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La bella addormentata nel frigo multimediale

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A trent’anni dalla scomparsa, tra le acquisizioni più importanti della “riscoperta” di Primo Levi vi è la piena consapevolezza che egli sia stato narratore di gran lunga eccedente la qualifica di “testimone”, sia pur d’eccezione, o di icona della memoria.

Lo attestano importanti operazioni editoriali che hanno restituito la complessità della sua figura, come la nuova edizione delle Opere complete (Einaudi, 2016), quella in lingua inglese The Complete Works (Liveright 2015) e l’enciclopedia leviana scritta da Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo(Guanda, 2015).

Emerge come la scrittura di Levi sia un reagente in grado di esprimere un’immagine sfaccettata e multidimensionale della condizione umana, tra esperienza quotidiana ed etica universale e tra gli estremi della profondità che caratterizza la descrizione del lager e i colpi di ala ironico-parodistici della produzione fantastica. 

 

Proprio al crocevia tra letteratura e scienza si situa la produzione di fantascienza, tra cui i racconti pubblicati sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila nel 1966 (ma scritti in precedenza) con il titolo di Storie naturali: storie che Levi stesso definiva «più possibili di tante altre», nelle quali si confrontava con «le proposte della scienza e della tecnica viste dall’altra metà di me stesso in cui mi capita di vivere» e che nella quarta di copertina della prima edizione sono presentate come «satira e poesia, nostalgia del passato e anticipazione dell'avvenire, impostazione scientifica e gusto dell'assurdo».

Storie che declinano un personale approccio al genere: un confronto con la tecnica che rispecchia l’Italia degli anni Sessanta, con i cambiamenti che innovazione tecnologica e boom economico stavano introducendo nei diversi strati della società, e che Calvino collocava «in una dimensione di intelligente divagazione ai margini d’un panorama culturale-etico-scientifico» contemporaneo ed europeo.

Come scrive Francesco Cassata in Fantascienza? (Einaudi, 2016)) la «fantascienza si nutre di questo modello di analisi e di scrittura, pur rappresentandone, al tempo stesso la provocatoria e ironica sovversione. […] Per Levi, Auschwitz […] è un prisma etico e cognitivo attraverso cui analizzare la “curvatura” della razionalità contemporanea e riflettere sulle “smagliature” e i “vizi di forma” del presente e del futuro”».

 

Proprio uno dei racconti più sottilmente inquietanti delle Storie naturaliè stato recentemente pubblicato in versione digitale. La bella addormentata nel frigo, a cura di Daniela Calisi, Roberta Mori, Cristina Zuccaro (Einaudi 2017), è infatti un e-book progettato per consentire diversi accessi al testo leviano, con una navigazione multimediale che rende disponibili e accosta diverse versioni dello stesso racconto.

Si tratta di un progetto curato dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi, sviluppato da PubCoder, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Storici dell’Università di Torino: realizzato nell’ambito di un laboratorio formativo, l'ebook è stato pubblicato da Einaudi e Apple, in occasione dell’anniversario della morte di Levi, e si può scaricare gratuitamente.

 

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La storia è ambientata nel 2115, nella casa di una borghesissima famiglia tedesca in cui “vive” una fanciulla che dal 1975 è ibernata in un frigo, scongelata e riportata alla coscienza per brevi momenti che diventano occasione di eventi speciali. Un racconto straniante che si muove tra gli spettri della sperimentazione nazista su cavie umane, le fantasie futuristiche di immortalità e la ricerca scientifiche sul confine tra vita e morte, con il quale lo stessi Levi intendeva sottolineare «la crudeltà inconsapevole» e il «sottofondo di perversità, di “nazismo” interiorizzato» che caratterizzano, in ogni tempo, l’esercizio della violenza istituzionalizzata. Come altri racconti di ambientazione fantascientifica, La bella addormentata nel frigo esplora in modo elusivo il capovolgimento della scienza in senso anti-umano, secondo il paradigma del lager come “mondo alla rovescia”: all’interno di una domanda etica «il passato nazista agisce a un livello profondo e viene costantemente dislocato e trasfigurato nella territorio della biomedica contemporanea» (Cassata).

 

Il formato digitale propone diverse versioni del testo, quella pubblicata a stampa, il radiodramma del 1961 e lo sceneggiato televisivo del 1978, rendendone possibile lettura, ascolto e visione attraverso specifici strumenti incorporati nel download: in questo senso il testo è cross-mediale, permette con link attivi di individuare le varianti con un confronto “interlineare” e di connettere media che hanno “età” diverse e specifici linguaggi.

Sono inoltre possibili diversi livelli di lettura grazie a un ricco apparato critico facilmente navigabile: un menu orizzontale agevola la letteratura nel segno dell’intertestualità, con specifici percorsi a navigazione libera (relativi a storia del testo, riferimenti interni, struttura, concetti chiave, lingua, riferimenti a fantascienza e scienza).

Per come interpreta le possibilità offerte del digitale, il progetto è una risorsa innovativa per entrare nel laboratorio dello scrittore: la sua fruibilità lo rende in particolarmente adatto all’uso didattico, rispecchiando la chiarezza della parola di Levi e il suo timbro antiretorico.

 

Da domani 4 ottobre sino al 27 ottobre la mostra I mondi di Primo Levi al Quirinale (Palazzina Gregoriana).

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Salviamo la comunicazione sul web

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Salvare il digitale da se stesso. Può sembrare un proposito paradossale, nell'epoca della sua massima espansione economica. Proprio mentre scrivo, intellettuali e politici di tutto il mondo costatano ancora una volta l'enormità del potere accumulato dai colossi del web. Messi insieme, è stato calcolato, i soli Google Amazon Facebook Apple e Microsoft adesso valgono il quinto stato più ricco del pianeta, peraltro privo dei debiti delle nazioni. Anche il Financial Times si chiede se questo schieramento non sia ormai too big per accettare regole. Senza contare il gigantesco influsso, non solo economico, che l'online ha raggiunto nella vita di ognuno di noi. Di quale aiuto dunque può mai aver bisogno il web?

 

E di quali consigli per di più potrà aver bisogno la pubblicità digital, da anni proclamata in costante incremento di fatturato? Attenti innanzitutto a considerarlo un tema specialistico. Nascoste sotto le mentite spoglie di argomento tecnico, le inserzioni su internet sono al momento l'unico motore economico non solo dell'intrattenimento ma anche della libera informazione online. Quanto basta per considerarlo un tema persino politico, d'importanza collettiva. Altro che materia per esperti. Val la pena insomma di interessarsi ai suoi destini. Anche perché, se l'impero è in evidente espansione, altrettanto sono visibili le sue crepe.

 

Prendiamo il successo di AdBlock. Per chi tra voi non dovesse saperlo, si tratta di un'estensione – ossia di un programma che amplia browser come Chrome o Safari – creata per liberare la navigazione sul web dalla miriade di banner, pop up, interstitial e via elencando i pullulanti formati della pubblicità digital. Il suo ideatore fu un giovane programmatore, Michael Gundlach. AdBlock fa esattamente ciò che promette nel nome: vieta l'accesso durante la propria navigazione alla terribile pubblicità web, come per esempio i pre-roll, ossia le inserzioni da sorbirsi prima di vedere un video, oppure quelle, ancora più invadenti, intromesse tra noi e l'articolo, magari anche complicate da rimuovere.

 

Nonostante gli AdBlock – quello di Gundlach è stato solo il primo esempio del genere – abbiano ricevuto poca attenzione dai grandi media, la loro diffusione sta crescendo sui computer di tutto il mondo, compresi quelli italiani. Nel 2016, sette milioni di nostri concittadini risultavano, nel silenzio, avere adottato questo vero e proprio dispositivo di autodifesa la cui utilità si è così affermata da diventare "di serie": è il caso di Samsung e Apple, che a breve distanza l'uno dall'altro hanno offerto ai propri utenti la possibilità di scaricare sistemi di adblocking. E il segnale a questo punto si tramuta in allarme.

 

Anche perché, per gli editori, tutto ciò può rappresentare un danno notevole. Non ci vuol molto a capire come, di questo passo, gli spazi pubblicitari online possano diventare sempre meno appetibili. Ora, cosa dovrebbero fare i marchi davanti a un fenomeno del genere? Invece che disperarsi o, peggio ancora, come si legge, studiare nuove tecnologie che aggirino gli AdBlock, farebbero bene a riflettere sulle parole dello stesso Gundlach – il quale durante una conferenza già nel 2010 ha dichiarato "poiché la pubblicità è così fastidiosa per così tanta gente che vuole eliminarla, la pubblicità dovrebbe cercare di essere meno fastidiosa". Geometrica chiarezza.

 

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A me gli AdBlock ricordano in verità qualcosa di ben poco digitale, ossia quei cartelli che spesso capita di leggere sui portoni dei palazzi: "Niente pubblicità per favore". Hanno un tono perentorio, ma si potrebbe anche considerarli come degli inviti a cercare modi meno sgradevoli per far arrivare quelle informazioni. Non a caso Gundlach dichiara che il suo "risultato ideale sarebbe dover ritirare questa estensione, quando tutto il web sarà ricoperto solo da pubblicità che alla gente piace e che a nessuno viene in mente di bloccare".

 

Internet si annunciava, lo sappiamo, come la possibilità straordinaria di realizzare ciò che si è sempre cercato, ossia un paritario rapporto "one to one" con il pubblico. Anche Zuckenberg presentò così Facebook agli inserzionisti: eccola, finalmente, la conversazione tra brand e pubblico. Su queste basi i social network hanno costruito platee nuovissime, raccogliendo grandi audience a scopi pubblicitari. Il fenomeno AdBlock, però, parla chiaro: l'occasione è stata persa. La pubblicità sul web replica i peggiori schemi del passato, martellanti e disinteressati a qualunque forma di relazione rispettosa. E, a dirla tutta, sembra che lasciar fare ai citati giganti del web non sia stata una grande idea. 

 

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Risultato? La gente oggi detesta la pubblicità su internet e la rifugge appena può. Anzi, quella sregolata aggressività rappresenta il ribaltamento delle promesse iniziali della rete. Sul web il pubblico non ha ricevuto più libertà di prima ma più pressione. Il suo lettore non è considerato un soggetto attivo ma un passivo ricettore di valanghe di messaggi inutili. E certo non è visto dagli inserzionisti come una persona ma, più che mai, un numero da conteggiare, pedinare, intercettare in ogni momento. Un dato.

 

E non ci riporta, questa involuzione, ai deliri della pubblicità scientista che Bernbach già alla fine degli anni '40 decise di contrastare? Davanti all'onnipresenza insistente di certi banner sembra di risentire quel Rosser Reeves che negli anni cinquanta confidava nel bombardamento tv fino a dire "la gente guarderà la pubblicità, che sia interessante o no". Tutto questo sforzo tecnologico non ha portato una nuova idea di pubblico e di linguaggio. Siamo ancora agli anni cinquanta. Anzi, è stupefacente proprio vedere come la quasi totalità dei marchi, davanti a rifiuti espliciti quali l'adblocking, non riesca neanche a concepire una risposta qualitativa e non sia sfiorata dalla possibilità di poter cambiare approccio linguistico preferendo il chiuso della propria autosufficienza.

 

Eppure non è solo il pubblico a inviare segnali di saturazione. Per quanto i media non lo raccontino volentieri, e preferiscano un'acritica e ormai invecchiata vulgata entusiastica, anche gli inserzionisti non sono più in luna di miele. È il caso degli investimenti in Programmatic, ossia degli acquisti automatizzati di spazi pubblicitari, che pongono problemi di trasparenza finora irrisolti: per i committenti è quasi impossibile tracciare la dislocazione delle proprie campagne, in parole povere capire che fine facciano i propri soldi. E ancora. Una recente inchiesta del Times ha scoperchiato il tema della Brand Safety, cioè di inserzioni che attraverso assegnazioni automatizzate si collocano su siti web volti a finanziare terroristi o gruppi neonazisti. Marchi come Land Rover o L'Oreal, giusto per citarne un paio, non hanno gradito, e le piattaforme Google hanno subito le defezioni illustri di molti grossi account.

 

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Problemi di non diversa natura, sempre legati all'autosufficienza, all'intangibilità, all'impossibilità materiale di verificare, sono legati anche alle impression fraudolente e al traffico fakeuna ricerca valuta in 16,4 miliardi di dollari il costo delle frodi pubblicitarie nel 2017 – così come alle performance delle inserzioni sui social: chi controlla il loro rendimento? Può essere credibile che a certificarlo sia il loro stesso venditore? Si pensi a Facebook, che ha recentemente ammesso di aver alterato al rialzo il conteggio delle view dei propri video pubblicitari. L'inafferrabilità del web è non a caso alla base della clamorosa decisione di un cliente non proprio minore – Procter & Gamble– che ha deciso per il 2017 una stretta sui propri investimenti nel digitale. “Mio papà mi ha insegnato che se anche tutti i miei amici decidessero di gettarsi dal ponte, io non devo farlo”, ha dichiarato Marc Pritchard, Chief Brand Officer della corporation.

 

Un quadro troppo fosco? Solo gli inevitabili assestamenti di un mondo, quello digitale, che in fondo muove in questi anni i suoi primi passi? Di certo non è impensabile che con l'andamento attuale il web – con i suoi cookies, i suoi big data, con il suo opaco desiderio di tracciare ogni nostro movimento – finisca per condannarsi lentamente al suicidio, ovvero alla sua estinzione così per come l'abbiamo conosciuto. Non sarebbe imprevedibile cioè se l'intrattenimento e le relazioni – oggi così fitte – domani trovassero un modo per uscire da lì. Vorrebbe dire che il web non sarà più percepito come spazio neutro, di autonoma condivisione, ma che sarà diventato agli occhi di tutti ciò che già oggi fa intravedere: un luogo perennemente interessato a usarci, la patina gradevole di una trappola multiforme.

 

Può darsi insomma che siano destinati a restare in rete solo i servizi; i biglietti da acquistare, i pacchi da farsi recapitare, la spesa online... e non stupirebbe, a quel punto, se i nostri figli guardassero all'internet del futuro un po' come i giovani vedono oggi la tv generalista, ossia un media essenzialmente vecchio, finto, saturo di brutte inserzioni, uno spazio "in posa" incapace di creare fatti nuovi. La cultura digitale sarebbe così vittima della propria autosufficienza, dell'idea che la comunicazione sia un evento tecnologico invece che umano. Ma è proprio qui che si ridefinisce il ruolo degli autori pubblicitari in epoca digitale.

 

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Se una cosa ci hanno insegnato, il vecchio Bernbach e altri come lui, è che la sfida dei bravi pubblicitari non è imbottire il pubblico suo malgrado, ma creare momenti d'incontro sorprendenti ed emozionanti, rispettandolo, considerandolo su un piano paritario, per intavolare con lui una conversazione basata sulla reciproca umanità. Perché è un modo migliore e più onesto di lavorare ma anche perché il contrario ha scarse possibilità di funzionare. Per questo oggi è fondamentale ricucire con quel sapere di qualche decennio fa, per recuperare insegnamenti cruciali più che mai.

 

E dunque, di quali competenze c'è davvero bisogno ora? Qual è il compito dei creativi adesso, sul web? Lasciamo che a dirlo siano alcuni tra i grandi protagonisti dei successi digitali di questi anni. Il primo è John Mescall, australiano direttore creativo di "Dumb Ways To Die", l'operazione che sbancò Cannes 2013 in forza di una viralità senza precedenti. Forse la ricordate, fu il loro modo per dire nella Metro di Melbourne "non oltrepassate la linea gialla". Mescall tradusse in "è un modo troppo stupido per morire" e nacque un video il cui humor nero ha deliziato il mondo. Leggiamo questo estratto da un'intervista.

 

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"Qualche anno fa l’aspettativa era che se facevi un annuncio abbastanza divertente e interessante, le persone sarebbero andate a vederlo da qualche parte. Vi ricordate l’ascesa dei minisiti, piccoli siti dedicati a singole campagne? Ogni campagna aveva un minisito e dovevi andarci. Le persone non vogliono più farlo. Si rifiutano di viaggiare fino a te. Le persone vogliono trovarsi di fronte al tuo contenuto, e non solo per il loro divertimento; vogliono condividerlo tra di loro, controllarlo, possederlo. Non vogliono più doverti raggiungere. (...) La pubblicità online non deve basarsi sull’interruzione. (...) E non è questione di età: è questione di psicografia non di demografia, è questione di atteggiamento. Ci sono sessantenni che vivono intere vite online e ci sono ventenni che chiudono le pagine Facebook e si spostano deliberatamente offline. Ciascuno è diverso."

 

In breve, Mescall ci sta dicendo che con modi nuovi ha cercato un incontro antico: creando un contenuto per un tipo di pubblico attivo, reattivo, da rispettare e intrattenere. A proposito: non tutti conoscono una campagna dei primi anni sessanta, firmata dalla DDB di Bernbach, che parlando di sicurezza stradale mostra un sorpasso in curva e lo definisce un "dumb way" di rischiare la vita. Non vuol dire che Mescall ha copiato, vuol dire una cosa più importante: entrambi hanno cercato lo stesso tipo di rapporto con il pubblico. Franco, onesto, coinvolgente.

 

Il secondo caso è quello di van Damme e del suo Epic Split per Volvo. Campagna che totalizzò oltre 100 milioni di view, firmata dall'agenzia svedese Forsman & Bodenfors. Sono i creativi stessi a raccontarlo: in un primo momento pensavano a una pianificazione tradizionale, ma poi, vista la scarsità del budget, si decise di investire tutto nella produzione di una serie di commercial visibili solo su Youtube. E cosa scriveva qualche decennio prima il nostro Bernbach? «La creatività, se usata in modo corretto, darà come risultato numeri più alti nelle vendite, a fronte di un investimento più ridotto. Se applicata in modo corretto la creatività riesce a fare il lavoro di dieci. Se applicata in modo corretto la creatività farà uscire il claim della marca dalla palude del tutto uguale per renderlo un concetto accettato, convincente, credibile ed immediato».

 

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L'ultimo caso è di una delle agenzie digitali più importanti del mondo: AKQA. Il suo ex direttore creativo, Rei Inamoto, racconta questa storia affascinante: "Una delle lezioni più importanti della mia vita non è stata in una classe, e credo lo stesso valga per molte persone. È stato un gesto semplice di mia madre. Avevo circa dieci anni; a quel tempo ero affascinato dalla musica e volevo che i miei genitori mi comprassero un sassofono. Non sapevo suonarlo, credo che fosse più una cosa di tendenza. Mia madre, invece di comprarmi uno strumento, mi ha comprato un libro su come costruire uno strumento. Come a dire: prima impara suonare lo strumento che ti fai tu, poi chiedimi di comprarti un sassofono. Ecco, più che una tecnica credo sia importante insegnare a pensare in un certo modo. (...) credo che l’elemento umano sia imprescindibile. Penso che molte delle attività degli uomini saranno svolte da software, ma in fin dei conti — mi dimentico la citazione esatta — “le persone non dimenticano come gli altri le hanno fatte sentire” (cit. Bernbach, ndr). Gli esseri umani sono esseri emotivi, e non credo che le macchine abbiano ancora scoperto qual è il trucco. Credo che ci arriveranno, ma non so tra quanto, se fra dieci o cinquant’anni. Essere capaci di parlare al cuore è ancora il nucleo di quello che facciamo".

 

Insomma, i grandi protagonisti di questi anni "virali" dimostrano che i requisiti non sono cambiati. Ci ricordano che c'è ancora bisogno di insegnare il latino e il greco della pubblicità. I suoi originali perché. Compito degli autori pubblicitari sul web oggi è quindi ricreare un ambiente linguistico e contenutistico nel quale possa vivere, sopravvivere e persino esaltarsi l'anelata conversazione, il rapporto paritario tra chi comunica e il pubblico, un ambiente nel quale le idee non necessitano, come dice l'inventore di AdBlock, di essere imposte. Anche perché, vista da un buon pubblicitario, la stragrande maggioranza delle inserzioni web oggi non ha alcun senso, né commerciale né comunicativo.

 

È curioso il modo in cui il pubblico di internet viene dato per scontato. Come fosse ormai una realtà definitiva. Come se non fosse composto da persone. Persone che, se si continuerà a far finta di nulla, finiranno per svuotare il contenitore, lasciando i banner a lampeggiare da soli. E sappiamo già che ci saranno, nel mondo intorno, cento, mille cose più interessanti da fare. Sì, in questi anni si è raggruppata una grande quantità di persone davanti a nuovi schermi e sì, tutta questa gente è un potenziale pubblico cui rivolgersi. Ora però bisogna insegnare agli autori pubblicitari a fare in modo che non diventi l'ultimo posto nel quale desiderare di trovarsi.

 

Ecco perché il libro di Diego Fontana – Digital Copywriter, Franco Angeli, 2017 – è uno strumento fondamentale, una vera cassetta di pronto soccorso per chi lavora e lavorerà alla pubblicità sul web. Non solo i medicamenti che suggerisce sono utili, ma i suoi riferimenti sono nobili e preziosi. Esulano spesso dal digitale e lo riconnettono con la più ampia sfera del linguaggio pubblicitario. Riconosce le specificità del web ma non lo concepisce come sacrale mondo a parte, e cerca semmai di includerlo in una ricerca di senso che dovrebbe accomunare tutta la buona comunicazione. Se altrove si celebra il suo gergo specialistico per iniziati, qui si vuol fare del digital una nuova, rispettosa occasione d'incontro, cogliendo in esso la nuova chance di applicare quella fantasia, quell'originalità, quella freschezza che dai tempi di Bernbach i buoni comunicatori cercano di introdurre nel linguaggio pubblicitario. Il che fa di questo libro un contributo molto generoso alla sopravvivenza dell'ambiente digitale come spazio di comunicazione. Non so se i colossi del web se lo meritino. Tutti noi certamente sì.

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Le statue di Puškin e Majakovskij

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Percorrendo la via Tverskaja, una delle principali arterie di Mosca, si incontrano, a meno di un chilometro di distanza, le statue di Puškin e Majakovskij, poeti diversissimi, accomunati però dall'essere stati entrambi rivoluzionari. Il modo in cui ognuno fu rivoluzionario traspare dall'estetica delle due statue. Imponente, fiero, ben piantato sulle gambe massicce, Majakovskij si erge titanico e guarda nella direzione in cui sorge il sole, corruccia leggermente la fronte e raccoglie la tensione nel pugno serrato della mano destra che scende lungo il corpo. Puškin è invece totalmente umano, meditabondo, concentrato su un pensiero, roso dal dubbio, inclina un po' in avanti la testa ricciuta, tiene la mano destra infilata nel panciotto e sembra colto nel momento che precede un inchino. 

 

Entrambe le pose sono certo stilizzazioni che evidenziano le peculiarità più caratterizzanti e trascurano sottigliezze caratteriali come il temperamento sanguigno e piuttosto rissoso di Puškin, o i conflitti e paradossi che pure lacerarono Majakovskij. «Se solo sapeste che piagnucolone che era» disse la sua compagna, l'attrice Lili Brik, all'inaugurazione del monumento nel 1958, esprimendo il suo disaccordo sulla posa in cui Majakovskij era stato immortalato. Anche la raffigurazione di Puškin aveva destato delle perplessità, qualcuno aveva obiettato che non sembrava affatto un poeta; altri, prima ancora, avevano osteggiato l'idea stessa di un volgare monumento che avrebbe sostituito l'eredità del suo monumento spirituale. Ma a dispetto di isolate contrarietà, sul finire dell'Ottocento e nel processo di monumentalizzazione della cultura nazionale, si realizzò finalmente il progetto di una statua che era fallito almeno due volte prima di allora.

 

La festa che nel 1880 accompagnò l'inaugurazione del monumento a Puškin fu senza eguali. I più grandi scrittori, Dostoevskij, Turgenev, Ostrovskij, intervennero con discorsi celebrativi (Tolstoj si rifiutò perché contrario ai festeggiamenti), la partecipazione popolare fu enorme e corale, e chi aveva la fortuna di abitare nei palazzi intorno al luogo in cui sarebbe stata eretta la statua, pensò bene di vendere una prospettiva diversa sull'evento affittando le finestre a cifre stellari. Simbolicamente fu come partecipare ai funerali dell'amato poeta, ucciso in duello quarantatré anni prima e sepolto in fretta e in gran segreto per evitare scandali.  

 

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Per quanto emblemi di staticità, ben presto le statue riescono a creare intorno a sé un centro gravitazionale. Appena inaugurata, la statua di Majakovskij diventa una tribuna di poesia: ai suoi piedi cominciano a radunarsi futuri dissidenti e giovani poeti, animati dallo spirito di condividere idee e confrontarsi sulla poesia, la politica, l'attualità. Soprattutto nelle belle serate estive la piazza è gremita di giovani che si alternano a leggere versi: propri o altrui, di poeti canonizzati, dimenticati, nascenti. Ma un'attività così soggetta a sviluppare germi pericolosi, o nel migliore dei casi incontrollati, viene stroncata qualche anno dopo. La tradizione ha ripreso vita nel 2009 e sebbene lo spirito che anima le letture sia ben diverso da allora, ogni ultima domenica del mese, alle 18, da aprile a ottobre, Majakovskij è intrattenuto dalle poesie dei passanti. La statua di Puškin diventa invece l'indiscutibile certezza dei primi anni di vita di Marina Cvetaeva, il confine delle sue passeggiate e corse infantili («chi arriva prima al monumento di Puškin»); si integra così bene nel profilo della città da trasformarsi in immagine letteraria penetrata nelle opere di scrittori e poeti, diventa luogo di pellegrinaggio dei soldati in partenza per il fronte che accorrono a dare il loro ultimo saluto al poeta in cambio della sua benedizione.   

 

Forse non è casuale che Majakovskij, oltre a guardare in direzione del sole nascente, guardi anche in direzione di Puškin, quel sole della poesia che fu caro anche a lui, malgrado il provocatorio slogan del futurismo che esortava a gettare via Puškin e i classici dalla «nave della modernità». Nel 1958, per l'inaugurazione della statua di Majakovskij, la rivista satirica “Krokodil” pubblica un'illustrazione raffigurante «l'incontro a lungo atteso» tra le due statue, ritratte mentre si stringono la mano ognuna dal suo piedistallo. Majakovskij si presenta pronunciando i primi versi della sua poesia L'anniversario: «Aleksandr Sergeevič, / permettete che mi presenti: / Majakovskij». Nel componimento, scritto nel 1924 in occasione dei 125 anni dalla nascita di Puškin, Majakovskij immaginava di far scendere Puškin dal basamento della statua e di intrattenersi con lui in una garbata conversazione. Nonostante l'affetto con cui Majakovskij si rivolgeva al poeta più anziano mostrasse un atteggiamento più avveduto e sottile rispetto allo slogan di alcuni anni prima, i versi denunciavano la ‘mummificazione’ di cui Puškin era oggetto in quel momento storico: «Io vi amo, / ma vivo, / e non mummia. / Vi hanno dato il lucido / delle crestomazie». Negli ultimi versi della poesia, che si chiudeva con il riposizionamento di Puškin sulla statua, Majakovskij inorridiva al pensiero di un monumento eretto in suo onore, che piuttosto avrebbe fatto esplodere con la dinamite perché, scriveva: «Ho in odio ogni sorta di vecchiume / Adoro ogni sorta di vita».

 

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Il rifiuto delle statue da parte di Majakovskij era del resto ideologicamente connotato e in linea con la furiosa iconoclastia che subito dopo la Rivoluzione si abbatté sui vecchi idoli. Con la dinamite Majakovskij avrebbe voluto far esplodere anche il monumento dello zar Alessandro III: «Ma lo zar Alessandro / non s'erge ancora / sulla piazza delle insurrezioni? / Là, la dinamite!», e tutto ciò che ormai rappresentava il vecchio, morto o morente, da distruggere e da sostituire con il nuovo, brulicante di vita. Questo atteggiamento iconoclasta convisse in un delicato equilibrio con le posizioni più moderate dei “vecchi” bolscevichi che consideravano il passato un bene da preservare e reinterpretare sotto nuove forme. Lo stesso decreto del 1918, che prevedeva la costruzione di nuovi monumenti e la distruzione delle statue pre-rivoluzionarie, ammetteva però la salvaguardia di quelle dal valore storico o artistico. Se poi nel corso degli anni Venti anche il più acceso radicalismo iconoclasta si stemperò in toni più distesi e in un graduale ritorno al passato e alla tradizione, per Majakovskij la statua rimase simbolo di immobilità, di stagnazione culturale e di morte. Con alcune statue 'mobili' che compaiono nella sua opera, come Puškin nella poesia L'anniversario o Pietro il Grande che scende da cavallo ne L'ultima fiaba pietroburghese, Majakovskij sembra suggerire che la triste condizione di statua diventi accettabile solo tramite la violazione dell'immobilità. 

 

È stato notato, invece, che in Puškin la statua mobile ha caratteri demoniaci. Nel bel saggio La statua nella simbologia di Puškin Roman Jakobson ricostruisce le vicende biografiche e artistiche legate alla genesi delle tre opere puškiniane (Il convitato di pietra, Il cavaliere di bronzo, Storia del galletto d'oro) in cui la statua svolge un ruolo centrale. L'analisi rivela che l'epoca in cui Puškin è ossessionato dal tema della statua, di cui sono testimonianza anche alcuni disegni, coincide nella sua opera con il periodo in cui è attratto dal tema della vita che si spegne e da quello dell'antica nobiltà indipendente come classe che scompare. Questo tema torna anche in una lettera alla moglie del 1836, in cui Puškin scrisse di essere contrario alla realizzazione di un busto eretto in suo onore, che avrebbe consegnato «all'immortalità in tutta la sua morta immobilità» la sua «bruttezza di negro» (qui si riferisce alle sue origini africane). Eppure all'immortalità della gloria Puškin non era indifferente, come si legge non di rado nella sua opera, ma non gradiva che la sua effigie fosse riprodotta e ricordata. In una poesia del 1828 esortava il destinatario del componimento a riprodurre i tratti giovani e belli di una fanciulla, invece che il proprio profilo, assai meno attraente.

