziano l’istruzione superiore, assieme a Corea, Islanda, Irlanda e Austria. Dovremmo quindi dedurne che in Italia dovremmo spendere di più per l’istruzione.

 

 

Ma basta spendere di più per avere un paese più colto? Il Giappone, ad esempio, spende meno di noi (3,95% del PIL), ma con risultati molto migliori dei nostri. Certamente sarebbe fondamentale investire più danaro nell’istruzione, ma il punto è come spendere questo danaro.

 

Occorre premettere un discorso di sfondo, altrimenti si finisce nella triviale polemica giornalistica. 

Chi è abituato a leggere statistiche e cifre di ogni tipo, sa bene che i paesi del mondo possono essere catalogati per rango. Il rango di un paeseè determinato da una serie di fattori fondamentali, che di solito tutti, di sinistra o di destra o di altro, consideriamo positivi. Il rango di un paese è tanto più alto quando rispetto agli altri paesi:

 

- Ha un maggiore livello culturale (migliore istruzione, più laureati, migliore risposta degli studenti ai test di capacità in lettura scienze e matematica)

- Si leggono più libri e media che altrove

- Ha il PIL pro capite più alto e minore disoccupazione

- Ha il sistema sanitario più efficiente e più accessibile a tutti

- Gode di una maggiore eguaglianza di genere, più donne lavorano, più donne in posizioni dirigenziali

- Ha più alta speranza di vita, minore mortalità infantile

- Il più alto indice di democrazia e di libertà dei media

- Maggiore produttività e competitività in campo economico

 

Ora, un paese di solito – a parte alcuni aspetti che possono divergere – è facilmente assegnabile a un rango perché tutte queste qualità si raggruppano più o meno allo stesso livello per ogni paese. Se un paese è di quinto rango, mettiamo, per eguaglianza di genere, sarà di quinto, o tutt’al più di quarto o sesto, in tutti gli altri aspetti. Ad esempio, Italia e Spagna appartengono allo stesso rango, anche se per certi aspetti l’Italia supera la Spagna e in altri è il contrario. 

Ora, anche per quel che riguarda il suo sistema educativo, l’Italia conferma il proprio rango: ovvero risulta tra gli ultimi paesi OCSE, e supera sistematicamente Grecia, Cipro, Romania, Bulgaria e Malta. Insomma, l’istruzione superiore e la produttività scientifica fanno parte di un “sistema paese”, e tendono a essere in linea con gli altri aspetti di questo stesso sistema. Del resto, abbiamo ranghi diversi all’interno di uno stesso paese. In Italia, come è noto, in tutti questi aspetti troviamo ai primi posti le regioni del Nord, al centro quelle del Centro, e agli ultimi le regioni del Sud e le Isole. 

 

Sarebbe davvero ingenuo pensare che il rango di un paese è determinato solo da scelte politiche, insomma, dalla qualità od onestà dei suoi politici. La teoria dei sistemi – il modo più intelligente di guardare alla realtà sociale – ci insegna che la politica non è qualcosa al di fuori del sistema sociale, ma è parte di esso. Anche nel senso che, se un paese è di basso rango, i suoi politici saranno di bassa qualità in linea col rango del paese. Del resto i politici sono eletti dai cittadini, i quali così esprimono quello che sono. Se un paese è relativamente ignorante e corrotto come il nostro, esprimerà dei politici relativamente ignoranti e corrotti. Ma esprimerà anche dei professori universitari relativamente ignoranti e corrotti. Siamo propri sicuri che abbiamo così poche università eccellenti solo per colpa dei politici che non danno abbastanza fondi?