 

«Io mi sono innalzato un monumento ideale […] / esso s'erge con la sua cima indomita più alto della colonna di Alessandro […] / ed io sarò glorioso fino a quando in questo mondo sublunare sarà vivo sia pure un solo poeta» scrisse Puškin pochi mesi prima di morire nella famosa ode, Exegi monumentum, che è poi diventata, ironia della sorte, l'iscrizione della sua statua. Ironia della sorte per due motivi: primo, perché per quasi sessant'anni – fino al 1937 – sul piedistallo figurò la versione censurata del componimento originale, epurato per la pubblicazione dal primo curatore delle opere di Puškin. Secondo, perché con monumento ideale, il poeta non alludeva a una statua, ma piuttosto alla sua opera. Questo monumento, più alto della colonna di Alessandro I, sarebbe stato ricordato e sarebbe sopravvissuto, immortale, al passare del tempo, perché è l'opera ciò che di più autentico resta dopo la morte. Che poi essa sia sottoposta all'arbitrio interpretativo di chi resta o di chi verrà dopo è un'altra questione, e non da poco: «The words of a dead man are modified in the guts of the living» scriveva Wystan H. Auden. 

 

Così la vanità dei vivi finisce per prevalere sulla volontà dei morti. Nel caso di Puškin e Majakovskij, almeno, è andata così. Entrambi sapevano che la loro gloria sarebbe sopravvissuta ben oltre la morte: «Tanto io / che voi / d'immortalità / ne abbiamo una riserva», e questo era abbastanza. Nei secoli avrebbero condiviso un imprecisato spazio fisico, forse quello di uno scaffale: «Dopo la morte / staremo / quasi accanto: / voi nella P. / e io / nella M». Fosse anche uno scaffale polveroso, ma preferibile al piedistallo di una statua che nessuno dei due avrebbe voluto e che li ha resi silenziosi guardiani della città, spettatori dei cambiamenti, sostegno per i piccioni, stelle polari per i turisti.

 

Le traduzioni di Majakovskij sono tratte da: V. Majakovskij, Opere, a cura di I. Ambrogio, trad. di I. Ambrogio, B. Carnevali, G. Crino, M. Socrate, Editori Riuniti, Roma 1972.

La traduzione di Puškin è tratta da: A. Puškin, Opere, trad. di E. Lo Gatto, Mursia, Milano 1967. 

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Come non volevano essere ricordati
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Giuseppe Pontiggia. Dentro la sera

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«Buonasera. Sono Giuseppe Pontiggia e mi accingo a iniziare con voi un’avventura che durerà cinque settimane; il tema delle nostre conversazioni sarà lo scrivere, i problemi dello scrivere, le modalità e i percorsi dello scrivere». Così inizia Dentro la sera. Conversazioni sullo scrivere, un programma radiofonico andato in onda su RAI-Radio Due nel 1994 le cui trascrizioni sono state raccolte e pubblicate da Belville Editore. Su invito di Aldo Grasso, Pontiggia accompagna gli ascoltatori in un’escursione nel campo aperto della scrittura, un itinerario in venticinque tappe percorribile sulla traccia delle registrazioni o muovendosi tra le pagine del libro, con una riscrittura che si impegna a non tradire il colore, il ritmo e l’intensità del parlato radiofonico e ricalca esitazioni, rincorse, slanci, sospensioni e spazi aperti alla contemplazione.

 

L’oggetto delle conversazioni è lo scrivere inteso come addestramento critico, ricerca, relazione, corpo a corpo con linguaggio. La scrittura creativa di cui tratta Pontiggia prevede la frequentazione ravvicinata di una materia organica e talvolta imprevedibile, che cresce, matura, germoglia, muta. Lo stesso aggettivo “creativa” è usato qui non senza resistenze: il “fare” in senso artistico, secondo l’autore di Nati due volte, è infatti più vicino all’artigianalità dell’etimologia greca, al poiéin e alla manipolazione dell’esistente, che all’euforia creazionista d’eredità biblico-cristiana. Il poeta, così come il narratore, non crea dal nulla, è artefice, pratica l’arte di maneggiare l’ispirazione dandole forma e densità attraverso tecnica e lavoro.

 

La grande scrittura è l’arte dei poeti ciechi che hanno rinunciato alla luce del mondo e delle cose per la limpidezza di uno sterminato paesaggio interiore ed è la ricerca di una verità pagata spesso a caro prezzo. In questo senso l’invenzione narrativa conserva tutto il suo peso etimologico: è la scoperta di ciò che non si sapeva esistesse, la rivelazione che la verità del testo sia più ampia di quella che possiede il narratore. Il grande scrittore si trova tra le mani una creazione che è fonte di meraviglia e di conoscenza, sperimenta il paradosso del linguaggio per cui non dice mai esattamente o soltanto ciò che aveva in mente, ma qualcosa d’altro, qualcosa di più e di essenziale. «Eterno è il mondo delle cose che non si possono esprimere, a meno che non si esprimano bene», scriveva Thomas Mann, e per esprimere bene le cose è necessario un durissimo tirocinio; dire l’inesprimibile è una questione di precisione, di tecnica e di responsabilità.

 

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Scrivere non significa soltanto scegliere una possibilità, vuol dire anche scartarne altre, è un’attività che comporta concentrazione, lavoro, correzione, messa a punto: se “c’è una sola parola e il buon scrittore la conosce”, come assicura Jules Renard, può accadere che per fare la sua conoscenza un autore si debba smarrire in lunghe e impervie peregrinazioni. E il timone, per Pontiggia, sembra coincidere con una regola aurea della scrittura: l’economicità dello stile. Il principio di economicità connaturato al linguaggio prevede che ciascuna parola esprima “qualcosa di preciso e inconfondibile con altro” e l’obiettivo del grande scrittore è padroneggiare differenze e sfumature, trovare una felice proporzione tra gli strumenti adoperati e gli scopi perseguiti, riversare sulla pagina l’ordine cosmico dell’universo in quello organico del testo.

 

In quest’ottica lo studio della tecnica è imprescindibile per risolvere i problemi, per non farsene di inutili e, soprattutto, per saper scegliere. Imparare a scrivere vuol dire imparare a leggere, dedicare un’attenzione millimetrica al linguaggio, indagarne la storia, risalire alle radici, portare a galla ciò che è implicito nelle parole, addentrarsi negli abissi della lingua. Non esistono parole innocenti, neutre o trasparenti, il linguaggio è potenzialmente carico di violenza e possiede una verità inconfondibile che non coincide con la superficie più o meno opaca del suo significante. Pertanto, quando si scrive le scelte non sono mai imparziali ed è necessario acquisire la sensibilità della scelta, la consapevolezza che scrivere sia esprimere un giudizio, un atto che condivide la stessa vocazione etimologica al discernimento, alla distinzione e alla fallibilità propria dell’esercizio della critica. E l’acquisizione di questa consapevolezza non può prescindere dalla rinuncia alle suggestioni della moda, alla rigidità sterile di un’educazione fuorviante e all’“attrazione che esercita su di noi il fallimento”.

 

Ma come funziona la buona scrittura? Dentro la sera raccoglie innumerevoli campioni dalla grande letteratura, uno fra tutti è il più celebre e riuscito esempio di reticenza narrativa, il manzoniano “la sventurata rispose”. Pontiggia rilegge la famosa frase da I Promessi Sposi, che a uno sguardo disattento sembra omettere, eludere la passione e invece la cristallizza, ne fa un dialogo, un rapporto a due, definisce l’amore come risposta all’altro, come risposta alla vita, fa dell’amore un linguaggio. A rispondere, però, è una “sventurata” e allora si apre il campo al dramma, alla tragedia; la vicinanza delle parole stabilisce una “relazione sotterranea, occulta e misteriosa” tra i due termini, tra risposta e sventura. È questo che fa di uno scrittore un grande narratore, la capacità di “condensare un’enorme energia espressiva e speculativa in tre parole”, l’abilità nel lavorare con strumenti in apparenza minimi per descrivere una “reazione che c’illumina sull’uomo”, o che illumina alcuni tratti dell’uomo, permettendoci di osservarli da vicino. La buona scrittura indugia su un dettaglio per fare luce su tutto quel che sta intorno, lavora con le ambiguità, le lacune e gli strascichi delle parole per sfruttarli, per dilatare il senso. La buona scrittura è quella che crea aperture, squarci e fessure nel tessuto della realtà, che svela ciò che è profondo, autentico e vero.

 

«Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci colpisca duramente, come la morte di uno che amavamo più di noi stessi. Come se venissimo scacciati nei boschi, via da tutti gli uomini. Come la notizia di un suicidio, un libro dev’essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi». La citazione da Kafka serve a stabilire una gerarchia di valore in campo narrativo, per ricordare che la grande letteratura innesca il riconoscimento di un’improvvisa, spietata verità. Le Conversazioni sullo scrivere di Pontiggia ruotano tutte intorno alla fascinazione per questo meccanismo delicato e complesso che è la scrittura, quando è buona e grande. Un incantesimo che non si stanca di studiare, rubando brani dalla grande narrativa e smontandoli frase per frase, spostando i pezzi, cambiandone l’ordine e il peso, misurando i risultati. L’approccio didattico di Pontiggia parte da un rapporto intimo con la parola, da gusti, antipatie e percezioni, e procede poi per esperimenti, con l’intento di verificare, confutare o precisare le proprie idee alla luce dei casi più illustri e riusciti. Osservare da vicino l’effetto della letteratura quando funziona e cercare di scoprirne gli ingranaggi e la magia: questo è il segreto delle Conversazioni. Nei casi migliori il metodo suggerisce soluzioni, in tutti gli altri serve a sollevare questioni, a ribadire l’importanza di porsi problemi, che è il primo, essenziale requisito di ogni vero scrittore.

 

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Luigi Grazioli, Giuseppe Pontiggia: dieci anni senza

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Conversazioni sullo scrivere
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Conversation with Daniel Blaufuks
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Italian Version

 

Laura Gasparini - Almost all your work is based on memory and the various forms that it encloses and represents. Do you think photography is the most suitable language for working on the concept of memory?

Daniel Blaufuks– Not really, I think literature and some cinema are more suitable, since they demand from the viewer a larger span of attention and immersion. Nevertheless, photography is already memory by its own essence, so memory is inherent to the photographic process.

 

LG In This Business of Living, you make a clear reference to the literature, particularly to the diaries of Cesare Pavese published under the title This Business of Living. What has struck you for that work?

DB – Well, Pavese is a wonderful writer and his diaries are beautiful in his musings of everyday life, which I am very interested in. The word mestiere, which does not translate well into English, speaks of this necessity to live, to reinvent life on an everyday basis. This can be a difficult task at some times and for Pavese it ended tragically with his suicide. The last annotations in his diary are to the point, but also on a day where he just writes: “today, nothing.” So, at a time when I had my own sorrows, I worked on a series of photographs that related to this idea of time unfolding day by day. Later it was an exhibition, even later a book, and is, to a certain extent and along with another writer Georges Perec, also the basis for the series “Attempting Exhaustion”

 

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LGSome images of this project are real Still Lifes that have the charm of those of the seventeenth century, which behind the formal aspect hide deep meaning and symbolism. Is it so also for your pictures? Some images of this project are real Still Lifes that have the charm of those of the seventeenth century, which behind the formal aspect hide deep meaning and symbolism. Is it so also for your pictures?

DB– Yes, I am interested in a kind of photography that has some depth and meanings beyond its surface. I am certainly not keen on photographs that only are what they seem to be.

 

LGLiterature, the word is very important for you. Sometimes it is a strong mediation with reality. I am referring to your project on Terezín from which you started from the collection of W.G. Sebald to go then to investigate those places of memory.

DB– The meanderings of literature are platforms from which you can project thoughts and images. When a writer, such as Sebald, uses photographs as well, many other possibilities of images are born. In Terezín I followed one of many possible paths starting with one photograph published in his last book Austerlitz. The image was made by a German photographer Dirk Reinatz in the former concentration camp of Theresienstadt in the Czech Republic and that path took me in the end to make my own book about it.

 

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LGIn your work you also use other forms of memory such as historical photographs, anonymous authors that you extracted from the archives life to assign other meanings, other reading modes.

DB – Every image can have many possible readings, according to where, when and by whom it is seen and by whom it is distributed. This is the danger of photography, that the same image can be used for all types of information, that it can be misused, misquoted, altered, reframed, etc. One should handle this fragile material with extra care and that is what I try to do.

 

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LGMany exhibits are made of different materials: words, posters, historical photographs, objects and of course your photographs. I refer in particular to the exhibition at Toda a Memória do Mundo, Part One (All World Memory, Part One). However, it seems to me that you prefer the form of the book, the notebook, the diary, an object held in your hand, and it comes with its own times of perception and reading.

DB– An exhibition is something very temporary and geographically quite restricted, while a book can last and can travel. A book is democratic because it can be more easily accessible than an artwork. The book might be the greatest invention of mankind. It is public and private, it can be seen in a café or in a library. It can be given as a gift. It is a memory in itself: where did I get this book, where did I read it first, what is this piece of paper I kept inside?

 

LGGoing back to the places, looking at the past, as Gaston Bachelard says in The Poetics of Space (La poétique de l'espace) allows to recreate a poetic image that is not the echo of the past, but a projection in the future. Do you find yourself in this statement?

DB– There is nothing but past and future. In fact, it is the present that does not exist.

 

LGYou have often declared that photography is a highly subjective medium and in this respect you appreciate the uniqueness and poetic aspect. Are you a collector?

DB– I am more and more a collector of immaterial things, but, yes, I am attracted to many objects, because of its past use, of their form, and of their beauty. But I refrain from collecting, since I don’t have the space one needs for that kind of serious hoarding.

 

LG– You recently exhibited at European Photography in Reggio Emilia's part of your work Attempting Exhaustion inspired by George Perec's book, An Attempt at Exhausting a Place in Paris where the writer observes the marginal aspects of reality in Place Saint-Sulpice, the infra ordinary. Even Cesare Zavattini, through the poetics of qualsiasità/everything, supports the opportunity to find interesting things anywhere in any subject. Poetry that found a fertile field also in the work of Paul Strand of Un paese in Luzzara and later in Luigi Ghirri. A truly singular coincidence.

DB– The coincidence lies in the fact that we are all searching for the same thing: a reason to live within ourselves without being overtaken by the speed of things around us. That is the poetry, to stop for a single moment and breathe in and out.

 

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LGThe narrative capacity of photography is important to you. Did you even approach the language of the movie and the video?

DB– Yes, I have done a few films and video work. Even the Terezín project has now two works with moving images: Theresienstadt (2007) and As if (2014-2016), which is a film lasting almost five hours. One needs patience…

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Milo Rau e gli altri

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Racconti nella Terra dei Feaci

 

Nel romanzo di Vladimir Makanin, Underground. Un eroe del nostro tempo, Petrovic è uno scrittore che ha attraversato la stagione della letteratura sovietica non ufficiale ed è approdato nella Russia post-comunista in veste di custode di appartamenti: ha smesso di scrivere (ma il suo unico bagaglio è una macchina da scrivere di fabbricazione jugoslava che si porta appresso legata alle spalle a mo’ di zaino), tutta la sua attività letteraria consiste nell’invitare gli amici nelle cucine delle case che occupa occasionalmente e lì scambiarsi con loro confessioni e racconti. Anche in Empire di Milo Rau, il terzo capitolo della trilogia europea del regista svizzero presentato in prima nazionale al Festival Contemporanea di Prato, tutto si svolge in una cucina; all’inizio, a dire il vero, gli spettatori del Fabbricone si trovano davanti a un’altra ingombrante scenografia, è la riproduzione di una casa diroccata immersa nella penombra – la porta a vetri illuminata le dà un bagliore da Presepe – ma gli attori la girano e, aperta verso il pubblico, appare la sezione di una cucina, piccola, ristretta, concentrata, arredata con una scrupolosità naturalistica e piena di oggetti: fornelli, pentole, mensole, un tavolo, le sedie, ma anche un mappamondo, una statuina della Madonna, degli ingenui acquarelli appesi alla parete e persino una branda coperta da una stoffa di fattura orientale (o greca, o balcanica, o sarda, una diplopia mediterranea, nell’accezione ampia che a questo aggettivo ha dato Predrag Matvejevic, sfuma contorni e distanze nella geopoetica di Rau). 

 

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Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


È in questa intimità squadernata che gli attori narrano le proprie storie, poiché Empire, volendo, non è che questo: quattro attori, di età diverse e di diverse provenienze, che riuniti in una cucina raccontano la propria vita dall’infanzia fino al momento che li ritrova lì, su quel palcoscenico, tra quella gente, in una continua torsione del presente nel passato. Solo che raccontano in una babelica confusione delle lingue, perché Ramo Ali, un simpatico ragazzo allampanato con la barba nera e foltissima, è un kurdo siriano, che per la prima volta, dice, può finalmente parlare la propria lingua su un palcoscenico, Rami Khalaf, che geograficamente e culturalmente è il più vicino a lui, viene anch’egli dalla Siria, ma è arabo, Maia Morgestern, una bella signora dai tratti vibranti, è un’ebrea rumena che ha mosso i suoi primi passi nel teatro yiddish di Bucarest (e molti spettatori riconoscono in lei, non subito, ma nella lenta agnizione del suo volto, l’attrice che interpretò Maria di Nazareth nella Passione di Mel Gibson), mentre Akillas Karazissis  è un accattivante affabulatore greco nato a Salonicco da una famiglia che veniva da Odessa. Ciascuno di loro intona il racconto nella propria lingua madre e i sottotitoli traducono gli idiomi, ma senza omologare quella sonorità intraducibile – la parte sensibile, la più interna, di ogni lingua – che, assieme a un breve motivo musicale più volte ripetuto, resta fino alla fine il sottofondo melodico dello spettacolo, la segreta tessitura, dolce o gutturale, morbida o cantilenante, della grana della voce senza la quale, nessuna narrazione, e nessuna singolarità, sarebbe possibile. 

 

Quando uno degli attori prende la parola, ce n’è un altro che lo inquadra in una videocamera e su un grande schermo sistemato sopra la scenografia appare l’immagine del rapsodo di turno, un primo piano in bianco e nero, stretto e allungato come una fiamma. La scena è immobile, il racconto e l’immagine si spostano in quella che, in capo ad alcuni minuti, è un’odissea che si allontana nel tempo e nello spazio, lungo le direttrici di un esilio frastagliato, che batte e ribatte sulle rive di un approdo impossibile, di una patria infedele. Rifugiato in Francia, Rami Kalo ritorna clandestinamente sulle rivi del Tigri – filmate con una telecamera nascosta – nella cittadina semi-distrutta dai bombardamenti dove ha vissuto la sua infanzia, nel paese che lo ha imprigionato nella giovinezza, ma è tardi per seppellire il padre (è tardi per tutti i padri e le madri di questi racconti in cui gli uomini e la terra invecchiano di colpo nella ruggente accelerazione della Guerra e della Storia): si limiterà a leggergli un biglietto tra le lapidi bianche di un cimitero, e poi a vomitare, perché da sempre la sua è una tristezza senza pianto. Rami Khalaf ha trascorso le sue nottate parigine a cercare il volto del fratello tra le immagini di un sito internet dove sono raccolte le fotografie dei dodicimila giovani assassinati dal regime di Bashar El Assad: sullo schermo passano le foto di teste fasciate e volti tumefatti – alcuni sembra che dormano, che finalmente riposino dopo giorni e giorni di torture – ma restano il tempo strettamente necessario, a fare in modo che non si volti lo sguardo da un'altra parte o che non si indugi nella compiacenza dell’orrore. 

 

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Empire, Milo Rau, ph. Marc Stephan.


Come già in Five Easy Pieces, è nell’equilibrio del montaggio, cioè nel rigore di una forma, che Milo Rau asciuga la violenza che i suoi spettacoli rivelano – e nell’ordito di una recitazione auratica e introspettiva, senza un urlo, senza una lacrima, se non quelle che il pubblico non riesce a non immaginare in certi trasalimenti del volto (che è uno sterminato paesaggio di sentimenti) di Maia Morgenstern, quando parla del padre o della figlia che le è stata tolta. Lei e Akillas Karazzisis vengono da ancora più lontano: dall’esilio interiore dell’essere ebrea (con un padre comunista sfegatato) nella Romania antisemita di Caeusescu e dal disorientamento di un giovane greco che, in fuga dal regime dei colonnelli, sbarca a Francoforte negli anni settanta, confuso alle ondate migranti dei gastarbaiter che hanno scandito la storia del suo paese. 

 

Tutti si fanno attori, per volontà o per caso, come il picaresco Karazzisis, teorizzatore in gioventù del “minimalismo depressivo” che si ritrova ad amare quello che considerava insopportabile, pur restando, da interprete, al di qua dell’immedesimazione, un narratore che prima di ogni battuta apre i due punti – tutti si fanno attori perché il teatro è l’unico luogo in cui l’infranto può essere provvisoriamente ricomposto nella flagranza di una condivisione, un luogo di liberazione nell’impero in cui la libertà, sempre agognata, finisce per spiaggiarsi (dice sconsolatamente la Morgenstern), nella solitudine più acuta. 

Ma il modo in cui le bolle di queste memorie private e singolari riescono a non sbriciolarsi in se stesse, e nei loro approdi fallimentari, bensì a issarsi sull’aerostato di una leggenda collettiva – che è la nostra non meno che la loro – è il vero miracolo della messinscena di Empire. E viene dagli echi, dai riverberi che ogni storia, proprio come nell’universo dell’epos, ritrova e depone nell’altra, sia nei monologhi interni che nella circolazione extracorporea delle immagini: così l’incredibile amore che il musulmano kurdo Ramo Ali vota alla figura della Vergine Maria, spingendosi fino a custodirne una medaglietta persino nella cupa prigione di Palmira, si riapre nel racconto che l’ebrea Morgestern fa della sua interpretazione della Madre di Cristo nel controverso film di Gibson, disegnando un’altra linea – materna – di una devozione senza integralismo (la religione delle cucine, se volete). 

 

Così, tra le immagini proiettate sullo schermo, ne appare una di un’ampiezza inusitata che corre su un fiume: una grande chiatta trasporta un colosso bianco fatto a pezzi e imprigionato dalle corde, solo la sua testa si alza dalle spalle, e una mano aperta che sembra quella di un santo anchilosato nello sforzo di un’ultima benedizione. È una statua di Lenin nel piano sequenza di un vecchio film di Theo Angelopoulos, Lo sguardo di Ulisse (ah, come era lento e sovrano quello sguardo capace di abbracciare l’indugiare di più tempi in una sola frase, come era ampia e generosa, benché già immersa nella nebbia dell’Ade, l’Europa senza proclami di Angelopoulos, di Tonino Guerra, di Petros Markaris che, in piena guerra dei Balcani, spingevano Harvey Keitel sulle tracce delle “immagini viventi” del cinema primordiale dei fratelli Manakis…). 

 

Nel “teatrofilm” di Empire, quell’immagine non è solo un omaggio, è l’origine di un’irradiazione musicale (nelle note del “tema di Ulisse” di Eleni Kalaindrou, infatti, è anzitutto cristallizzata) che pervade ogni accento del sommesso, dolente conversare tra stranieri nella terra dei Feaci. E non deve ingannare – o allora deve supremamente ingannare – il dispositivo che sdoppia nel cielo del visivo la terra sottostante degli attori, non solo perché è sulla scena che questa contemporaneità può essere e viene comunque celebrata (e Milo Rau è un regista fortemente rituale). Ma perché quello spirito in bianco e nero che si solleva sui corpi a colori seduti in cucina, proprio come le ombre degli inferi omerici, può vaticinare solo alimentandosi del sangue vivo della loro presenza (è verso il cielo che sale, al cielo che parla, è vero, ma al cielo e contro il cielo bisogna di nuovo saper parlare: ci aveva avvertito George Steiner molti anni fa). 

Quando Akillas Karazzissis, che più volte è stato Giasone, e Maia Morgenstern, che è stata un’indimenticabile Medea, duettano sulla partitura di Euripide, uno in greco e l’altra in rumeno, hanno l’aria di capirsi alla perfezione, come in un giorno di pentecoste. E anche il pubblico sembra capirli perfettamente. 

 

(Attilio Scarpellini)

 

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Se sentir vivant, Yasmine Hugonnet, ph. Ilaria Costanzo.


Dante, rap e stracci di identità

 

Movimento immobile. Chirurgico e passionale, il gesto di Yasmine Hugonnet sa fermare il tempo. Se sentir vivant / Canto primo, al debutto nazionale a Contemporanea Festival 2017, è un magnetico solo con e del corpo, una preghiera muta che rende grazie a muscoli, tendini, giunture. Sogno, pensiero, allucinazione o trance, l’impercettibile, l’attimo sfuggente è visibile nel suo passo. È il suo passo. Allora, sentirsi vivo – questo significa il titolo – è avere il pieno controllo di sé, in scienza, coscienza e immaginazione.

Un rettangolo bianco, un libro al limite del lato destro. La danzatrice svizzera, maglia bianca e pantaloni blu, scalza, comincia di profilo, il sinistro. Alza lentissimamente il braccio e la mano destra e questi ‘guidano’ il piede e la gamba corrispondenti. Un filo intangibile pare legarli nel più assoluto silenzio, rotto soltanto dal ronzio dei fari accesi e dalla realtà esterna. La dipendenza degli arti è totale, il suo volto è serio, ma disteso.

 

Adesso con entrambe le mani prende ‘possesso’ del piede, si gira frontalmente, si abbraccia e anche le gambe fanno lo stesso. Scompone il moto a tal punto da immobilizzarlo, come nella ‘fotografia stroboscopica’ di Harold Eugene Edgerton o nel ‘paradosso della freccia’ di Zenone: il movimento è la perfetta padronanza su punti e istanti indivisibili di immobilità.

Il busto, prima inanimato, prende vita attraverso il respiro, sempre più pronunciato, che comprime e rilascia il ventre, percorrendolo come una vibrazione. Un suono soffocato risale dalle viscere: gli urli ordinari e dimostrativi delle gradazioni della paura in Bang! del francese Herman Diephuis, altra prima nazionale al festival pratese, sono qui ingoiati in una contorsione di membra. Se sentir vivant, infatti, è anche una discesa agli inferi della corporeità vocale.

 

Va a prendere il libro, poi si siede, le gambe divaricate, una mano tra di esse, l’altra a tenere aperte le pagine. “Mi ritrovai per una selva oscura”. Risuona il canto I della DivinaCommedia – a questo si riferisce il sottotitolo –, eppure Yasmine Hugonnet ha le labbra serrate. Perché, approfondendo la comprensione del movimento in rapporto all’attenzione, della germinazione di figure e dell’idea delle posture come contenitori, ha sviluppato la pratica del ventriloquismo.

È la porta verso un altro mondo, il braccio destro, indipendente, alieno con una sua propria intelligenza, pare il serpente tentatore, il diavolo all’Inferno. Ripete il canto in francese, in inglese e la selva oscura si ripercuote su di lei in spasmi, tic, è come se si svegliasse e addormentasse continuamente.

Se sentir vivant / Canto primo non ha bisogno di musica, ‘suona’ quella voce interiore che la danzatrice ‘dirige’ con le dita della mano nell’aria. Accenti che partono dai piedi e arrivano fino in cielo. Così, la testa ‘tirata’ su dall’ennesimo filo invisibile, oscilla come un fuscello al vento, la ‘canna’ di cui parla Pascal. Fragile, ma pensante.

 

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Mash, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán, ph. Ilaria Costanzo.


Da una premessa tutta musicale deriva, invece, Mash di e con l’italiana Annamaria Ajmone e la cilena Marcela Santander Corvalán. Con il termine mash-up, infatti, si intende una canzone o composizione realizzata unendo due o più brani, spesso sovrapponendo la parte vocale di una traccia a quella strumentale di un’altra. Mash intende, diciamo, adattare il medesimo processo all’arte coreutica.

Un rettangolo nero, per terra due vestiti colorati, a destra e a sinistra, insieme a due paia di scarpe. Inizia Santander Corvalán in platea, su un rap arabeggiante fa una sorta di danza del ventre, dinoccolata e ammiccante, finché non va sul palco, le gambe che fanno giacomo giacomo, la lingua di fuori, le sopracciglia su e giù. Quando entra, Ajmone esegue movimenti che ricordano l’altra, ma sono rallentati, la qualità è più riflessiva, controllata.

 

Si accompagnano a specchio, squadrate, marziali, la musica è un loop asfissiante, i corpi virgole di un discorso in affanno, preso, perso e ripreso all’infinto. Tentano di dare un’identità fisica, individuale e comune, ai brani che mixano, campionano provenienze e generi diversi: sono ora animalesche, ora eteree, ora suadenti, ma la sensazione rimane quella di stare assistendo a un esercizio di perizia coreografica.