Significa questo che non c’è speranza nell’azione politica? Non tanta speranza quanto ci vuol far credere la demagogia. Ma significa che bisogna agire mirando a salire di rango, per dir così, in tutti gli aspetti fondamentali della vita, e non solo attraverso la politica. Per esempio, i paesi del Nord Europa (paesi scandinavi, Germania, Olanda, più Australia e Canada) occupano i primi ranghi in assoluto nel mondo. Ma non sono stati sempre così. Un tempo la Scandinavia era la parte depressa del continente. Poi queste società sono cresciute e sono divenute le prime al mondo, ma non grazie a politici geniali: hanno prodotto poco a poco i politici che meritavano. 

 

La teoria dei sistemi complessi non ci permette di dire da dove bisogna cominciare per far salire una nazione di rango. Di solito si pensa che occorra partire dalla politica, ma non è affatto detto. In un sistema ogni ambito – come l’istruzione – è condizionato da tutti gli altri. Ma ciascuno, nel proprio piccolo e nel proprio campo, può provare a cambiare le cose.

 

Che cosa si dovrebbe fare allora nell’istruzione per aiutare l’Italia a salire di rango? Certamente si dovrebbe spendere di più, abbiamo detto, anche senza arrivare alle vette di UK, USA o Svezia. Ma non basta. È la struttura dell’insegnamento superiore che dovrebbe cambiare.

L’istruzione universitaria svolge di fatto tre funzioni fondamentali ma distinte. Una è quella di fornire un sapere professionale specifico – cosa che fanno soprattutto facoltà come ingegneria o medicina o giurisprudenza.  Un’altra è quella di elevare il più possibile il livello di cultura della massa: per questa ragione più laureati ci sono in un paese, più esso ne mena vanto. Il famoso slogan di Tony Blair – “Education, education, education” – significava appunto questo: per far fronte alla competizione crescente dei paesi in via di sviluppo, noi paesi più industrializzati dobbiamo puntare al massimo sul capitale umano, cioè su un livello elevato di istruzione.

 

La terza funzione è quella di dare un’istruzione speciale ai più dotati, a chi è capace di prestazioni scientifiche o culturali di alto livello. Ora, una certa demagogia egualitaria in Italia nega questa terza funzione, che invece viene esaltata nei paesi con maggiore produttività scientifica. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna – ma anche in Francia con le Grandi Scuole – c’è una gerarchia tra gli istituti universitari; non tutti possono entrare a Oxford e Cambridge, non tutti ad Harvard e Stanford, non tutti all’Ecole Normale Supérieure francese. Ovvero, per accedervi occorre superare una selezione. E in effetti in America non si chiede a una persona “In cosa hai la laurea?” bensì “Dove hai preso la laurea?” L’importante è il livello di istruzione che hai avuto, non tanto in che cosa. L’importante è aver imparato a imparare. Mi capita talvolta di incontrare dirigenti di banca o manager di grandi aziende americani che hanno magari un degree in sinologia o in teologia o in letteratura americana, ma quel che conta è che lo abbiano preso a Yale o alla Columbia, università Ivy League. Allo stesso tempo però gli Stati Uniti forniscono una laurea al 44% della popolazione adulta, mescolano insomma un approccio democratico e uno aristocratico. 

 

È vero che le università americane più prestigiose – quelle cioè che selezionano accuratamente i loro studenti all’entrata – sono molto care. Ma quando uno studente è ammesso in un’università prestigiosa, gli si aprono tutte le porte davanti: potrà avere una borsa di studio che gli pagherà le tuitions, gli sarà facile avere un prestito quarantennale a tasso ridotto, ecc. 

La polemica sul numero chiuso delle facoltà è quindi completamente mal posta. Perché se si pensa che la funzione dell’università sia quella di far crescere il livello culturale medio, il numero chiuso è un controsenso. Ma se si pensa che la funzione dell’università sia di fornire una formazione di altissima qualità, allora il numero chiuso è un’assoluta necessità. Ora, sarebbe ora di capire che questa duplice funzione non può essere svolta da una stessa facoltà! Occorre distinguere facoltà di élite (a numero chiuso) e facoltà per tutti (aperte). 