Mash potrebbe finire in qualsiasi momento senza pregiudicarne la riuscita, perché l’esito finale non è che la ripetizione dell’intento iniziale, cioè focalizzarsi “sulla dinamica che scatta quando i frammenti – dichiarano le due danzatrici – si concatenano tra loro generando qualcosa di totalmente nuovo, ricco di significati inediti”. L’esposizione del processo prevale sul raggiungimento del risultato, i “significati inediti” sono prestiti, citazioni, sovrapposizioni di atti già ‘editi’, visti e conosciuti.

Il nodo centrale è che manca un legame scenico che vada al di là dell’immagine riflessa. Paradossalmente, Annamaria Ajmone e Marcela Santander Corvalán incontrano una presenza e un ascolto reciproco nei rari istanti in cui la musica si ferma, e restano in luce i passi e i respiri. Ma è solo una pausa per poter alzare i volumi e i gesti ancora più forti e identici.

 

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Good Lack, Francesca Foscarini, ph. Laura Farneti.


Il peso che ci portiamo dietro è il Tetris di un trasloco perenne: Back Pack (Zaino) è il primo dei tre soli, con l’asettico John Tube e l’estenuante Let’s Sky, del progetto Good Lack di Francesca Foscarini, un trittico giocato sull’ambiguità buona fortuna/buona mancanza.

Una teoria di scatole sul fondo, come nello sgombero de La vita ferma di Lucia Calamaro. La danzatrice di Bassano del Grappa, in nero, entra con uno zainetto vintage, regola le spalle, il busto, le gambe, i piedi. Cerca di resistere meglio che può a quel carico, finché non cade all’indietro, tartaruga sul suo guscio.

Si rialza, viene avanti, svuota per terra una palla di vestiti che, trovandoci a Prato, non possono non ricordarci i cenci, gli stracci della Plutocrazia di Archivio Zeta. Reggiseni, pantaloni, maglie, manicotti, giacche, un giubbotto di salvataggio: indossa un capo sopra l’altro, si mette l’intero contenuto dello zaino. Lo gonfia anche quel giubbotto, ma non c’è acqua intorno: evidentemente si sta preparando al peggio. Ha più gomme da masticare in bocca, i cerotti alle mani, le infradito con i calzettoni.

Back Pack pare burlarsi delle astrazioni concettuali di certa danza contemporanea (per poi esserne preda, a sua volta, nei capitoli John Tube e Let’s Sky). Francesca Foscarini assomiglia a una bimba birichina, scoppia le bolle fatte con i chewing gum, gioca a volare senza ali, correndo in tondo.

 

Alla fine, però, si spoglia di questa specie di ‘armatura’ da buffo, bizzarro, scalcagnato supereroe. Si abbassa perfino i primi pantaloni e si leva la maglietta nera: i sé che è stata nel tempo l’hanno lusingata e poi dopo l’hanno lasciata in mutande e reggiseno.

Oltre lo scotto della solitudine, la sorte ci mette dell’ironia amara: quel cumulo di roba è molto più ingombrante ora che è fuori dallo zainetto. Indossare chi eravamo ieri non ci aiuta a diventare chi saremo domani. Crescere è scegliere. Essere tutto, invece, equivale a essere niente.

 

(Matteo Brighenti)

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Festival Contemporanea Prato
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Il presente non esiste

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Conversazione con Daniel Blaufuks
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English Version

 

Laura Gasparini - Quasi tutto il tuo lavoro si basa sulla memoria e sulle diverse forme che la racchiude e la rappresenta. Pensi che la fotografia sia il linguaggio più idoneo per lavorare sul concetto di memoria?

Daniel Blaufuks - Non proprio, penso che la letteratura e in parte anche il cinema siano più adatti, in quanto richiedono allo spettatore un vasto spettro di attenzione e di conseguenza di immersione. Tuttavia, la fotografia è già memoria per sua essenza, quindi la memoria è inerente al processo fotografico.

 

LG - In This Business of Living fai chiaro riferimento alla letteratura, in particolare ai diari di Cesare Pavese pubblicati con il titolo Il mestiere di vivere. Cosa ti ha colpito di quell'opera?

DB - Beh, Pavese è uno scrittore meraviglioso e i suoi diari sono bellissimi, in particolare i suoi pensieri della vita quotidiana, a cui sono molto interessato. La parola mestiere, che non si traduce in inglese, parla di questa necessità di vivere, di reinventare la vita su base giornaliera. Questo può essere un compito difficile a volte e per Pavese si è concluso tragicamente con il suo suicidio. Le ultime annotazioni del suo diario sono puntuali, anche in un giorno in cui scrive semplicemente: "oggi, niente". Così, in un periodo in cui avevo un momento di crisi, ho lavorato su una serie di fotografie relative a questa idea di tempo, giorno dopo giorno. In seguito è stata una mostra e poi un libro. Pavese e, in una certa misura e insieme allo scrittore Georges Perec, sono la base di un altro mio lavoro dal titolo: Tentare l'esaurimento.

 

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LG - Alcune immagini di questo progetto sono delle vere e proprie nature morte che hanno il fascino di quelle del Seicento, che dietro l'aspetto formale nascondono profondi significati e simbologie. È così anche per le tue immagini? 

DB - Sì, sono interessato a una fotografia che abbia una certa profondità e significato al di là della sua superficie. Certamente non sono interessato alle fotografie che sono solo quello che sembrano essere.

 

LGLa letteratura, la parola è per te molto importante. A volte è una forte mediazione con la realtà. Mi riferisco al tuo progetto su Terezín, partito da un libro dello scrittore W.G. Sebald per andare poi a indagare quei luoghi carichi di memoria.

DB– I meandri della letteratura sono piattaforme da cui è possibile proiettare pensieri e immagini. Quando uno scrittore, come Sebald, utilizza anche fotografie, nascono molte altre possibilità di immagini. A Terezín ho seguito uno dei molti percorsi possibili a partire da una fotografia pubblicata nel suo libro Austerlitz. L'immagine è stata fatta da un fotografo tedesco Dirk Reinatz nell'ex campo di concentramento di Theresienstadt nella Repubblica Ceca e quel percorso mi ha portato alla fine a fare il mio libro su di esso.

 

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LGNel tuo lavoro fai ricorso anche ad altre forme di memoria come fotografie storiche, di autori anonimi che hai estrapolato dalla vita dell'archivio per assegnare altri significati, altre modalità di lettura.

DB– Ogni immagine può avere molte letture possibili, in base a dove, quando e da chi viene vista e da chi è distribuita. Questo è il pericolo della fotografia, che la stessa immagine può essere utilizzata per diversi tipi di informazioni, a volte può essere utilizzata in modo improprio, alterata, profondamente rivisitata, ecc. Le immagini fotografiche sono materiali fragili e di conseguenza devono essere trattate con cura e questo è quello che cerco di fare.

 

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LG Hai realizzato molte mostre utilizzando materiali diversi: parole, manifesti, fotografie storiche, oggetti e naturalmente tue fotografie. Mi riferisco in particolare alla mostra Toda a Memória do Mundo. Part One (Tutta la memoria del mondo. Part One). Tuttavia mi pare che tu privilegi la forma del libro, del quaderno, del diario, di un oggetto che si tiene in mano e si sfoglia con i propri tempi di percezione e di lettura.

DB– Una mostra è qualcosa di molto temporaneo e geograficamente molto limitata, mentre un libro può durare e viaggiare. Un libro è democratico perché può essere più facilmente accessibile di un'opera d'arte. Il libro è la più grande invenzione dell'umanità. È una cosa pubblica e allo stesso tempo privata, può essere visto in una caffetteria o in una biblioteca. Può essere dato come un regalo. È una memoria in sé: dove ho trovato questo libro, dove l'ho letto prima, cos’è questo pezzo di carta che ho conservato tra le pagine?

 

LG Ritornare sui luoghi, guardare il passato, come afferma Gaston Bachelard in La poetica dello spazio (La poétique de l'espace), permette di ricreare un'immagine poetica che non è l'eco del passato, ma una proiezione nel futuro. Ti ritrovi in questa affermazione?

DB– Non c'è nient'altro che passato e futuro. È il presente, infatti, che non esiste.

 

LG Hai spesso affermato, e dimostrato, che la fotografia è fortemente soggettiva e per questo aspetto ne apprezzi l'unicità e l'aspetto poetico. Sei anche collezionista?

DB – Sono stato collezionista e sto diventando sempre di più un collezionista di cose immateriali, ma, sì, sono attratto da molti oggetti, a causa del loro uso nel passato, della loro forma e della loro bellezza. Ma mi astengo dal raccogliere, dato che non ho lo spazio necessario per il tipo di raggruppamento richiesto da questi oggetti.

 

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LG Hai di recente esposto a Fotografia Europea di Reggio Emilia parte del tuo lavoro dal titolo Attempting Exhaustion che prende ispirazione dal libro di George Perec, Tentativo di esaurire un luogo parigino dove lo scrittore osserva, di Place Saint-Sulpice, gli aspetti marginali della realtà, l'infraordinario. Anche Cesare Zavattini, attraverso la poetica della qualsiasità sostiene la possibilità di trovare cose interessanti in qualsiasi luogo ci si trovi, in qualsiasi oggetto. Poetica che ha trovato un campo fertile anche nel lavoro di Paul Strand di Un paese a Luzzara e in seguito in Luigi Ghirri. Una coincidenza davvero singolare.

DB– La coincidenza sta nel fatto che stiamo cercando la stessa cosa: una ragione per vivere la nostra intimità interiore senza essere sopraffatti dalla velocità delle cose che ci circondano. Questa è la poesia, fermarsi per un attimo e respirare, uscire….

 

LGLa capacità narrativa della fotografia è per te importante. Ti sei avvicinato anche al linguaggio del film e del video?

DB– Sì, ho fatto qualche film e ricerche in video. Anche il progetto Terezín ha due opere con immagini in movimento: Theresienstadt (2007) e As if, (2014-2016), che è un film che dura quasi cinque ore. Lo spettatore deve armarsi di pazienza ...

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Scavare buche

Avete mai provato a scavare una buca? La risposta ovviamente è: Certo! Chi non l’ha fatto, almeno da bambino? Mettere le mani nella sabbia e scavare un buco, per poi accumulare l’arena ed erigere una montagna, una piramide, un castello, lì accanto. L’umanità stessa nella sua infanzia ha scavato. Scavare appartiene ai gesti fondamentali dell’uomo. Quando tra i 12.800 e 12.500 anni fa i nostri progenitori scelsero di diventare sedentari, cioè agricoltori, cominciarono a scavare buche nella mezzaluna fertile. 

   

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Il Contro Design di Ettore Sottsass

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Una storia piccolina

 

In nessuno dei numerosi libri pubblicati negli anni su Ettore Sottsass (Innsbruck, 1917 - Milano, 2007) e neppure nelle migliaia di articoli a lui dedicati, troverete la piccola storia che state per leggere, semplicemente perché non è mai stata scritta, in quanto la conoscono soltanto i diretti protagonisti, insieme a una ristretta cerchia di persone. Il contesto generale in cui si colloca è invece arcifamoso e riguarda un gruppo di designer milanesi (d’adozione), capeggiati dal loro leader carismatico (Ettore Sottsass, appunto) che l'11 dicembre del 1980, aveva dato vita a quel Movimento Culturale battezzato con il nome di Memphis, in omaggio alla canzone “Stuck in a mobile with the Memphis blues again” di Bob Dylan.

 

A forza di camminare nelle zone dell’incerto … a forza di colloquiare con la metafora e l’utopia … a forza di toglierci di mezzo, adesso ci troviamo con una certa esperienza, siamo diventati bravi esploratori … adesso possiamo finalmente procedere con passo leggero, il peggio è passato.”

Così scrive Sottsass, in quello che può essere considerato il certificato di battesimo di Memphis, ovvero nel testo di presentazione della prima mostra di “Memphis, the New International Style”, allestita in Corso Europa 2, a Milano, nello showroom Arc ‘74 di Mauro e Brunella Godani.

All'inaugurazione, quel 18 settembre 1981, c'era un mare di folla, convenuta per essere testimone dell'evento (sull’evento, sulla biografia e sulla poetica di Sottsass si legga qui il bel testo di Marco Belpoliti).

 

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Inaugurazione della mostra Memphis, the New International Style, nello showroom Arc ‘74 di Mauro e Brunella Godani, Milano, Corso Europa, 2, 18 settembre 1981.


La piccola storia che ancora si ignora, perché rimasta nascosta tra le pieghe di quella più grande e più nota, concerne il luogo in cui questo manipolo di audaci sperimentatori dell’impossibile, del fantasioso e dell’inconsueto, del finalmente policromo dopo la monocromia razionalista, mise in atto materialmente molte delle proprie creazioni di Contro Design. A spiegare il concetto di Contro Design è lo stesso Sottsass nel catalogo della mostra allestita nel 1983 al Philadelphia Museum of Art, intitolata “Design since 1945”:

Il cosiddetto movimento del Contro Design sostiene l’idea che il design non finisce con l’oggetto messo in produzione dall’industria, ma inizia quando entra nelle nostre case, nelle nostre strade, città, cieli, corpi, anime. Il design inizia quando diventa rappresentazione visiva, fisica, sensoriale della metafora esistenziale sulla quale fondiamo le nostre vite”. 

 

Ebbene, il luogo in cui hanno visto la luce molti pezzi di quella coraggiosa collezione che sfidava il “buon gusto” borghese e che dopo aver stupito il mondo, sarebbero subito diventati dei must del design di tutti i tempi, era la bottega di mio padre. È lì, nel grande e luminoso spazio de “il Ghianda” che Ettore e i suoi li hanno messi a punto. Il passaggio dal modello, al prototipo, fino al numero zero della produzione fino a quando hanno acquistato il loro volume, le loro proporzioni e la loro forma definitiva è avvenuto nei capannoni di Bovisio-Masciago in Via Desio al 53. Dalla libreria Carlton, al tavolo Spider, alle sedie Bridge e Mandarine, progettati da Sottsass, alle sedia Palace di George Sowden, a Mercedes e alle altre sedie-poltrone di Nathalie du Pasquier (di cui lei stessa, con George Sowden, è diventata produttrice di una serie limitata di sei pezzi), alla First di Michele de Lucchi, agli sgabelli di Matteo Thun, al tavolo Brazil di Peter Shire, alla poltrona Lucrezia di Marco Zanini e ad altro ancora, disegnato da Aldo Cibic, da Martine Bedin e dai vari designer che si sono accostati di volta in volta al team (lo studio contava più di trenta collaboratori, tutti molto giovani) hanno compiuto lì la loro mutazione da progetto a oggetto. Ci sono le foto inedite, alcune delle quali si pubblicano qui per la prima volta, a testimoniarlo, anche se purtroppo sono di qualità scadente perché digitalizzate da vecchie Polaroid (molto in voga negli anni ottanta). 

 

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Ettore Sottsass, Francesca Ghianda, Pierluigi Ghianda e Marzo Zanini nel laboratorio di falegnameria di Bovisio-Masciago; Marco Zanini, Ettore Sottsass, Pierluigi Ghianda al lavoro in bottega, 1982-86. (Archivio Ghianda)

 

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Francesca Ghianda verifica gli imballi di un prototipo della libreria Carlton di Ettore Sottsass prima della spedizione; Ettore Sottsass “collauda” il prototipo di una poltrona nella bottega di Pierluigi Ghianda a Bovisio-Masciago; 1982-83. (Archivio Ghianda).


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Estratto da una nota di Judith du Pasquier, sorella di Nathalie, del gruppo Memphis, 1986. (Archivio Ghianda).


E poi ci sono i prototipi che “il Ghianda” ha gelosamente conservato fino all’ultimo dei suoi giorni (e dopo di lui noi figlie) difendendoli strenuamente dai famelici “avida dollars” (ho preso a prestito come pseudonimo il bell'anagramma del nome di Salvador Dalì, notoriamente avido di denaro, coniato da André Breton), anche a costo di feroci e dissanguanti battaglie legali. Esistono. Son salvi e a breve saranno finalmente a disposizione di chiunque li voglia studiare presso l’Archivio Storico del Politecnico di Milano, della cui collezione stanno per entrare a fare parte. Un pezzo importante della storia del design, un impegnativo lascito morale, oltre che materiale, riemerge dall’ombra in occasione del centenario della nascita del maestro.

 

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Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: prototipo della sedia Mandarina e studio delle gambe del tavolo Spider di Ettore Sottsass. (Archivio Ghianda).


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Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: i primissimi prototipi di una sedia pieghevole di Marco Zanini (mai entrata in produzione); primo prototipo della sedia Bridge di Ettore Sottsass; primissimo prototipo della sedia First di Michele De Lucchi. (Archivio Ghianda).


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Nel laboratorio dei Pierluigi Ghianda: secondo e terzo prototipo della sedia Bridge di Ettore Sottsass (si notino le differenti altezze dello schienale) (Archivio Ghianda).


Son cento. Son dieci.

 

Quest’anno, infatti, ricorre il centesimo anniversario dei natali di Ettore Sottsass, per di più, sono già trascorsi dieci anni dalla sua morte e il mondo, giustamente, lo celebra con cinque mostre a lui dedicate in luoghi istituzionali e numerose altre, altrettanto prestigiose, in spazi privati.

 

La prima mostra apertasi in ordine di tempo in un luogo istituzionale è quella di New York, visitabile dal 21 giugno all’8 ottobre, negli spazi del Met Breuer (quelli progettati da Marcel Breuer affacciati sulla Madison Avenue e sulla 75th Street), dal titolo: Ettore Sottsass Design Radical”.

Dal 14 luglio al 21 settembre, presso il Vitra di Weil am Rhein, si è tenuta invece la rassegna intitolata Ettore Sottsass – Rebel and Poet, ospitata nel nuovo edificio dello Schaudepot, progettato dallo studio Herzog & de Meuron e inaugurato appena un anno fa.

Il terzo evento espositivo è finalmente una rassegna italiana, attualmente in corso alla Triennale di Milano, fino all’11 marzo 2018, con il titolo di: There is planet.

L'altra mostra allestita sul nostro territorio nazionale, dal titolo: Ettore Sottsass, Oltre il design, prenderà avvio il 18 novembre e sarà visitabile fino all’8 aprile 2018 presso l’Abbazia cistercense di Valserena. Curata dall’Archivio-Museo CSAC dell’Università di Parma, attinge al vastissimo materiale del fondo Ettore Sottsass Jr in esso conservato che conta quasi 14.000 progetti su carta (tra schizzi, bozzetti e disegni) e 24 sculture.

Il quinto appuntamento, infine, aprirà i battenti nell’aprile 2018 ad Amsterdam allo Stedelijk Museum.

 

New York, Met Breuer, Ettore Sottsass: Design Radical

 

Con la curatela di Christian Larsen, la mostra di New York illustra la carriera del maestro nell'arco dei sei decenni in cui è durata, esponendone le opere chiave, nella poliedricità della sua produzione, dai disegni architettonici, ai progetti d'arredo; dai mobili, alle macchine; dagli oggetti in ceramica e in vetro, ai gioielli; dai tessuti, ai dipinti, alle fotografie. Vi si possono ammirare: il calcolatore elettronico Elea 9003, per Olivetti, del 1957 (Compasso d'oro 1959); la mitica Valentina, la macchina per scrivere, anch’essa della Olivetti, progettata nel 1968 insieme a Perry A. King (Compasso d'oro nel 1970); una cospicua selezione di mobili Memphis, proveniente dalla collezione permanente del Metropolitan stesso; i cinque totem in ceramica: Menhir, ZigGurat, Stupas, Hydrants Gas Pumps (esposti per la prima volta alla Galleria Sperone di Milano, nell’aprile del 1967; vedi qui sotto il manifesto e la foto di quello storico allestimento); il sistema di armadi modulari (che venne presentato a New York nel 1972 in occasione della mitica mostra Italy, the new domestic landscape, ospitata dal MoMA, curata da Emilio Ambasz) e molto, molto altro ancora. In alcune sezioni, gli oggetti creati da Sottsass sono messi in relazione con opere d'arte del passato, da quello egizio, a quello greco, ed anche con manufatti della cultura indiana, di quella del sud est asiatico e di quella dei nativi americani, dai quali Sottsass potrebbe aver tratto ispirazione o molto più semplicemente per una sorprendente analogia formale. Il connubio risulta essere molto seducente, anche perché il dialogo avviene con autentici capolavori, quali solo un museo ricco di dovizie come il Metropolitan poteva mettere a disposizione. Altrove il colloquio con le creazioni di Sottsass tocca alle opere dei maestri della Secessione Viennese (che forse attengono di più ai suoi trascorsi familiari), da quelle di Koloman Moser e Josef Hoffman, a quelle di Otto Prutscher. E ancora, ai lavori di Donald Judd, di Roy Lichtenstein e di Frank Lloyd Wright (qui la liaison appare un poco forzata), di Paul Klee e di Wassily Kandinskij e di altri. Chiudono infine la rassegna i pezzi meno noti al grande pubblico, messi a raffronto con quelli di quattro importanti artisti e designer del XX secolo: Piet Mondrian, Jean Michel Frank, Gio Ponti e Shiro Kuramata.

 

Larsen, quale titolo della rassegna, ha scelto il termine radical, di mendiniana memoria, da lui inteso però in senso lato: 

Sottsass è stato un radicale, qualcuno che ha rotto le regole e ha proposto delle alternative; e poi mi piaceva il termine radical perché significa anche radice, dunque andare alle origini. (…) Credo che sia importante celebrare questo autore poco riconosciuto negli Stati Uniti, anche alla luce del momento politico che stiamo attraversando. Si respira tra i giovani una voglia di cambiamento, di cambiare il mondo e Sottsass incarnava questa idea. La sua estetica sta tornando. C’è una relazione diretta tra i nostri valori e le cose che creiamo”.

 

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Ettore Sottsass: Design Radical, New York, Met Breuer.


Weil am Rhein, Vitra Design Museum, Ettore Sottsass – Rebel and Poet

 

Del maestro, ribelle e poeta, nella mostra del Vitra Design Museum si potevano ammirare una trentina di opere tra cui: il sofa Califfo (1964), il comò Cubirolo (1966-67), alcuni pezzi dalla serie Mobili Grigi (1970) per Poltronova, ed altre rarità come la sedia Tappeto Volante (1974), la Sedia Seggiolina da pranzo (1979-80) per Alchimia, oltre ai più famosi pezzi siglati Memphis, come la libreria Carlton (1981), le lampade Ashoka (1981) e Tahiti (1981) e la scrivania Tartar (1985).

A proposito dei suoi oggetti d’arredo, così scrive lo stesso Sottsass: 

Ho provato a disegnare oggetti, cose, mobili e farli costruire. Li ho fatti grandi e pesanti con zoccoli e basamenti per sottrarli al kitsch dell’arredamento borghese e piccolo borghese. Non stanno quasi da nessuna parte e comunque non legano, non possono neppure produrre coordinati. Stanno soltanto da soli, come i monumenti nelle piazze, e non riescono neanche a fare stile. Sono anche decorati perché così riesco a comunicare stati culturali (in senso antropologico) diversi, a seconda dei casi e a seconda di reali necessità funzionali”.

 

Altrove aggiunge:

Certamente chi mi lascia fare qualcosa è sempre gente molto ricca, perché i poveri non vengono da me, ma non vanno da nessuno, i poveri ricevono quello che il potere gli dà come abitazione, come distacco dal centro delle città. Ho anche questo problema: parlo di case per la gente, però poi queste persone sono miliardari.”

Accanto agli oggetti di design, nella mostra svizzera, figuravano anche alcuni estratti del vasto repertorio di testi critici e poetici di cui Sottsass è stato autore, insieme a numerosi suoi disegni realizzati per Olivetti, per Alchimia e per Memphis. Concludeva il percorso una serie di fotografie tratte dalla raccolta Metafore (1972-1978), composta da cinquanta scatti in bianco e nero realizzati durante un suo lungo viaggio intorno al mondo. Suddivisa in: Disegni per i destini dell’uomo, Disegni per i diritti dell’uomoDisegni per le necessità degli animaliFidanzatiDecorazioni, si incentra sulla ricerca della spiritualità e in particolare sul rapporto tra uomo e cosmo che Sottsass ha sempre perseguito.

 

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Manifesto della mostra Menhir, ZigGurat, Stupas, Hydrants Gas Pumps, alla Galleria Sperone, Milano, 1967, alcuni disegni di progetto, una foto dello storico allestimento. A fianco: riscrittura del testo del manifesto.


Milano, Triennale, Ettore Sottsass: There is a planet

 

Curata da Barbara Radice, con la direzione di Silvana Annichiarico, la mostra allestita alla Triennale da Michele De Lucchi e da Christoph Radl è suddivisa in nove stanze tematiche e cronologiche: Per qualcuno può essere lo spazio (fino al 1955 circa), Il disegno magico (anni ’50 e ‘60), Memorie di panna montata (anni ‘60), Il disegno politico (anni ‘70), Le strutture tremano (anni’ 70 inizio ‘80), Barbaric design (anni ’80), Rovine (anni ’90), Lo spazio reale (anni ’80 e ‘90) e Vorrei sapere perché... (fino al 2007).

Il titolo della rassegna è quello di un progetto elaborato da Sottsass per l’editore tedesco Wasmuth negli anni Novanta ma mai realizzato che oggi viene pubblicato da Electa.

Alla conferenza stampa, Barbara Radice, compagna di vita e di lavoro di Sottsass, ha dichiarato:

 “Il suo lavoro è stato vasto, abbiamo selezionato l’irrinunciabile, sperando di aver scelto bene, per far apparire la sua curiosità, ma anche la sua malinconia e le sue nostalgie, per festeggiare bene la sua bella vita.”.

 

Confidenziale, anzi “sentimentale” a detta dei curatori, la rassegna milanese ha un tono volutamente sommesso e non celebrativo. “Una mostra molto particolare”, scrive Silvana Annichiarico. “Intima, più che monumentale. Piena di echi segreti, di suggestioni sotterranee, di fili nascosti. Poco accademica, forse, ma con l’ambizione di far emergere anche quegli aspetti dell’opera di Sottsass che uno sguardo più ‘scientifico’ avrebbe disdegnatoo. La poesia, le tenebre, il magico...

Prelude alle nove stanze la Galleria della Architettura, dove sono mostrate opere del maestro attinenti ai temi che le stanze presentano, insieme a fotografie scattate da lui stesso, tra cui una raccolta inedita dei primi anni ’60 intitolata Le ragazze di Antibes.

 

Michele De Lucchi, come sua abitudine, in conferenza stampa ha parlato poco, però per l’allestimento ha fatto molto e lo ha fatto in modo eccelso. Da profondo e rispettoso conoscitore dell’opera di Sottsass, con il quale ha condiviso una stagione importante della sua carriera professionale, quella di Memphis, senza interferire con le opere che doveva presentare, ha saputo creare loro attorno quell’aura di magia che le sospende nello spazio e nel tempo, rafforzando la loro carica poetica. La mostra di sviluppa su un percorso planimetrico a forma grande U, lungo il quale si aprono le nove stanze tematiche. De Lucchi ha creato all’inizio e alla fine del percorso due camere di decantazione quasi rituali, l’una che preannuncia il sacro/mostra, l’altra che aiuta il visitatore ad allontanarsi da esso, cioè dal mondo onirico-giocoso di Ettore Sottsass, tuttavia talmente profondo da essere denso di afflati etici, Unheimliches insomma. La prima camera, quella che immette nella mostra, ha quasi la stessa funzione che aveva il quadriportico nelle basiliche paleocristiane: uno spazio in cui spogliarsi metaforicamente dei gravami del mondo sensibile, dei suoi rumori, dei suoi colori, dei suoi odori, prima di entrare nel luogo sacro. Analogamente il primo ambiente della mostra milanese è una stanza quasi vuota, in cui galleggiano sulle pareti solo pochi riferimenti a ciò che ci aspetta, che ci annunciano la meraviglia a cui stiamo per assistere, ma lo fanno a bassa voce, appena con qualche sussurro. L’ultima camera, quella che conduce all’uscita, è invece la stanza del silenzio più assoluto e del vuoto più totale. Nulla è appeso alle pareti, niente ingombra il pavimento, non immagini, non oggetti, affinché allontanandosi dalla mostra, il visitatore possa portare con sé l’incantamento che hanno prodotto su di lui le idee e le cose che ha appena finito di ammirare.

 

Amsterdam, Stedelijk Museum, Retrospective van Sottsass in Nederland

 

Quella di Amsterdam sarà la prima retrospettiva olandese dedicata a Sottsass, promossa, oltre che per celebrare il suo centenario, anche per mostrare al pubblico le recenti acquisizioni del museo, consistenti in un corpus di sue opere datate agli anni sessanta, tra cui il gigantesco Superbox (1966; rimesso in produzione nel 2005) e l'altrettanto voluminoso Cabinet n. 70 (2006). La mostra consterà di circa ottanta pezzi che ripercorreranno in serie cronologica la sua carriera artistica, evidenziando le influenze esercitate su di lui dalle diverse culture con cui è entrato in contatto durante i suoi viaggi o nel corso dei suoi studi. 

Nell'intenzione dei curatori, al centro della mostra, sarà soprattutto il suo audace sperimentalismo, la sua continua ricerca di nuovi materiali e di nuove forme, con un occhio particolare rivolto alla sua filosofia di vita e di lavoro a quella sua malinconia, così in contrasto con la gaiezza delle sue creazioni. Una “malinconia dissolutoria”, come ebbe a definirla Aldo Rossi, perché Sottsass, con i suoi piani raramente ortogonali al suolo, i suoi montanti diagonali, l’inversione gravitazionale, quasi magrittiana, del pesante e del leggero, posto in alto il primo e in basso il secondo, ha distrutto per sempre i solidi presupposti su cui da sempre si fondava “un'architettura stabile” andando invece “alla ricerca di un superiore livello di ricomposizione”.

 

Dulcis in fundo: al primo piano della Triennale è in corso una mostra assolutamente da non perdere: Intrecci del Novecento. Arazzi e tappeti di artisti e manifatture italiane.

Qui, tra le magnifiche opere esposte, che vanno dal futurismo ai giorni nostri, vi è un piccolo gioiello: si tratta di un dipinto di Ettore Sottsass del 1947 (Senza titolo, tecnica mista su cartoncino). Se osservato attentamente, il dipinto rivela la sua parentela con lirismo di Paul Klee e con il suo Realismo Magico. In essa, in più, si possono già ravvisare in nuce alcuni degli elementi che ritorneranno nella poetica di Sottsass degli anni a venire, dall’acceso cromatismo, all’estrema libertà formale, alla estrosità compositiva. Chi visitasse la sua mostra al piano di sotto, ci guadagnerebbe ad andarlo a vedere.

N.B. Si tratta del progetto per un tappeto, presentato al Concorso di disegni per tappeti Premio MITA (Manifattura Italiana Tappeti Artistici). VIII Triennale di Milano, 1947. Genova Nervi, Archivio MITA. 

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Lo humour del corpo: lo slapstick ne “La Pantera Rosa”

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Vi è mai capitato di sbattere contro un palo per strada perché troppo presi dal vostro smartphone? E di fare poker con gli spigoli del tavolo della cucina? O ancora di cadere dal tapis roulant in palestra mentre cercavate di darvi un tono con gli astanti in perfetta forma fisica? Se la risposta è sì, mi dispiace per l’imbarazzo che avete provato al momento – ne so qualcosa – ma potete consolarvi perché fate ufficialmente parte del roboante mondo dello slapstick, dove il tasso di dolore corrisponde al grado di clamore delle risa.

 

Il genere slapstick si assimila alla farsa poiché si basa su un humour incarnato, corporeizzato, caratterizzato da situazioni assurde dove il comico-buffone deve cimentarsi in prove fisiche, addirittura acrobatiche, azioni sfrenate, dimostrando di saper padroneggiare perfettamente il tempo e lo spazio. 

La denominazione slapstick pone le sue radici proprio nell’innesco della risata, vale a dire nell’oggetto adibito a creare gli effetti sonori delle gag fisiche, durante cui gli attori si azzuffano mimando dolore, paure e panico. La parola slapstick si compone del suono onomatopeico di un bel ceffone (slap), di quelli che al cinema fanno ridere, e che non comportano indignazione per la violenza del gesto, e del riferimento diretto al manufatto in questione, ovvero due legnetti, collegati da una molla e connessi a un manico, che entrando in contatto simulano il rumore di un colpo. La tempistica, come già segnalato, deve essere sorprendentemente precisa: un paio di secondi di ritardo potrebbero comportare il fallimento della gag e la sua decodifica aberrante.

 

Lo slapstick-oggetto ha una storia assai antica, risalente alla commedia dell'arte, e alla spatola con cui Arlecchino, la maschera che più di tutte è associata alla mancanza di serietà, vessa il malcapitato di turno, durante le gag fisiche di cui è protagonista. Già, perché il vero discrimine sta proprio nel protagonismo assoluto del corpo, un corpo sofferente, deformato dal travestimento, grottesco e dinamico, i cui movimenti, talvolta, sono ulteriormente esasperati dagli effetti cinematografici di rallentamento e velocizzazione. È il corpo a rendere lo slapstick una commedia “bassa” in quanto si basa sugli effetti di senso prodotti dal fisico piuttosto che da arguti motti di spirito, allusivi per natura, che non innescano la risata immediata. 

 

Le gag fisiche dello slapstick sono uno dei maggiori esempi di auto-ironia finzionale, convogliati al pubblico con performance immersive dei comici, che assurgono a figure da considerare, seguendo l’antropologo Masao Yamaguchi, come il riflesso di un meccanismo attraverso cui noi ristabiliamo la potenziale relazione col mondo reale e facciamo ripartire la nostra vita attraverso le immagini da loro convocate. In questo modo facciamo pace con il nostro lato ridicolo e goffo, esorcizzando l’imbarazzo. Yamaguchi, inoltre, afferma che gli attori dello slapstick fungono da intermediari tra gli elementi sovversivi e i pattern esistenti della narrazione trasformando la struttura in modo da farle incorporare la realtà non normativa. Insomma, in parole povere ciò che è normale e comune, come cadere, inciampare, causarsi un bernoccolo contro uno spigolo, o, più in generale, alcuni impeti di ira, viene “straniato”, reso nuovo e sorprendente, in modo da poter patteggiare con i tabù culturali, tratteggiando i limiti del socialmente accettabile, gettando nella vergogna il capro espiatorio di turno, nel nostro caso uno dei tanti personaggi della commedia slapstick. 

 

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Pensiamo a “The Pink Panther” (1963), il primo film dell’omonima saga diretta da Blake Edwards, dove il povero ispettore Jacques Clouseau, interpretato da Peter Sellers – l’unico degno di questo ruolo – a causa della sua indiscutibile ottusità, viene, nel giro di sole 11 ore, tradito dalla moglie con il ladro colpevole del furto del diamante da cui proviene il nome del film, incastrato come colpevole, e arrestato. Sembra la cronistoria di una tragedia capitata a un uomo molto sfortunato, a un capro espiatorio dal destino crudele, e pertanto sembra lecito chiederci, come suggerisce Sam Wasson nel suo libro A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards, perché ridiamo a crepapelle dinnanzi a una situazione così triste. E la risposta giunge mediante le parole dello stesso Blake Edwards: «Nel caso dell'ispettore Clouseau, lo slapstick, come ogni altro genere di commedia, è frutto del personaggio... se il personaggio incarna un certo tipo di autorità di cui tu o io potremmo ridere, e se possiamo inserire azioni violente, fisiche, come scivolare su una buccia di banana o cadere dentro un tombino, meglio è definito il personaggio, più sarà divertente». 

 

Dunque, da un lato abbiamo il non plus ultra del socialmente indesiderabile come le corna e l’onta di un reato non commesso, mentre da un altro la nostra attenzione si focalizza sulla fallibilità dell'autorità, dove l’eccessiva fiducia in sé di Clouseau viene punita con umiliazioni corporali, oltre che morali. In questo caso il regista non si limita soltanto a gettare nella vergogna il topos del poliziotto stupido e presuntuoso, ma mette sotto i riflettori la piaga sociale degli incompetenti al potere e degli abusi sui più deboli. Edwards e Sellers, tra una risata e un’altra, portano lo spettatore a riflettere sui limiti dell’ideale di giustizia, che, come fa notare Wasson, nella saga de “La Pantera Rosa”, viene perseguita grazie alla formula ricorrente “vanagloria + gag violente = autenticità”, finalizzata a svelare la vera natura dei personaggi della narrazione, e, di conseguenza, dell’intero genere umano.

 

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Edwards considera la sua commedia come un placcaggio a sorpresa, per scuotere il pubblico e indurlo a pensare, a rivedere i tabù della sua cultura, ragionamento che si conduce più facilmente mentre si ride.

Ogni gag viene coinvolta in un processo di drammatizzazione in quanto portatrice di una determinata ideologia mirata a riconsiderare ogni volta un aspetto diverso della giustizia sociale, facendo assumere alla saga una certa responsabilità narrativa. 

 

Se nella pellicola del 1963 Clouseau, personaggio metà Sherlock Holmes e metà Buster Keaton, ha la peggio, in quella successiva, “A Shot in the Dark” (1964), sovverte la sua situazione risolvendo il caso senza alcuna logica, grazie a un totale ribaltamento della sua fortuna, ma almeno la sua innocenza e diligenza vengono premiate. Clouseau commette solo errori grossolani, senza riuscire ad ammetterli, ristagnando nella sua presunzione, e pertanto si rivela essere la nemesi dell'ispettore capo Dreyfus, l’incarnazione della razionalità investigativa, perché la sua idiozia fa vergognare l'uomo così tanto da portarlo alla follia, soprattutto perché non riesce a spiegarsi i suoi successi.

Possiamo categorizzare la vergogna di Dreyfus adoperando la classificazione proposta da Marco Belpoliti, vale a dire quella “di non avere successo, di non essere notati, [...] la terribile vergogna d’essere nessuno”. Clouseau alla fine dei conti attrae tutti i meriti su di sé, giungendo a occupare il posto di Dreyfus, la cui indignazione e imbarazzo si concretizzano nell'autolesionismo e nei ripetuti tentativi di uccidere lo sprovveduto nemico, causati dall'invalidamento delle basi sui l’ispettore capo cui ha fondato la sua etica professionale e individuale. Clouseau è una minaccia poiché portatore di caos e distruzione, proprio ciò che la cultura dovrebbe irregimentare e trasformare in ordine. Con la pazzia di Dreyfus, però, i ruoli si invertono e Clouseau gli passa il testimone di capro espiatorio: l’ormai ex ispettore capo viene espulso dalla società e rinchiuso in manicomio.

 

Ecco che la mente, quella alla base della comicità “alta”, intellettuale, ha la peggio sull’ingombrante corporeità dello slapstick, sancendo l’antropomorfizzazione della rivalità con la commedia sofisticata, anche se quest’ultima viene in qualche modo arricchita da una figurativizzazione più ampia di tutte le dimensioni simboliche dell’attività umana. Di certo la commedia slapstick è cruda e violenta, e spesso la consideriamo come una forma di riso infantile, ma Blake Edwards compie un passo in avanti, raffinandola ulteriormente: per Clouseau le bucce di banana non rappresentano una minaccia, perché la sua straripante idiozia lo sottopone a prove ancora più pericolose, come precipitare da una finestra o subire gli improvvisi assalti del maggiordomo Cato, esperto di arti marziali. 

 

I combattimenti tra Clouseau e Cato sono un'assurda accozzaglia di tecniche provenienti da karate, judo, kobudo, la disciplina incentrata sull’uso delle armi tradizionali. Generalmente l'ispettore finge di essere colto di sorpresa perché il patto con Cato prevede un allenamento costante, soprattutto durante i tempi morti, quelli della quiete domestica. Nella maggior parte dei casi vediamo Clouseau attendere l'attacco in abiti di foggia orientale, come lo yukata, il kimono estivo, o addirittura il karategi con tanto di cintura nera, dato che, come ogni buon praticante di arti marziali, deve limitarsi a difendersi. 

Le folli acrobazie dei due sono sottolineate o dalla slow-motion, che distorce visi e vocalizzazioni mettendo in rilievo sia la goffaggine nell'esecuzione delle tecniche sia i rovinosi capitomboli, oppure, come accade in “The Pink Panther Strikes Again” (1976), i movimenti di Clouseau, intento a ostentare la sua padronanza dei nunchaku, vengono velocizzati per citare la scena di “Enter the Dragon” (1973), in cui Bruce Lee, colui che ha reso popolare questo tipo di arma, si difende da un opponente armato di bastone, il cui ruolo è ricoperto da Cato, munito di bō tradizionale. 

 

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In effetti l’ispettore e il maggiordomo orientale risparmiano le urla nel fronteggiarsi, esasperando anche il kiai, cioè la potente emissione di voce, derivante da una forte espirazione, corrispondente agli attacchi più efficaci, dove si è al culmine della potenza. L'urlo è una sorta di climax della gag, che viene discorsivizzata in termini di durata e di aspettualizzazione spazio-temporale dando senso ai movimenti rallentati e velocizzati in relazione al grado di potenza dell’effetto di senso comico da indurre nello spettatore, vale a dire in continuum che va dal sorriso a fior di labbra alla risata a crepapelle. 

Ogni sessione di combattimento è puntualmente interrotta dal trillo del telefono che riporta alla routine casalinga e lavorativa, ma, nonostante Clouseau in tutte le altre cose della vita sia diligente e onesto, non può ammettere di perdere con Cato, che, convinto di aver terminato l’allenamento, ogni volta viene sconfitto con uno stupido stratagemma, come mostrato nel film “The Return of the Pink Panther” (1975), in cui l’ispettore pronuncia la storica battuta «But, Cato, your fly is undone», “Cato hai la patta dei pantaloni aperta”, con lo scopo di far abbassare lo sguardo dell’uomo e metterlo al tappeto con un calcio diretto al volto.

 

Clouseau considera gli assalti a sorpresa come parte del ricco spettacolo della vita, giocando appunto sul suo essere l’anti-Bruce Lee, in quanto non esattamente dotato del physique du rôle, estendendo l’aura di autenticità dello slapstick alla rappresentazione cinematografica delle arti marziali, proiettate al di fuori della sfera dell’eroismo, sino a ricadere nel vortice della quotidianità più grottesca.

Nella saga de “La Pantera Rosa” la ripetizione delle stesse gag fisiche, come quella del combattimento, assume la funzione di dispositivo stereotipante che acquisisce senso nella sua formularità, in modo da strutturare il mondo a partire dal riso. 

 

Come sottolinea Claudio Paolucci “il Riso è una delle nozioni più importanti all’interno dell’opera di Umberto Eco” perché “è legato a un divenire-basso di ciò che è alto” e mette “in discussione l'Ordine esistente col suo sistema di valori”. Lo stesso Eco ci avverte che “l’Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, osi finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme, o si è Rabelais o si è Cartesio”. 

Il riso è dunque dotato di un potere sovversivo, fa sì che questioni serissime, di rilevanza sociale, come l’autorità e la giustizia ne “La Pantera Rosa”, possa essere presentata al grande pubblico in modo diretto, senza fronzoli e troppi giri di parole, in quell’attimo esilarante in cui si consuma il colpo al viso, autentico quanto il rumore del suo “slap”.

 

Nota bibliografica: 

 

Gli studi di Masao Yamaguchi sulla cultura e l'ambiguità del buffone nel folklore e nel cinema sono magistralmente riassunti nel saggio di Ryuta Imafuku dal titolo “Masao Yamaguchi: A Hermes-Harlequin in the Field of Semiotics”, contenuto nel volume The Semiotic Web 1987, a cura di Thomas A. Sebeok, Jean Umiker-Sebeok (Walter de Gruyter 1988, pp. 93-108).

Per approfondire l'intera opera di Blake Edwards, rimandiamo al citato A Splurch in the Kisser: The Movies of Blake Edwards di Sam Wesson (Wesleyan University Press 2010), disponibile online in formato e-book. L'articolo “Ci hanno portato via anche la vergogna” di Marco Belpoliti, pubblicato su La Stampa il 28 aprile 2010, è consultabile qui

È di recentissima uscita per Feltrinelli (marzo 2017) l'omaggio di Claudio Paolucci a Umberto Eco dal titolo Umberto Eco. Tra Ordine e Avventura, mentre la citazione di Eco è tratta dal Diario Minimo, alla cui prima edizione del 1963, ripubblicata innumerevoli volte a stampa, si è aggiunto il formato digitale (Bompiani 2017).

 

Scena tratta da “The Pink Panther Strikes Again”.

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Storie di ordinaria estraneità

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Negli anni del primo dopoguerra, il riscatto di una nazione sconfitta arrivò inaspettatamente dal cinema, che divenne proprio in quegli anni un fenomeno globale, la principale fonte di svago di un mondo che ricominciava a vivere. Nessuno però aveva mai sentito parlare di quello italiano, che di svago ne offriva ben poco. I film di Rossellini, De Sica, Zavattini e di tutti quelli che seguirono, aprirono la strada a una nuova idea dell'Italia dopo vent'anni di fascismo. Fu chiamato neorealismo, un cinema girato tra città distrutte e campagne sconvolte dal passaggio del fronte, con attori presi dalla strada e che raccontava storie di vita quotidiana: bambini lustrascarpe, operai disoccupati ladri di biciclette, le vicende della guerra e le macerie morali da cui ripartire. L'urgenza di dire è il motivo per cui continuiamo a rivedere quei film che hanno fatto scuola in tutto il mondo e che hanno ispirato tante declinazioni del neorealismo.

 

È inevitabile richiamare quel modo di fare cinema quando si parla del lavoro di Leonardo Di Costanzo, che nasce documentarista ed è passato al cinema di finzione (categorie in verità un po' logore) con L'intervallo, acclamato in giro per il mondo: la vicenda di due adolescenti che, per un momento, sembrano essere liberi da un destino che già li opprime. Napoli e il sistema della malavita stanno sullo sfondo - o meglio, fuori dal film - ma sono una presenza incombente, che tutto condiziona.

 

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C'era naturalmente molta attesa per la nuova opera di Leonardo Di Costanzo, a cinque anni di distanza da L'intervallo: un termine di paragone che pesa. Ma il regista, pur lavorando negli stessi luoghi (la periferia napoletana), con attori non professionisti e una squadra in buona parte confermata (sceneggiatura di Maurizio Braucci e Bruno Oliviero, montaggio di finissima fattura di Carlotta Cristiani), realizza un film che ha un timbro diverso, più pessimista, ma che raggiunge un umanesimo ancora più profondo, perché le parti in gioco ora sono ora di più. Ne La regola del gioco, Jean Renoir diceva che il dramma, nella vita, è che ognuno ha le sue ragioni. E i dilemmi morali sono il cuore de L'intrusa.

 

La storia è presto detta: in un centro per bambini alla periferia di Napoli, oasi di pace in un quartiere degradato, arriva Maria, la giovane moglie di un boss di camorra, con una figlia piccola e uno neonato. Trova rifugio in una casupola nel giardino del centro. Non sappiamo perché abbia deciso di stare lì, apprendiamo poi che il marito è in carcere a seguito di delitti efferati e che lei non va d'accordo con la suocera. Chi ha deciso che può restare è Giovanna - una magnifica Raffaella Giordano, figura storica della danza d'avanguardia, la cui settentrionale intonazione profonda, a contrasto con la polifonia in lingua e dialetto napoletano, è il sound, la linea continua, del film - che ha creato questo centro e ne è la carismatica figura di riferimento.

 

La bambina, molto sospettosa dapprima, viene un po' alla volta coinvolta nelle attività del centro. Parla con gli altri bambini, che sanno benissimo che è la figlia di un piccolo boss, ma la accettano fra loro. Chi non è d'accordo sono le madri, i dirigenti scolastici e, infine, i collaboratori di Giovanna. Tutti affezionatissimi a lei, ma che le aprono gli occhi sul fatto che accettare quella presenza estranea significa infrangere le regole di una comunità, venire a patti col sistema. D'altra parte, per Maria prendersi una pausa dallo spietato sistema familistico - così sembra pensare Giovanna - è l'unica via di scampo.

 

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Il film ha un avvio lento, descrive i luoghi dell'azione poco alla volta (belli come sempre i disegni di Gabriella Giandelli, che fanno da quinta all'azione), presenta i personaggi di scorcio, fino ad arrivare all'incontro/scontro tra Giovanna e Maria, Giovanna e la bambina. I primi piani intensissimi svelano l'enorme tensione che sta soprattutto nel non detto. Maria abbandonerà la comunità di soppiatto. Il film finisce con una grande festa che scioglie la tensione ma lascia aperti tutti gli interrogativi. Chi è l'intrusa? Maria che ha mandato all'aria la vita di una comunità di frontiera? O Giovanna, corpo estraneo in un mondo in cui le regole non scritte resistono persino alla volontà di una leader?

 

Leonardo Di Costanzo è regista troppo accorto per offrire una risposta a questi interrogativi. Gli preme mostrarci come l'incrocio dei destini individuali si scontrano con un mondo dove le nostre vite sono sempre più prigioniere, dove l'anelito di libertà individuale è soffocato dalla società quando cerchiamo di ribellarci, di prendere in mano il nostro destino. Il suo è un cinema adulto che chiede a chi guarda di interrogarsi. Non offre soluzioni.

 

Non prende le scorciatoie che l'effetto Gomorra ha provocato, non ci sono morti ammazzati, non c'è l'epopea della malavita. Preferisce descrivere il mondo di Giovanna - una figura che ha delle affinità con Fabrizia Ramondino negli anni dell'impegno sociale, un animo aristocratico nel fare il bene ma anche la difficoltà della condivisione - che, spiega il regista, potrebbe essere l'avamposto del nostro futuro, delle infinite mediazioni che la complessità della società del domani ci chiederà. Dal documentario Di Costanzo ha portato con sé la verosimiglianza dei luoghi, delle facce, delle piccole azioni - un calcio a una palla - che spiegano più di tante parole. Una lezione di verità.

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Leonardo Di Costanzo, “L'intrusa”
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Bruno Munari. Codice ovvio

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Codice ovvioè una raccolta di materiali di Bruno Munari che si spogliano via via della loro singolarità e frammentarietà nel tempo, per comporre l’immagine del lavoro compiuto dal loro autore in questi anni. O, almeno, due linee fondamentali di tale lavoro: il rigore e la semplicità, che è poi fantasia, presa diretta di un qualcosa tanto chiaro, immediato, palpabile ed evidente da risultare ovvio, e tale deliberatamente, volutamente, non senza ironia e un pizzico di evidenza didattica. Appunto un codice, con le sue regole, i suoi meccanismi, le sperimentazioni che gli son proprie: ma un codice che vuole giungere a un esito ovvio. Si osservi con attenzione il teorema che apre il libro, e che ne vuole costituire anche una chiave di lettura: che non è ironica, ma di serenità, di lievità di contegno, di equilibrio (Munari ama citare una espressione Zen: «Il riso è la manifestazione esterna di un equilibrio interiore»; e ricorda che se in greco technè è sinonimo di arte, il suo omologo in giapponese, asobi, è arte, ma anche gioco. E il cerchio, sempre sul filo delle citazioni promosse da Munari, si chiude su Valéry: «La più grande libertà nasce dal più grande rigore»). L’ironia, il gioco di Munari hanno una funzione precisa, che spiace chiamare pedagogica per la seriosità implicita nel termine, e che è forse meglio dire di richiamo a un equilibrio raggiunto e posseduto. 

 

Codice ovvio, dunque, non è la giustapposizione, più o meno capziosa e «giocata», di termini antitetici, perché l’antitesi si scioglie presto, a una lettura appena più attenta: e chi abbia visto le pagine finali di questo libro, L’equilibrio degli opposti, saprà subito individuare il succo della contrapposizione. La quale si può risolvere così: il rigore della ricerca di Munari tende a semplificare al massimo l’oggetto da lui progettato fino a proporlo (altri dirà: a comunicarlo) nel modo più chiaro, diretto e facile. 

Se si vuole è un poco come togliere la buccia, o le bucce, per raggiungere un nocciolo di invenzione-comunicazione in piena assenza di disturbi, deformazioni e di qualunque alone di improbabilità o di misteriosa emanazione. Sono le bucce, o le sovrastrutture, che hanno il sapore di vestiti del regale personaggio di Andersen, tanto di fatto inesistenti quanto fissamente, pervicacemente «visti» dai suoi sudditi. Il re, insomma, è nudo: oppure, il codice è ovvio.

 

L’antitesi del titolo è polemica, naturalmente: non vuole essere una affermazione di tautologia, non vuol dire che il mondo è il mondo, una pera è una pera, e via dicendo. Ogni cosa, in tanto è una cosa, in quanto è un modo, un atteggiamento con cui ci pone a fronte ad essa, a noi stessi e agli altri. Tante volte s’è ripetuto per Munari il termine gioco, eppure gioco non è: proprio perché quel modo, quell’atteggiamento sono un risultato, l’esito di un lavoro preciso, puntiglioso, esatto; perché le regole non sono per nulla nascoste, o sublimate, ma, al contrario, presenti, esplicite, dichiarate. Il libro, dunque, narra questa duplice avventura e il suo diventare un fatto unico: il rigore, la ricerca, l’esattezza, la fantasia, il movimento inventivo, la irrequietezza fabbrile.

 

Ma le due componenti, di metodo e di invenzione o eccitazione fantastica, sono poi la stessa presenza, simultaneamente: anzi si può aggiungere che l’intenzione inventiva si fa presenza effettiva in quanto è metodo, in quanto si stilizza nella massima semplicità, e non solo formale, di comunicazione. Col che Munari ha posto una sua soluzione al problema che contrappone la posizione di chi fa l’opera e di chi la riceve, dell’attivo e del passivo: nell’esatto esito vi è una complementarità degli opposti, sicché l’oggetto ricevuto e reale è risultato in se stesso e insieme stimolo a virtualità immaginativa, non più nebulosamente generica bensì metodicamente chiarita, capace di stimolazioni recepibili, di un uso spontaneo ed economico e aperto a tutte le possibilità di sviluppo, col massimo di intensità possibile. Da questo punto di vista, la sequenza delle soluzioni proposte mostrerà chiaramente, a chi sfogli il libro, che Munari è un artista anomalo. Le sue sono costruzioni, e alle costruzioni razionali di tutta una porzione dell’esperienza delle arti visive contemporanea richiamano la memoria. Ma buona parte di quelle costruzioni volevano essere uno schema intellettuale, prima di tutto, rigoroso, capace di raccogliere e di chiudere nei propri confini la più ampia fetta di realtà in termini o emblematici o statistici. Mentre lo scopo che Munari si prefigge non ha remore e residui mentali o preoccupazioni intellettuali, e la sua metodologia mira a organizzare in modo rigoroso le possibilità e le evenienze fenomenologiche, indirizzandole là dove la irrequietezza percettiva indica una polarità sensibile, un canale di sviluppo e attrazione. La rottura con uno schema di comportamento consueto ha posto, fin dall’inizio praticamente, il problema di Munari: pittore o designer? artista o stilista? (Non che il secondo polo di questo falso dilemma non comprenda il primo, che il designer non sia artista, sempre che un simile termine abbia un qualche senso e non sia semanticamente svuotato: ma giova qui riprendere la terminologia corrente al fine di spiegare, appunto, il falso dilemma). Queste domande son poi quelle che hanno pesato sulla comprensione più profonda del lavoro di Munari, proprio quella che si spera di riproporre alla considerazione con il presente libro.

 

La spezzatura fra artista e designer, in sostanza, e lasciando da parte le più equivoche remore estetiche e idealistiche, può esser riassunta alla buona così: in ambedue i casi siamo di fronte a un progetto, a una volontà che si chiarisce grazie a considerazioni diversamente concrete: en artiste con la più ampia libertà immaginativa e intellettuale, e quindi operativa; nel caso del designer, con il massimo condizionamento di situazioni di produzione e di consumo. Anche narrate così, le cose hanno una estrema equivocità, e mostrano, da questo punto di vista, l’irrilevanza della opposizione. Il punto è un altro: in qualche misura l’artista stacca il suo prodotto dal flusso fenomenologico o fisico o psicologico, collocandolo in opposizione ad esso sia come rispecchiamento, come definizione culturale o quale si preferisca. Munari, al contrario, resta in quel flusso, lo chiarisce nella sua dimensione specifica, nella sua qualità di conoscenza e di riconoscibilità, e la definisce e intensifica in quanto tale: che è poi anche una pedagogia visiva. Se ciò è vero, è anche evidente ciò che si intenderà per tecnica, o restando al titolo del nostro libro, per codice: quella metodologia operativa che determina i processi visuali, e in connessione ad essi gli altri procedimenti, che libera e tien desta la creatività nei suoi oggetti concreti e, ciò che più ci interessa, non è propria di nessun «genere» di per sé, in quanto è trasferibile là dove le esigenze di determinazione effettiva e di elaborazione lo richiedono.

 

Si pensi anche solo, a questo punto, alla cronistoria della pittura «astratta» in Italia, con tutte le sue varianti: ebbene l’oggettivazione delle ragioni di metodo che essa ha in modi diversi condotto innanzi implicava anche l’oggettivazione del «genere» pittura, reso come fatto specifico. Il gioco, il gratuito, come formula critica tante volte ripetuta, nasce da questo collocarsi fuori di un contesto abituale di Munari, che ha il suo piccolo trionfo con le Macchine inutili, esposte a partire dal 1933, e poi riprese a più riprese, anche nel secondo dopoguerra. Come è stato osservato in un recente saggi, la «funzionalità della macchina si accompagna alla gratuità del gioco e alla libertà del contemplare»; in altri termini, la gratuità, o l’inutilità stanno a indicare una condizione di comportamento, che è gratuita perché non finalizzata in funzione coercitiva pratica e in una non meno coercitiva funzione di politica intellettuale, e quindi libera di penetrare una volontà formativa, con tutto il rigore necessario. Prima ancora che da una concettualizzazione qualsiasi il lavoro di Munari parte da una constatazione reale: per usare l’affermazione stessa dell’autore, lo squilibrio fra «un mondo falso in cui vivere materialmente e un mondo ideale in cui rifugiarci moralmente». La coerenza fra questi opposti, senza alcun preconcetto stilistico o mentale o psicologico o formale: ecco il punto; vincere quel preconcetto, già costituito prima che vi siano determinate le condizioni d’uso, di necessità, di fattualità. Che significa poi ritrovare il giusto senso della «economia» nel 

 

suo contesto più completo. Nel volume Arte come Mestiere, raccogliendo una serie di articoli comparsi su un quotidiano milanese, Munari osservava: «Progettando senza alcun preconcetto stilistico o formale, tendendo alla naturalezza nella formazione delle cose, si ottiene un prodotto essenziale: il che vuol dire usare le materie più adatte negli spessori esatti, ridurre al minimo i tempi di lavorazione, fondere assieme più funzioni in un solo elemento, risolvere gli attacchi con semplicità, usare meno materie che sia possibile in uno stesso oggetto, fare in modo che non occorrano finiture particolari, risolvere le eventuali scritte già nello stampo, prevedere una eventuale riduzione di ingombro per l’immagazzinaggio e il montaggio automatico dell’oggetto, sfruttando, se possibile, la forza di gravità, considerare che un oggetto appeso costa meno che uno appoggiato; e tanti altri accorgimenti che un progettista allenato trova e risolve durante la progettazione». Il problema si pone dunque come coerenza fra le varie funzioni effettivamente in atto, realmente necessarie, e come equidistanza fra le parti stesse. Si pensi, e fin dall’inizio, fin dai primi «oggetti», dalla macchina aerea con cui si apre questo libro, alla questione natura-macchina, naturale-artificiale: ebbene l’operazione di Munari è di una disincantata disponibilità di entrambi i termini ad essere sentiti e usati ogni qual volta si renda necessario.