 

Mi sembra già di sentirli gli oppositori: “Così si creeranno università di serie A e università di serie B!” Ma certo, i paesi che hanno il maggiore potere scientifico nel mondo, in tutti i campi, hanno università di serie A, di serie B, e anche di serie C. Volere che le università siano di altissima qualità e che allo stesso tempo siano aperte a tutti è volere la botte piena e la moglie ubriaca.

Si dirà: che valore sul mercato del lavoro potrà avere una laurea di serie C? Certo di più che non avere alcuna laurea. Il fatto che molte aziende prendano solo laureati per certe mansioni non è dovuto al fatto che l’università abbia dato loro un sapere professionale specifico. Ogni grande azienda sa che il vero sapere professionale si acquisisce lavorando, in loco. Ma avere una laurea è segno che quella persona è riuscita a portare a termine qualcosa nella vita. Che si è fatta valutare da professori e che questi l’hanno promossa. Avere una laurea è un marchio psicologico, non prova di chissà quale sapere (tranne che nelle facoltà strettamente professionalizzanti).

 

Ne discende l’eliminazione del valore legale del titolo di studio, che del resto fu già proposto in tempi non sospetti, negli anni 70. Con questa abolizione, si verrebbe assunti non sulla base del pezzo di carta, ma sulla base delle proprie effettive capacità, sulla base insomma di quello che si sarà davvero imparato. Sarebbe quindi interesse di ogni università alzare il livello della propria offerta formativa per immettere sul mercato dei laureati in grado di trovare lavoro qualificato.

Se fossi ministro dell’istruzione, cercherei di creare in Italia alcuni centri universitari di massima eccellenza – e non solo a Pisa – con corsi interamente in inglese, e offrendo lauti salari a esperti di ogni paese per attrarli in Italia. E allo stesso tempo – scelta non contraddittoria – cercherei di allargare il numero delle università minori in modo da incoraggiare tanti a intraprendere un percorso universitario.

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I mali della istruzione italiana
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Mal d’Appennino

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Nascere nelle zone dell’Italia interna, a metà strada tra il mare Adriatico e il mar Tirreno, significa portarsi dentro quel tormento che Ignazio Silone chiamava “mal d’Appennino”: un disturbo, un intralcio, un tarlo che s’insinua sotto la pelle di chi lascia i paesi dove ha avuto origine il suo sangue e poi però, nel momento stesso in cui si allontana da essi, sente l’urgenza di ritornare sui propri passi, rientrare tra i muri della propria casa. Silone parlava di questo “mal d’Appennino” in Uscita di sicurezza, pensando certo ai comportamenti degli emigranti abruzzesi, i suoi corregionali, perennemente al bivio tra urgenza di fuga e nostalgie del passato, fra ambizioni di miglioramento e desiderio di ricucire la tela dei rapporti interrotti. Ma la diagnosi vale per chiunque avesse dimora sui contrafforti della dorsale che attraversa l’Italia da nord a sud e segna il carattere di un territorio che non è più oriente ma non è ancora diventato occidente, un levante luminoso prossimo a imbrunirsi nei colori dell’occaso. Oriente e occidente non sono soltanto categorie geografiche, ma il portato di variabili antropologiche.

 

 

Gli abitanti dell’Appennino sono segnati da questo perenne sentirsi terra di mezzo, il loro destino è nell’essere tragici com’è tragico il mondo di Omero e comici com’è comico (alla maniera di Dante) l’epilogo del viaggio di Cristoforo Colombo oltre le colonne d’Ercole. In questa mai risolta identità bifronte, nel desiderio di ricollocarsi in un altrove ancora inacquisito, dentro un non-hinc e un non-nunc del tutto oscuri, si giocano le sorti di chi, ieri come oggi, avverte l’urgenza di rompere il cerchio dell’orizzonte amico e se ne va nel timore/nell’azzardo, uscendo di casa, di commettere un sacrilegio. Cercare una via alternativa all’esistere dentro un paesaggio appenninico non soltanto presuppone il senso totalizzante di spaesamento, ma implica la strana condizione di perdere i ricordi ed essere cercato dai ricordi, di oscillare sull’altalena dell’andare e del rimanere, di sentirsi condannati a non trovare mai più la percezione di una “definitività”.