 

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Non sono state riprodotte in questo volume alcune delle ricerche iniziali, lungo i primi anni Trenta; allorché, sulla falsariga dei fotogrammi sperimentati da Man Ray a Moholy-Nagy, Munari allestì una suite fotografica il cui tema sembra essere il mutamento e il cangiamento delle forme, e quindi la loro metamorfosi. Tale metamorfosi è studiata e vista sulla trama di analogie tra meccanico e organico, che interferiscono e agiscono liberamente tra loro, evitando ogni elemento di contrasto fra quei due «mondi», e evitando, anche, i motivi surrealistici, cari a quell’epoca e anche in seguito, di stupore, straniamento e frustrazione o irritazioni da parte della macchina di fronte alla natura, o viceversa, che ne derivano. Tutto ciò porta a comprendere un’altra serie di esperienze, e queste presenti a chi sfogli il volume. Ci si riferisce al superamento dell’opposizione fondo-oggetto, concavo-convesso, positivo-negativo. L’origine di questa serie sgranata nel tempo è con ogni probabilità un quadro del 1935 come Anche la cornice: come indica il titolo è inglobato nell’opera lo «spazio» aggiuntivo della cornice.

 

Ebbene Munari rompe il rapporto gerarchico, oggetto/cornice, come più avanti quelli tra fondo e figura, concavo/convesso, positivo/negativo, rapporto che è di opposizione radicale e di tensione di contrasto. Lo scopo di tale contrasto, privilegiando una parte e allontanando l’altra, era quella di sottrarne alla fluidità fenomenica la parte ritenuta più importante: con la conseguenza di un irrigidimento del tutto e di un senso di fuori dal tempo e, in fondo, dallo spazio. L’equiparazione agisce come un’animazione di spessori e di tensioni non più opposte, ma diverse, contigue, che vi rimandano, implicano, alterano in irrequietezza, come fossero la stessa cosa vista da punti diversi. Una molteplicità mantenuta come tale, salvandone la pluralità, e restituendola alla varietà e virtualità che le son proprie: potrebbe essere questa la sigla continua con cui proporre l’intero arco del lavoro di Munari. Codice ovvio fissa alcuni dei momenti fondamentali di questo arco, dal 1930 ad oggi: ma non è una «mostra personale», né un repertorio. Vuole esser proprio un racconto, nel tempo prima di tutto, come sviluppo, che sarà opportuno definire storico; e all’interno o in prossimità di ciascuna esperienza. Si spiega in tal modo perché accanto alle illustrazioni vere e proprie, stiano testi o disegni: i quali intendono mostrare entro quale spazio matura e si sviluppa, anche di «genere» in «genere», e proprio facendo saltare queste barriere, in estensione, l’ideazione e la realizzazione.

 

Il libro è nato con estrema semplicità: dalla constatazione che, fra tante monografie, volumi panoramici e riassuntivi, proprio di Munari e su Munari mancava una informazione dettagliata e in qualche modo precisa. Al che va aggiunto che, proprio per la loro destinazione a una grande diffusione, gli oggetti di Munari implicano anche la più grande dispersione: né i musei nostrani raccolgono questa e consimile produzione, sicché la documentazione è scarsa, lacunosa e sembra confermare al gran pubblico quel pregiudizio estetico che contrappone, con gli equivoci cui s’è fatto cenno, artista o designer anche grazie a questa fantomaticità dei materiali del secondo. Stando così le cose, però, era proprio la monografia, o il repertorio, che si voleva non fare, per non immobilizzare bloccandolo in un libro, un movimento inventivo e un rigore di metodo così liberi come quelli di Munari. Il quale, con pazienza, ha accettato di narrare sé stesso, qualche volta postillan dosi, talora commentando, o traendo dai cassetti testi o illustrazioni disperse, come quei Teoremi, poesie-aforismi, di un estremo interesse. Non tutto il materiale ha trovato posto nella raccolta: un certo numero di applicazioni di nuovi materiali a livello industriale, per fare un esempio, è stato escluso, non perché se ne sottovaluti l’importanza, ma perché ciascuno implica un tipo di spiegazione delle caratteristiche costruttive e di realizzazione che fuoriesce dai limiti che era indispensabile porsi.

 

Né d’altro canto, la metodologia è in questi casi taciuta, perché situazioni analoghe si trovano in altre proposte, illustrate invece nel libro. Analoga esclusione, e diversa motivazione, hanno i dipinti iniziali di Munari, fra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta. Diversi di questi sono andati perduti o sono dispersi, pur conservandosene una documentazione fotografica (se ne possono citare i titoli Costruire, 1926, Sosta aerea esposta nel 1931, Infinito Verticale del 1932, L’avventura su cielo rosa, 1932). Gli inizi di Munari sono legati al cosiddetto «secondo futurismo», cioè alla ripresa di interessi, temi e soluzioni di tipo futurista in un clima e in un contesto del tutto mutati, con sconfinamenti mistico-spiritualistici e psicologistici, quando non metafisici, ma anche con elementi meccanici e costruttivistici. Quella di Munari con il «secondo futurismo» è stata un’alleanza discorde, scarsamente simpatetica e sostanzialmente polemica: gli elementi di discordanza sono certo più che non quelli di partecipazione. Quanto di conservazione pittoricistica e di primitivismo psicologico quel momento riproponeva finiva per urtare contro alcune premesse del ventenne Munari.

 

Per quanto è dato ricostruire dal materiale fotografico, l’orientamento è abbastanza prossimo alle posizioni dell’aerofuturismo: ha notato, ad esempio, Filiberto Menna, «Munari realizza in quest’opera un’atmosfera di sospensione e di stupore servendosi però di strumenti rigorosamente costruttivi... al punto che si ha l’impressione di poter comporre e scomporre l’insieme come si vedrà più tardi con i modelli sperimentali delle sculture da viaggio e delle strutture continue». Come si vede ciò che divide dagli amici secondo-futuristi Munari è l’attenzione alla costituzione visiva e alla sua oggettività di composizione. Si ha l’impressione che egli tenda a rompere la staticità del quadro, ponendolo fra sé e lo spettatore, per coinvolgere quest’ultimo in una dimensione illusionistica, in cui prevale lo spettacolo, favoloso nel gioco spaziale, ed immaginativamente eccitato sul piano visivo; mentre gli altri futuristi tendono a una tensione di tipo cosmico, a una struttura fabulatoria, con elementi di inesplorato, misterioso, inedito e primitivistico insieme. Del futurismo, attraverso ciò che ne resta nel gioco della nuova ondata, Munari sembra ricavare una nozione di simultaneità, per cui contemplazione e fruizione si alleano e combinano, e stimolano a vicenda, determinando una presenza estremamente puntuale. Considerare queste opere se non preparatorie, certo riassorbite entro le macchine, prima «aeree» poi «inutili», non è, alla luce anche di quanto s’è osservato in apertura, un eccesso di rigore nella scelta. Basti un’osservazione non del tutto marginale, e cioè che quell’illusionismo, cui s’è fatto riferimento, tende a rompere quanto di cristallizzato c’è nella costruzione visiva del quadro, aprendola alla virtualità di un movimento necessario all’opera, ricco di aperture, di potenzialità e di virtualità. Ebbene tutto ciò si realizza e si attua proprio nelle Macchine, portando a conclusione una ricca ricerca e aprendone un discorso nuovo, che colloca tra l’altro Munari più in là che non fra i pionieri dell’arte cinetica, fra i più precisi ad usare il movimento in senso costitutivo.

 

Il far cadere sulle Macchine il punto di avvio di un esame panoramico, rientra del resto in ciò che si è detto del codice e dell’ovvietà. Anche qui giovi un appunto a margine. Chi ha evocato per questi oggetti spaziali il parallelo con Calder, è riuscito nell’impresa più scentrata e nella lettura più deformante che fosse possibile. Basti pensare a quanto giovi, in Calder, la persistenza della «figura» fitomorfa del fogliame, dei rami, proprio nel suo essere immagine concreta che si sovrappone e integra alla eventualità del movimento. (Che andrà considerato come «arte cinetica» in modo molto particolare e con cautela, senza con ciò togliere il menomo valore all’esperienza dello scultore franco-americano). Il caso di Munari è tutt’altro: «figura» essendo l’intero sistema spaziale, l’intero procedimento di animazione, il gioco della possibilità e della virtualità, sicché tutti gli elementi in campo non sono selezionati e sovrapposti ma integrati e compresenti. Si ha, insomma, una spontaneità che è semplificazione ed economicità costruttiva e visiva; e si ha una determinazione nel porre l’oggetto, esito di un calcolo privo di resistenze passive, di sovraimpressioni normative o di illustrazioni liriche o letterarie.

 

Il che induce a considerare un altro dei filoni che il lettore di questo ricchissimo racconto verrà scoprendo e dipanando di pagina in pagina: l’esigenza espressa da Munari di non restare prigioniero di un’immagine qualsiasi, intellettuale, fisica, poetica o tecnica che sia; l’esigenza, anche, di non condizionarsi alla tipologia dinamica che ciascuna immagine reca con sé. Potremmo definire tutto ciò sperimentale, euristico, nel senso di una adesione libera, spontanea, determinata dalle sollecitazioni e irrequietezze di una considerazione della realtà basata sull’indeterminabilità una volta per tutte, non essendo condizionata, come s’è detto, da coercizione di ordine praticistico, o intellettuale. Fino a che punto giunga questo filone e la ricerca che è in esso, lo si vedrà sfogliando il Libro illeggibile, del 1966. Tra l’inutile delle Macchine e l’illeggibile del Libro corre un filo preciso, perché l’illeggibilità dell’intero disegno compreso nel volumetto, via via che se ne sfogliano le pagine e i connotati si appannano e sfumano, e l’impossibilità a restar prigionieri del disegno in sé stesso, come unico termine di riferimento, mentre le letture possono moltiplicarsi in una libera integrazione di elementi imprevisti, seppure sollecitati, ripetono un problema che era delle Macchine. In altri termini la figura, ancora una volta, va al di là delle immagini date, che sono piuttosto tracce di «principi rigorosamente calcolabili, regole ripetibili, investendo un volume estremamente più vasto di possibilità strutturali.

 

Come si vedrà, procedendo negli anni, e pur senza mai abbandonare questo tipo di proposta e di ricerca, Munari moltiplica piuttosto un tipo di opera da intendere come prototipo sperimentale, di utilizzazione a larghissima diffusione, avvio di investigazioni linguistiche su informazioni visive a partire da taluni aspetti specifici. Ciò che, nella sequenza Concavo-Convesso, Positivo-Negativo, Strutture continue fino agli esperimenti di luce polarizzata, va notato è il superamento della concezione di ambiguità tradizionalmente considerata come intrinseca alla percezione di oggetti a valore estetico. La contiguità fenomenologica di positivo e negativo, ad esempio, la rottura di una gerarchia che privilegia il primo dato e allontana il secondo, non dà luogo ad ambiguità ma a adiacenza e ad alternatività della presenza percettiva, sottolineando la molteplicità dei «punti di vista» e l’esigenza di una sperimentazione del modello compresente alle diverse, contigue ma diverse, eccitazioni in atto.

 

Come sia su questo punto, non sfuggirà che lo sperimentalismo di Munari, verso il ’50 e poi sempre oltre quella data, si pone massicciamente i problemi della produzione industriale e dell’intervento nella realtà dello habitat quotidiano. Sulla rivista «Az» nel 1950 Munari esprimeva apertamente questa esigenza in un articolo dal titolo L’arte è un mestiere, in cui, osservate le esigenze del pubblico proiettato nella dimensione urbana, scriveva: «Uscite dallo studio e guardate anche le strade, quanti colori stonati, quante vetrine potrebbero essere belle, quante insegne di cattivo gusto, quante forme plastiche sbagliate. Perché non intervenire? Perché non contribuire a migliorare l’aspetto del mondo in cui viviamo assieme al pubblico che non ci capisce e che non sa cosa farsene della nostra arte?». Non che fino allora tutto questo fosse fuori degli interessi di Munari: è vero il contrario, né giova insistervi. Ma è pur evidente una intensificazione del problema e una più esplicita programmazione di esso: e il libro lo documenta progressivamente fino al recentissimo Abitacolo che costituisce un esempio di complessità di usi e di semplicità di costruzione che tocca radicalmente l’habitat della casa. Ma non si dimentichi, su questa via, le varie Fontane, per la Biennale di Venezia, per Tokio, in cui era investito l’intero ambiente, ora con sollecitazioni di colore-movimento, ora è il caso di Tokio, provocando con rade cadute di gocce il movimento (geometrico) circolare di una superficie in quiete: dove torna l’opposto a far capolino, stasi-moto ad esempio. Siamo ad un ulteriore tema: la variazione, la creazione di oggetti a elementi mutevoli. Munari cita un passo di Dorner, a questo riguardo, «finché per mezzo di un simbolo statico tenteremo di frenare e di limitare il mutamento spontaneo non saremo mai capaci né di capire né di agire in un modo veramente efficace», e, nel catalogo per la mostra del 1965 alla Danese di Milano, in cui è presentato il Tetracòno, riferisce un’altra citazione dello stesso scrittore: «Solo ora possiamo concepire l’universo come una indivisibile unità formata di pure energie in costante e mutua trasformazione».

 

Si potrà cosi vedere l’ora X, un prototipo del ’45 messo in produzione nel 1963, il Tetracòno e altri lavori più recenti. L’ora Xè un meccanismo a orologeria, di cui è utilizzato, in diverso senso dall’orologio, il meccanismo a molla: tre semidischi con i colori primari muovono in tempi diversi fino a comporre forme mutevoli, nel colore nello spessore e nella disposizione. Nel Tetracòno, quattro coni a bande di colore sono fatti girare a tempi diversi, cosi da costituire immagini di continuo mutanti. L’illeggibilità di una sola immagine statica dominante, dunque, e la mutua interazione degli elementi in campo. Il tema della diversità-mutazione, torna anche in Presenza degli antenati, in Guardiamoci negli occhi, che riprendono per altra via il Libro illeggibile: è la continua mutevolezza entro la continuità di un tipo come il volto, o la discendenza umana; la continuità-discontinuità adiacenti nella fenomenologia del reale. E le Xerografie seguono la stessa sperimentazione: si noti che qui si pone anche il problema della riproducibilità in serie degli oggetti, in quanto le Xerografie sono «originali e non copie. Ogni xerografia originale non è riproducibile perché per riprodurla occorrerebbe rifare il procedimento creativo. Farne una xerocopia vuol dire annullarne le più sensibili sfumature». Da tutto quanto s’è fin qui detto (e che non vuole essere né una post-face né una guida alla lettura, in alcun modo, ma una serie di note via via che la preparazione di Codice ovvio procedeva) la struttura del volume apparirà probabilmente chiarita: la suddivisione cronologica, la citazione delle date, almeno, che non mira a uno scrupolo archivistico, ma a mostrare l’articolarsi nel tempo, e nelle varie linee di sviluppo, del lavoro di Munari. E, fatto fondamentale, che questo è un libro di e non su Munari: oltre che nel senso più ampio e generale che restituisce al suo autore l’insieme dei materiali che gli son propri, per la sua continua partecipazione alla scelta, all’organizzazione e alla discussione delle parti prescelte. 

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Approdi e naufragi, storie di nomadismo religioso

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Un libro denso e corposo, pieno di esempi, rimandi e legami; una storia minore, la storia dello schiavismo per come potrebbe essere raccontata dagli schiavi, che non sarebbe una storia di protesta, ma di come le tradizioni spirituali africane, ciò che chiamiamo “animismo”, si sono mantenute nei canti, nei rituali nella preghiera collettiva. Dubosc la chiama resilienza. Io la chiamo differenza: i bianchi sanno solo protestare, hanno perduto le tradizioni, l'Africa è la terra degli antenati, dell'animale nomadico per eccellenza: l'antropo. Questo è quel che mi viene da pensare emergendo da Approdi e naufragi. Resistenza culturale e lavoro del lutto, di Fabrice Olivier Dubosc. 

Ci ho messo un bel po' a scrivere, mi sono dovuto leggere e rileggere il libro, come si fa quando si prepara un esame, come si deve fare quando si è di fronte a un testo che ha qualcosa da insegnarti. Gli intrecci narrativi corrispondono agli intrecci nomadici dei popoli africani, costretti, schiavizzati, ma che non hanno affatto perduto la soggettività. Dentro le navi, dietro la tratta, c'è la forza della spiritualità originaria: si creano sempre forme rituali fedeli all'elemento profetico, variabili nelle modalità della danza, del sacrificio, della temporalità, ma costanti nella credenza delle confraternite, degli antenati, degli stregoni e degli sciamani. Capaci di includere figure del cristianesimo – sopratutto nelle Americhe di colonizzazione portoghese e ispanica – e dell'islam, nel caso della colonizzazione araba dell'Africa.

 

Autori come Stephen Greenblatt e Tzvetan Todorov  avevano posto le basi per una rilettura critica della conquista, usando i contributi e le concettualizzazioni post-coloniali, quel processo storico che ha visto la confluenza dei bianchi e dei neri nel territorio amerindio. I bianchi come usurpatori e padroni, i neri come schiavi, gli indigeni come usurpati. Neri e indigeni massacrati, violati, convertiti. Greenblatt e Todorov descrivono gli anni della conquista, decostruendo l'inconscio della storiografia europea ufficiale, incapace di leggere, dietro la civilizzazione, la violenza e la crudeltà della colonizzazione politica e religiosa.

 

Dubosc descrive invece l'incontro derivato dall'importazione degli schiavi, negli anni successivi, quando le prime conquiste e razzie erano concluse. 

Tuttavia c'è qualcosa che accomuna l'anima selvaggia degli indigeni amerindi e le pratiche di conversione degli schiavi neri.

Eduardo Viveiros de Castro, nel capitolo “O mármore e a murta”, dell'opera, ancora non tradotta in italiano, A Inconstância da Alma Selvagem – menziona un passo del gesuita António Vieira, nel Sermone dello Spirito Santo, del 1657. Il passo riguarda proprio la conversione:

 

Creare la statua di marmo è molto faticoso, per la durezza e resistenza della materia; ma una volta fatta non è necessario porre ancor mano al lavoro: conserva e presenta sempre la stessa forma; la statua di mirto è più facile da fare, grazie alla facilità con cui si piegano i rami, ma è necessario lavorarci sopra sempre per ricostruirla affinché si conservi. Se il giardiniere smette di assisterla, in quattro giorni esce un ramo che le attraversa gli occhi, un altro le scompone le orecchie, due che da cinque dita gliene fanno sette, ciò che poco prima era uomo, è già una confusione verde di mirto. Simile è la reazione che si ottiene tra una nazione e l'altra nella dottrina della fede (António Vieira, citato in Eduardo Viveiros de Castro).

 

Anche gli schiavi africani, e gli africani colonizzati in patria, sono riusciti a conservare i loro legami all'indietro (re-ligio), le loro origini, fin dall'inizio. Leggiamo questo passo dal romanzo Il crollo, di Chinua Achebe, che racconta i fallimenti spirituali del colonialismo inglese:

 

“Qual è il vostro dio?” chiese “la dea della terra, il dio del cielo, Amadiora dal fulmine, o quale altro?” … 

“Tutti gli dei che tu hai nominato non sono affatto dei. Sono falsi dei, che vi dicono di uccidere i vostri compagni e di eliminare dei bambini innocenti. C'è un solo vero dio ed è padrone della terra, del cielo di voi e di me e di tutti” 

“Se noi lasciamo i nostri dei e seguiamo il vostro dio” chiese un altro uomo, “chi ci proteggerà dall'ira dei nostri antenati traditi?”

 

Il colonialismo europeo e quello arabo sono riusciti a imporre il proprio dominio economico e politico, ma non hanno colonizzato l'anima africana. L'africano, il nero, lo schiavo hanno mantenuto la loro integrità spirituale, che ci fa tanto più paura, quanto più sfida i nostri principi scientifici, morali e religiosi.

 

Se andate a Rio, racconta Dubosc, visitate Praça Tiradentes, ci trovate una chiesa dove si venera la Madonna di Lampedusa: la prima consacrazione avviene a metà Settecento, chi avrebbe detto che Lampedusa avesse a che fare con Rio de Janeiro? Si tratta di un'ironia della sorte, visto che Lampedusa è stata territorio di approdo dei fuggiaschi delle guerre civili africane. 

Quella Madonna nera ha costretto i rifugiati a tornare lì? Un richiamo degli antenati deportati in Brasile? 

Dubosc racconta, tra le altre, la storia del nomadismo Yoruba. Un lungo viaggio di schiavi verso le Americhe – Cuba, Brasile, Haiti, ecc. – di continue ibridazioni religiose e spirituali. 

 

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Mentre leggo Dubosc chiedo informazioni a un'operatrice culturale Yoruba, che collabora con l'équipe etnoclinica in cui lavoro. Mi spiega, nei particolari, i ruoli differenti di ogni divinità. Yoruba è un popolo, Yoruba è una lingua, Yoruba è un'area geografica della Nigeria. Molte schiave contemporanee, vittime della tratta della prostituzione, sono Yoruba. Parlano Yoruba, parlano pidgin, parlano inglese, imparano l'italiano usando i verbi all'infinito e un indicatore deittico di tempo: “Io ieri sognare un uomo con due bambini che dice loro: 'lei sister'. Loro madre morire tanti anni fa, tu ora fare loro crescere. Oggi incontrare amica che dice: 'Io trovare lavoro ieri! Come si dice qui, baby sitter! Io come Giuseppe!”.

Nella teogonia Yoruba, un antenato ha testimoniato il giorno della creazione; il suo nome è Orunmila. In Brasile, nel rito della Santeria, Orunmila diventa San Francesco di Assisi. Accanto a San Francesco un altro santo è San Benito, cuoco, santo francescano nero. Il santo che cantano gli Inti-Illimani, intraducibile in italiano: 

 

Hay un lorito con su monito
es un regalo de San Benito
para la fiesta de los negritos.

 

Vudù, Candomble, Santeria, Macumba, Umbanda, Congada sono differenti rituali e differenti danze che condividono una dimensione profetica, esoterica, piena di feticci protettivi e distruttivi. È storia sotterranea, ha attraversato l'oceano e mischia differenti credenze. 

 

Né la colonizzazione europea, né la colonizzazione araba – con il loro monoteismo dogmatico – sono riuscite a debellare questo culto degli antenati, che non possiede una teologia, altrimenti la fede sarebbe marmorea, né la credenza in un Dio unico, se non come collettore di altre divinità minori, di angeli, di spiriti e di santi. 

Questa serie di trasformazioni avviene nel tempo, durante i viaggi tra gli oceani. Si creano piccole differenze che mantengono l'unità di fondo, unità multipla, serie infinite di racconti. Qualcuno lo chiama sincretismo, qualcuno politeismo, qualcuno superstizione, qualcuno mito. Ma quando usa “mito” non intende la tradizione europea del Mythos nella Poetica di Aristotele. Ebbene, si sbaglia, perché è proprio lì che le nostre origini si accomunano con l'Africa: non c'è racconto che non mi evochi la guerra di Troia, le astuzie di Ulisse, le vicende di Giona, le proteste di Giobbe e i tradimenti di Aiace, la melanconia, per come la descrive Aristotele, la nostalgia di Johannes Hofer, il rimorso della terra di Puglia. 

 

Gli schiavi deportati sono come i nuovi richiedenti asilo. Respinti, dopo essere sopravvissuti alle torture libiche, alla strage degli scafisti e alle derive dei gommoni, dopo avere atteso per mesi, ospiti delle comunità di accoglienza, vengono scortati al confine della democratica Europa perché non hanno sufficienti ragioni per chiedere asilo. Schiavi deportati e richiedenti asilo sono un tutt'uno, è una coazione a ripetere. Dimostra che la buona volontà e la consapevolezza occidentale non basta, anzi guasta. Pure loro continuano a essere fedeli agli antenati, non possono scatenare la loro furia tradendoli. Sono gli stessi nostri antenati: homo sapiens-demens.

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Il ritorno di Grazia Cherchi

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Da pochi mesi è uscito un libro che fa riscoprire una grande critica letteraria del nostro Novecento. L’opera in questione è Scompartimento per lettori taciturni, raccolta di articoli e interviste di quella vulcanica donna che fu Grazia Cherchi. Oltre ad aver scoperto Alessandro Baricco, Maurizio Maggiani, Massimo Carlotto e Giulio Angioni, si cimentò anche lei nella scrittura dando alle stampe un’apprezzata raccolta di racconti dal titolo Basta poco per sentirsi soli, dove alterna ricordi di alcune sue giornate trascorse nel suo lavoro di lettrice di narrativa italiana e diversi squarci della sua vita quotidiana, e il romanzo Fatiche d’amore perdute. Purtroppo entrambe le sue fatiche narrative sono ormai introvabili, se non nella fortunata ipotesi di trovarle quasi per caso in qualche mercatino di libri usati nella piazza di una delle città del nostro Paese; c’è solo da augurarsi che la benemerita iniziativa di Minimum fax di riproporre questo Scompartimento a venti anni dalla prima pubblicazione di Feltrinelli, serva da esempio anche per i volumi di narrativa.

 

Che altro dire di questa donna con la sigaretta perennemente in mano, i capelli a caschetto color dell’ebano e gli occhi brillanti e vispi? Sarebbe banale ribadire che oggi giornalisti culturali del suo calibro si contano sulle dita di una mano. Forse sarebbe meglio dire che in lei, come un Giano bifronte, convivevano in serena armonia una vena tutta goliardica e irrazionale, che le derivava dalla sua emilianità, essendo nata a Piacenza, e una illuministico-razionale tipica di Milano, dove ha abitato, degna del miglior Gadda. Non c’è una riga nei suoi scritti che non trasudi queste due anime. Non si può inoltre non ricordare l’assidua frequentazione della rivista Quaderni piacentini, dove aveva affiancato Piergiorgio Bellocchio e dove più tardi sarebbe arrivato anche Goffredo Fofi, a formare un trio legato da profondo affetto e stima culturale.

 

Gli articoli, curati e raccolti da Roberto Rossi, hanno una grande importanza storica: sono stati scritti tra gli anni Ottanta e Novanta, in quel periodo definito del “riflusso” che aveva sostituito alla partecipazione pubblica e collettiva un ripiegamento nella sfera del privato. Grazia non poteva fare altro che vedere il lato tragicomico di questa metamorfosi, un ripiegamento che era tutto incentrato sul successo personale e il denaro a discapito della cultura. Per i suoi amati libri, che in fondo non erano mai stati letti da tanti italiani, c’era il rischio che gli avventori diventassero ancora di meno. Ed è così che Grazia avendo capito la profonda crisi che stavamo vivendo, dal suo esilio forzato scriveva di libri, del lavoro nel campo dell’editoria e della cultura italiana tout court. Sicuramente non ci andava giù leggera, le sue erano vere e proprie staffilate contro il pensiero unico e il senso comune omologante. Era una donna con uno spiccato senso critico che vedeva intorno a lei una società sempre più cafona e maleducata, che non aveva più rispetto per gli anziani non lasciandoli neppure il posto per sedersi in tram superaffollati in una Milano frenetica e accelerata. Dire che non fosse una simpatizzante del fenomeno dello yuppismo e del giovanilismo ad oltranza sarebbe un eufemismo. Morta nel 1995 chissà cosa avrebbe detto e scritto di noi italiani del XXI secolo e della nostra società la cui crisi culturale sembra non toccare mai il fondo del barile. Non oso immaginarlo. Mi piace pensare che forse si sarebbe zittita, seguendo il famoso detto che il silenzio vale più di mille parole, o ancora meglio che il bel tacer non fu mai scritto.

 

Ci sono tre punti di questa raccolta che racchiudono tutto lo spirito e la bellezza di Grazia. Il primo è una citazione da Kafka che apre un articolo scritto su Linus nell’aprile del 1980 e che ha caratterizzato tutto il suo lavoro – che brutta parola, forse sarebbe meglio scrivere «il suo divertimento» – di segnalatrice di libri: «Bisognerebbe leggere, credo, soltanto i libri che mordono e pungono. Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno nel cranio, a che serve leggerlo? […] Un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi». 

Chi si occupa di letteratura, chi insegna e chi legge dovrebbe tatuarsi questa massima a imperitura memoria. Si dovrebbe gironzolare tra gli scaffali delle librerie e biblioteche del nostro Paese tenendo ben in mente le parole di Kafka. Non bisogna vergognarsi di leggere libri di qualità e di rabbrividire davanti a un best-seller troppo pubblicizzato. Dovrebbe essere motivo di orgoglio poter dire: «Leggo libri complessi». 