 

Appennino vuol dire esattamente questo: vivere in uno stato di sospensione, non appartenere più alla geografia che ci ha originati e tuttavia non essere legati nemmeno al luogo dove ci si ferma per mettere radici. Sarà questo, forse, il motivo per cui gli scrittori nati lungo la dorsale che dalle Langhe porta all’Aspromonte obbediscono alla regola della tartaruga: camminano con la casa sulle spalle, si portano dietro il loro bagaglio di identità, cercano di rifondare altrove il paese che hanno perduto. Sono uomini di memorie e di utopie, intuiscono che non tutto si perde con il distacco e che anzi, se davvero esiste una risorsa al motivo dell’abbandono, essa si trova nel tentativo di innalzare le mura di nuove città in cui recuperare gli antichi linguaggi, ristabilire i ponti con la comunità, recuperare i legami tradizionali. Non si tratta di celebrare il nostos come Ulisse e nemmeno farsi eredi della parabola di un Abramo che lascia definitivamente la terra di Ur per abbracciare la promessa fatta da Dio, piuttosto interpretare il senso di una fine e di una rinascita, come Enea che fugge dalle fiamme di Troia e conserva gli dei pagani nella bisaccia. Enea si è caricato il padre Anchise sulle spalle e tiene il figlio Ascanio per mano, è un individuo diviso tra il sentimento di ieri e la speranza di domani, cerca aiuto nel viaggio che il suo essere pietoso verso la propria terra gli impone per ricostruire le antiche rovine.

 

Viaggio di rifondazione più che viaggio di conoscenza: Enea vince la sfida su Ulisse, diventa l’archetipo di chi lascia il proprio mondo in fiamme e rifonda la civiltà. Spesso infatti, come Enea, chi lascia l’Appennino si allontana da una catastrofe avvenuta, da un’apocalisse annunciata. I terremoti e gli smottamenti avvengono nel terreno così come nella memoria. E non c’è alternativa per chi ha intuito la fine del mondo che riedificare ogni cosa dal nulla, trovare lo spazio e il tempo dove ricostruire e organizzare, così come aveva preannunciato Isaia nel salmo 58. Prima di raggiungere la meta, prima di essere certo che il luogo cercato si adatta alla mitologia della propria maniera di stare al mondo e solo lì, non altrove, è possibile edificare la polis, bisogna sciogliere i nodi sotterranei: ricordi, parentele, linguaggi. Chi appartiene all’Appennino, chi ci è nato, chi ci vive, sa di poggiare i piedi su un luogo dove la memoria penetra lentamente nel terreno, si adatta con difficoltà agli smottamenti e alle frane, ramifica con lentezza, deve trovare le pietre per radicarsi e trarre i succhi per fruttificare.

 

 

L’Appennino è il luogo degli orizzonti perduti e nascosti, dove il tempo si è dimenticato di essere stato tempo ed è fuggito via, lasciando la dimensione dell’assenza, il disincanto del passato che ha bisogno di luce e di vento per tornare a manifestarsi all’aria aperta. Uno percorre i saliscendi delle strade, dispone gli occhi a seguire il corso dei fiumi che si perdono dietro le curve delle montagne, mette in conto l’idea di abbandonarsi alla dolcezza dei luoghi che paiono vicini e irraggiungibili e invece presuppongono la misura di un tempo insospettabile per essere raggiunti perché le vie di comunicazione si nascondono dietro una macchia di alberi e i tornanti rallentano la marcia, la confondono, aggrovigliano i pensieri in una matassa di curve e controcurve. Gli occhi si infilano nei varchi che le montagne lasciano aperti e uno sente crescere dentro di sé un destino di storie che si moltiplicano con lo scoprirsi dei paesi, dialetti che si aggiungono a dialetti, sangue che si mescola ad altro sangue, pensieri che si avvolgono fra loro come fili di lana destinati a crescere nei maglioni o nelle sciarpe di chi li indosserà per ripararsi dal freddo. Quando si va via, accade tutto questo, ma in un attimo, quel che occorre per spezzare il cordone ombelicale e accorgersi che da terra interna l’Appennino si è trasformato in una terra interiore. Poi si scende verso il mare, le montagne svaniscono, ce le lasciamo alle spalle, continuiamo la strada verso le discese che portano a un orizzonte piatto e geometrico.

 

La pianura ci accoglie placida e indifferente. Il sangue ritrova il ritmo regolare nei canali dritti che dividono i campi dai pioppi, le rogge e i seminati. Siamo passati dal labirinto alla scacchiera, dai grovigli antichi a quelle che Carlo Levi aveva battezzato le “campagne matematiche”. Ora che finalmente l’Appennino è alle nostre spalle, la pianura ci si srotola davanti come un tappeto in attesa che qualcuno cammini sopra con passo cadenzato, uniforme, senza smottamenti ed emozioni. Spariscono i sussulti del cuore, i grumi inspiegabili mescolati di sogni e di ricordi. Finiscono le passioni, cominciano le riflessioni.

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Cibo sacro quotidiano

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Homo Consumens, è il titolo di un libro di Zygmunt Bauman e al tempo stesso è la definizione di un attore insostituibile per la nostra stessa idea di modernità. Il sottotitolo del libro, lo sciame inquieto dei consumatori, svela chi siano questi attori.

Siamo fondamentalmente tutti noi, sradicati collettivamente da ogni forma di autoconsumo negli anni del boom economico, gli anni 60, anni in cui abbiamo perso il contatto diretto con i cicli della vita e dell'agricoltura.

A ben vedere il fatto di essere diventati soprattutto consumatori, almeno in Europa, è stato un marchio esistenziale per quella e per tutte le generazioni a venire, proprio come l'“invenzione” dei giovani, della musica rock, l'avvento del supermercato e quello dei jeans, la necessità pochi anni dopo di un'“educazione alimentare”...

 

Sciame inquieto quello dei consumatori, non a caso, perché espressione dei comportamenti e dei consumi fluttuanti attraverso i quali i gruppi sociali fondano un proprio riconoscimento ma sempre a termine, sempre labile... 

È in quel riconoscimento che gli individui cercano le tendenze che potranno essere vincenti nell'assicurare continuità al loro senso di appartenenza. Il succedersi continuo di mode che viviamo e abbiamo vissuto non sono il segno di questa "danza" entro la quale tutti siamo avvolti? 

Una danza che avviene dentro un enorme sciame inquieto...

 

 

Lasciando Bauman, restano intorno a noi le tribù– entità sociali che dalla rivoluzione neolitica lentamente scompaiono dall'orizzonte dell'umanità – e che sono ricomparse sotto altre vesti. È come se i geni del paleolitico reclamassero la loro presenza e si mostrassero in altre forme. Non solo quelle note della tendenza ad ingrassare (ma nella lunga stagione paleolitica quei geni erano favoriti perché più efficaci rispetto alle carenze alimentari) ma anche quelle, come definirle... quelle del riconoscimento e dell'appartenenza senza le quali un gruppo non è più tale. 

Se nelle enormi società figlie dell'agricoltura, delle rivoluzioni industriali e della modernità le tribù reali si sono estinte... in queste nostre stesse società, riportate alla luce dai geni profondi, sono riemerse le tribù artificiali fatte di mode, tendenze, consumi...