 

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Che bella la parola «complessità»! Ciò che è complesso fa nascere uno spirito critico, indispensabile per sopravvivere in questa società che uniforma tutto e tutti. Le parole di Kafka dovrebbero essere un monito per i maestri e i professori di tutta Italia: non trattate i vostri alunni da cretini, ma fateli leggere libri belli e difficili. Altrimenti c’è il pericolo, più che fondato, di andare a riempire ulteriormente la cosiddetta «schiera dei pecoroni» (parole della stessa Grazia). 

Un libro deve sedimentarsi lentamente nel cuore e nella mente del lettore, in modo quasi pudico. Deve lasciare tutto il tempo di essere «ruminato». Bisogna diffidare dei libri che si scordano subito dopo averli finiti o mentre si gira l’ultima pagina. La letteratura deve far tremare, deve destare i cuori. Uno degli insegnamenti che ci ha lasciato in eredità Grazia è proprio questo: bisogna allenarsi alla lettura e leggere solo libri che provocano emozioni vere. 

 

Questo discorso introduce la seconda fondamentale immagine del libro. È l’autunno del 1993, la Nostra si trova sul diretto che da Milano la porterà a Firenze. Per una strana combinazione del destino nello stesso scompartimento è seduta, davanti a lei, una ragazza fresca di esame di maturità. Il treno parte e Grazia non può fare a meno di osservarla, con piglio antropologico, mentre si mette le cuffiette di un walkman – oggi avrebbe in mano uno smartphone – mentre sbadiglia e guarda fuori dal finestrino. La Nostra è un’anima in pena e arrivati a Bologna rompe gli indugi chiedendo alla ragazza se ha voglia di leggere qualcosa. La ragazza la guarda sorpresa e le dice di aver letto fin troppo per l’esame. Ma Grazia, a cui intanto le cominciano a luccicare gli occhi, le propone un esperimento: le darà un libriccino e se dopo un quarto d’ora ne sarà stufa potrà ridarglielo. Fino a Firenze la ragazza non alza gli occhi dal libro e quando Grazia le dice che deve scendere perché sono arrivate a Santa Maria Novella la ragazza la guarda in modo supplichevole. Allora la Nostra sorride e le dice: «D’accordo, lo tenga. Ma mi prometta di farlo circolare tra gli amici». 

 

Ecco dimostrato il potere della lettura, di questo filtro magico che incanta. Questa breve storiella dovrebbe essere raccontata all’inizio di ogni laboratorio o seminario sulla promozione alla lettura. A proposito, il libro che Grazia ha dato in modo così mefistofelico alla ragazza – mi ricorda la storia del dottor Faust – è: L’incantatrice di Stevenson.

 

Ultimo punto che racchiude tutta la poetica di Grazia è una modesta proposta che fa alla fine degli anni Ottanta e che ricorda i progetti ironici e al limite del surreale di Swift e Pasolini. Accanto alle noiose e petulanti classifiche di libri che occupano le pagine dei giornali sarebbe da mettere la classifica dei libri di qualità che non vendono. Che idea meravigliosa, poteva venire solo ad una donna arguta come Grazia. Una classifica al contrario per accontentare anche i lettori forti, sempre più in depressione quando vedono le classifiche dei libri più venduti in Italia. Potrebbe avere la stessa funzione di un antidepressivo, una vera e propria dose di felicità da iniettare senza alcuna controindicazione. 

Scompartimento per lettori e taciturniè un libro da portare in vacanza, d’estate o d’inverno, perché ha la freschezza di un Allegro di Vivaldi o Mozart. Un consiglio: armatevi di foglio e penna. Grazia è una fucina di consigli di lettura. Di lei, del suo fiuto e della sua onestà, ci si può fidare a occhi chiusi. 

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Performare l’affettività

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“Sono io, e volevo dirti che…”. “Ma qual è l’io che mi sta parlando? L’ermafrodita razionale o la donna dedita alla magia che c’è in te? L’omosessuale che è stato eterosessuale e ancora, ogni tanto, aspira ad esserlo? O forse mi parla l’anima tua indiana che, però, si è fusa con i pezzi di cultura occidentale giunti fino a qui? Magari è il tuo istinto materno che convive nel tuo corpo amputato, per cercare di diventare maschio involontario, a parlarmi! E io che ti ascolto, chi sono? Lo spaesato, il dis-locato, il dis-orientato, perso negli spazi irrespirabili di questa caotica città, che non sa se avrà acqua da bere domani, o il romantico che si perde a contemplare ciò che resta di un tramonto che è l’ombra dei tramonti che furono?” 

Quando “io” si rivolge a se stesso o a un altro, si ascolta o osserva, si perde nel bricolage delle differenze, scoprendo che perdersi è, forse, l’unico modo per ritrovarsi, mentre scopre che “io” è una provvisoria metafora che indica qualcosa che non coincide mai con se stessa, una federazione di istanze. Ma quante differenze possiamo contenere in una sola vita? Quanta molteplicità possiamo condividere? 

 

Ambiguità e immaginazione

 

“Un significante è una potenza performativa, vale a dire un segno che produce degli effetti sensibili sui corpi, che li costituisce, li trasforma e può anche distruggerli”, scrive Rocco Ronchi

Quando a generare i significanti è l’immaginazione, la pluralità del possibile, la vitalità del vivente e la distinzione creativa dell’umano raggiungono vertici elevati.

Quei vertici li esprime bene Jan Fabre con la mostra: “My only nation is imagination”, presso lo Studio Trisorio di Napoli. Le basi neurofisiologiche della creatività sono connesse alle potenzialità dell’immaginazione, a creare un pluriverso illimitato di espressioni di noi stessi, al punto che l’immaginazione supera ogni realtà effettiva in una conversazione infinita.

 

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Jan Fabre.


È proprio una conversazione infinita, fatta di attraversamenti a più livelli di profondità, quella che scaturisce dalla prosa di Arundhati Roy, in Il Ministero della suprema felicità, Guanda, Milano 2017.

Plurale e molteplice, pur nella sua unità di stile, perfino nella forma letteraria Arundhati Roy conduce a un’esplorazione di un mondo che è cangiante e inatteso, eppure umanissimo, in ogni sua espressione, come ad esempio accade quando scrive:

“Ma la sua desolazione la proteggeva, levandosi intorno a lei in tutta la sua impotenza, finalmente liberata dai vincoli del protocollo sociale” (p. 76).

Una desolazione impotente che protegge e lo fa svincolandosi dal cappio delle norme sociali: ossimori e sottili e raffinate dimensioni del sentire che colgono aspetti inauditi dell’affettività dei protagonisti.

E ancora:

“Gradualmente la Fortezza della Desolazione si ridusse a una dimora di proporzioni gestibili. Si trasformò in una casa: nel luogo di una sofferenza prevedibile e confortante: tremenda, ma con una sua affidabilità. Gli uomini color zafferano rinfoderarono le spade, accantonarono i tridenti e tornarono docilmente alle loro occupazioni consuete: rispondere agli squilli dei campanelli, obbedire agli ordini, picchiare le mogli e far passare il tempo in attesa della prossima spedizione punitiva” (p. 81). 

 

Maestra dell’ambiguità Arundhati Roy lima e increspa, stira e accartoccia, per rendere sentimenti al limite dell’esprimibilità con le parole. Al punto da far impallidire gli esiti dell’indagine sulla funzione dell’ambiguità nel linguaggio poetico, condotta circa novant’anni fa da William Empson in Seven types of Ambiguity (Chatto & Windus, London 1930) e pubblicata da Einaudi, Torino 1965 in Sette tipi di ambiguità. L’ambiguità, per essere tale, è da entrambe le parti, dalla parte dell’autore e da quella del lettore, perché da un lato il linguaggio del poeta contiene in sé presupposti linguistici, tematici e culturali generativi di molteplici significazioni disseminate per tutto il componimento, e dall’altro il lettore ne raccoglie gli effetti soggettivamente attraverso varie associazioni sollecitate dalla costituzione del testo e dalla sua grammatica.

L’ambiguità opera a più livelli, delineando così una tipologia vera e propria. Empson ne individua sette tipi e per scovarli suggerisce una close reading, una lettura ravvicinata capace di sondare l’opera nelle sue crepe, volontarie o inconsce, anzi preconsce. L’ambiguità diviene il termine dinamico della poesia e della narrazione, l’anima fuggevole del linguaggio. Empson si spinge ancora oltre, affermando che «l’operare dell’ambiguità è alla radice stessa della poesia». La polivalenza, ricorda Giorgio Melchiori nell’introduzione all’edizione italiana, è rappresentata da parole «avvolte da un alone di suggestività non tanto per la vivezza dell’immagine, ma per le varie possibilità di interpretazione che lasciano aperte» (p. 10). Polivalente quindi, con più valori significativi mimetizzati nelle parole. 

Polivalenza plurale dei significati; pluralismo delle culture; variegata e irriducibile pluralità dei codici affettivi; dimensione cangiante delle identità e dei processi di individuazione: un mondo di mondi, un pluriverso di significati, così come è oggi la nostra cosmologia, nonostante le nostre resistenze e le nostre difese; questo diventa pagina dopo pagina il libro di Arundhati Roy. 

 

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Copertina Empson.


Conosciamo parecchie dinamiche dei sistemi di risonanza fra il cervello-mente di chi legge e il cervello mente di chi scrive, per riconoscere all’ambiguità il suo valore generativo e la disposizione a rinviare sempre oltre una struttura di significato provvisoriamente e apparentemente consolidata. E tuttavia la creazione letteraria e poetica sopravanza e precede la complessità irriducibile dei significati che emergono riga per riga. Si tratta forse di una delle vie per riconoscere il valore artistico e poetico di un testo. Un po’ come ha sostenuto Roland Barthes:

«Le texte non plus n’est pas isotrope: les bords, la faille, sont imprévisibles»

 

Nemmeno il testo è isotropo: i bordi, la crepa, sono imprevedibili

 

Per performare l’affettività, insomma, ci vogliono un linguaggio e un contenuto in grado di farlo. D’altra parte possiamo essere guidati dalle parole alla comprensione di sfumature e finissimi accessi al nostro mondo interno, così come dalle parole, spesso dalle stesse parole, possiamo essere offesi.

È Judith Butler a domandarsi: “Quando affermiamo di essere state offese dalle parole, che tipo di affermazione facciamo? Attribuiamo alle parole la capacità di agire, il potere di offendere, e ci poniamo come obiettivo della loro traiettoria offensiva”. (…) “Dunque, esercitiamo la forza del linguaggio anche mentre cerchiamo di contrastarne la forza…..” [J. Butler, Parole che provocano. Per una politica del performativo, Raffello Cortina Editore, Milano 2010; ed. or. 1997; p. 1]. 

Siamo esseri linguistici, cioè esseri che hanno bisogno del linguaggio per poter essere, ed è la performatività uno dei caratteri precipui e distintivi del linguaggio, e di quello poetico in particolare.

J. Butler sostiene che “Il performativo agisce in modi che nessuna intenzione cosciente può determinare completamente” (nota 22; p. 238). 

Sono proprio le spinte performative imprevedibili a distinguere i giochi linguistici e le montagne russe dei significati nel testo di Arundhati Roy.

 

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Copertina Butler.


Il linguaggio è vulnerabilità che abilita

 

L’ambiguità delle situazioni e del linguaggio per narrarle in Il ministero della suprema felicità sono connotate da un’elevata vulnerabilità, come del resto è la storia dei protagonisti. La corrispondenza fra contenuto e forma finisce per essere un altro dei tratti distintivi del romanzo. Accade così che il linguaggio vulnerabile si proponga come la via per abilitare identità plurali, contesti ibridi, mondi sovrapposti, personalità molteplici, che a loro volta sono caratterizzati dalla vulnerabilità. Il linguaggio, anche se offensivo, interpella e costituisce comunque un soggetto. Le differenze complesse delle identità in gioco assumono cittadinanza e sono riconosciute per il fatto stesso di essere interpellate. Scrive magistralmente J. Butler:

 

“Se rivolgersi a qualcuno significa interpellarlo, allora un nome che offende corre il rischio di inaugurare nel parlare un soggetto che finisce per usare il linguaggio al fine di opporsi a quel nome” (p. 3). 

Mediante una tale torsione che decostruisce, performa e valorizza il conflitto generativo, è possibile rendersi conto che non veniamo all’esistenza prima di essere interpellati da qualcuno.

L’interpellazione costitutiva dei soggetti e dei mondi in cui ci porta Arundhati Roy finisce per creare una nuova cosmologia della contemporaneità, dove individui, luoghi, relazioni ambienti danno vita a una rappresentazione attualizzata e complessa del tempo in cui viviamo, con i suoi portati di estraniazione e di generatività, di esclusione e di appartenenza. 

Oltre all’abilitazione di interi mondi c’è anche una riabilitazione di storie e tradizioni tradotte alla temperatura del presente, a partire dal fare i conti con aspetti critici della sua corruzione.

Come ha sostenuto Octavio Paz:

“Quando una società si corrompe, a imputridire per primo è il linguaggio. La critica della società inizia, quindi, con la grammatica e il ristabilimento dei significati”.

 

Arundathi Roy costruisce un labirinto che rispecchia il tempo in cui viviamo fino a fare del suo paese e della sua città una metafora del presente, in cui si incrociano corpi e spirito, sacro e profano, tradizioni millenarie e ipermodernità, violenza e dolcezza, magia e ragione, esoterismo e realismo, vita e morte, idee e dèi. La distanza culturale si neutralizza ed emergono affinità spirituali insospettabili, documentate anche dalla storia e dall’antropologia, come si può evincere, ad esempio, dagli studi di Ananda Coomaraswamy, La tenebra divina, ora pubblicato da Adelphi, Milano 2017.

 

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Copertina Coomaraswamy.


La neutralizzazione del senso del tempo così come concepito da noi, insieme alla considerazione delle nostre vite alla stregua della spuma dell’onda, dove noi compariamo per un breve attimo, seppur reali, molteplici e complessi, per poi ricongiungerci per sempre con il flusso eterno, fanno da sfondo al disordine pervasivo, tra tragedie ambientali e irriducibili differenze soggettive, tra forme diffuse di iniziative popolari quasi del tutto sterili e strapotere dell’economia mondo globalizzata, che attraversa tutta la narrazione. Gli dei e le idee convivono nel disordine terreno e montano un gioco della vita tirato al limite, esasperato, eppure umanissimo, che crea le esistenze che affollano le storie. 

Il compito della narrazione diventa pratico, e la ricerca linguistica dell’autrice sembra realizzarsi mentre chi legge diventa oggetto stesso della sua ricerca. Non è consentito leggere questo romanzo “dal di fuori”. 

La parte di mondo dalla quale l’autrice scrive diventa il mondo in cui viviamo. Ne può essere prova un passaggio a p. 173 del Il ministero della suprema felicità

 

“Nella nostra parte di mondo la normalità somiglia un po’ a un uovo in camicia: la sua superficie piatta nasconde nel profondo un tuorlo di inusitata violenza. È la nostra costante inquietudine per quella violenza, il ricordo dei suoi passati travagli e il timore per le sue manifestazioni future, a dettare le regole che permettono a un insieme di popoli variegato e complesso come il nostro di continuare a coesistere: che ci permettono di continuare a vivere insieme, tollerarci e, ogni tanto, ammazzarci l’un l’altro. Finché il nucleo tiene, finché il tuorlo non cola fuori, va tutto bene. Nei momenti di crisi essere lungimiranti aiuta”. 

 

Ad agire nella costruzione delle storie di vita è un’entità che sembra amare l’incompletezza, la sospensione che tende al molteplice, il plurale e il provvisorio: “Se mi è consentito fare un’osservazione un po’ banale”, dice uno dei protagonisti, “forse è a questo che si riduce la vita, nella maggior parte dei casi: fare le prove per uno spettacolo che finisce per non concretizzarsi mai” (p.174). 

Del resto, fin dal principio, la narrazione di Arundhati Roy ci conduce in un pluriverso di differenze che abitano nell’indifferenza. La presenza pervasiva degli esseri umani che pullulano da ogni lato si esprime in reti fittissime di conflitti, ambientali, politici, identitari, culturali, di interessi che travolgono tutto e tutto trascinano con sé. Il prologo che si conclude con la considerazione che: ”Non molti hanno notato la scomparsa dei nostri vecchi amici uccelli. C’erano così tante cose da pregustare”, propone un’atmosfera che attraverserà tutto il libro, con la descrizione del diclofenac che, mentre moltiplica esponenzialmente la produttività delle vacche in un’agricoltura che avvelena pianeta e cibo, uccide fino all’estinzione gli avvoltoi dorsobianco. Sarà poi Anjum, che nasce hijira, maschio e femmina, né maschio né femmina, per sempre irrisolta, a fare da guida in un mondo di vite disarticolate e irriducibili e in conflitti che giungono fino al genocidio, come quello del Pakistan, con un milione di morti, (“La carotide di Dio esplose sul nuovo confine tra India e Pakistan e un milione di persone morirono di odio” (p. 23); o come la tragedia del Bangladesh; fino a catastrofi derivanti da disastri fatti dall’uomo come Bophal; per giungere alla perenne e sanguinosa questione del Kashmir.

 

“L’ironia della situazione stava – e sta tuttora – nel fatto che se si mettessero quattro kashmiri in una stanza e si chiedesse loro di spiegare cosa intendono esattamente con il termine Azadi (libertà), di indicare con precisione i contorni ideologici e geografici del concetto, con ogni probabilità finirebbero per tagliarsi la gola a vicenda” (p. 207). 

Ad agire è una passione condensata, distillata, cieca e futile come ogni passione. “Nelle occasioni (per fortuna di breve durata) in cui si scatenava pienamente aveva il potere di squarciare le mura della storia e della geografia, della ragione e della politica” (p. 207).

Le vite nascono nel massimo della precarietà, come Arundhati Roy racconta nel capitolo “Natività” e, inoltre, in uno scenario apocalittico, in cui l’abuso ambientale ha ridotto la vivibilità ai minimi termini. 

“Dove un tempo c’erano foreste, ora sorgevano grattacieli e fabbriche d’acciaio, i fiumi venivano imbottigliati e venduti al supermercato, il pesce veniva inscatolato, le montagne crivellate dalle miniere e tramutate in missili scintillanti. Dighe gigantesche illuminavano le città come alberi di Natale. Tutti erano felici. 

 

Lontano dalle luci della pubblicità, si evacuavano villaggi e città. A milioni di persone era imposto di trasferirsi, ma nessuno sapeva dove” (pp. 115 – 116).

 

La violazione delle vite, rappresentata con un’ampia varietà di forme di oppressione, violenza e torture, fino al limite della sostenibilità esistenziale, consente di creare lo spaccato di un mondo che è e che viene, la cui essenza è allo stesso tempo attraversata da una prorompente vitalità.

L’attualità del romanzo di Arundhati Roy, forse, tra l’altro, sta proprio nel fare del mondo indiano una metafora del nostro mondo. Un mondo che si esprime, oggi, all’insegna di quella che da più parti si definisce la forma VUCA (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity). La vita in primo luogo, e le condizioni della vivibilità, sono sempre più volatili; affrontiamo un’incertezza che sempre più mostra la propria intensità diffusa, tanto da chiederci se esiste un mondo a venire (come fanno D. Danowski e E. Viveiros de Castro nel libro Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, nottetempo, Milano 2017, su cui ha scritto Pietro Barbetta); ci muoviamo in un contesto di complessità in cui tutto dipende da tutto ed è più volte intrecciato, con un senso labirintico che spesso è disorientante fino a immobilizzarci o farci sentire impotenti; ogni cosa si presenta a noi ambigua, tale per cui per essere ciò che è non è mai unitaria e lineare ma ammette più letture e posizioni che spesso sono l’una il contrario dell’altra e, d’altra parte, siamo consapevoli che la vitalità delle cose è strettamente connessa alla loro ambiguità. 

 

Intanto, come in Il ministero della suprema felicità il pluralismo delle identità e delle culture, il bricolage delle vite, si muovono su uno scenario di decomposizione della vivibilità e degli ambienti della nostra vita. 

L’intreccio tra storia umana e storia naturale si è sempre più intensificato, mano a mano che la presenza pervasiva della specie aumentava. Come ha scritto Dipesh Chakrabarty: “È solo in tempi molto recenti che la distinzione tra storia umana e storia naturale […] ha iniziato a crollare” (in The Climate of History: four Theses, Critical Inquiry, 35/2009; p. 207). La domanda che il pluriverso antropologico e ambientale di Arundhati Roy ci pone è se essere attivamente coscienti del proprio ruolo ecologico è necessariamente sinonimo di essere attivamente capaci di modificare questo ruolo. 

Forse esiste sempre una possibilità ulteriore se nell’ultima pagina del libro risonanza affettiva e relazionale e contesto della vita si fondono in una scena come la seguente:

“‘Mammina, pipì!’. Anjum la posò a terra sotto un lampione. La bambina pisciò con gli occhi fissi sulla madre, e poi sollevò il sederino per meravigliarsi del cielo notturno, delle stelle e della città millenaria riflessi nella minuscola pozza che aveva prodotto. Anjum la prese in braccio, la baciò e la ricondusse a casa” (p. 486).

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Lucio Fontana. Ambienti/Environments

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Un viaggio nel futuro fatto dal passato: la mostra Lucio Fontana. Ambienti/Environments, inaugurata il 21 settembre presso gli spazi industriali riconvertiti del Pirelli Hangar Bicocca di Milano, è la prima esposizione di un autore storico realizzata dalla fondazione milanese. Ed è una strana macchina del tempo, un meccanismo diacronico che mette in scena le opere ambientali dell’artista argentino, concepite a partire dalla fine degli anni ‘40 ma ricostruite oggi, facendole di nuovo venire alla luce come cloni da una cellula madre. Il polo espositivo, solitamente votato al contemporaneo, ha scelto di omaggiare il più avveniristico degli autori del secolo scorso, proponendo una mostra intrinsecamente rivolta al domani e perciò in grado di inserirsi a pieno titolo in una programmazione contemporanea. Una variazione di percorso che colma un vuoto espositivo importante, presentando per la prima volta al pubblico in maniera esaustiva il lavoro meno noto di Fontana, ossia gli ambienti spaziali. 

 

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Il nucleo degli ambienti rappresenta il vertice del percorso artistico di Lucio Fontana ma, sfortunatamente, si tratta di opere quasi totalmente andate perdute, non più visibili da decenni. Grazie al lavoro filologico dei tre curatori – Vicente Todoli, Marina Pugliese e la restauratrice Barbara Ferriani – e alla preziosa collaborazione di Nanda Vigo, è stato possibile ricostruire nove ambienti spaziali e due interventi ambientali: Struttura al neon per la IX Triennale di Milano, (1951), collocata originariamente sopra lo scalone d’onore e qui riproposta nella versione originale con il sovrastante “cielino blu Giotto”, e Fonti di energia, soffitto di neon per “Italia 61”,a Torino (1961), situata a chiusura della mostra. Bisogna infatti ricordare che Fontana, per tutta la propria esistenza, ha cercato di rivoluzionare il linguaggio dell’arte inseguendo una forma che trascendesse tutto ciò che era stata fino ad allora la pratica artistica. Fondatore dello Spazialismo, Fontana teorizzò un’arte nuova in antitesi alla “forma chiusa” che considerava essere la pittura e la scultura del tempo, una forma che fosse in grado di unire colore, spazio, tempo e suono.

 

Allievo di quel genio che fu Adolfo Wildt – già autore sublime in grado di saldare antichità e presente attraverso un’arte del marmo prodigiosa – fu il cigno nero che incarnò la variabile imprevedibile, quella terza via del fare che muoveva dall’alpha e dall’omega della scultura, rappresentati da Medardo Rosso e Brancusi, figure chiave del passaggio tra i due secoli.

In quest’ottica, gli ambienti spaziali costituiscono il capitolo più avanguardistico e forse il più emblematico della sua ricerca. Rappresentano il tentativo dell’artista di costruire delle opere nelle quali la relazione tra arte e architettura trovi piena espressione, alla luce delle intuizioni condensate nel celebre Manifiesto Blanco del 1946. È il Dopoguerra, Fontana da tempo cerca una strada che lo porti oltre il limite della tela ed è in quella tensione, in quel passaggio reale e simbolico attraverso la superficie del dipinto che si può rinvenire la genesi dei suoi tagli e la struttura concettuale su cui verranno costruiti i suoi ambienti. La relazione tra spazio reale e immaginario si salda e il superamento della prospettiva rinascimentale si compie. Le suggestioni scientifiche, costituite dalle immagini delle prime missioni aerospaziali segnano profondamente il suo immaginario da lì e per sempre, un anelito di assoluto alimentato dall’entusiasmo nel progresso tecnologico. Sul versante formale, il Futurismo è la cornice e Boccioni il maestro di riferimento, con le sue Forme uniche nella continuità dello spazio che hanno rappresentato l’indicazione di un linguaggio plastico che si propaghi come un’onda, nello spazio e nel tempo, finalmente libero.

 

Eppure Fontana parla una lingua incomprensibile al mondo dell’arte a lui contemporaneo e, dopo il primo ambiente, deve attendere fino al 1960 prima di riuscire a proporre un nuovo intervento installativo. In anticipo su tutto e tutti, Arte Concettuale, Arte Povera, Land Art, Optical: solo gli architetti sembrano capire appieno la portata innovativa del suo pensiero e proprio a Milano l’artista riesce a stabilire dei rapporti proficui con alcune delle figure più significative del tempo, a partire dall’intervento nel Salone della Vittoria alla VI Triennale di Milano datata 1936, di Persico, Palanti e Nizzoli, e poi con Luciano Baldessarri, BBPR, Figini e Pollini, Marco Zanuso e altri.

 

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Attraverso un meticoloso lavoro di ricerca, reso possibile anche dalla Fondazione Lucio Fontana che ha messo a disposizione il prezioso fondo di documenti, si sono potuti analizzare i progetti degli ambienti per poi ricostruirne fedelmente nove dei quindici originali. Sono state raccolte piantine, schizzi, foto d’archivio, pagine delle riviste d’architettura e design che, all’epoca, pubblicarono gli scatti degli interventi dell’artista. Nel caso della Galleria del Naviglio, negli anni mantenutasi invariata negli spazi, sono stati fatti sopralluoghi che hanno permesso di risalire alle dimensioni esatte dell’Ambiente spaziale con luce nera (1948-49). Una volta raccolta l’enorme mole di dati, questi sono stati elaborati e trasformati in modelli 3D. Parallelamente, sono stati meticolosamente recuperati tutti i materiali dell’epoca per la ricostruzione filologica degli ambienti, a partire dai neon – per l’occasione fabbricati utilizzando la stessa linea produttiva del tempo, ancora oggi in funzione – i colori fluorescenti, importati da Fontana dopo il suo viaggio negli Stati Uniti, quelli che usò anche per decorare il cinema Arlecchino di Milano, così come le luci di Wood e la moquette dell’ambiente Utopie (1964), per la XIII Triennale di Milano, ricostruita grazie alla consulenza di Nanda Vigo, sodale di Fontana. Senza dimenticare il tessuto rosa dell’Ambiente spaziale con neon (1967), presentato allo Stedelijk Museum di Amsterdam, a cui è stato possibile risalire grazie a un frammento che fu donato dallo stesso artista a un collezionista. Una ricerca complessivamente durata anni e che dona alla mostra un valore storico indiscutibile.

 

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Ambiente spaziale con neon, L. Fontana.


Ambienti/Environments offre un’esperienza temporale straniante allo spettatore, la possibilità di osservare il futuro (ormai presente) attraverso la lente del passato. Se la portata rivoluzionaria dell’opera fontaniana è innegabile, ed è espressa pienamente negli ambienti spaziali, le sue opere più ardite, è altrettanto vero che addentrarsi nei silenziosi spazi immaginati dall’artista comporta un senso di déjà vu destabilizzante. Noi tutti abbiamo assorbito la lezione di Fontana perché la cultura popolare l’ha inglobata: dal teatro al design, dal cinema alle architetture dei luoghi del divertimento, quella visione è penetrata nel quotidiano ed è diventata pop. Con buona pace di chi lo vorrebbe nel Parnaso degli artisti intoccabili, Fontana si è disgregato e le sue molecole sono divenute parti del bagaglio visivo collettivo. In una certa misura, quindi, il suo lavoro è profondamente contemporaneo, e il suo sguardo gettato ben oltre l’orizzonte della sua esistenza. Sebbene ancora oggi i suoi tagli siano il paradigma dello scandalo, soprattutto per chi con l’arte non ha una relazione di consuetudine, la sua idea di un’arte spaziale si è compiuta e ha forzato i confini che hanno tentato di cingerne il perimetro disciplinare.