 

Nell'abbigliamento o nel costume le mode sono evidenti in una rotazione pressoché continua, ma negli ultimi decenni anche l'alimentazione ne è stata coinvolta: così per i comportamenti e le teorie, le convinzioni, gli alimenti miracolosi di una sola stagione.

Così ad esempio, cosa sono state se non "anche" mode gli alimenti a km 0, il pane ai cinque cereali, la "scoperta" della soia, l'alimentazione macrobiotica, gli integratori in barrette, la nouvelle cuisine, l'integrale e il finto integrale, la riscoperta del mirtillo, l'infatuazione per la curcuma, la scelta vegana, il sushi e molto altro ancora. Tutti consumi basati su nuove certezze oppure suggestioni scientifiche, quasi tutte fondate su una maggiore aspirazione alla salute e al benessere personale.

Ed è proprio questo il punto... qualunque moda sembra partire dall'idea di fondo di un vantaggio personale oltre che di riconoscimento collettivo.

 

Eppure... eppure negli ultimi anni sembra di intravedere qualcos'altro, sembra che queste tendenze possano non essere tutte uguali... sembra che oltre l'orizzonte degli interessi personali, oltre al naturale egoismo dei geni che ci porta verso consumi rivolti al benessere personale (che sia sempre quello dell'immortalità il sogno inconfessato...?) si faccia largo la necessità di un benessere condiviso, in qualche modo collettivo. Se così fosse, sarebbe qualcosa di più di una rivoluzione culturale...

Gli alimenti bio, quelli a km 0, le scelte vegane o vegetariane, gli alimenti equi e solidali, i prodotti del territorio, gli alimenti e la cucina della tradizione solo apparentemente sembrano infatti elementi di un quadro eterogeneo, perché in realtà accomunati dal fatto di essere scelte che vanno oltre ogni benessere personale.

 

In ognuna di queste scelte – anche in quelle che non condividiamo – sembra possibile intravedere una trama coerente che le collega: è così per l'attenzione al tempo e ai luoghi, quella verso l'ambiente e poi il rispetto della natura, il rispetto del lavoro dell'uomo e di tutta l'umanità che è e che è stata...

Un insieme di attenzioni e di preferenze che può essere chiamato anche consapevolezza, etica, senso di responsabilità, condivisione... comunque qualcosa che sembra andare oltre le mode passeggere delle tribù artificiali ma in cui ci si riconosce (ancora inconsapevolmente credo) figli di una stessa terra, di una stessa madre, di uno stesso destino...

 

C'è un momento in cui compiamo la scelta definitiva verso gli alimenti, l'ultimo attimo volontario dopo il quale tutto avverrà al di fuori della nostra volontà e il cibo diventerà parte di noi. 

È insolito pensarci in questi termini ma inghiottire, deglutire rende definitive le scelte che abbiamo fatto, definitivi i nostri gusti, le idee, i convincimenti e le teorie che ci sorreggono. È in definitiva in quel momento che certifichiamo che quel piatto, quell'alimento, quella dieta è buona. Ed è la fine di un percorso in cui prima c'è stata tutta la conoscenza e la cultura di cui noi e chi prima di noi è stato capace...

 

Ma in definitiva scegliere il cibo non è sempre cultura...?

E così allora deve essere anche per le attenzioni e le preferenze che oggi sembrano affacciarsi all'orizzonte, già...

Etica, responsabilità, condivisione dicevamo... ma tutto potrebbe forse essere accomunato dall'affacciarsi di un sentimento, la consapevolezza che il benessere non può essere solo personale e che deve appunto essere condiviso... un sentimento che rende il nostro cibo non solo buono ma "buono e giusto", credo un cibo di cui si riscopre la sua dimenticata normale sacralità... una sorta di "cibo sacro quotidiano", così come in fondo è sempre stato, almeno prima di ogni boom economico, prima che il progresso fosse misurato solo in Pil e in consumi, prima che ci dicessero di essere consumatori.

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