Partendo da Ambiente spaziale a luce nera, attraverso un arco temporale di vent’anni è possibile osservare l’evoluzione delle forme, dalla matrice surrealista e informale attraverso la progressiva rarefazione dell’oggetto, fino alla sua scomparsa a favore di un puro piano percettivo, un primato della luce sulla materia.  Sono luoghi talvolta severi, talvolta non privi di intrinseca giocosità, come il pavimento morbido di Ambiente spaziale (1966), proposto da un Fontana già malato di cuore per il Walker Art Center di Minneapolis e realizzato, su sua indicazione, dall’architetto Duane Thorbeck in occasione della prima grande personale negli Stati Uniti, intitolata The Spatial Concept of Art. Nella messa in discussione della percezione, tra stupore e trascendenza, gli ambienti si offrono come un percorso meditativo che si conclude nel bianco assoluto di Ambiente spaziale inDocumenta 4, a Kassel (1968), opera ascetica che riassume idealmente la parabola terrena di Fontana. L’ultima stazione è uno sguardo rivolto al vuoto, un vuoto inseguito per anni, che ha accomunato le ricerche dell’artista a quelle di Yves Klein, Piero Manzoni e di Mark Rothko, ma anche a Gutai, al Gruppo Zero, i Gruppi T e N, che ne evidenzia le suggestioni captate dalle mistiche orientali e che trova un punto di non ritorno nel bianco incandescente, squarciato da un taglio totemico. Una stanza sacra, per una mistica del nulla che ci riconsegna senza sconti a noi stessi. 

 

Passeggiando tra quelli che Vicente Todoli ha definito i “monologhi” di Fontana, viene da chiedersi se oggi l’autore fosse vivo, cosa avrebbe fatto di questa mostra. Domanda capziosa, certo, perché si fonda su un paradosso: se Fontana fosse ancora in vita il suo percorso di ricerca sarebbe continuato e oggi saremmo testimoni di una storia differente. Ma concedendosi la licenza di un’ucronia, immaginandolo oggi qui, probabilmente ci avrebbe donato qualcosa di difficilmente catalogabile, una performance o un’installazione interattiva.

 

Forse, avrebbe ripensato da capo i suoi ambienti, superando definitivamente i limiti imposti dai materiali e avrebbe sperimentato opere digitali fatte di pixel, ologrammi, installazioni sonore e utopie progettuali, dirigendosi verso territori ancor più immaginifici. Entrare nei suoi corridoi, fare il bagno nelle luci di Wood, ascoltare il vagolare dei pensieri che si assottigliano al cospetto dei suoi spazi è ancora un’esperienza emozionante, che mantiene intatto quello che gli anglofoni definirebbero uno specifico sense of wonder. Ma è una meraviglia che porta con sé anche un sottile velo di malinconia, per qualcosa che viene dal passato e transita qui, per un attimo fugace, destinata a proseguire la propria traiettoria di desiderio infinito nel buio del cosmo, come il brillare di una stella che giunge a noi dal passato dell’universo.

L’opera d’arte è distrutta dal tempo. Quando, poi, nel rogo finale dell’universo, anche il tempo e lo spazio non esisteranno più, non resterà memoria dei monumenti innalzati dall’uomo, sebbene non un solo capello della sua fronte si sarà perduto.”

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Che Guevara cinquant'anni dopo

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La morte di Che Guevara coincide per noi con la fotografia di Freddy Alborta che ritrae il suo corpo tra soldati, ufficiali, fotografi . È una foto-icona, si dice, e come tale è diventata celebre: è finita, ad esempio, sul Lodger Album di David Bowie (1979), oppure è stata parodiata (Zbigniew Libera, Che. Next Picture, 2003).

 

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Non fu questa la foto distribuita alla stampa internazionale, almeno in un primo momento, ma un’altra presa più da vicino, con solo tre personaggi attorno al morto: un tecnico, un signore con macchina fotografica al collo, un ufficiale con un fazzoletto sul naso. In Italia, sulla prima pagina della “Stampa” (12 ottobre) ne compare un’altra, scattata da questo secondo fotografo, qualche istante dopo (i tre astanti vengono tagliati). Poi c’è una serie di fotografie – in bianco e nero o a colori, e di qualità diversa – che ebbero minore diffusione. 

Lo scatto di Alborta e tutti gli altri non sono documenti della morte del Che, ma di uno spettacolo organizzato dai militari boliviani la sera del 9 ottobre 1967. Se si riesce a ricostruirne lo svolgimento, si riesce anche a comprendere le fotografie e, soprattutto, si riesce a cogliere la loro trasformazione in immagini speciali, se si vuole, in “icone”. Bisogna sommare, oltre alle stesse foto, alcuni filmati, efficaci nonostante la modesta qualità, e i ricordi di qualche testimone (lo stesso Alborta in un documentario di Leandro Katz, El dia que me quieras).

 

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Un elicottero arriva da La Higuera con il cadavere di Che Guevara. Quando il corpo viene portato dalla pista di atterraggio all’ospedale di Nuestra Señora de Malta a Vallegrande, la gente è già assiepata lungo la pista di atterraggio e, poco dopo, fuori dall’ospedale. Ci sono già dei fotografi. Qualcuno scatta una foto alla barella con alcuni militari in posa: il braccio sinistro del Che oscilla verso terra. Non c’è immagine del trasporto di un morto – dai sarcofagi romani con Meleagro, alle Vittime del lavoro di Vincenzo Vela (1882) – in cui manchi questo dettaglio; alcuni storici dell’arte, per questo, lo hanno chiamato “braccio della morte”.

 

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La lavanderia dell’ospedale è un piccolo edificio a sé; non ci sono porte, ma un solo largo ingresso con un pilastro al centro; il pavimento è piuttosto rialzato e per entrare bisogna superare un gradino. Lo stanzone – intonacato d’azzurro – è vuoto, c’è solamente una scala a pioli, in un angolo.

 

Ecco che la barella viene deposta sul lavatoio in cemento; al rubinetto è collegato un tubo di gomma a strisce sottili. In questo momento Guevara è scalzo, ma ancora vestito; uno in camice bianco e con guanti di plastica (un medico o un infermiere) scioglie le corde che tenevano stretta la testa alla barella, evidentemente la si vuole alzare per mostrarla meglio ai fotografi che stanno arrivando; a questo scopo si appoggia un quadrello di legno alla barella. Secondo Richard Gott, un testimone, i medici cercano di iniettare formalina. C’è confusione e un continuo andirivieni di persone diverse, militari soprattutto.

Un uomo in camicia bianca e cravatta gli slaccia i bottoni, si ferma un attimo per togliersi l’orologio, nel frattempo altri due tagliano le corde che tenevano stretti i polsi, gli tolgono la giacca; l’uomo in camice e guanti armeggia ancora attorno al petto, aiutato da un altro che tira fuori un oggetto metallico (un paio di forbici?). Adesso il braccio sinistro ricade appena entro una delle vasche, semicoperto dalla camicia, vicino a un recipiente cilindrico che nessuno si cura di spostare; l’altro braccio viene appoggiato al bordo del lavatoio.

 

Un piccolo aereo bianco ha fatto sbarcare fotografi e giornalisti, alcuni con una cinepresa in mano; un giornalista ha un magnetofono professionale e le cuffie. Strette di mano coi militari.

La gente comincia ad avvicinarsi alla lavanderia, ma ancora non vengono fatti entrare; riescono comunque a intravvedere il fianco destro del Che. Gettati lì a terra sotto il lavatoio e verso l’ingresso, due cadaveri di guerriglieri. I fotografi però possono entrare e hanno una certa libertà di movimento. Uno dei fotografi (René Cadima) è salito sulla struttura di cemento e, mettendo i piedi da una parte e dall’altra, scatta fotografie dall’alto. 

 

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Stanno per arrivare gli alti ufficiali; entra anche uno dell’equipaggio dell’aereo, fumando.

 

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Un altro fotografo prende la scala a pioli che era sulla parete dietro alla testa del Che, la porta sul lato opposto e vi sale riprendendo la scena dall’alto.

 

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Inizia la conferenza stampa, a quanto pare in più tempi. Un ufficiale, in un filmato, dichiara che è stato un gioco da ragazzi prendere i guerriglieri. Poi entrano in scena gli alti ufficiali che si posizionano attorno al volto del Che. Questo è il punto chiave, tanto è vero che il quadrello di legno sotto alla sua testa in alcune foto è orizzontale, in altre è verticale, così da rialzarla per bene. 

Nel frattempo nessuno ha chiuso gli occhi di Guevara (non si può fare, sarebbe gesto di pietà), e anche la bocca leggermente aperta lascia intravvedere i denti. Nessuno sposta il barattolo cilindrico accanto alla testa. I fotografi e i cineoperatori si spostano a loro piacimento, dopo tutto sono loro gli ospiti d’onore.

 

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Adesso è ora di portar via i cadaveri dei due guerriglieri coi loro stracci. Sta per cominciare il secondo atto: la sfilata dei visitatori. Anche il barattolo sparisce e viene staccata dal rubinetto la gomma rossa e nera. Cominciano alcuni soldati, che si fanno fotografare imbracciando minacciosi i loro fucili. Poi, pian piano, alla presenza di alcune guardie, uomini e donne del paese vengono fatti entrare e girano attorno al lavatoio; un’anziana vestita di nero e con un canestro di vimini sotto braccio; due donne ben vestite, con fazzoletti bianchi in mano o premuti sulla bocca; alcuni ragazzini e qualche bambina che si porta una mano alla gota (la commozione porta con sé gesti millenari). Sfilano anche due signori eleganti, con un cappello in testa; quello con gli occhiali da sole tiene una sigaretta accesa in mano e porta la sinistra al fianco come in una passeggiata qualsiasi; l’altro preme un fazzoletto sulla bocca: non è commozione, è l’odore della formalina.

 

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Qualcuno ha recuperato la pagina di un rotocalco e la mostra accanto al volto di Guevara, con l’intenzione di verificare le somiglianze e accertare l’identità (questo è il principale obiettivo della convocazione dei giornalisti).

 

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La foto di Alborta viene spesso collegata a un celebre dipinto rinascimentale, il Cristo in scurto (in scorcio) di Andrea Mantegna, oggi nella Pinacoteca di Brera a Milano; alla morte di Mantegna (1506), il quadro venne chiamato così dal redattore che stava facendo l’inventario degli oggetti rimasti in casa; era ancora lì, forse perché il pittore l’aveva eseguito per sé, anni prima. È singolare come questo collegamento Che Guevara-Cristo in scurto sia diventato un luogo comune, e come tutti i luoghi comuni non abbia una paternità: lo proclamano così, come un dato di natura, decine di blog, lo storico dell’arte che “l’ha detto per primo”, professori di liceo, giornalisti; la coppia di immagini è presente persino nel Lodger Album di Bowie. Si ragiona di archetipi, di fili misteriosi che collegano opere a distanza di secoli, del fotografo che si ispira al pittore rinascimentale. Tutti (implicitamente) a dire che è un accostamento ovvio e sacrosanto. Invece, questo luogo comune ha un padre, John Berger, che scrisse un breve saggio pochi giorni dopo la morte di Guevara (Che Guevara dead, tradotto in Capire una fotografia, 2014).

 

Il discorso di Berger, per la verità, parte dalla foto in cui l’ufficiale preme il fazzoletto sul naso: non sono tanto le foto, quanto la situazione reale a suggerire il rimando alla pittura. Prima di tutto Berger chiama in causa un altro dipinto, la Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt: anche qui un cadavere, il dottore che dà spiegazioni, gli astanti. Berger scrive poi che la foto gli ha ricordato anche il Cristo di Mantegna per le analogie nella posizione del corpo e nell’espressione del volto; analogie non soprendenti, visto che “there are not so many ways of laying out the criminal dead” e, si potrebbe aggiungere, non ci sono molti modi per accostarsi a una persona morta. Detto altrimenti, qualunque corpo sistemato dopo un’esecuzione capitale potrebbe essere accostato al quadro di Mantegna (c’è chi ha voluto citare invece il Cristo morto di Hans Holbein il Giovane o quello di Philippe de Champaigne). 

Il luogo comune Che Guevara-Cristo in scurto funziona proprio grazie ad analogie sul piano della realtà: dettagli come i capelli lunghi e la barba, per non parlare dei piedi scalzi, del petto e delle braccia scoperte per mostrare le ferite mortali. In altre parole, il trait d’union non è tanto tra fotografie e pittura, ma tra quest’ultima e la scena allestita nella lavanderia.

Oltre a ciò, lo spettatore occidentale (tanto più chi simpatizzi con le idee di Guevara) è portato a mettere in parallelo Gesù e il rivoluzionario argentino, tanto nel percorso umano come nella morte. Il confronto fu immediato: secondo René Cadima (uno dei fotografi) alcune donne del posto dissero che Guevara sembrava Gesù; a Jon Lee Anderson, biografo di Guevara, recatosi a Vallegrande trent’anni dopo, alcuni riferirono che le suore dell’ospedale erano rimaste impressionate da questa somiglianza. (Si può scommettere che se fosse stata diffusa una foto coi due guerriglieri uccisi col Che, ma posti sotto di lui, qualcuno avrebbe fatto il parallelo coi due ladroni della crocifissione). 

Davanti a un’immagine usiamo volentieri la metafora della “lettura”, ma non c’è proprio niente da leggere: c’è da associare. L’addetto ai lavori chiama in causa altre immagini (o oggetti, avvenimenti, idee) quando vuole spiegare un soggetto, quando cerca di riconoscere la mano di un artista, quando stabilisce giudizi di valore. Nella vita normale associamo a una data immagine le nostre esperienze concrete, le cose che conosciamo meglio, altre immagini ancora (e non ci impegniamo in nessuna filologia). Per l’esperto la concatenzione associativa si snoda seguendo regole precise, per i non addetti ai lavori scorre liberamente. Il lavatoio in cemento su cui riposa il Che potrebbe ricordare a qualcuno i grandi cassoni in pietra entro cui viene calato Gesù in alcuni quadri rinascimentali. Oppure, la nudità del corpo di Guevara potrebbe richiamare certe morti di eroi (greci o moderni) nella pittura neoclassica.

 

Solo in apparenza è un’ovvietà dire che la forza evocativa della foto di Alborta (e delle altre scattate in quei momenti) proviene dalla situazione creata nella lavanderia. Di queste foto, i militari boliviani sono committenti e sceneggiatori al tempo stesso. Essi hanno costruito un vero e proprio spettacolo: il riconoscimento pubblico e ufficiale del nemico sconfitto. Da dove viene la sua tinta arcaica? Hanno organizzato un’esposizione pubblica del corpo del Che, seguendo la prassi non scritta che regolava i funerali nelle società antiche (Grecia compresa): si sistema il cadavere per renderlo ben visibile, si chiamano vicini e paesani, lo si compiange ritualmente.

A Vallegrande manca del tutto il compianto (perlomeno quello ufficiale), in compenso si introduce l’elemento teatrale. I militari potevano decidere di mettere alla ribalta il solo cadavere di Guevara; invece inseriscono anche un variegato gruppo di ufficiali, soldati, collaboratori; a un bel momento fanno entrare in scena anche gli abitanti del paese, in una sorta di agnizione obbligatoria. 

È a questo punto che nella liturgia predisposta dall’esercito boliviano fanno il loro ingresso le immagini, col risultato inatteso di ribaltare il programma di teatro. Come scrisse Susan Sontag (anche a proposito di quella di Alborta): “la fotografia abbellisce qualsiasi cosa”. Le immagini fotografiche di Vallegrande mantengono lo status di documento storico, ma acquistano il potere, come abbiamo visto, di far scorrere piani diversi di associazioni. Escono dal contesto originario ed entrano nel nostro silenzio, trasformandosi in oggetti che risuonano. Il versante puramente dimostrativo delle mosse dei militari scivola via e scompare, lasciando il posto al nostro bisogno-desiderio di concatenare forme e cose.

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9 ottobre 1967
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Lapis

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Eccoli, emozionati e fieri come cadetti nelle proprie uniformi. Rispondono alla tromba dell’adunata slanciandosi fuori dalla scatoletta di cartone. Eccoli, lapis che a dodici a dodici si dispongono rapidamente sulla scrivania, dapprima in ordine sparso, poi in riga l’uno accanto all’altro. Ce ne sono di tutti i reggimenti, quelli striati di giallo e nero, quelli laccati in un unico colore, quelli dalla divisa color senape e il capo marrone, quelli dall’elmetto di gomma. Eccoli ora tutti in ordine l’uno a fianco all’altro a formare minute ma solide palizzate. Ognuno con la propria arma appuntita, baionetta di grafite pronta a lasciare il segno su mille fogli.

Ma è quella la fine dell’apprendistato, da quel preciso momento, un lapis scelto a caso nella dozzina entra nella vita adulta: viene infilato nell’astuccio a sacchetto e non è più protetto dai propri compagni, non fa più goliardicamente a spallate nella confezione. Il lapis ora è accanto alle penne dall’indelebile magistero; al matitone rosso e blu dal segno largo; al mai elastico righello. Dall’angolo più remoto dell’astuccio, le minacciose sagome della gomma da cancellare e del temperino lo guardano con fare smaccatamente sornione.

 

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Il lapis, nel trasporto quotidiano dalla casa all’università, subisce i contraccolpi della corsa per prendere il bus, quando lo zaino sussulta sulla schiena, gli schiacciamenti fra i passeggeri, lo scossone che l’astuccio gli provoca quando viene lasciato cadere sul tavolo della biblioteca dopo che la penna è stata estratta. È in questi frangenti, in quel primo assaggio di realtà, che il righello e il temperino gli piombano addosso con la durezza di plastica e metallo, e gli incidono dei segni sulla pelle di legno laccato.

Se il segno è vicino alla punta, il lapis può sperare in un prossimo intervento dell’ambiguo temperino, che ne mangerà via la cicatrice... Ma che prezzo pero! Il lapis viene accorciato un poco e smette improvvisamente i panni del cadetto lustro e felice: il conetto di legno attorno alla grafite si fa improvvisamente meno uniforme, qualche piccola scheggia resta aggrappata anche dopo che i polpastrelli si sono stretti attorno all’anima di legno per pulirla; anche dopo che anche soffio energico di fiato ha cercato di liberarla dai residui.

 

Il lapis compie al meglio il suo dovere, quando deve sottolineare lo fa con caparbietà, anche se non è abituato all’asimmetria che dopo una giornata di sottolineature la sua punta risulta avere, consumata solo da un lato. Se invece viene adoperato per prendere appunti o segnare glosse a margine di una pagina, sente la grafite smussarsi da ogni parte, farsi tozza e assume le più svariate forme poliedriche. È piacevole e straniante, ritornare di sera nell’astuccio con la testa stordita e l’attesa per nuovi sbalzi nello zaino, altri colpi di righello e temperino. E rendersi conto di non toccare più, con la testa o con i piedi, le pareti di tela.

 

E tutto questo si ripete. Giorno dopo giorno il lapis smette di stupirsi, riesce ad anticipare quello che gli accadrà. Alcune volte è anche caduto dalla scrivania, una volta si è spezzato di netto la punta, e subito il temperino è intervenuto per rifarla, accorciando lo di qualche millimetro. Una volta però è caduto e sembrava non essersi fatto niente, poi però si è accorto che c’era una frattura invisibile, perché la grafite era crepata all’interno del corpo di legno. Una ferita che il lapis celerà in sé a lungo, fin quando – ormai la sua lunghezza è la metà di quella originaria – un ennesimo giro di lama disvelerà la frattura della verghetta di grafite, e l’impossibilità di creare una nuova solida punta se non temperando a lungo e con certosina attenzione.

 

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È molto ormai che il lapis è abituato ai suoi compagni dell’astuccio a sacchetto. Ha imparato a riconoscerne pregi e difetti; ha imparato, per esempio, che la gomma non è solo la signora che cancella i suoi tratti: anche lei è in pena perché ogni suo utilizzo significa frammentazione di sé e abbreviazione della propria esistenza; ha anche imparato che capitarci accanto è un contatto morbido e materno.

Il Lapis è ormai lungo sei o sette centimetri e la sua vita sembra essere indirizzata, ma un giorno viene preso per essere temperato. Non dalla parte della punta. Il lapis è così messo di fronte allo specchio mentre il temprino ruota a lungo e con sempre maggiore intensità, svelando tutta la doppiezza di cui esso stesso non credeva di essere capace.

 

Ecco, ora il lapis ora è diventato un lapis da cappotto. Se ne sta solo nella tasca accompagnato tal volta da un burro di cacao di cui non capisce lo scopo o, più raramente, da un foglietto di carta. È un mozzicone dalla doppia punta, perché non c’è più il temperino a disposizione in ogni momento e con la doppia punta tutto dura a lungo ed è tutto più lento. Capisce di non essere più parte di un uso sistematico e prolifico, non vede più scrivanie di studio o postazioni di biblioteche, ma solo banconi di bar o tavoli di trattoria. Non sottolinea più, non prende appunti dentro ai libri, che ormai vede solo chiusi; può capitargli al massimo di segnare un codice o un indirizzo su un post-it stropicciato.

È la lunga vecchiaia del lapis. Finché un giorno, destino che accomuna i lapis agli accendini, farà misteriosamente perdere le proprie tracce e sentiremo improvvisamente la sua mancanza.

 

Le altre matite:

 

Giovanni Marchese, Il bambino che disegnava la luna

Anna Toscano, Facendo la punta

Gianni Montieri, Breve storia di alcune matite

Mauro Zanchi, 2H

Francesco Lauretta, Breve storia delle mie matite

Francesca Serra, Simonio e Lyndiana

Chiara De Nardi, Matita. Strumento divinatorio

Giuseppe Di Napoli, L'anima nera del carbone

Aldo Zargani, La matita del fato

Giovanna Durì, La prima matita e le sue compagne

Francesca Rigotti, Matita: veloce e lenta, giovane e antica

Maria Luisa Ghianda, Histoire d’H (di B e di F)

Guido Scarabottolo, Perdonare gli errori

La redazione, Una matita per l'estate. Il concorso doppiozero

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Una matita per l'estate
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Una risata seppellirà il ridicolo

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Una risata sì, il ridicolo no. Il ridicolo richiede uno schieramento: uno è ridicolo, un altro lo de-ride.  Pirandello, che era crudele, esemplificò con la vecchia mantecata che cerca di esorcizzare il degradarsi della sua bellezza con un trucco pesante e insensato: tu la vedi passare, e ridi, perché è ridicola, perché hai diritto di de-riderla.

 

Ma la vecchia come sta? Non se ne rende conto, non coglie il contesto, non vede se stessa, non pratica insomma il distacco dal suo ego, non vede lo specchio come un luogo di verità, e non giunge all’ironia, che è il distacco dalle cose e da stessi, e la capacità di renderci a noi stessi prospettici, ovvero auto-ironici. Potrebbe essere comodo mettere nello stesso recinto i dittatori, i torturatori, gli sterminatori, i potenti, i prepotenti, i supponenti, circondandoli di una staccionata che li imprigioni nel loro moralismo, nel loro autoritarismo, nella loro supponenza, nella loro avidità, nel loro maligno narcisismo, i padroni, gli amministratori delegati, i capiufficio, i funzionari statali, i poliziotti con manganelli e idranti… Se ne starebbero tutti lì, a darsi di gomito e a sbraitare, e a minacciare noi che stiamo fuori nel prato liberi, intelligenti, arguti, disinteressati, con le mani aperte, distaccati, illuminati, a rotolarci dalle risate; in questo caso de-ridere sarebbe un atto politico, una contro-cultura, un contro-potere, la più limpida spiritualità, perché il monaco che nulla ha nulla teme e tutto comprende, dell’ordine cosmico e degli umani.

 

Dicono che Bakunin, teorico dell’anarchia, una volta mentre lo arrestavano abbia gridato, ridendo: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!», e così fecero tanti anarchici quando venivano arrestati fino alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Nel Sessantotto qualcuno cominciò a scrivere dire e urlare «La fantasia al potere!» e nel Settantasette (che per chi lo ha fatto è stato il suo Sessantotto) qualcuno cominciò a scrivere dire e urlare e graffitare sui muri delle Università «Una risata vi seppellirà!».

 

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Chi è ridicolo non si sente ridicolo, ed è ossessionato dal “senso del ridicolo”: se non è il potere è il perbenismo, l’amor proprio, il decoro.

Il ridicolo non è empatico, è crudele come erano crudeli i burloni di corte alla mensa dei cortigiani crudeli; e se sbagliavano una battuta finivano alla gogna (de-risi dal popolo) o impiccati, smembrati. Il ridicolo è pericoloso perché quando ridi in faccia a un potente il potente te la fa pagare.

Fantozzi è ridicolo, lui che teme i prepotenti, ma Paolo Villaggio era infine empatico, nei confronti del suo personaggio, e senza una parola di compassione per lui, facendoci ridere ci ha educato a provare empatia per i poveri cristi, oppure a non farci più mettere i piedi in testa, oppure a ridere a crepapelle della Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare.

 

Perché Breaking Badè la serie televisiva più “complessa” e al momento magistrale nella storia della “tv di qualità narrativa e produttiva” di cui scrive nel suo saggio Jason Mittell (Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, minimum fax 2017)? Walter White è un geniale chimico un po’ coglione, così riesce da giovane a farsi rubare il brevetto dall’amico e la fidanzata dall’amico, che si sposano e diventano milionari della chimica; Walter White finisce a fare l’insegnante di chimica in un liceo, e si sente sfigato e fregato come ci sentiamo noi insegnanti statali in Italia: ma negli Usa essere un insegnante statale è molto più sfigato ancora che da noi (siamo vicini all’equipollenza, comunque), e ai party d’élite gli chiedono se è un imprenditore o un brillante professore universitario, dileguandosi al cospetto della sfigata sincerità di Walt. Walt non è forse ridicolo?

 

Quando scopre di avere un cancro aggressivo ai polmoni la geniale concatenazione di eventi “di male in peggio” che è il fulcro di infinita narrazione della serie AMC firmata dallo showrunner Vince Gilligan (62 episodi, 10 diversi sceneggiatori, 25 diversi registi) lo porta a divenire un cuoco di metanfetamina straordinariamente pura che lo proietta nel mondo criminale e nelle guerre di strada e di confine tra spacciatori e cartelli narcos. Walter White è interpretato dall’attore e producer Bryan Cranston, che dalla sua maschera di sfigato-che-sta-per-esplodere non consente mai fino in fondo di de-riderlo, socchiudendo i due terrificanti occhi dell’oppresso incazzato.

 

Breaking Badè una macchina narrativa che dal 2008 al 2013 ha incatenato in una sterminata vicenda infiniti accadimenti vero-simili, ridicoli e insieme drammatici, orrendi e buffi. Il partner casuale di Walter White, il ragazzotto drogato che spaccia in piccolo, Jesse Pinkman, è pure lui ridicolo, ma il suo soffrire per le conseguenze delle sue cazzate è così intenso che personalmente non sono riuscito a ridere una sola volta in 62 ore. Il Signor Bianchi e l’Uomo-Rosa attraversano una epopea di sventure non molto dissimile dalle odissee di Fantozzi, ma la loro ribellione al peso soverchio della sfiga li porta a sporcarsi di sangue e di crimine, raddrizzando la schiena e arrivando a farsi sempre più spesso cinici e crudeli come coloro che de-ridono. Fantozzi non ce l’ha mai fatta, a ridere per ultimo. In molti episodi Walter e Jesse ci riescono.

 

Se l’ironia nel quotidiano ci permette di staccarci dalla visione egocentrica e di sorridere di noi stessi, schivandoci il dolore morale o la depressione, la nostra posizione di spettatori terzi ma totalmente coinvolti in Breaking Bad ci sottrae sia il senso del ridicolo, sia la de-risione.

Breaking Bad, in quanto serie tv, deve doparci di ansia, di attesa, di identificazione, non vuole e non può “liberarci”, perché l’ideazione geniale pone una domanda senza risposta: «Un povero cristo onesto che di fronte alla morte produce crimine per garantire un futuro alla sua famiglia, è un criminale o no?» Per la legge lo è, ma per la nostra empatia non lo è. Non c’è niente da ridere, insomma.

 

https://www.youtube.com/watch?v=HhesaQXLuRY

 

Se Breaking Bad parlava di cancro e di morte, Atypical, una delle nuove serie “complex tv” di Netflix, in onda da poche settimane, pone una nuova riflessione, a noi spettatori della vita degli altri: atteso dalla comunità mondiale di medici, educatori, genitori di ragazzi di spettro autistico, Atypical sceneggia la vita quotidiana del diciottenne Sam Gardner, autistico ad alto funzionamento (“Asperger”) a un punto di svolta della sua vita di “neurodiverso”, di “atipico” in una famiglia e in un ambiente scolastico che lo hanno sostenuto fino alla soglia della vita adulta: vuole un amore, e vuole fare l’amore con una ragazza. Questa delicata, a volte dolorosa svolta di vita fa saltare gli amorevoli e pietosi supporti di protezione dei suoi genitori e della sua straordinaria “sibling” Carey, sorella neurotipica e eccentrica di Sam.

 

Il coraggio di portare in comedy l’autismo è merito della autrice Robia Rashid, classe 1977 e già co-autrice di Will & Grace e showrunner di How I Met Your Mother.  La comunità autistica italiana si sta spaccando nella ricezione: una parte si indigna perché – appunto – ritiene che non si debba de-ridere una cosa seria come l’autismo, perché la de-risione dell’handicap è la radice crudele, e realissima, di tanto bullismo anti-inclusivo; un’altra parte, quella che vede apertamente favorevoli a Atypical molti dei migliori ricercatori e coach sull’autismo Asperger in Italia dicono il contrario, ovvero che l’unico modo per estinguere la crudele de-risione del diverso (in questo caso un debole, non un tiranno) è assumere con sorridente serenità che anche un “diversamente tipico” può essere buffo in alcune sue azioni sociali, esattamente come un “neurotipico”, e che proprio l’alto funzionamento cerebrale di un Asperger può, con molto mentoring e molto affetto, arrivare a comprendere una tipica non-abilità autistica, ovvero l’astrazione ironica e autoironica.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ieHh4U-QYwU

 

La complex tv – come dimostra il saggio serio ma per niente ridicolo di Jason Mittell – è oggi una delle sfere creative in cui noi possiamo specchiare il nostro senso della vita. Come lo abbiamo potuto fare con i romanzi, il cinema, il teatro e ogni altro storytelling prima del compiacimento storytellante. 

Due spiritualità – molto diverse tra loro – hanno sempre fondato sul saper ridere di se stessi (senza de-risione alcuna) la loro essenza: l’ebraica, con il suo sterminato filone di barzellette e ironie spassose e intelligentissime; la buddhista, con il suo sorridere distaccato e sollevato, e la sua capacità di accettare l’impermanenza del tutto, osservando dal silenzio seduto la vanità buffa di chi si impunta sul proprio ego o sulla propria illusione di “raddrizzar le gambe ai cani”. La risata zen (che io ho davvero praticato soltanto nel mezzo di sesshin lunghe giorni o settimane, scandite da ore e ore di meditazione seduta) è simile alla risata “omerica” – Ἄσβεστος γέλος (ásbestos gélos) – nell’esplosione, ma radicalmente diversa da quella che Omero attribuì agli Dei radunati a schernire, a de-ridere Afrodite e Ares pescati da Efesto con una rete mentre fanno l’amore più focoso e sensuale possibile.

Non si de-ride chi ama! Non si de-ride chi soffre! Non si de-ride il diverso! vorrei infine sentenziare, ma sarei troppo serio, e potreste trovarmi ridicolo. Mi sforzerò quindi di farmi una bella, semplice, non-omerica risata anarco-zen.

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Povertà, status sociale e beni relazionali

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È stato presentato di recente il “Rapporto Coop 2017” (si legge all’indirizzo www.italiani.coop) sulla vita quotidiana degli italiani curato dall’Ufficio Studi COOP. Sono dati che fotografano la situazione dei consumi, ma anche quella economica delle famiglie italiane. Il 28,7% delle famiglie è a rischio povertà e esclusione sociale, un italiano su 4, poco lontano dal 35,7% della Grecia. Mentre i consumi crescono: più 1,2%. Domina l’ossessione della salute e della rincorsa al benessere: cosmesi e chirurgia estetica; poi emerge l’abbandono progressivo delle religioni tradizionali a favore di forme più soft di spiritualità (buddismo, yoga, vegan); si fuma meno e anche il desiderio sessuale sembra in calo; si mantiene alta la propensione al gioco d’azzardo, una vera piaga sociale. Il 68% si dice disposto a farsi curare dai robot; mentre aumenta il timore per le catastrofi ambientali e quello verso l’immigrazione. Il cibo terapeutico è in cima alle ricerche alimentari degli italiani e il “carrello del lusso” supera l’8% di crescita nel primo semestre dell’anno. Ne abbiamo discusso con Marco Revelli, sociologo, storico e politologo. Dal 2007 è presidente della Commissione di indagine sull'Esclusione Sociale (CIES). Insegna all’Università degli Studi del Piemonte Orientale. I suoi ultimi libri sono: Non ti riconosco più. Un viaggio eretico nell’Italia che cambia (Einaudi 2016) e Populismo 2.0 (Einaudi 2017). 

 

Il rapporto Coop comincia dalla povertà, fornisce un rapporto che immagino tu conoscerai, visto che ti sei occupato a lungo di questo tema: un italiano su quattro è a rischio povertà. Cosa significa “rischio povertà”?

 

Ci sono molti indicatori della povertà che spesso si confondono l’uno con l’altro. L’espressione “rischio di povertà” è usata da Eurostat, l’istituto di statistica europeo, ed è una misura intermedia che come dice la parola stessa non misura in valori assoluti la dimensione della povertà, la misura come distanza da una media che è considerata invece la media disponibilità di spesa degli individui e delle famiglie del Paese.

 

Puoi tradurlo in termini concreti? Significa che chi rientra in questo rischio non può andare al supermercato, non ha l’auto, non fa le vacanze…

 

Queste sono le misure di privazione assoluta. La povertà assoluta è misurata da un paniere di beni che sono considerati il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa. È in povertà assoluta chi non può fare due pasti normali al giorno, chi non può permettersi un tetto sulla testa e quindi pagarsi una casa, chi non può spostarsi liberamente e quindi non ha i soldi per i trasporti e non ha mezzi di trasporto. Sono beni e servizi stimati indispensabili. Questo pacchetto di beni ha un valore diverso a secondo della parte del Paese in cui si risiede. A Milano il costo di questo set di beni e servizi è alto; in un piccolo comune della Sicilia è molto più basso, in un capoluogo di provincia ha un valore relativo. Al Nord, al Centro e al Sud cambia. L’Istat ha costruito una tabella con molte variabili, per ogni tipologia di famiglia e di località c’è un valore. Chi sta sotto quel valore misurato in euro, è un povero in senso assoluto.

 

Quanti sono gli italiani in questa condizione?

 

Sono 4 milioni e mezzo. Come si legge molto chiaramente nel Rapporto Coop sono raddoppiati dal 2008 al 2016. Sono quasi 2 milioni di famiglie, in prevalenza famiglie numerose, famiglie con minori, e questa è una piaga della povertà italiana per cui i minori sono la zavorra che portano a fondo le famiglie; la presenza di uno o più minori è la situazione che determina sovente la discesa sotto la soglia. 

 

Perché?

 

In Italia non esistono servizi, non esistono sussidi, non esistono politiche di sostegno. La povertà minorile è la piaga italiana, noi siamo agli ultimi posti in Europa riguardo a questo.

 

E il “rischio di povertà” cosa comporta? 

 

Quelle che Eurostar definisce a “rischio di povertà” sono le fasce di popolazione che hanno una spesa mensile media o una disponibilità di reddito che si colloca o al 60% o al 50% o al 40% rispetto alla media nazionale. Se la media nazionale è 2000 euro al mese è considerato a rischio di povertà chi ha solo il 60 o il 50 o 40% della cifra; dipende dalla scelta di quale soglia si vuole evidenziare nel calcolo statistico. Equivale un po’ al concetto di povertà relativa che in Italia l’Istat registra. È relativamente povero o in condizioni di povertà relativa quella coppia che ha una spesa media mensile pari al 50% delle coppie “normali” o pari a un singolo. Si tratta più di una misura di esclusione sociale che non di povertà. Chi si trova in questa situazione, ma vive in un contesto molto solidale con l’orto, con un vicinato che si aiuta, potrebbe anche non essere una persona a cui mancano molte cose, ma come capacità di acquisto si trova lontano dalla media dei suoi simili, quindi è un “diverso”. 

 

Quanti sono in Italia queste persone?

 

Più di 8 milioni, tre o quattro volte una città come Milano.

 

In questi dati ci sono anche gli stranieri che vivono in Italia?

 

Sì, sia nella povertà assoluta che in quella relativa. L’Istat li registra. Gli stranieri sono gli svantaggiati tra gli svantaggiati.

 

Hai dei dati di incidenza degli stranieri?

 

Ho dei dati sull’incidenza della povertà relativa tra gli stranieri. Una incidenza più del doppio di quella italiana. Non esistono dati sulla povertà degli stranieri rispetto alla popolazione italiana. Averli comporterebbe dei problemi complessi, la possibilità di censirli tutti, per esempio.

 

A fronte di questi dati negativi che evidenziavi anche tu, il rapporto Coop ci dice che continua il trand positivo nei consumi: sono aumentati…

 

Prima di risponderti vorrei aggiungere una cosa sulla deprivazione, che nel Rapporto Coop è utilizzato a ragione: è una misura reale che si colloca a metà tra la misura della povertà assoluta e la misura della povertà relativa. È considerato deprivato chi accumula più di quattro fattori di deprivazione: chi non è in grado di alimentarsi adeguatamente con un pasto almeno due volte alla settimana, e così via; ma anche chi nel corso dell’anno non ha fatto nessuna vacanza o chi dichiara di far fatica ad arrivare alla fine del mese. Ci sono una serie di indicatori di deprivazione. Chi ne accumula almeno quattro è considerato deprivato. Un deprivato potrebbe anche essere uno che non è in condizione di povertà relativa, infatti la percentuale dei deprivati è maggiore della percentuale dei poveri relativi, ma per una serie di ragioni famigliari, ad esempio perché ha un disabile a carico, perché ha la coppia di anziani con l’Alzheimer e metà del suo reddito gli va in badanti, perché nel suo quartiere non c’è l’asilo nido e la moglie non può lavorare, sono tutti fattori che determinano questa situazione, anche se tu tecnicamente non saresti un povero assoluto o un povero relativo. Sei un deprivato.

 

E a fronte di questa situazione che stai descrivendo, dice il Rapporto che crescono i consumi…

 

Molto interessante il ragionamento che viene fatto nel Rapporto, sia a fronte dell’estensione, e crescita, non tanto della povertà relativa ma quella assoluta, su questa discrepanza. Ma anche in rapporto alla crescita del PIL, della ricchezza complessiva, perché in alcune fasi i consumi risultano in rapporto alla crescita generale, il che significa che le famiglie intaccano i risparmi.

 

Ricorrono al prestito…

 

Questo è l’elemento strategico che conferma e approfondisce un fattore potenziale di crisi e di costruzione di bolle. La crisi del 2007 e del 2008, la sua dimensione, è stata determinata proprio da questo: una curva delle remunerazioni e una curva dei consumi che si sono aperte a forbice, mentre le remunerazioni sono rimaste al palo o addirittura sono diminuite, la curva dei consumi ha continuato a crescere, in modo addirittura preoccupante. C’è un interessantissimo rapporto di Mario Draghi su questo di più di sette anni fa, che mostra esattamente il grafico con questa apertura. Com’è possibile che i consumi crescano con una dinamica prima dell’impatto devastante della crisi così superiore alla dinamica dei redditi? È il credito, in particolare il credito al consumo, dall’uso dalle carte, dalla concessione senza controllo dei mutui, e così via. Qui entriamo nel meccanismo che ha innescato la crisi, ma questo vuol dire dagli anni Ottanta in poi. In tutto l’Occidente, non solo in Italia, i salari si sono raffreddati. Possiamo individuare una data globale: il settembre del 1979, il discorso di insediamento di Paul Falker, Governatore della Federal Reserve, nominato da Carter, non ancora da Reagan. Tiene il suo discorso d’investitura in una situazione del capitalismo internazionale molto grave; eravamo nel pieno della stagflazione, cioè nella situazione di stagnazione, se non di depressione caratterizzata da alti tassi di inflazione, superiore alle due cifre. Falker dice: è finito un lungo ciclo iniziato nel 1929, quando il primo punto dell’agenda di tutti i governi era la piena occupazione; si viveva con l’incubo delle file dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento nelle metropoli americane, e poi europee. Per cinquant’anni questo è stato il primo obiettivo dei governi: sostenere l’occupazione accettando e sostenendo una dinamica salariale calda. Da oggi si cambia, dice il Governatore, il primo nemico diventa l’inflazione. Mettere sotto controllo l’inflazione, abbatterla, voleva dire sfondare la rigidità salariale, ovvero entrare a piedi uniti nella composizione sociale e nel mondo del lavoro, diminuirne o annientarne il potere di contrattazione. E così è stato fatto. Quello che ha fatto poi Reagan era in qualche misura scritto in quel discorso d’investitura: la delocalizzazione, lo smantellamento della cintura dello Steel Belt dell’acciaio, la fine di Detroit e delle grandi concentrazioni industriali, la fine di Torino, dell’Alsazia-Lorena, della Ruhr.

 

Tutto questo come si rapporta con l’aumento dei consumi?

 

Questo attacco frontale al salario e in generale al reddito da lavoro ha marciato di pari passo con la coazione al consumo. Il problema era: continuare a sostenere i consumi, anzi farli crescere. E questo è stato l’altro must delle élite governanti ed economiche e politiche: il sostegno dei consumi in una situazione di remunerazioni stagnanti. Il primo discorso che fa Bush dopo l’11 settembre, dopo l’abbattimento delle Twin Towers, non invita gli americani alla guerra, quello lo farà dopo. La prima cosa che dice è: uscite di casa e andate a comprare. Come garantisci la crescita quasi illimitata dei consumi senza salario e senza remunerazione? Con il credito. Sostituisci al reddito il credito. Il meccanismo dei subprime ha funzionato come grande macchina di generazione di ricchezza virtuale, per cui gli americani con il mutuo compravano la casa, la casa aumentava di valore, la vendevano incassavano il surplus, pagavano il mutuo, facevano un nuovo mutuo maggiore, compravano una casa di maggior valore, e questa cresceva ulteriormente, e producevano denaro senza lavoro. Il meccanismo è stato questo e poi le carte di credito hanno fornito un impatto enorme. Siamo arrivato alla soglia della crisi del subprime in cui c’erano nazioni in cui la popolazione era indebitata per il 70-80% delle proprie possibilità.

 

Dalle prime righe del Rapporto emerge che l’oggetto del desiderio non è più tanto la casa, bensì la salute, e che il cibo è ora parte sostanziale del benessere in generale. Questo cambiamento introduce a tuo avviso qualcosa di nuovo?

 

Introduce senza dubbio qualcosa di nuovo che sta totalmente dentro questa nuova struttura sociale nella quale c’è una parte di popolazione che sta sotto le soglie, una parte, molto ampia, che sta a metà della scala del reddito sociale e anche dello status, stagnante come reddito, e una parte sempre più sottile che schizza in alto. Questo è il meccanismo che ha governato l’ultimo quarto di secolo e forse di più. Da una struttura a botte, nella quale c’era una piccola e media porzione sul culmine in alto, una grandissima pancia, un ceto medio che si era alimentato assorbendo una parte della classe proletaria che si era “cetomedizziato”, per usare l’espressione di De Rita, e una parte piccola di poveri. Questa era la struttura nel trentennio dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il 900 maturo è stata questa cosa qui. Prima si è asciugata la pancia e una parte consistente, come nella clessidra, è scesa ad allargare la base, l’esercito degli impoveriti, e poi si è anche assottigliata la punta; la punta si è molto allontanata, è molto salita verso l’alto, una bottiglia alla Modigliani con un lunghissimo collo, in cui il vertice è salito alle stelle. Questa dinamica dei consumi riflette una situazione nella quale c’è una parte di società che esce fuori, che scende in basso, che consuma junkefood, quella che va ai discount, che non si cura della salute perché come ha teorizzato Amartya Sen la povertà è una perdita di progettualità su se stessi: povero è chi non ha più la capacità di progettare su se stesso la propria traiettoria sociale, in primo luogo su ciò che mangia, sul proprio corpo. E poi c’è una parte medio-alta di società, quella che ha mantenuto una capacità di spesa, di acquista che si qualifica, a differenza dell’esercito della povertà, a partire dalla composizione del proprio paniere della spesa.

 

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Che quantità numerica ha questa parte medio-alta della società attuale in Italia?

 

Dobbiamo parlare d’indice di status e non tanto di indicatore di reddito per identificarla. Sempre di più tu sei quello che mangi, tu sei il tuo sistema di relazioni sociali; la conversazione quotidiana ruota intorno a questo, il sistema delle amicizie e delle relazioni si costituiscono in palestra, si costituiscono sul campo da golf, al tennis.

 

Ma non è sempre stato così?

 

Il ceto medio non si qualificava necessariamente su questo negli anni Sessanta e Settanta. Si qualificava sullo status professionale, la scolarizzazione, se vuoi le letture, il vicinato; ancora adesso in buona misura dove abiti dice chi sei. Il processo di gentrification sta dentro questo meccanismo. Questo tipo di consumi, che sono beni relazionali, prima ancora che beni finalizzati all’alimentazione o all’abbigliamento, che producono sistemi di relazione…

 

Sono dei luoghi?

 

Sì, luoghi che ti qualificano e che entrano nella tua biografia e che ti rendono quello che sei. In presenza di un processo di impoverimento, che è il fenomeno con cui ci misuriamo oggi, non è l’emergenza povertà il problema principale. Quello che ha caratterizzato il ceto medio è un processo di stagnazione del reddito d’impoverimento. In questo processo chi deve selezionare i propri consumi tenderà a sacrificare una parte di consumi essenziali pur di salvare i beni relazionali.

 

Puoi fare qualche esempio?

 

La famiglia che fino al 2005-2006 era benestante, perché il marito manager di una media impresa guadagnava parecchie migliaia di euro, la moglie impiegata con un ruolo di quadro intermedio o esecutivo, che portava il suo contributo: 2000-2.500 euro che entravano in famiglia, per un totale di 7-8-10.000 euro al mese, e si era comprata la casa con il mutuo, anche bella, a un certo punto deve dimezzare il proprio bilancio perché la moglie perde il lavoro, perché i benefit del marito diminuiscono, o addirittura viene licenziato. Ho conosciuto tanti ingegneri che da un mese all’altro sono finiti in cassa integrazione, in lista di mobilità. Costoro taglieranno tutto, ma non la palestra, o il circuito alimentare, rinunceranno alla carne, diventeranno magari vegani, e continueranno a consumare nei luoghi in cui vengono venduti questi beni, così come per i figli non rinunceranno alle scarpe firmate, che sono un simbolo di status, e che gli amichetti e le amichette riconoscono, non rinunceranno all’ultimo modello di smartphone, sacrificando alcuni beni essenziali, magari la cultura in qualche caso, cioè tutto ciò che non produce conferma di uno status che invece si è eroso, ed è sceso. Questa situazione produce ricollocazione nel sistema dei desideri e dei bisogni, ma produce anche mentalità e politica.

 

Qualche esempio? 

 

Non c’è dubbio che la sindrome populista è in strettissima connessione con i processi di estensione della deprivazione e soprattutto con il meccanismo dell’impoverimento. Non lo definirei disagio sociale, è un’espressione ambigua, perché richiama categorie di ieri. Quello che accade è qualcosa di diverso dal disagio sociale, è quello che determina l’atteggiamento rancoroso, rabbioso, frustrato, depresso, che sta al di sotto di questi nuovi comportamenti politici. Se tu sovrapponi le mappe del voto con le mappe della velocità di scorrimento delle aree territoriali, trovi una corrispondenza quasi perfetta. Là dove restano aperte piste a scorrimento veloce e dove l’ascensore sociale continua a funzionare in modo non così spaventosamente selettivo, e riesce a trainare verso l’alto una parte consistente di popolazione, si ha un voto pro establishment; là il meccanismo di ascesa sociale si è rotto, o si è aperto un piano inclinato che comunica un senso di deprivazione, e che non è solo deprivazione materiale, è deprivazione di status, di senso di sé, di autostima, di riconoscimento, di essere all’interno del racconto sociale prevalente, là dove questo non avviene, tu hai lo smottamento.

 

Quanto a tuo parere è reale o quanto è immaginaria questa caduta?

 

Il senso principale della caduta, come ho scritto su doppiozero commentando il voto torinese, è la narrazione. Se tu sei dentro o fuori dalla narrazione prevalente o quasi unica che viene fatta.

 

Quali sono i fattori che fanno sì che questo venga percepito dalle persone?

 

Il senso del fallimento. Basta niente. La paura è in conseguenza di un senso di nientificazione, di nullificazione. La sensazione di essere “rien”. Cosa sono? Niente. Perché il racconto sociale parla di altro e io non ci sono dentro. Il racconto sociale parla di un paese che tiene, di opportunità che si aprono, di voltar pagina, di cambiare passo, e io non riesco a cambiare passo, e resto al margine, e sono fallito. Se io sono fallito, c’è la depressione, e vado tra gli scoraggiati oppure c’è la chance della rivolta: se sono fallito è colpa di qualcuno, che mi ha portato via quello che mi spettava. Chi è questo qualcuno? O sono le multinazionali o quelli dei vaccini o dei farmaci o la lobby ebraica. Ma questi sono lontani. Oppure il marocchino che ha degradato il mio quartiere, il nero che immagino stia nell’albergo 5 stelle, e allora: perché a loro sì e a me no? E parte lo sguardo trasversale, il malocchio invece dello sguardo verticale. L’invidia dei poveri. Sono i serbatoi dell’odio di cui parla Sloterdijk che crescono, non ci sono più le banche dell’odio che lo stoccavano, la Chiesa e i partiti che promettevano in modo differito nel tempo il momento in cui tutte le cose sarebbero tornate in equilibrio, la giustizia…

 

La promessa del futuro è passata dai partiti alle carte di credito?

 

Quando la banca ti dice: il suo credito è esaurito, tu sei nulla.

 

Già, ma la carta di credito è verificabile, mentre le ideologie non lo erano.

 

Però con la carta di credito hai le esplosioni non differite dell’ira, che sono il flashmob contro il Tiburtino tre o la ronda contro le prostitute che hanno fatto crollare il valore immobiliare della tua residenza. Un’ira molecolare che non viene più differita ma che esplode.

 

Questi fattori esistevano già, ma com’era gestito il conflitto sociale? Che tipo di narrazione funzionava?

 

Funzionava un’immagine verticale del conflitto, pur nella infinita complessità dei conflitti s’immaginava una verticalità. L’operaio Fiat che non ce la faceva più sulla catena e che si prendeva la multa, se riusciva a mettersi insieme agli altri andava sotto la palazzina degli uffici o in Corso Marconi e urlava a Valletta, ad Agnelli, a Romiti, alla figura apicale di turno che stava nello stesso territorio e era attingibile. La tua ira aveva un suo oggetto materiale che stava sopra di te. Poi c’era il terrone con cui prendersela; il piemontese che difendeva il suo status contro il terrone, ma veniva riassorbito dentro la verticalità, anche politicamente. La dialettica maggioranza-opposizione era comunque una dialettica verticale e chi si sentiva sotto poteva in qualche misura attraverso il voto sfidare chi stava sotto e sperare. Oggi questo è saltato completamente. Il conflitto è tutto orizzontale o, quando è verticale, è verso il basso. Io che ho perso la mia autostima come lavoratore perché la mia professionalità non vale più niente o non viene più considerata, ho perso una parte del mio reddito, non posso più permettermi quello che ci permettevamo come reddito famigliare, io maschio che ho perso il mio status perché le donne ci ridicolizzano…

 

Nel rapporto non solo si dice che le persone oggi sono ossessionate dal problema della salute, ma che il desiderio sessuale è diminuito: si vendono meno profilattici.

 

È il 6% in meno nelle vendite, ma mi apre che anche i siti porno siano meno visitati. Anche se raccolgono una parte consistente di traffico, sono in riduzione.

 

Quel desiderio dove va?

 

In risentimento. La libido frustrata va in risentimento o in auto sabotaggio, va in psicofarmaci. Le vendite schizzano in alto. Una società che deve curare la propria frustrazione da declassamento.

 

Ma c’è un’altra cura a tutto questo?

 

La cura sta nel discorso che abbiamo fatto prima. Parliamo un attimo di Torino, la città dove vivo, dalla mappa. Oggi servono più le mappe che non le tabelle statistiche. Mi ero riproposto di ricostruire la mappa dei conflitti sociali e capire dove si esprimono. E sono andato a cercare le vecchie statistiche degli scioperi che avevo usato negli anni Settanta. Ho scoperto che l’Istat dal 2009 non censisce più gli scioperi. La statistica degli scioperi in Italia si inaugura nel 1892 perché il codice Zanardelli aveva depenalizzato lo sciopero e la nostra nascente statistica ha cominciato a registrare. Tolto il periodo fascista, in cui lo sciopero era vietato, abbiamo la serie statistica che arriva sino al 2009 e poi l’Istat comunica che il rapporto costi e benefici è diventato sfavorevole e non vale più la pena di spendere soldi per censire le giornate di sciopero, le ore, la dimensione, il numero. Nessuno fa queste statistiche oggi in Italia, mentre la povertà sono in tanti che la misurano. Le raccolgono ancora nel Regno Unito e il Dipartimento del lavoro americano. Sono precisi: mettono i principali scioperi e sono per lo più nel settore dell’assistenza medica, nei servizi e nei trasporti. Questo per dire un altro elemento, per dire come ci è cambiato il mondo intorno. Torniamo alle mappe. Queste parlano coi colori. Per esempio il ballottaggio alle amministrative o quella del referendum promosso da Renzi, sono perfettamente sovrapponibili. Disegnano un centro pro establishment, che a Torino ha votato Fassino e ha fatto prevalere il Sì, poi hai a macchia d’olio, dal centro verso la semi-periferia, una non clamorosa prevalenza dell’Appendino e una media prevalenza del No, poi la periferia per il 60-70% 5Stelle e No. Lo stesso a Roma. Se prendi la mappa dei Municipi di Roma, anche lì Parioli e centro pro establishment e periferia pro 5 Stelle; e c’è una correlazione con il reddito medio: man mano che scende, cresce il voto di vendetta, non di protesta. Chi vota per far male a quello che ritiene sia la causa dei suoi male o colui che avrebbe dovuto rappresentarlo e non l’ha fatto. Meccanismo del Michigan per Trump. Votavano tradizionalmente democratico e questa volta tu che dovei rappresentarmi, rappresenti gli altri: Hollywood, Amazon, Silicon Valley, Wall Street, e io voto per il più brutto e il più sporco e cattivo che c’è. Perché ti faccio più male. Questo è il meccanismo.

 

Qual è l’anticorpo possibile?

 

Se tutti questi problemi non dipendono solo da una variabile sociale, socioeconomica, legata al reddito, ma da qualcosa che attiene più strettamente all’identità delle persone, dall’autostima, quello che ha fatto la differenza è il discorso pubblico: chi si sente dentro e chi si sente fuori, chi si sente raccontato dal discorso pubblico e chi non si sente raccontato, o chi invece si sente raccontato dalla invettiva pubblica. Non c’è un altro racconto dall’altra parte, ma una invettiva pubblica. Mentre c’è un racconto edificante degli avatar che stanno nei posti di responsabilità politica e i loro referenti mediatici. Quel racconto edificante che dice che le tue opportunità sono infinite, ti esclude. Se si crede a quel racconto, l’escluso si sente un fallito.

 

Il tuo ragionamento si basa sul fatto che una fetta sempre crescente di popolazione non crede a questa narrazione, ma di cosa è fatta questa narrazione? Esiste davvero come esisteva un tempo? Per esempio, le agenzie di valori, la Chiesa di Papa Francesco, il volontariato, fanno parte anche loro di una narrazione pubblica, e allora come è possibile identificare così esattamente una narrazione?

 

Quando parlo di narrazione pubblica mi riferisco alle voci potenti o alla politica, i governanti, al racconto fatto dai governanti, che poi non si è rivelato giusto, com’è accaduto a Torino. Il racconto romano e torinese. Il racconto televisivo dei talkshow accreditati, il racconto del Presidente del Consiglio quando va da Bruno Vespa. Il racconto che viene accreditato formalmente come autorevole e che di fronte al disagio diffuso viene totalmente destituito di autorevolezza, ma in quel momento lascia le persone sole, perché non hanno autorità a cui riferirsi, e quindi alimentano i serbatoi dell’ira. Senza una proposta alternativa. L’antidoto? È il ritorno a una narrazione del basso. Un nuovo patto scrittori e popolo. Esiste una letteratura che ritorni a raccontare il sociale tale che chi lo abita si possa riconoscere e possa assumere la propria controfigura dentro una narrazione accreditata? Oppure il minimalismo dei narratori contemporanei ha cancellato questa possibilità? Se non si riparte da una operazione culturale in cui gli esclusi tornino a essere inclusi, ma non manzonianamente, ma recuperando una vena da grande letteratura europea, si scrivono libri in cui si dice: come sono orrendi gli abitanti delle Vele, che fa sensazione, produce dopamina nel leggere. 

 

Ti riferisci a romanzi come quelli sulla banda della Magliana o simili?

 

Il noir sociale non funziona perché conferma gli inclusi su quanto sono orrendi gli esclusi.

 

Ma non è abbastanza logico che sia così? Se la realtà è quella che racconti, è abbastanza naturale che gli scrittori raccontino questa situazione. I libri di Walter Siti sono così.

 

Vero. Ma l’impoverimento del ceto medio chi l’ha raccontato? Il ceto medio come poteva essere raccontato da Mastronardi, la sua crisi esistenziale, chi la racconta oggi?

 

Ci sono libri di giovani narratori sulla condizione del precariato, Falco ad esempio, tanti libri sulla condizione giovanile. Un’intera generazione si riconosce in questi libri. Il modello letterario prevalente resta Siti. Ho letto lo splendido romanzo sul capitalismo finanziario, Resistere non serve a niente. L’ho trovato straordinario, l’intreccio criminale economico-finanziario. Ma non dice niente agli esclusi attuali, non ci sono. Quelli di Vanchiglia, quelli che vivono l’erosione del proprio ruolo, la loro marginalità. A loro non dice nulla. C’è una bella descrizione della nuova morale delle élite dominanti, di chi sta in cima alla piramide.

 

Non produce reazioni o ripulsa? Produce ammirazione secondo te questa narrazione?

 

Orrore e ammirazione. Il mito di Briatore è questo. Produce persino desiderio d’identificazione. Mi piacerebbe essere in quel giro, sniffare coca, avere quelle donne, e così via. Si tratta di una droga sociale. Non è Zola. Non voglio dire che occorre ritornare al realismo. Se però non si afferma una dignità di racconto “normale”, non dell’eccesso, che socializzi il disagio, che riveli quanto di comune ci sia nel disagio con gli altri, si continua a fare maquillage della propria condizione sociale.

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